Escursione in Barigadu dal Taloro al Tirso 14-10-2012 di Valentina Valentini La giornata, al suo avvio e all’inizio del nostro viaggio, non sembrava molto luminosa: il cielo appariva infatti ingombro di gonfie nuvole grigie, che andavano accalcandosi a mo’ di pecorelle di un gregge celeste, ma col passare delle ore e proseguendo nell’itinerario, esse hanno cominciato a diradarsi, divenendo solo sottili strisce, illuminate dai raggi mattutini del sole: lo scenario naturale, sotto questa ancora timida luce, mostrava, in parte, i segni e i colori inconfondibili della assolata estate appena trascorsa. La strada, per molti chilometri rettilinea, si è fatta di colpo più sinuosa, e seguendo le sue volute, siamo gradatamente scesi verso il paese di Ghilarza e fra gli alberi e la vegetazione ai bordi della strada, è comparsa l’amena vallata del lago Omodeo e le alture attorno ad esso, sulla cima delle quali, era allineato, a formare una sorta di corona di punti bianchi, il paese di Sedilo. Radunatici tutti sotto una quercia frondosa, dai rami disposti a raggiera, e approfittando per qualche attimo della sua ombra, che non ci dispiaceva affatto visto il sole ancora caldo, stagliato su di un bel cielo ormai terso, e dopo aver seguito l’interessante inquadramento storico-archeologico del luogo, tracciato con grande professionalità da Luciana, ci siamo diretti verso una strada in graduale salita, circondati da arbusti di macchia bassa e lentischi, alternati a grandi spiazzi color paglia e numerose piante di perastro, cariche di perine in miniatura verdi e gialle, “anticipati” dalla simpatica bassottina di Raimondo, Giuditta, che col suo fare tracotante e il suo brio, ha movimentato la nostra spensierata giornata all’aria aperta. Man mano che salivamo, il placido specchio d’acqua del lago Omodeo andava allargandosi e denotando contorni sempre più nitidi e definiti, circondato di macchie verdi e zone dorate e sormontato di “catene” di rare nuvolette, che si riflettevano nelle sue acque. Dopo un’ulteriore sosta, parte di noi, all’ombra di un albero di lentisco e in parte, sotto le fronde di un robusto leccio di lunga vita, ci siamo avvicinati, alla spicciolata, a un’altra zona, un po’ stopposa, di muretti a secco, per poter seguire una descrizione geologica dettagliata del sito ad opera di una delle guide, Marco, e in seguito, per ascoltare un’altra gradita lezione estemporanea botanico-geologica di un altro amico della comitiva, Roberto, il quale, ci ha affascinato non poco con le sue conoscenze in materia; entrambi, ci hanno fatto osservare, con occhi meno distratti e “inesperti”, l’ambiente naturale che ci stava attorno, e noi, con questa nuova consapevolezza, grazie a loro, lo abbiamo apprezzato di più. Poco distante da lì, invece, proseguendo per la strada, scanalata dalle acque piovane, siamo pervenuti in un altro suggestivo luogo, ombreggiato da lentischi e lecci, costituito da un complesso rotondeggiante di rocce bianche e grigie, scavate abilmente per ricavarne dei “ricoveri per defunti” da esseri umani ancestrali…. Eravamo davanti alle cosiddette “domus de janas”, antichissime tombe, così diffusamente rappresentate, come i nuraghi, nella nostra isola. Che emozione pensare che questi piccoli antri siano stati usati dall’uomo e che stupore vedere le aperture realizzate, squadrate con precisione geometrica, alcune concentriche, alcune più arrotondate, sapendo che gli uomini dell’epoca non avevano idonei strumenti metallici, ma solo la pietra, per scolpire lo stesso materiale (l’insediamento risale infatti a prima dell’età del ferro, come ci ha precisato l’archeologo Alessandro)!! Mario, per la curiosità, si è voluto introdurre all’interno e ha “contagiato” altri amici, che l’hanno seguito nell’esplorazione: all’interno, l’ambiente, scavato nella nuda roccia, era largo, ma la volta non era molto alta e costringeva a stare seduti; le voci, producevano uno squillante e rimbombante effetto sonoro, che regalava ulteriore suggestione. Dopo essere arrivati più in vista del lago Omodeo, dalle alte sponde color ocra, e aver individuato, all’orizzonte, anche il cratere spento del Monti Santu Padre, svettante tra le altre cime vicine, abbiamo proseguito la nostra strada, per poi lasciarla per un momento, per una breve visita a un altro complesso archeologico, per raggiungere il quale, si doveva percorrere un vialetto lastricato e passare sopra a un lastrone di pietra grezzo, che fungeva da ponte su un corso d’acqua in secca. A quel punto, ai nostri occhi, tra la vegetazione intricata e affusolata, che sembrava voler cercare la luce, si è aperto un altro scenario, difficile da scordare: su una grande roccia bianco-rosata con una curiosa forma di maroso crestato che sta per frangersi, erano ricavate delle aperture rotonde concentriche, che le facevano assomigliare tanto a dei grandi occhi “ipnotici”, i quali scrutavano il visitatore che si apprestava al loro cospetto. A fianco alla roccia occhiuta, un’altra “domus”, strutturata ad aperture concentriche e successive: la più interna, perfettamente rettangolare, era molto più piccola e bassa delle due precedenti più ampie, soprattutto in larghezza, e per entrarci, bisognava procedere carponi. Anche qui, come nelle domus de janas precedenti, la voce aveva un effetto sonoro assai singolare. Sulla sommità di questo antico sepolcro, la cui edificazione si perde nella notte dei tempi, era appoggiato, solo per uno spigolo, anche un grande masso squadrato, arancione di licheni, quasi in bilico, com’ è prerogativa frequente di molte rocce del paesaggio tipicamente locale: anch’esso, accresceva l’aria “incantata” e suggestiva del luogo. Il nostro amico Mario, ne subiva decisamente il fascino e l’effetto emotivo, tant’è vero che aveva qualche indugio ad abbandonarlo per riunirsi al gruppo (e non lui solo!). Il percorso si è ristretto, (ma la cosa non preoccupava affatto Giuditta, che continuava la sua “spola” tra i primi del gruppo e quelli in coda, alquanto galvanizzata), e siamo penetrati nel folto della vegetazione, dove la luce si è smorzata; i nostri passi fruscianti sulle foglie morte, circondati da filliree, fitti e giovani lecci, dai tronchi grigi, chiazzati di bianco e dai lunghi rami laterali intrecciati con quelli dei lentischi a formare una sorta di galleria e le cui sommità affioranti dalla semioscurità venivano illuminate dai raggi del sole, le liane di rovi, il profumo dell’humus e dei muschi adornati di ciuffi di felci: gli “elementi” del bosco delle favole c’erano proprio tutti! La continuità del colore grigio-verde dominante veniva interrotta, di quando in quando, solo dai grappolini rosso vivace della salsapariglia, arrampicata e pendente dai lentischi, e accomunata, per tonalità cromatica, ai fruttini piriformi di rari biancospini. Talvolta, anche il forte aroma mediterraneo di rade piante di mirto (dalle foglie insolitamente grandi) si intrometteva, e donava una piacevole nota olfattiva aggiuntiva al tutto. Una volta usciti allo scoperto, ci siamo trovati a percorrere un grande spiazzo formato di rocce candide e quasi piatto, che altro non era che una delle sponde del fiume Taloro, divenuto ora più lento e limaccioso nel suo corso e scorrente fra boscaglie di canne in fiore e alberi dalla chioma piumosa; attraverso uno stretto passaggio tra grandi massi scuri, posti a formare quasi i pilastri di un “cancello naturale”, che avevano impigliati, nelle loro spaccature, “fascine” di tronchi e rami, trascinati dalla furia delle acque alluvionali, siamo giunti in un ulteriore spazio aperto, costituito da una grande estensione di pietre e rocce bianchissime e rosa-trachite, contornate di vegetazione abbastanza folta e “guardate a vista”, dall’alto, da torrioni rocciosi rossicci. Fra queste rocce chiare, scorreva stavolta una sottile lingua d’acqua. Il tempo di scattare qualche foto su un piancito grigioardesia di sicura matrice vulcanica, che “staccava” dal resto, che abbiamo ripreso la marcia, rincontrando, sul nostro cammino, ancora piante di perastro, e di biancospino punteggiate di rosso, e siamo arrivati in un altro punto largo, dove il fiume Taloro si espande in ampiezza, formando una conca, la cui superficie acquea scintillava, baciata dal sole della tarda mattinata. Le sue sponde sabbiose, degradavano verso l’acqua, solcate da cerchi concentrici e da essa affioravano dei particolarissimi alberi bianchi scheletriti, dai rami contorti, immersi per metà fusto, che lasciavano intravvedere, sull’altro lato del fiume, delle possenti torri di un “castello” roccioso, separate da larghi canali verticalmente irregolari e segnate da diversi “livelli”, diversamente colorati, stanti ad indicare le diverse altezze dell’acqua nel corso del tempo. Sulla ripa, anche un pescatore con le sue canne da pesca, intento a godersi la sua giornata di relax al sole. Il cielo in breve si è tornato a riempire di nuvole, sfumate un po’ a vortici, e il sole ha preso a comparire a sprazzi; dopo un’altra breve sosta poco più avanti, sui massi tondi posti a lato del fiume, siamo rientrati dentro il bosco ombroso, arrampicandoci in un sentierino pietroso e scosceso, quasi in “cordata”, cercando di evitare le piante di rovo, che si agganciavano sovente ai nostri abiti; qualcuno di noi, ha anche scorto un bel cespuglio spinoso di prugnolo, dalle piccole drupe bluastre che assomigliano a mirtilli (“prunixeddas”) e s’è soffermato a raccoglierle e ad assaggiarle velocemente. Siamo dunque usciti dal “tunnel boschivo”, per raccoglierci, in ordine sparso, su un altro grande campo dorato di stoppie, dove pascolavano dei cavalli che ci guardavano curiosi, e dalla quale sommità, tornava visibile il lago Omodeo, dalle acque azzurre e calme, e un’altra volta, in lontananza, il tronco di cono vulcanico del Monti Santu Padre. Qualche istantanea scattata al paesaggio dalla serena “ruralità”, che aveva già i colori morbidi e caldi del pomeriggio, e alla mantide verde-foglia, che ha vissuto il suo momento di notorietà da vera diva, intenta a consumare il suo “fiero”pasto, che siamo ridiscesi, procedendo paralleli al corso del fiume, con un’andatura più rallentata, anche per vedere i begli scorci, che si aprivano al nostro sguardo, al nostro passaggio, e che si affacciavano sul corso d’acqua dai colori verdastri. In particolare, ce n’era uno che faceva presagire, dato il “salto” notevole, che in periodo di grandi piogge, doveva dar spazio a una cascata dalla grande portata e caduta d’acqua, anche a giudicare dall’aspetto dei massi, arrotondati e plasmati dalla stessa, posti a formare una sorta di gradinata ripida, lungo il suo tragitto fino allo sbocco nel corso principale. Abbiamo attraversato l’ennesimo campo, dorato di sole, percorso da un piccolo gregge frettoloso di pecore al pascolo, sempre sovrastati, lateralmente, dai bastioni torreggianti della sponda opposta del fiume, ora “picchiati” dal sole solo sull’estremità cespugliosa: voltandoci indietro, molti di essi, erano già in ombra, stava infatti lentamente “calando il sipario” sullo scenario roccioso e delle acque lievemente increspate dalla corrente, poco prima sotto la luce, e si stava preparando alla prima sera. Non troppo lontano, si poteva scorgere il doppio arco metallico del ponte sul Taloro e le andavamo pian piano incontro. Giuditta, al termine dell’ escursione, appariva sempre vivace, ma forse un po’ meno in vena di “spole” avanti e indietro: solo la sua codina manteneva l’aspetto guizzante dell’esordio-gita. Dai vetri dell’autobus in corsa verso Cagliari, l’ultimo regalo di un arcobaleno multicolore, insolitamente verticale, appena velato, e di un sole al tramonto dalla luce incandescente, appena interrotta da sottili strisce di nuvole.