MEDICINA DI LABORATORIO
Prof. Parisi
10/03/2009
INTRODUZIONE ALLA MICROBIOLOGIA CLINICA
Il professore spiega che solleciterà lo studio dell‟epidemiologia di alcune malattie, che saranno riprese
successivamente. Si parlerà dell‟eziologia di alcune malattie e saranno descritti alcuni fenomeni (es. infezioni
nosocomiali). Le metodiche probabilmente saranno viste durante le esercitazioni pratiche. Si parlerà di sindromi poco
studiate e saranno suggeriti percorsi diagnostici.
Spesso infatti il medico non conosce bene i tempi della richiesta di un esame, non conosce come il campione va
conservato o come il risultato del laboratorio va interpretato.
C‟è poca comunicazione tra medico e laboratorista.
Ci sarà quindi una lezione introduttiva, saranno svolti alcuni argomenti e le slides delle lezioni saranno consegnate
circa a metà semestre. La sua parte di esame è di solito costituita da 4/5 domande aperte, relativamente semplici e
molto simili nel tempo e 5/6 domande a crocette che servono per alzare il voto. Gli argomenti richiesti sono quelli
trattati a lezione e saremo avvisati su ciò che deve essere integrato.
Argomenti: principali metodiche; infezioni sistema nervoso centrale; infezioni sistema respiratorio (non tutte, alcune
saranno da fare individualmente); epatiti A,B,C; HIV; virus Erpetici: simplex, varicella, EBV, cytomegalo; febbri
emorragiche e nuovi virus; infezioni ospedaliere; infezioni micotiche; malattie sessualmente trasmesse.
INFEZIONE DA HIV
Tutto è iniziato nel 1981 quando gli americani ed in particolare i californiani, identificarono un piccolo cluster di
polmonite da pneumocisti, che era già conosciuta come evento eccezionale, attraverso episodi ripetuti e vicini nello
spazio in soggetti in buona salute: questo diede il sospetto che ci fosse qualcosa che non andava. Poco dopo la stessa
osservazione si fece con il sarcoma di Kaposi, tumore raro della pelle che può interessare anche i visceri, che è
generalmente una patologia dell‟anziano che segue alcune linee (es. è più diffuso in Campagna, in Sardegna, nell‟area
di Rovigo…) e a livello mondiale ce n‟è poco; nei primi anni ‟80, negli omosessuali, che poi si è visto essere HIV +, il
Kaposi era un grosso problema. Tutt‟ora una polmonite da pneumocisti se non aggredita con terapia presto porta a
morte, però in quel periodo anche chi era seguito o non aveva un Kaposi devastante moriva lo stesso molto
velocemente. Quindi si capì che erano epifenomeni. Si scoprirono poi altre patologie, tra cui la più banale era la
candidosi, che nei pazienti HIV + a livello di bocca o esofago davano patologie importantissime. Si comprese che
doveva esserci di base un‟immunodeficienza importante. Queste patologie opportunistiche (toxoplasmosi, retinite da
cytomegalo, carcinoma della cervice…) permisero quindi di fare diagnosi di AIDS.
Partì allora la caccia alla causa della malattia.
HIV-AIDS è la seconda causa di malattia nel mondo ed è sola, rispetto alla prima causa che è rappresentata dalle
infezioni delle basse vie respiratorie, patologie invece diffuse ed eterogenee. Dal 1999 è la principale causa di morte in
Africa.
Nei primi anni „90 tutti si scatenarono, poi tutto cadde nel nulla.
Quando si scatenò la caccia, Gallo, un famoso retro virologo che aveva già scoperto HTLV1 e HTLV2, si era fissato
che potesse essere un retrovirus, iniziò allora a studiare sangue e biopsie dei pazienti omosessuali per isolare il
retrovirus, ma fu battuto sul tempo da Montagner, che poi vinse il Nobel. Seguì tra i due una guerra, non tanto per la
paternità della scoperta, quanto di tipo economico, perché ogni volta che una persona fa il test per HIV deve pagare
una quota allo scopritore ed attualmente i ricavi sono divisi al 50% tra i due stati, Francia e America.
Da allora si è potuto fare il test e si sono potute screenare le sacche di sangue: all‟inizio infatti la maggior parte dei
malati, prima degli omosessuali e dei tossicodipendenti erano i trasfusi, cioè gli emofilici; ad es. nell‟85/86 ci fu una
strage di emofilici, anche perché di trapiantati ce n‟erano ancora pochi, molti meno di oggi.
La storia della terapia è invece evoluta in maniera molto più discontinua: nell‟85 si decise infatti non di trattare il
virus, ma di trattare le infezioni. Trovato però il virus e trovato il modo di coltivarlo si decise di fare studi in vitro di
suscettibilità verso vari possibili antivirali. Per prima cosa vennero screenate sostanze conosciute e il primo, ancora in
uso, farmaco attivo contro HIV è stato l‟Azt un antitumorale che si è visto avere attività anche contro HIV. Per tanti
anni è rimasto solo ma studiando il virus sono stati studiati inibitori nucleosidici prima e nucleotidici dopo, della
trascrittasi inversa (nel 1990/91/92). Nel frattempo sono stati disegnati in laboratorio farmaci appartenenti ad altre
classi, che interferivano ad altri livelli, es. inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa, inibitori della proteasi,
inibitori della integrasi, inibitori del corecettore CD4 (che comunque non hanno avuto molto successo come gli
inibitori della metilazione). La rivoluzione si è avuta intorno al 1996 perché prima si avevano 2 classi di farmaci
diversi quindi 5/6 farmaci, mentre alla fine degli anni ‟90 c‟erano 3 classi e 15 farmaci, quindi si iniziarono ad usare i
farmaci in combinazione che erano molto più potenti, in quanto aumentava la potenza dell'effetto e diminuiva la
possibilità di acquisire resistenza.
Dal 1996 c‟è quindi stato un calo improvviso e drastico delle morti.
Alla fine degli anni ‟90 il virus HIV causava anche il 25% delle morti per tubercolosi, infezione che è più grave in
caso di immunodeficienza.
Grafico riguardo alla situazione del 2005: era molto diffusa soprattutto nell‟Africa Sub Sahariana, un po‟ in America e
in Europa, nel sud-est Asiatico, dove le infezioni sono più recenti (ultimo decennio) e anche in Russia dove fino alla
caduta del muro di Berlino non c‟erano HIV+ perché probabilmente non erano censiti. Nel 2005 erano stimati circa 38
milioni di malati infetti (HIV +) e di questi 24 milioni erano in Africa Sub Sahariana. Ogni anno ci sono 4 nuovi
milioni di infetti. I ragazzini nuovi infetti sono 540000 di cui 470000 nell‟Africa Sub Sahariana.
La trasmissione verticale nel mondo occidentale ormai non è più presente perché si può intervenire con terapie e
farmaci per evitare la trasmissione al bambino da parte della madre HIV+, che avviene in utero ma soprattutto durante
il passaggio nel canale durante il parto. Lasciati a se stessi, un bambino su 3 è HIV+, e nessuno praticamente è curato.
Bisogna ricordare anche che in Africa è difficile realizzare campagne di prevenzione e cura soprattutto per la mentalità
della popolazione del luogo.
In America ma anche in Italia la mortalità per AIDS dal 1996 è crollata soprattutto perché c‟è una profilassi e perché
si riesce ad evitare la trasmissione verticale.
Anche molte malattie conseguenti ad AIDS presentano minore incidenza con le nuove cure: attualmente o una persona
non arriva ad un livello di CD4 tale da rischiare di sviluppare queste infezioni secondarie perché viene trattato
efficacemente prima, oppure mentre viene trattato per “immunoricostituirlo” viene anche trattato con opportune
profilassi per evitare che sviluppi le suddette infezioni.
Storia naturale di HIV:
A t0 il soggetto si infetta e ha all‟improvviso una gran viremia che viene rapidamente, in qualche settimana o mese,
controllata dal sistema immunitario; quindi raggiunge un set point. Ci sono dati che suggeriscono che in base a quanto
è elevato il set point si ha una più o meno lunga fase di latenza (5/6/7 ma anche 10/12/14 anni) durante la quale il
soggetto sta benissimo, diffonde il virus ad amici e conoscenti secondo le sue abitudini sessuali e non appare infetto.
Nel frattempo il sistema immunitario si erode... L‟integrità del sistema immunitario si misura facendo la conta dei
CD4: all‟inizio con la viremia i CD4 da 1000/1100 scendono in maniera importante a 600/700; durante la latenza la
viremia scende e i CD4 risalgono fin quasi a livelli reinfezione per poi riscendere successivamente. Quando abbiamo
ad esempio 300 CD4 possiamo stimare 6/7/8 o anche più anni di infezione.
La ricaduta si riconosce perché la viremia si alza e abbiamo anticorpi assenti o a bassa attività. Gli anticorpi sono
l‟altra variabile, in pochi mesi si ha una siero conversione (2/3 o massimo 6 mesi) quindi una fase finestra con pochi
o nessun anticorpo, oppure anticorpi a bassa attività che stanno aumentando, viremia elevata e CD4 bassi.
Successivamente la viremia si abbassa, i CD4 tornano alti e ricominciano la loro guerra con HIV (NB questa è una
domanda che spesso fa all’esame).
C‟è quindi questa guerra tra CD4, sistema immunitario e virus che porta ad erosione del sistema immunitario e
abbassamento del numero di CD4 sotto una soglia di 200/300 CD4, in accordo con la quale compaiono le malattie
opportunistiche che portano alla diagnosi di AIDS conclamato, spesso confuso con HIV.
AIDS invece significa malattia conclamata, cioè la fase finale dell’infezione da HIV.
Riguardo alla terapia ci sono opinioni discordanti, c‟è chi dice che va cominciata grosso modo sotto i 500/400, c‟è chi
dice che va iniziata appena si può... Entrambe le opinioni tuttavia potrebbero essere corrette perché iniziare presto
significa non far erodere il sistema immunitario, ma anche intossicare il paziente e soprattutto scocciarlo perché è una
terapia che va fatta a vita.
Per questo il paziente deve essere cosciente e deve avere la volontà di intraprendere questa terapia che dura tutta la
vita ed è composta da più farmaci in momenti diversi della giornata, altrimenti la si rinvia a quando è necessaria.
Attualmente in commercio ci sono 25 farmaci che possono essere combinati in vario modo. Nei primi anni dal 1996 la
terapia media prevedeva 10/15 pillole al giorno, prima e dopo colazione, prima e dopo i pasti, non si potevano
mangiare determinati cibi e bisognava mangiarne altri per accompagnare determinate medicine... e i pazienti non
seguivano la terapia correttamente! Ad es. chi prendeva l‟Indinavir doveva bere 2 litri in più di acqua al giorno perché
questo farmaco è nefrotossico, e risultava difficile.
In famiglia di conseguenza la malattia non poteva essere tenuta segreto agli altri familiari.
Tra i ricercatori c‟era però grande entusiasmo perché si recuperavano molti pazienti e anche il numero di CD4
aumentava, venivano salvati dalle complicanze e potevano ricominciare la loro vita “normale”, anche ad esempio a
guidare la macchina.
Spesso i primi pazienti si rivolgevano al medico perché erano tossicodipendenti ed avevano anche HCV e HBV e alla
fine morivano di cirrosi, questo ormai non avviene più perché il numero di pazienti tossicodipendenti con HIV è
notevolmente sceso.
Adesso i più colpiti sono eterosessuali e omosessuali, perché i tossici ormai si impasticcano mentre prima usavano
l‟ago e quindi HIV come HBV o HCV veniva trasmesso.
Nello schema si può notare come dal 1996 la mortalità è scesa mentre la prevalenza di AIDS è salita perché li
accumuliamo (NB che se considerassimo anche gli HIV+ sarebbe notevolmente superiore). Li accumuliamo perché gli
AIDS conclamati in terapia muoiono molto meno (alcuni anche se curati precocemente evolvono comunque in AIDS)
e soprattutto perché molti nuovi sieropositivi sono già AIDS alla diagnosi (sono scoperti tardi perché sono quelle
persone che non ci hanno mai pensato, che si presentano dal medico con candida, polmonite difficile da debellare o
Kaposi).
Nel 1997/1998 si pensava di riuscire ad eradicare HIV, ma ora si è capito che non si eradica, si cura bene ma non si
eradica, o per lo meno in tempi ragionevoli.
Prendendo in considerazione il grafico, l‟aspettativa di vita alla nascita dal 1995 al 2005 in Europa è passata da 67/68
anni a 90 anni, in Sud Africa era salita parallelamente ma negli ultimi 15 anni è scesa drasticamente.
In uno studio collaborativo tra Stati Uniti e San Pietroburgo si mostra la prevalenza tra i ragazzi di strada
(abbandonati, orfani o scappati da orfanotrofi…) censiti e studiati anche per HIV, ed ha mostrato una prevalenza di
HIV imbarazzante, dovuta ad ago e trasmissione sessuale.
Domanda relativa ad un grafico sui paesi che avrebbero dovuto ricevere la terapia: “Quelli che avrebbero dovuto
ricevere la terapia comprende quelli che non l‟hanno ricevuta per motivi economici o anche quelli che non lo
sapevano?”
Fondamentalmente motivi economici. Es. Lula si è inventato di fare in casa gli antiretrovirali in Brasile perché le
competenze ci sono (piccola finestra politica) come avevano già tentato di fare gli indiani. È un‟ottima soluzione
perché alcuni farmaci ci sono e si possono copiare. Un mese di terapia in Italia costa tra i 1000 e i 1600€ a seconda
delle combinazioni quando il prezzo vero sarà intorno ai 100/80€: di mezzo però ci sono le aziende che investono in
ricerca, sviluppo e commercializzazione. Se però ci si mette a copiare i farmaci, queste aziende smettono di produrli
per dedicarsi a quelli meno impegnativi (es. antiulcera) e poiché tutti gli antivirus sono figli della ricerca privata,
bisogna fare in modo che queste aziende continuino a fare una ricerca efficace.
Es. per la tubercolosi e la malaria la ricerca si è già fermata: i farmaci che si trovano sono ormai vecchi perché saranno
almeno 30 anni che non si studia un nuovo farmaco, non sono patologie redditizie. Nel caso di HIV le ditte occidentali
investono perché c‟è un mercato florido.
L‟unica soluzione per l‟Africa è quella di acquistare i farmaci dall‟azienda e regalarli in Africa o trovare un
finanziatore per fare della ricerca. Si erano iniziati alcuni programmi per aiutare le popolazioni africane con l‟invio di
farmaci ma alcuni carichi sparivano nel tragitto e venivano poi rivenduti negli Stati Uniti al mercato nero, perché
mentre in Italia il SSN offre la terapia e nessuno paga nulla, in America le medicine si pagano e HIV spesso non è
assicurabile: tutti si pagano le medicine e a 2000$ al mese non c‟è capitale che regge, quindi fiorisce la borsa nera.
In Italia, come a livello mondiale, dal 1995/96 i casi di AIDS sono drasticamente diminuiti.
Dal grafico si nota come al nord del Paese si abbia un maggior numero di casi principalmente dovuto alla migrazione
delle persone dal sud al nord (per motivi di studio o lavoro).
(NB diapositiva che chiede spesso all’esame)
Questa diapositiva mostra la dimensione del fenomeno, stiamo parlando della distribuzione dei casi di AIDS (non di
sieropositività che è indeterminabile) che vengono notificati ad un apposito registro nazionale, blindati, dove la
persona è rappresentata da un codice in modo da non essere riconoscibile e da evitare, in questo modo, le doppie
segnalazioni. L'AIDS è un fenomeno della storia italiana degli ultimi 25 anni che riguarda 56.076 persone, che non
sono troppe ma neanche poche.
I fattori di rischio principali sono: essere originari di una zona endemica (es. persone provenienti da Sud Africa),
bisessuali, omosessuali, tossicodipendenti, emolitici/trasfusi (ormai non ci sono più perché le sacche vengono censite
per anticorpi, tralasciando il periodo finestra, e da qualche anno anche per il virus, eliminando il periodo finestra).
Dai grafici si denota che i tossicodipendenti nel corso degli anni si sono molto ridotti mentre gli omosessuali sono
ultimamente aumentati perché all‟inizio si erano come comunità molto difesi assumendo cautele (contraccezioni
meccaniche) mentre successivamente hanno iniziato a cercare i compagni in base alla sierologia (sieronegativo con
sieronegativo e sieropositivo con sieropositivo). In questo modo si è avuta un‟impennata della sifilide, aumento di
HBV e HCV, e i nuovi giovani omosessuali vengono spontaneamente a farsi i test perché non hanno paura, pensano
che l'infezione da HIV sia curabile (equivoco) e continuano ad infettare perché chiunque fa sesso senza opportune
cautele rischia. Non è però un problema solo degli omosessuali perché gli eterosessuali adesso sono la maggioranza
degli HIV+ di tutte le età.
Il totale dei casi di AIDS in Italia a novembre 2008, stima fatta dal COA (centro operativo AIDS, Roma) e si fa a
novembre perché il 1° dicembre è la giornata mondiale dell‟AIDS, è di 60.000 di cui il totale di decessi è 39.000. I
nuovi casi di AIDS nel 1996 erano 5.653, mentre nel 2008 sono scesi a 2.400, perché le diagnosi fatte precocemente
interferiscono con la naturale evoluzione della patologia.
AIDS era ed è un problema italiano, può al massimo essere portato dagli extracomunitari dell‟est Europa che portano
anche sifilide.
(NB domanda che può essere fatta all’esame)
HIV in tempi recenti, 2002/2003/2004/2005 è un problema di tossici, emofilici, trasfusi, tossici omosessuali (che
spesso vendevano sesso per comprare la dose)?
No! Gli eterosessuali che avevano il 12% dieci anni fa sono diventati il 40% e i tossicodipendenti dal 66% sono scesi
notevolmente: c‟è una modifica dell‟epidemiologia.
Anche in America, dati del 2008, il numero di tossicodipendenti infettati sta scendendo, quello degli eterosessuali è
stabile, mentre quello degli omosessuali sta risalendo, dopo che per 15 anni era rimasto costante.
Mentre nel 1996 la prima diagnosi di HIV coincideva con la diagnosi di AIDS nel 20% dei casi e nell‟80% erano casi
si infezione scoperti prima di malattia conclamata, adesso dal 20 si è passati al 50%, percentuale che pesa soprattutto
sugli eterosessuali perché non pensano di poter esser stati infettati.
Tra le nuove diagnosi in Veneto, la mediana di età è 37 anni (sia nel 2007 che nel 2008): ciò significa che la metà dei
pazienti ha più di 37 anni.
Si stima che in giro ci siano 120000 persone infettate con HIV e tra queste molte non lo sanno.
In laboratorio sono stati fatti studi nel 2007 su 243 soggetti di diversa età con mediana 37 anni di cui solo 8 di questi
avevano meno di 23 anni (si tratta di studi fatti per predire la resistenza a farmaci in soggetti alla diagnosi).
17/03/2009
Le lezioni saranno tenute in parallelo con il canale A e il corso è sostanzialmente uguale. L‟esame sarà lo stesso
giorno, ma in orari diversi.
Venerdì è apparsa sul giornale la notizia della morte di una ragazza di colore di 20 anni: TBC aperta in sieropositiva.
Questa è una delle possibili conseguenze della scarsa offerta sanitaria ai clandestini: è molto importante tenere sotto
controllo le malattie diffusibili (anche HIV) sia per quanto riguarda la popolazione generale, sia, soprattutto, a livello
dei soggetti più a rischio (situazioni di disagio igienico, di promiscuità, di carenza nutrizionale, ecc) per evitare
conseguenze prevenibili. Non è normale morire a 20 anni di tubercolosi, né avere HIV. Inoltre vi è stata una
trasmissione di HIV ai clienti e di TBC a tutti i soggetti con cui è venuta in contatto.
Malattie opportunistiche associate a immunodeficienza
All‟interno della storia naturale dell‟infezione da HIV, i sintomi costituzionali e le malattie opportunistiche
caratterizzano le ultime fasi della malattia, quando i CD4 sono ridotti in maniera sostanziale.
Si sono avvicendate varie classificazioni comprendenti le diverse patologie associate: infezioni e in alcuni casi tumori,
come il sarcoma di Kaposi (in cui il soggetto presenta sempre positività per HHV8 nel tessuto tumorale o in
conseguenza a precedente infezione).
Alcune patologie rientravano già nella primissima classificazione, poi allargata successivamente molteplici volte,
comprendendo altri agenti o gli stessi agenti con localizzazione differente.
Le patologie associate più recenti sono:
- polmoniti da Mycobacterium Tuberculosis
- polmoniti batteriche ricorrenti
- tumore invasivo della cervice, patologia tipica della donna dalla mezza età in poi (necessario controllo con PAP test
dopo i 40-45 anni). Le donne sieropositive sono più a rischio di sviluppare questo tipo di neoplasia. Infatti, alcuni
tumori, anche se possono non fare diagnosi di AIDS, sono molto più rappresentati nella popolazione sieropositiva
(sarcoma di Kaposi è al 4° posto per il sieropositivo omosessuale): l‟immunodeficienza, alcuni rischi o attitudini di
questi soggetti aumentano la probabilità di acquisire tali tumori rispetto alla popolazione sieronegativa. Lo screening
per tumore invasivo alla cervice della sieropositiva viene eseguito anche per fasce di età non comprese nel normale
screening.
HIV viene classificato anche in rapporto alla clinica (fase sintomatica acuta, fase sintomatica cronica, AIDS
conclamato) e alla fascia di CD4 (da A1 a C3).
Una volta classificata la malattia come AIDS, tale rimane anche se, in seguito a terapia, il numero dei CD4 aumenta
notevolmente o il paziente si presenta sano. Questo è importante per la gestione successiva del malato perché, è logico
ma è anche stato dimostrato dalla clinica, che pazienti caratterizzati da differenti nadir (= conta di CD4 più bassa
raggiunta durante la malattia), hanno anche un sist. immunitario diverso poiché è stato „aggredito‟ in maniera diversa.
E‟ importante tenere conto di questo nella somministrazione della terapia.
Un altro tipo di classificazione ha tentato di suddividere le malattie associate in base alla fase di comparsa (iniziale o
finale). Tuttavia c‟è stato un successivo rimescolamento, per cui la validità di questo metodo è limitata.
Alcune patologie HIV associate:
 Dermatite seborroica;
 Leucoplachia orale;
 Candidosi orale (C.albicans): dà il tipico mughetto infantile che è, però, atipico nell‟adulto. Nel sieropositivo
il trattamento è difficile;
 Candidosi esofagea: si riconosce inizialmente dalla sintomatologia (elevato dolore nella deglutizione), poi
macroscopicamente con esofago-gastroscopia;
 Herpes simplex (labbro o genitali): manifestazione estremamente aggressive e clamorose
nell‟immunodeficiente;
 Herpes genitale;
 Herpes del cavo orale;
 Herpes Zoster: infezione primaria dà varicella, spesso sintomatica; eventuali recidive rare, negli anziani o

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negli immunocompromessi, danno il fuoco di sant‟Antonio dalla distribuzione caratteristica. Nell‟HIV la
malattia è particolarmente aggressiva;
Condilomatosi (condilomi genitali, spesso impressivi e perianali nel sieropositivo omosessuale);
Citomegalovirus: herpesvirus molto diffuso (60-70% delle donne in Italia tra 20-30 anni è positivo per CMV),
dà malattia simil-influenzale con interessamento di linfonodi e/o tonsillite oppure può essere anche
asintomatica. Normalmente non è conservato o è comunque tenuto sotto controllo, mentre in corso di
immunodeficienza si riattiva e dà patologie alle mucose facilmente gestibili e non molto gravi oltre che a
un‟importante retinite (molto difficile da trattare in epoca pre-HAART perché causava cecità anche ad
entrambi gli occhi). Già negli anni ‟90 erano a disposizione dei farmaci anti-CMV utili a gestire il virus in
fase acuta e alla profilassi contro recidive (la profilassi comunque rimaneva spesso insufficiente e costosa);
Cryptococcus Neoformans: causa meningite importante in HIV+ che si cura con un antifungino (terapia
complessa e pesante ma abbastanza risolutiva);
Cryptosporidio;
Toxoplasma: come CMV, dà problemi nell‟immunocompetente solo in alcune fasi particolari come durante la
gravidanza; la gravida negativa per CMV e toxoplasma deve essere seguita e monitorata perché l‟infezione
acquisita durante la gravidanza, che, anche se con difficoltà, si può curare, dà gravi problemi al feto. Il
sieropositivo con HIV con toxoplasma è un soggetto a rischio: si possono generano delle “palle” che
sostituiscono il tess. cerebrale causando gravi danni. Le masse possono dare anche problemi retinici. La cura
consiste in chemioterapici che lasciano, però, segni cicatriziali;
Leucoencefalite multifocale progressiva (PML): determinata dal JC virus che è abbastanza frequente e
asintomatico nella popolazione generale. Dà problemi fondamentalmente ai trapiantati di rene. JC virus nel
liquor è un marcatore di PML, malattia assai mortale (la cura, elaborata poco dopo a quella per la
toxoplasmosi, solo qualche volta ha successo anche perché spesso è diagnosticata quando i danni sono già
molto importanti);
Polmonite da Pneumocystis carinii: anche detta pneumocistosi, è una polmonite interstiziale. Inizialmente era
associata strettamente alla popolazione omosessuale sieropositiva nota, molto strana negli
immunocompetenti: era perciò molto facile la sua identificazione tramite test o particolari indici ematici e
successivamente la gestione o almeno il controllo della malattia. Ora invece l‟identificazione, e di
conseguenza anche la cura, è resa più difficile perché si può presentare anche in soggetti diversi dal
sieropositivo noto: un anziano di 60 anni che si presenta con polmonite viene generalmente trattato con
antibiotici per pneumococchi o antibiotici previsti per la polmonite comunitaria (β-lattamico, ecc); non c‟è
sospetto di pneumocistosi; solo successivamente, quando si osserva che la terapia non ha effetto, si scopre
che l‟anziano è in realtà un sieropositivo misconosciuto e si inizia la terapia specifica per Pneumocystis che
agisce però con difficoltà a causa del ritardo della diagnosi. Il recupero del paziente può, quindi, non
avvenire. Il trattamento consiste in somministrazione di ossigeno e di dosi molto pesanti di BACTRIN in
endovena. Esistono, inoltre, delle profilassi specifiche (prevenzione primaria) sia contro Pneumocistis che
Toxoplasma. La pneumocistosi è in definitiva una malattia misconosciuta che aiuta a fare diagnosi di AIDS
nei pazienti non sieropositivi noti;
Tubercolosi (Mycobacterium Tuberculosis): in AIDS presenta un decorso molto più grave rispetto al normale
per cui si gestisce con più difficoltà. Nel 1989 il reparto di malattie infettive di Verona pubblicò un articolo:
il soggetto sieropositivo non solo è più a rischio di infezione tubercolare ma è anche un più efficiente
trasmettitore di TBC oltre che un soggetto più predisposto ad infezione sintomatica. Il reparto era infatti
diviso in un‟area per sieropositivi e un‟area per sieronegativi e il caso di un HIV+ con tubercolosi non
diagnosticato fu una tragedia poichè infettò numerosi altri pazienti del reparto. L‟infezione fu favorita anche
dal contatto facilitato tra pazienti: la separazione dei soggetti era più che altro di tipo sociologico e in base al
sesso; su 27 letti solo 3 stanze erano singole con bagno, le altre erano doppie con bagno in comune (4
persone → 1 bagno);
Infezioni batteriche più frequenti;
Neoplasie correlate ad HIV: neoplasie AIDS definenti sono Sarcoma di Kaposi, Linfoma non-Hodgkin,
Carcinoma della cervice massivo. Altre neoplasie non fanno fare diagnosi di AIDS ma sono molto frequenti
ed associate, come il carcinoma squamoso anale (per gli omosessuali maschi sieropositivi il rischio è decine
di volte aumentato rispetto ai non-HIV sia per una più frequente diffusione di HPV sia per il sist.
immunitario che conferisce una evolutività differente);
Linfoma cerebrale primitivo: con TAC o poi con RM si imparò a riconoscere le lesioni cerebrali, ma
inizialmente la distinzione tra Toxo, PML e il linfoma cerebrale primitivo era molto difficile. Nel ‟96-‟97 la
distinzione era solo radiologica e richiedeva perciò la formazione di figure e reparti specializzati.
Successivamente fu introdotta sperimentalmente la biopsia cerebrale con la quale, trapanando il cranio a
livello interessato, era possibile prelevare un campione di tessuto cerebrale su cui veniva fatta diagnosi.
Tuttavia questa tecnica, comportando una certa frequenza di sanguinamenti, è stata poi accantonata anche
perché la pratica autoptica in HIV poteva favorire il contagio. In generale, la terapia più utilizzata era quella
per la Toxo perché aveva più probabilità di successo. In seguito è stata introdotta la terapia con radionucleotidi capaci di bombardare direttamente una specifica regione senza necessità di irradiare l‟intero
encefalo;
 Neoplasia intraepiteliale della cervice: sovrapponibile a quella della sieronegativa;
 Wistin Sindrome: divagamento eccessivo correlato a HIV. Tipico della nutrizione, senza una causa nota,
dovuta a malassorbimenti e patologie gastrointestinali correlate ad HIV;
 Slim disease: chiamata così in Africa, sono gli stadi terminali dell‟HIV;
Il paziente sieropositivo è sottoposto a vaccinazione per epatite A, epatite B, tetano, influenza.
HHV8
Scoperto nel 1994, è un prodotto tipico della storia: da tessuti di biopsia che presentavano sarcoma di Kaposi, Yuan
Chang riuscì a isolare un virus erpetico simile a quelli già noti.
In particolare questo γ-herpesvirus è imparentato con EBV (Epstein-Barr virus, che dà la tipica mononucleosi).
HHV8 è molto diffuso in Africa, non perché lì vi sia un‟elevata correlata quantità di casi di Kaposi: per vari motivi c‟è
infezione, ma non neoplasia. La diffusione è alta anche in America del Sud, Stati Uniti, bacino del Mediterraneo
(Egitto, Italia, Spagna, Grecia). L‟elevata diffusione in questi paesi è legata anche ad un approfondito studio del virus:
la prevalenza è bassa in alcuni luoghi spesso anche perché vi sono pochi dati.
La trasmissione dell‟infezione da HHV8 è di varia natura:
 Trasmissione sessuale: anche se ci sono dati contrastanti, perché l‟infezione sessuale non esclude gli altri tipi
di trasmissione. Negli omosessuali probabilmente è la via principale (perchè il rapporto sessuale è un po‟ più
cruento), mentre negli eterosessuali la trasmissione può avvenire sia tramite liquidi vaginali e sperma sia
tramite saliva, meccanismo molto efficiente, per cui è più difficile individuare l‟esatta via infettiva.
 Trasmissione tra madre viremica e figlio: può avvenire durante l‟allattamento, mediante il latte, oppure
attraverso lo spreading di saliva implicato nelle cure parentali.
 Trasmissione tramite saliva.
 Trasmissione attraverso il sangue (trasfusioni): documentato dallo studio di Pellet, scritto nel 2005 e
pubblicato nel 2006 sul New England Journal of Medicine. Lo studio rappresenta il prototipo di come si fa
una ricerca razionale in medicina, non una scoperta casuale ma una ricerca pianificata di risultati. La scelta
dei campioni di soggetti è stata effettuata tra dicembre del 2000 e ottobre del 2001, in Uganda, dove la
prevalenza dei sieropositivi per HHV8 è del 55-60% (viremici e non viremici). Sono stati arruolati 1800
trasfusi, studiati prima e dopo la trasfusione. 991 soggetti erano HHV8 sieronegativi prima della trasfusione e
su questi è stato eseguito un follow-up fino a 6 mesi dopo la trasfusione. Di questi il 43% ha ricevuto sangue
sieropositivo per HHV8 mentre il restante 57% ha ricevuto sangue sieronegativo per HHV8. I soggetti
sieronegativi per HHV8 potrebbero essere viremici senza anticorpi; tuttavia poiché questa situazione è rara,
si può assumere che gli HHV8- non siano capaci di trasmettere il virus. I sieropositivi, invece, non sono tutti
viremici: solo una percentuale di questi possiede il virus e può trasmetterlo. Per cui, una porzione del 43% di
sieronegativi trasfusi con sangue HHV8+, potrebbe aver ricevuto sangue con virus oltre che con anticorpi. Il
successivo follow-up ha portato alla conclusione che i soggetti sieronegativi che avevano ricevuto sangue
sieronegativo più facilmente rimanevano sieronegativi a 180 giorni rispetto ai trasfusi con sangue
sieropositivo. Comunque, l‟infezione di parte del 43% era stata possibile e poteva essere dovuta a
somministrazione di sangue nella fase del periodo finestra o a trasmissione tramite altre vie. Lo studiò
dimostrò che è ragionevole ritenere possibile la trasmissione di HHV8 tramite trasfusione di sangue infetto.
Inoltre si scoprì che la sieroconversione richiede tra le 3 e le 20 settimane e che lo stoccaggio delle sacche di
sangue, che solo in teoria invecchia il sangue, influenza la sieroconversione; lo stoccaggio, infatti, abbatte la
carica virale e la possibilità di infezione è ridotta se il sangue è conservato un po‟ più a lungo (più di 4gg).
Lo studio condotto risulta eticamente corretto perché è di tipo osservazionale: non si va a modificare il corso di storia
di malattia del paziente, né la terapia. HHV8 non è comunque soggetto di screening per le trasfusioni, anche perché
non è particolarmente aggressivo. In Italia la prevalenza di HHV8 è del 25-30% tra i sieropositivi per HIV (la
percentuale esatta dipende dalle zone); per gli HIV- la percentuale è sotto il 7%. Di conseguenza la politica sanitaria
nazionale non ritiene necessario lo screening d‟ufficio per HHV8.
Nel caso dello studio di Pellet, inoltre, si fece una diagnosi sierologia a posteriori.
Se lo studio non si fosse basato sulla sierologia ma sulla viremia, sarebbe stato sufficiente un numero minore di
soggetti ma il costo sarebbe stato più elevato.
Fattori di rischio per infezione di HHV8 tra adulti con evidenza di trasmissione sessuale sono:
 avere più partner
 avere attività sessuale da più tempo
 essere infetti da un virus a trasmissione sessuale documentata
 sieropositività per HIV
 omosessualità
Nel 1999 Andreoni e colleghi fecero uno studio per dimostrare la trasmissione orizzontale non sessuale del virus.
Ad Alessandria d‟Egitto si campionarono qualche centinaio di bambini: dai neonati (<1anno) a bambini di più di 12
anni e si fece la sierologia per EBV, CMV, HHV6, HHV8.
1. EBV: dividendo per fasce di età, a 6-8 anni si raggiunge il plateau di sieropositività. La trasmissione di EBV è
efficiente prima della pubertà → trasmissione orizzontale.
2. CMV: plateau a 8 anni per cui i bambini infetti non lo avevano contratto per via sessuale.
3. HHV6: vi sono dei casi di trasmissione materna. Il livello di sieropositività quindi scende per poi risalire; il
plateau si raggiunge prima dei 10 anni per cui anche in questo caso la trasmissione non è sessuale.
4. HHV8: prima di un anno, il livello si sieropositivi è molto basso; il plateau si raggiunge a 8-10 anni perciò la
trasmissione non è sessuale. (Si ottengono risultati apprezzabili perché ad Alessandria d‟Egitto la prevalenza
di HHV8 è di circa il 50%; a Ostia, dove la prevalenza è del 3% e ancor più bassa tra i bambini, sarebbero
stati necessari campioni molto più grandi).
Per quanto riguarda la trasmissione madre-figlio è interessante sapere che la prevalenza nei bambini di madri infette è
circa del 15%. In particolare 13% se la madre presenta una bassa carica o carica assente nella saliva, 18% se la carica
del virus in nella saliva è elevata.
Le mamme trasmettono con il latte e con la saliva.
Una volta acquisito HHV8 si possono avere diversi seguiti:
 non succede niente (infezione asintomatica);
 Kaposi dell‟adulto o dell‟anziano (molto raro);
 dopo 2 anni può comparire il Kaposi nei post-trapiantati (soprattutto di rene o fegato) a causa
dell‟immunosoppressione farmacologia;
 dopo 10 anni può comparire Kaposi in HIV+ (più facilmente nei maschi tra cui HHV8 è più diffuso).
Un altro studio dimostrò che individui HIV+ che al momento dell‟identificazione, durante fase acuta (anno 0),
presentavano alti titoli di HHV8 erano molto più a rischio di evolvere in Sarcoma di Kaposi (10 anni dopo) rispetto ai
pazienti che all‟anno 0 avevano bassi o assenti titoli di HHV8 o che lo avevano contratto in un secondo momento.
Le prime descrizioni del quadro clinico correlato ad HHV8 riguardavano casi occasionali (case report) riscontrati in
immunodeficienze come HIV, Sindrome di George, linfoadenopatie, artrite reumatoide; comprendevano
linfoadenopatie, rash, esantema. Non erano note le manifestazioni in immunocompetente.
HHV8 nel viremico si può ritrovare nei secreti vaginali, saliva, bocca, cervice, cellule monucleate del sangue
periferico, plasma. La percentuale del virus nei normo-competenti sieronegativi per HIV è solitamente più bassa che
nei HIV+.
E‟ stato dimostrato che una buona terapia per HHV8 riscontrato in artrite reumatoide non consiste né in anti-tumorali,
né in altri anti-virali ma in somministrazione di CIDOFOVIR, capace di abbassare la viremia.
Uno studio condotto in pronto soccorso permise il reclutamento di 600 bambini che presentavano febbre, sintomi delle
vie respiratorie o esantemi. Furono esclusi i bambini che non ebbero alcun seguito di malattia e quelli a cui furono
diagnosticati varicella, morbillo, rosolia e altre malattie esantematiche che presentavano tale quadro clinico.
I bambini rimasti, non diagnosticati con infezione nota, erano:
 44 bambini: anticorpi-/PCR- in plasma e saliva → non avevano HHV8
 17 bambini: anticorpi+/PCR- in plasma e saliva → patologia acuta non collegabile a HHV8
 14 bambini: anticorpi +/PCR+ in plasma e saliva → spreader di HHV8 ma patologia acuta non collegabile a
HHV8 perché, essendo patologia acuta, non era possibile che in soli pochi giorni si fossero formati già gli
anticorpi
 6 bambini: anticorpi-/PCR+ in plasma e saliva → probabile infezione da HHV8; presentavano esantema (5 su
6), tosse, angina, diarrea, convulsioni: manifestazioni cliniche nel bambino immunocompetente. Sei mesi
dopo, 3 bambini su 3 presentavano sieroconversione, ovvero avevano anticorpi positivi per HHV8.
Il Kaposi orale è identificabile tramite attento esame delle mucose; il Kaposi polmonare invece si identifica tramite
lastra radiografica; il Kaposi esofageo si può riscontrare durante endoscopia digestiva.
Studio del 2001: si presero 206 campioni di sangue di HIV sieropositivi noti a Verona nel ‟86-‟88 e 177 del ‟97-‟98‟99. La prevalenza di HHV8 nel ‟87-‟88 era 14%, nel „98-‟99 era 32%: si dimostrò che all‟interno del “giro” dei
soggetti HIV+, HHV8 si era diffuso efficacemente, considerando che un fattore di rischio era sicuramente
l‟omosessualità anche se in realtà la percentuale di omosessuali non era cambiata troppo (dal 48% al 62%). La
percentuale di eterosessuali era rimasta stabile, mentre il problema era costituito dagli “sconosciuti”, che avevano
subito una notevole variazione.
Dire che un sieropositivo su tre ha HHV8 significa che un sieropositivo su 3 è a rischio di Kaposi. Inoltre questi
sieropositivi non sono solo un serbatoio di infezione di HIV ma anche di HHV8 ( virus nuovo non solo perché è
recente la sua scoperta, ma anche la sua diffusione).
La co-infezione per HHV8 può essere data da:
 epatite B e epatite C (HBV, HCV): nello studio, verosimilmente chi non ha HCV non ha neanche HHV8;
 Lue (sifilide): nello studio, su 37 soggetti Lue+ (10,3% del totale), 5 sono tossicodipendenti,2 eterosessuali,
30 omosessuali (di questi 20 sono HHV8+, 16 hanno sia HHV8, HBV, HCV).
[per gli altri dati, che il prof. non ha citato, vedere slides]
NB è importante che una volta individuata una di queste malattie si faccia una ricerca anche per le altre.
Tra 43 soggetti extracomunitari HIV+, 51% era HHV8+, 63% HBV+, 7% Lue+. Gli extracomunitari sono portatori di
un piccola quota di HIV, HHV8, sicuramente TBC e altre malattie non trasmissibili facilmente come malaria,
schistosomiasi (che necessitano di un vettore intermedio obbligato, nel caso rispettivamente della zanzara e della
lumaca). Dall‟Europa dell‟Est in particolare arriva molta sifilide.
24/03/2009
L‟argomento di questa e della prossima lezione è: INFEZIONI NOSOCOMIALI.
Esse sono poco trattate nei testi o comunque spesso in modo insoddisfacente perché, come si vedrà in fondo, sono
realtà difficili da inquadrare e soprattutto studiare. Specie nei testi più vecchi, non si fa quasi riferimento a queste
problematiche, mentre in quelli più recenti forse si possono trovare notizie più esaustive, seppur incomplete.
Ciononostante, questo tipo di infezioni sono un problema molto rilevante, da includere nel vasto ambito delle malattie
infettive; negli ultimi anni la loro rilevanza è aumentata per il fatto che l‟accreditamento da parte della Regione alle
strutture sanitarie private prevede come parametro essenziale anche la completa osservanza di norme e condizioni che
escludano le infezioni nosocomiali. Il problema delle autorizzazioni si pone soprattutto per le strutture private, perché
è assai difficile che un ente pubblico come la Regione rifuti un permesso ad un altrettanto pubblico ospedale, dove il
problema allora rischia anche per questo motivo di essere sottovalutato. Negli ospedali privati si opera una chirurgia
piuttosto di routine ma redditizia ma, per essere convenzionati, su questa devono essere in atto protocolli e norme che
dimostrino di escludere le infezioni nosocomiali. Molto spesso si tratta di parti cesarei od operazioni alla prostata.
Mentre fino a qualche anno fa allora l‟argomento era piuttosto oscuro, oggi invece il termine “infezione nosocomiale”
è entrato a far parte del linguaggio dei medici, che prima ignoravano totalmente le problematiche ad esso collegate.
Ma anche ad oggi, purtroppo, l‟informazione e soprattutto l‟applicazione rigorosa di certi standard, non è sempre
seguita.
La prima esperienza in questo ambito fu quella di Ignatz Semmelweis, perspicace medico austro-ungarico che osservò,
negli anni dal 1841 al 1846, che nell‟ospedale viennese in cui operava c‟era una diversa mortalità tra le due cliniche
ostetriche presenti. Considerando solo i parti, la mortalità rilevata era molto diversa ed inizialmente appariva
inspiegabile il fatto che in un reparto (universitario) le morti fossero il 15%, mentre nell‟altro (ospedaliero) si
fermassero a solo il 2%. La qualità e la competenza degli operatori era la stessa quindi le cause dovevano essere
esterne. Infatti, immaginò Semmelweis, che la causa fosse attribuibile al fatto che nelle sale parto circolassero anche
studenti, i quali seguivano anche esercitazioni di anatomia settoria la mattina, prima di frequentare il reparto di
maternità, dove poi venivano a contatto con partorienti e neonati. Nel reparto universitario quindi la mortalità tra le
madri era più elevata e questo, capì il dottore, proprio per il fatto che gli studenti non si curavano di lavarsi le mani
prima di passare tra l‟aula settoria e il reparto di ostetricia. Perciò questi propose il lavaggio delle mani con una
soluzione contenente cloro, da effettuarsi sempre quando gli studenti fossero entrati in ostetricia, e sempre uscendo
dalla sala settoria. La messa in pratica di questa abitudine, banale ma a tutt‟oggi non sempre osservata, portò ad un
livello di mortalità pressoché equivalente tra i due reparti, ospedaliero ed universitario. Questa fu la prima vera
osservazione di diffusione di infezioni nosocomiali riconducibili a problemi assistenziali. Semmelweis tuttavia fu
schernito, cacciato dall‟Università di Vienna, poi da Budapest (dove ripetè la stessa osservazione) e morì reputato
impazzito in un ospedale psichiatrico. I colleghi non capirono che l‟importanza della sua tesi si basava sulla pratica del
lavaggio delle mani.
Anche oggi non è sempre facile parlare di questi argomenti e la comunicazione tra operatori risulta talvolta deficitaria.
Le infezioni nosocomiali o assistenziali sono le infezioni acquisite durante il ricovero in ospedale, le quali presentano
anche costi pratici, nonostante oggi i ricoveri abbiano, grazie a pratiche di day-hospital (day-care), una durata minore,
essendo il paziente spesso dimesso in giornata. Da una parte al paziente si risparmiano passaggi attraverso molti
reparti potenzialmente infetti, dall‟altra essendo il ricovero breve, si possono valutare al meglio (rimanendo il paziente
sempre nello stesso posto) le origini dell‟infezione. A livello economico il day-hospital è appunto vantaggioso perché i
costi, rispetto ad un intervento tradizionale (che prevede 2 giorni di ricovero prima e 3 dopo l‟operazione), si riducono
mediamente di 1/5. Le infezioni però possono annidarsi anche in ambienti ambulatoriali, dove si passa solo qualche
mezz‟ora, e possono creare problemi seri in persone immunodepresse; infatti va tenuto conto che in uno stesso
ambiente ambulatoriale si visitano svariate tipologie di paziente, dalla gravida al sieropositivo o al supposto paziente
con virus. Finchè non viene fatta una diagnosi in qualche paziente, non ci si accorge del problema. Nei grandi ospedali
il rischio è molto più consistente che in piccoli ospedali periferici.
Per esempio, negli ospedali di primo livello, i più piccoli (es. Conegliano o altre cittadine periferiche), si possono
incontrare pazienti ricoverati per incidente stradale, anziani con broncopolmonite riacutizzata, ictus, ma
sostanzialmente senza gravi problemi infettivi sia prima che soprattutto durante il ricovero, nel senso che se una
persona si è sfortunatamente schiantata ad un platano con l‟auto avrà sicuramente germi ma di provenienza esogena
(passati dall‟albero), che non ha preso verosimilmente in ospedale.
Invero nell‟ospedale di terzo livello, come può essere quello di Padova, esistono vari reparti di rianimazione (a Padova
ce ne sono 12); questi reparti servono nel decorso post-operatorio di interventi delicati e particolari che vengono svolti
solo in ospedali di tale elevato livello. Il paziente può rimanerci solo pochi giorni, ma se il suo decorso precedente è
stato accidentato e sfortunato, può permanere in una rianimazione centrale o universitaria per un tempo più prolungato
e non solo quelle 12-24 ore necessarie per stabilizzare il normale decorso post-chirurgico. In queste, finiscono pazienti
gravi, che prima di arrivarci possono essere transitati per diversi altri reparti. I loro problemi sono di vario tipo
(respiratori, cardiaci, ecc…) e sicuramente devono essere assistiti mediante l‟uso di cateteri urinari oppure sono
intubati oppure ancora hanno un catetere venoso centrale. Queste sono solo alcune delle possibili importanti vie
d‟entrata di batteri e germi che possono creare infezione. Alcuni pazienti possono essere nutriti per via enterale (in
intestino) o parenterale (per via venosa). Tutto ciò però va ben mantenuto e controllato: un buon infermiere di reparto
infatti sa che una via d‟ingresso centrale alla base del collo, per esempio, va gestita, pulita, controllata in modo che sia
sempre priva di segni di infezione. Ulteriori esempi di criticità sono i pazienti dializzati e chi ha subito ustioni (cute
come porta d‟ingresso). Il fatto che il paziente sia passato per più reparti significa anche che avrà sicuramente assunto
diversi farmaci ed antibiotici e tutto questo, dato anche dalla scarsa comunicazione interna, contribuisce a selezionare
ceppi resistenti, soprattutto negli ospedali grandi. Questo è dimostrato dal fatto che a Padova c‟è una resistenza alla
meticillina negli stafilococchi del 30-40%, valori che salgono al 95% in rianimazione, dove trovare uno stafilococco
sensibile è oramai molto difficile e si opera come se tutti fossero resistenti (non dando meticillina).
Quindi da una parte l‟ospedale di terzo livello garantisce servizi più appropriati e specialistici (es. oncologia, malattie
rare…), dall'altra il prezzo da pagare per questa vastità e ricchezza di reparti è una maggior diffusione e selezione dei
ceppi batterici.
Per cercare di organizzare il problema, da molto tempo è noto che si possono analizzare i risultati delle operazioni
assistenziali dei vari ospedali e stilare questi dati con ordine, confrontandoli con quelli dello stesso ospedale o
sommandoli a quelli di ospedali diversi, come fanno alcuni reparti padovani. Nel loro piccolo, anche le rianimazioni
eseguono un lavoro del tutto simile, raccogliendo e confrontando i dati dei pazienti e delle infezioni riscontrate e
questo serve per migliorare lo standard qualitativo. Dietro alla gestione di un reparto deve dunque nascondersi una
certosina attività di monitoraggio e studio dei propri dati senza dimenticare opportuni confronti extra-moenia. A
Padova esiste l‟unica cardiochirurgia veneta che da tempo produce questo tipo di controllo, confrontato poi con quello
di analoghi reparti fuori città. Queste pratiche di studio stanno prendendo finalmente piede anche nelle realtà private,
ma non tanto per scopi nobili e scientifici, quanto per ottenere i suddetti certificati di idoneità, anche se la
cardiochirurgia si trova quasi esclusivamente in strutture pubbliche a causa degli elevati costi e della poca redditività.
Passando all‟estero, esperienze simili in Gran Bretagna si conducono da tempo. Lì era l‟infermiera ad avere il compito
di controllare in modo informale i dati e i referti in modo da scovare le infezioni, anche quelle microscopiche,
servendosi anche delle competenze microbiologiche. Se le infezioni si presentavano in maniera ricorrente nello stesso
reparto, significava che probabilmente sussisteva un problema di tipo assistenziale in quel reparto e si cercava di
identificare il focolaio d‟origine.
Inizialmente si valutano i batteri e si cerca di capire quali possono provenire dall‟esterno e quali invece sono
prettamente ospedalieri, per sapere dove andare eventualmente ad agire.
I metodi principali di sorveglianza non sono l‟urocoltura, l‟emocoltura, lo striscio, la colorazione, in quanto si può
trovare il germe nel terreno, ma non necessariamente questo significa infezione. Può trattarsi di colonizzazione o
peggio contaminazione dell‟analisi. Le metodiche che si usano sono sia di laboratorio, ma anche cartacee, ovvero
studi di prevalenza o sorveglianza eseguiti in maniera continuativa (tenere controllati il numero e la qualità degli
isolamenti). Se il numero degli isolamenti aumenta o ci sono cluster di germi isolati in un certo intervallo di tempo, si
decide di verificare il motivo dell‟insorgenza anomala. E‟ importante accorgersi mediante questi studi del problema
per evitare di accorgersene troppo tardi, con possibili implicazioni personali quali la denuncia.
Non sempre gli isolamenti sono concentrati e relativamente facili da scoprire: se ne possono avere di costanti e
dilazionati (anche non gravi), come per esempio nel caso delle infezioni urinarie da Coli o Pseudomonas, causati dalla
mancata osservanza di prassi banali quali un‟accurata pulizia delle mani dell‟infermiere o dei materiali utilizzati. I
danni non sono gravi ma hanno risvolto clinico ed economico non trascurabile. Per prevenire problemi serve un livello
assistenziale adeguato. Un esempio lampante è stato un focolaio nosocomiale di stafilococco meticillino-resistente,
causato da un cardiochirurgo che lo aveva nel naso. Dopo 5 operazioni a cuore aperto, nei pazienti ospedalizzati postchirurgia si sono verificate giusto 5 infezioni da questo batterio. Si capì che non poteva essere un caso fortuito e si
identificò l‟operatore responsabile. "Purtroppo" nei nostri ospedali ci sono buone norme anche banali, ma talmente
banali da non essere considerate, che aggravano la situazione di pericolosità delle infezioni nosocomiali. Chi non ha
mai visto girare per i corridoi o ambienti comuni un medico col fonendoscopio a tracolla? Non si dovrebbe andare a
spasso nemmeno con il camice con il quale poi si entra magari in reparto, invece è prassi; oppure con gli stessi
zoccoli, o peggio ancora con la cuffietta chirurgica. Non è il massimo della gravità, ma tutte queste noncuranze
contribuiscono all‟estensione del problema, che non ha bisogno di aiuti. I danni maggiori derivano da camici che sono
stati in ambienti contaminati, quali i laboratori di microbiologia; se l‟operatore dopo aver frequentato queste stanze si
reca per un consulto ad esempio in rianimazione, può portare con se molti microrganismi dannosi, più di quanti non ne
porterebbe provenendo da casa dove sicuramente non circolano i batteri che si trovano nel laboratorio. Si possono
infatti inavvertitamente prelevare stafilococchi dai banconi. Curiosità: la cravatta è uno dei ricettacoli più pericolosi, in
quanto il suo lavaggio è di norma infrequente.
Le infezioni nosocomiali correlano con un maggiore tasso di mortalità (es. la candidemia fa incrementare
sensibilmente la mortalità e i tempi di ricovero). C‟è inoltre un evitabile spreco di farmaci, privo di risultati
apprezzabili. Per chi amministra questo è un grattacapo, perché ricoveri più lunghi e maggior uso di farmaci fanno
lievitare i prezzi di gestione, destabilizzano i bilanci e possono creare, specie sotto festività, problemi di
approvvigionamento farmaceutico. L‟impatto economico inoltre non si esaurisce nell‟immediato, ma avrà giocoforza
uno strascico demandato all‟amministratore successivo, sul quale vengono prontamente scaricati gli oneri
dell‟imperizia precedente. All‟amministratore è infatti richiesto di chiudere i conti in ordine e anche per colpa di
queste infezioni, a volte è necessario fare grandi sforzi. Quindi le infezioni nosocomiali comportano, oltre che
problemi puramente fisici nel paziente, danni economici estesi a tutta la comunità che contribuisce alla sanità
pubblica. Gli amministratori dovrebbero essere maggiormente informati ed educati.
Le ragioni della non-compliance alle linee guida sono tutto sommato dettate dal fatto che il medico difficilmente
spinge la sua immaginazione al di fuori della sua sfera d‟azione personale. Al contrario, l‟epidemiologo o
l‟amministratore, l‟uno per dovere l‟altro perché costretto, come visto, hanno una maggiore facilità, dato che questi
problemi rientrano nel loro ambito operativo e di responsabilità, ad accorgersi che le infezioni nosocomiali sono un
problema serio e non sottovalutabile. Sembra quindi che al medico e anche all‟infermiere manchi la consapevolezza.
Non è un problema culturale o di ignoranza, ma piuttosto un‟incuria dettata dalla mancata coscienza della gravità
problema. L‟igiene nei confronti del paziente è invece fondamentale e deve essere totale, quasi maniacale, soprattutto
se si parla di pazienti sensibili come quelli di rianimazione. Il medico dovrebbe pulirsi le mani prima del contatto col
paziente, poi ripulirle prima di toccare particolari che dovrebbero rimanere in asepsi come cateteri, respiratori
artificiali o qualunque altro presidio. Dovrebbe pulirsi le mani anche dopo ogni contatto con un liquido biologico
(urine, sangue, feci, drenaggi), poi dopo aver anche solo toccato il paziente e obbligatoriamente prima di passare ad un
altro. Le mani devono essere lavate anche dopo aver toccato i dintorni del paziente. Può però succedere che si debba
intervenire d‟urgenza, che il sistema di pulizia crolla per mancanza di tempo e priorità o per il fatto di dover correre al
pc a leggere referti urgenti, lasciando magari i batteri sulla tastiera, da dove eliminarli è impresa pressoché
impossibile.
Nel nostro ospedale di Padova si è avuto qualche anno fa un outbreak di acinetobacter, batterio banale e non
particolarmente aggressivo. L‟acinetobacter era difficilmente sensibile (MDR= multidrug resistent). Questo si diffuse
velocemente tra reparti, rimbalzando con facilità da uno all‟altro. Sicuramente uno dei due reparti colpiti aveva messo
in circolo l‟agente, ma non si è mai fatta piena luce su quale, anche se è intuibile (i reparti in questione erano una
rianimazione ed una chirurgia plastica che ospitava pazienti ustionati). In rianimazione l‟acinetobacter era stato gestito
bene e si seppe contenerlo. Ma era sufficiente un banale ricircolo di pazienti per re-introdurlo, vanificando gli sforzi di
ricerca ed isolamento. Evidentemente, prima di entrare in rianimazione, non si erano attuate tutte le ricerche necessarie
per rilevare questo batterio. L‟acinetobacter si trova solo in ospedali di terzo livello, ma se si ritrova addirittura in
rianimazione significa che non è proprio stato cercato, e questo è allarmante. Acinetobacter si trova nell‟emocoltura e
ne va sempre monitorata la presenza in pazienti intubati. In un paziente di chirurgia plastica (ustionato), va fatta una
meticolosa sorveglianza e verifica di infezioni nelle ustioni. E‟ ovvio che senza esami approfonditi non si riesce a
scovarlo. In seguito, il paziente infetto non dovrebbe viaggiare per altri reparti, mettendo a repentaglio anche l‟altrui
salute. Lo spandimento di acinetobacter non isolato è provocato da operatori inconsapevoli, anche perché spesso nel
paziente i segni di lesione sono invisibili. Quando il paziente ha complicanze e viene trasferito in rianimazione, allora
qualche giorno dopo si pensa di effettuare verifiche e si trova prontamente l‟acinetobacter. Dopo che si erano avuti 2025 casi in pochi mesi, si capì l‟anomalia del fenomeno, ma ormai il batterio si era diffuso e progressivamente
irrobustito, tanto che ad oggi è diventato endemico in ospedale con 50 casi all‟anno, confermati da indagini
molecolari. Lo stesso profilo molecolare si può trovare in diversi reparti, prova inconfutabile che l‟origine e la
diffusione è intra-ospedaliera. Il batterio in questione è anche molto difficile da isolare, tantopiù che normalmente i
pazienti non stazionano in stanza singola, ma in stanze da 4-5 posti o addirittura da 8. Il paziente con acinetobacter
andrebbe isolato in stanza singola o perlomeno i casi conclamati andrebbero raggruppati in uno stesso spazio. La
penuria di stanze singole non rende possibile questo differenziamento e quindi in una stessa stanza ospedaliera ci sono
pazienti con problemi microscopicamente diversi. Il corretto trattamento invece prevede che il paziente sia seguito da
un infermiere dotato di cuffietta, camicione di carta usa e getta, soprascarpe, che dopo l‟intervento cestini tutto e si
riprotegga da capo prima di operare su un'altra persona. Questo potrebbe essere anche pensato, ma nel reparto entrano
anche svariate altre categorie, tra cui il medico che già solo portandosi a tracolla il fonendoscopio o dimenticandosi
banalmente di pulirlo, vanifica tutto il complicato lavoro. Molti danni li producono anche i consulenti o il medico di
turno, che spesso deve agire in velocità. Il rapporto tra infermiere e paziente è di uno a tre, cioè un infermiere ogni tre
pazienti. In un ipotetico reparto di 20 malati circolano più o meno 6 infermieri, non sempre tutti presenti (alcuni
potrebbero essere in sala operatoria o altrove). Questo fa sì che gli infermieri rimasti coprano il lavoro di quelli
assenti, aumentando il numero di pazienti toccati da ciascuno di essi. La perfezione in questo ambito sembra non
esistere, infatti si è constatato come dopo un corso per promuovere la stretta aderenza al lavaggio delle mani
(banalità), alcuni operatori con due ispettori al seguito, del tutto consapevoli del fatto di essere controllati, dopo solo
30 minuti commettevano grossolani errori igienici e banali dimenticanze.
E‟ anche regola fare campionamenti ambientali su mensole, apparecchi, lavandini. Questi ultimi in particolare
dovrebbero essere uno per paziente, invece a volte si arriva al fatto che pure il medico se ne serve. Ma tutti gli oggetti,
anche i più insignificanti e le pareti, andrebbero sempre tenute perfettamente pulite.
Oltre ad un controllo ambientale dev‟esserci anche un controllo del personale ausiliario, che a volte risulta inadeguato,
incapace od insufficiente (specie nei mesi estivi). Le rianimazioni ospitano più o meno un numero costante di pazienti
nel corso dell‟anno, mentre il personale ha diritto alle ferie; di conseguenza il rapporto pazienti-operatori è spostato
verso i pazienti, che vengono seguiti peggio e meno accuratamente. Il problema può risiedere anche nell‟impresa di
pulizie, che gestisce più ambienti contemporaneamente, pulendo la rianimazione ugualmente all‟atrio, per esempio.
Inoltre anche questo personale è molto precario e andrebbe istruito e formato su precauzioni e misure da prendere per
prevenire il trasporto degli infettanti. Nei giorni festivi, è sufficiente l‟arrivo di un avventizio sprovveduto per
vanificare in una mossa, per l‟ennesima volta, il risultato di pulizia ottenuto con notevole sforzo.
Il problema infezioni nosocomiali, globalmente, esiste, ma risolverlo si sta intuendo da questi esempi, è una chimera.
E‟ però assai difficile da dimostrare e certificare in tempi brevi l‟impatto, anche economico, dovuto a questi vizi di
procedura.
Per molti medici, la frequenza di infezione, limpida e trasparente, certificata da un test o da uno studio, è insufficiente
per dirsi negligenti di fronte al problema, nel senso che i medici non si reputano responsabili della diffusione e del
mancato controllo di infezioni nosocomiali, un po‟ per spocchia e un po‟ perché ancora una volta, manca la
comprensione e la consapevolezza, qualità che nei medici di domani invece non deve assolutamente mancare.
Il tutto è complicato dal fatto che germi diversi ed eterogenei sono enigmatici, perché sopravvivono in ambienti
diversi, possono essere di difficile coltivazione o cambiano caratteristiche in diverse condizioni ambientali. Altro
punto interrogativo è quanto tempo permane infettante un batterio. Diversi lavori non sono ad esempio giunti ad una
conclusione certa e si legge in uno studio che l‟acinetobacter sopravvive più di 150 minuti, mentre su diversi altri
lavori si legge che questo sopravvive da 3 giorni a 5 mesi, lassi di tempo estremamente variabili che rendono questi
articoli inaffidabili e nel complesso poco veritieri.
Bisogna anche tenere presente che molto vari possono essere i vettori di trasmissione: l‟infermiera, le mani del
chirurgo, il medico di turno, oggetti quali il dispenser del sapone, ecc….
Definizione di infezione legata all‟assistenza: infezione non presente al momento di ingresso in ospedale. Se una
persona presenta polmonite, arriva già da casa con la polmonite ed è ovvio che non è il caso in esame, così come una
raccolta ascessuale sotto una ferita in chiusura che si manifesta in modo vigoroso entro un paio di giorni dall‟entrata in
ospedale; è molto ragionevole escludere un‟infezione legata all‟assistenza, propendendo invece per un‟infezione
acquisita precedentemente al ricovero, esogena, acquisita fuori. Manifestazioni cliniche evidenti entro 48 ore dal
ricovero non sono casusate da infezioni strettamente legate all‟assistenza. Anche se i limiti non sono precisissimi,
dev‟essere passato un lasso ragionevole di tempo per cui i sintomi del paziente (se li ha) possano essere classificati
come conseguenza di infezione legata all‟assistenza. A volte queste manifestazioni si evidenziano non durante ma
addirittura dopo il ricovero stesso, come nel caso di chi è stato operato con graffette o chiodi alla testa del femore (o
tibia), per esempio, in modo da saldare una frattura. Questi supporti metallici, se infetti, possono creare problemi
anche a 4-5 mesi di distanza dall‟intervento. La manifestazione clinica è quindi generalmente rilevata solo dopo che il
danno è compiuto. I pazienti ortopedici di questo tipo andrebbero seguiti per un anno per sincerarsi che non sia
avvenuta infezione, anche con interviste telefoniche o tramite il loro medico di base. Le ferite chirurgiche che
coinvolgono l‟apparato respiratorio o urinario sono però ovviamente più gravi di quelle in ambito ortopedico,
intaccando organi vitali.
I microrganismi gram+ (Stafilococcus aureus, coagulasi negativi, come l‟epidermidis) sono i più frequenti nelle
infezioni da assistenza, tanto che hanno superato i gram- e si sviluppano (ad esempio l‟epidermidis) quando un sito di
prelievo viene chiuso male oppure usando aghi cannula o cateteri, migrando dall‟epidermide all‟interno, in modo
problematico e resistente. Nel 2005 a Padova c‟è stata anche un emergenza dovuta ad enterococchi vancomicinaresistenti (VRE), con fortunatamente pochi problemi clinici a seguito.
I gram negativi si trovano meno frequentemente in area critica, ma esempi di polmoniti da Pseudomonas non sono
rari, così come recenti infezioni micotiche (es. candida e aspergillo) legate ad errate manovre. Nella persona normale,
l‟aspergillo, che di norma si trova volatile nell‟ambiente, non crea nessun tipo di problema. Non così
nell‟immunodepresso, nel paziente oncologico o nel trapiantato di midollo osseo (ad esempio nei bambini ricoverati in
oncoematologia pediatrica). Questi sono piccoli pazienti molto a rischio e vanno sistemati in apposite stanze a
pressione positiva, con sofisticati e costosi filtri che abbiano maglie di dimensioni adeguate per fermare l‟aspergillo e
altre varietà volatili. La pressione positiva è il fenomeno contrario a quello che si osserva nei laboratori di
microbiologia, dove aprendo un pertugio non deve uscire aria. Qui al contrario l‟aria non deve entrare, tantopiù che ci
si adopera per purificarla coi filtri. Le stanze assicurano inoltre regolari ricambi d‟aria, sempre controllata e ripulita. Il
bambino inoltre deve continuamente usare protezioni come mascherine, ma basta una rapida passata in radiologia per
fare le lastre o un giro in giardino per rendere inutile il tutto, soprattutto se nelle vicinanze esistono cantieri. A tal
proposito, in tribunale è arrivata la causa di una paziente operata di neurinoma al nervo acustico la quale durante
l‟operazione a cranio aperto ha contratto l‟aspergillo, proveniente proprio da un cantiere esterno alla sala operatoria,
male isolata. Oggi questo caso è arrivato davanti alla giustizia, mentre fino a pochi anni fa nessuno avrebbe
immaginato di portarlo avanti.
Ritornando al lavaggio delle mani, in passato si adottava il principio del lavaggio sociale, dove tutti si lavavano in un
unico lavandino, mentre oggi si è finalmente capita l‟importanza del lavandino singolo. Sempre a tal proposito, è stato
suggerito agli operatori di tenere sempre con sé in tasca un flaconcino di antisettico a formulazione alcolica, ma tra
guanti in lattice (e relative frequenti allergie) e continuo lavaggio con soluzioni alcoliche, ben presto le mani si
screpolano. Nella pratica questo impegno è assai difficilmente applicabile.
Le infezioni che coinvolgono il torrente circolatorio sono le più costose in termini economici e clinici, in quanto sono
quelle che provocano un maggior numero di decessi. Vengono spesso innescate da cateteri venosi centrali non
adeguatamente trattati
In definitiva quindi, va ricordato che dagli anni ‟90 le infezioni ospedaliere da gram positivi, virus e funghi hanno
superato quelle da gram negativi. Anche la SARS, nei primi anni 2000 può essere a ragione considerato un accidente
nosocomiale.
Oggi negli ospedali circolano batteri che fino a pochi anni fa non si vedevano per nulla. I più frequenti sono:
 Stenotrophomonas maltophilia
 Pseudomonas Aeruginosa MDR (resistente a varie famiglie di antibiotici tra cui ciclosporine,
aminoglicosidici, chinolonici, beta-lattamici. Per resistenza significa che almeno 3 categorie su 4 di
antibiotici non possono essere usati, dovendo ricorrere spesso a nuove formulazioni)
 Acinetobacter spp
 Burkholderia cepacia
 Staphylococcus aureus meticillino-resistente
 Enterococchi vancomicina-resistenti
 Micobatterio tubercolare MDR
 Streptococcus Pneumoniae penicillina-resistente
Per quanto concerne la citata tubercolosi, il problema non è rilevante in Italia, quanto in alcune zone del mondo,
Africa soprattutto. Nel caso di una compliance ridotta per motivi socio-economici o scadente per limiti clinici, si può
sviluppare una certa batterio-resistenza e questa diventare un problema anche nel resto del mondo a seguito di
fenomeni emigrativi.
In Africa capitolo triste e ampio ricoprono le febbri emorragiche, prima tra tutti l‟Ebola, che tra le vittime ha mietuto
anche Maria Bonino dell‟ospedale Spallanzani di Roma, morta quattro anni fa a Luanda in seguito alla contrazione del
virus di Marburg, del tutto simile all‟Ebola. Dopo questo fatto, i colleghi che lavorarono a suo contatto, furono isolati
allo Spallanzani di Roma proprio per evitare una diffusione interpersonale e radicare nel nostro paese il virus.
Tornando all‟analisi scientifica del problema, nell‟effettuare studi è necessario stare accorti sul fatto che potrebbero
esserci delle contaminazioni del prelievo e sapere che non è mai sufficiente affidarsi ad un prelievo singolo, ma
sempre verificare più volte. I germi che si identificano sono più o meno sempre gli stessi, elencati anche in precedenza
(Pseudomonas, Staphylococcus aureus, Enterococchi, E. coli).
Si possono fare tutti gli studi possibili, anche supportati da complicate metodiche molecolari (es. PFGE o RFGE) e
profonde indagini epidemiologiche, ma inesorabilmente, per la vastità dell‟argomento e delle persone che frequentano
l‟ambiente ospedaliero, uno studio risulterà sempre incompleto, tanto che si percepisce nell‟ambiente come ancora
irrealizzato uno studio definitivo.
Si sta proprio in tempo reale ricercando e studiando l‟infezione nasale da stafilococco in alcuni pazienti, raccogliendo
tamponi all‟ingresso in rianimazione. Il prelievo è stato ripetuto dopo 5 giorni e in alcuni pazienti prima “puliti” è
comparsa infezione da stafilococco. Vanno capite le cause, dove gli stafilococchi si annidano e come si diffondono,
oltre che valutare tutto lo spettro di conseguenze derivanti da questa infezione; c‟era inoltre un‟interessante
meticillino-resistenza, che poteva essere approfondita. Anche a Padova ci si sta adoperando per rendere credibili e
motivate le preoccupazioni sulle infezioni nosocomiali.
Negli Usa, si effettuarono anche studi su neonati in terapia neonatale, pazienti che certamente non avevano modo di
acquisire infezioni se non quelle veicolate dal personale dato che ovviamente non si muovono e che per loro le visite
dei parenti, spesso caotiche in altri reparti, sono più rade. Non bastasse questo, l‟incubatrice non permette comunque
un contatto diretto col fanciullo.
In questo studio prevaleva l‟incidenza di Klebsiella, E.coli, Pseudomonas aeruginosa, Serratia maculescens,
Elicobacter cloacae… (su 562 infezioni, il 34% erano da gram negativi)...
Si verificò che nel 58% dei casi i ceppi avevano, da approfondimento molecolare, un profilo originale ed unico, non
assimilabile a nessun altro caso coltivabile da altri neonati. Il 33% degli isolamenti invece aveva tratti del tutto uguali
a quelli di un altro bambino, mentre nel 9% dei casi si notò che la nurse aveva anch‟ella un profilo infettivo uguale a
quello del bambino, con l‟aggravante che questa poteva diffondere i batteri nell‟ambiente, ai colleghi, alla tastiera del
pc e via andando. Tra le nurse, il 66% erano casi unici, mentre nel 19% dei casi si denotava un contagio tra nurse e
nurse. Il fatto preoccupante (e che questo studio non chiarisce) è l‟elevata frequenza di profili unici, più della metà nei
bambini e ancora maggiori nelle nurse. Il fatto in parte si spiega in quanto il 30% dei bambini non sono potuti essere
messi sotto indagine molecolare per irreperibilità o altri motivi. Inoltre il 23% delle nurse non si era arruolato per lo
studio. Quindi le persone che potevano avere un batterio uguale a quelli definiti casi singoli erano molte, ma fu
impossibile verificarlo (i casi unici erano perciò falsamente abbondanti). In più, non è stato studiato il resevoir
ambientale (mensole, muri, apparecchi…) dove potrebbero esserci stati batteri di profilo uguale e non sono stati
nemmeno campionati medici, parenti e personale assistenziale (per esempio gli inservienti che aiutano nel lavaggio
del bambino). In pratica, lo studio escludeva grandi quantità di possibili serbatoi di congruenza al profilo originale.
Anche avendo a disposizione però dati incompleti, il fatto che si è trovato comunque 33% di bambini con lo stesso
batterio lascia intendere che nell‟ospedale, unico luogo in cui sono stati i bambini prematuri nelle loro breve e precoce
vita, circolano batteri e che i vettori spesso sono infermieri, medici e personale in genere, poco attenti a questa
tematica. Ecco che allora con questa seppur manchevole evidenza si chiude il cerchio e si sottolinea ancora una volta
l‟importanza, come principio fondamentale, del lavaggio delle mani e dell‟igiene ospedaliera, tematiche approfondite
anche nella successiva lezione.
31/03/09
Premessa del Prof.
Ho consegnato le diapositive delle passate tre lezioni e di quella di oggi. Cercate di seguire il filo delle diapositive e di
intuire che cosa voglio io da queste diapositive. Non vi faccio una traccia molto esile ma ci sono dei riferimenti con
tanti dati che io non vi chiedo per l‟esame ma che mi interessa che voi capiate e chi ha voglia di capirne un po‟ di più
poi prenderà i riferimenti bibliografici e cercherà l‟articolo. Io voglio farvi comprendere un ragionamento. Per
esempio sulle infezioni ospedaliere, cioè la lezione scorsa e quella di oggi, all’esame scritto c'è una domanda
aperta, molto generica, in cui voi ci ricavate su quello che volete, non è una cosa assolutamente nozionistica.
Lezione
Oggi vi parlo di infezioni nosocomiali del sistema circolatorio e soprattutto di Stafilococchi e Enterococchi con le
metodiche che si possono utilizzare per studiare alcuni tipi di infezioni date da questi batteri. Sulle infezioni
nosocomiali del torrente circolatorio uno studio di qualche anno fa mostra la percentuale di Stafilococchi e
Enterococchi. Vedete lo Staphylococcus aureus. Quando si fanno le emocolture soprattutto la prima volta che si
chiede un‟emocoltura di un paziente febbrile magari con sospetta sepsi, dovete chiedere almeno tre emocolture, una
ogni venti-trenta minuti. Con una sola emocoltura le percentuali di successo sono molto più basse e soprattutto se c‟è
una contaminazione a livello del prelievo si possono avere delle indicazioni errate. Per esempio lo Stafilococco aureus
può essere trascinato dentro il campione durante il prelievo, ma non è detto che il paziente abbia una batteriemia da
Stafilococco aureus. Certo, è possibile perché è un ospite della cute, ma non è detto che sia il responsabile della
batteriemia che voi avete ipotizzato esserci. Quindi quando lo S. aureus è in una delle tre emocolture, l‟emocoltura
positiva viene segnalata ma deve essere interpretata. Per questo motivo il numero degli S.aureus solitamente è
sovrabbondante, ma non perché siano i principali responsabili di sepsi (solo perché è facile la contaminazione del
prelievo di sangue).
C‟è chi, sempre nel tentativo di schematizzare, ha provato a mettere in ordine i germi per epoca di insorgenza. Avere
dei dati epidemiologici è importante per iniziare una terapia empirica: per esempio, se il consulente microbiologo
viene chiamato alle due di notte dal collega rianimatore per un paziente febbrile post-chirurgico, operato il giorno
prima, che viene da fuori, che è in ospedale da due giorni, e ci si chiede: “Cosa può avere il paziente?”, il consulente
microbiologo deve dargli una terapia “al buio” in quel momento perché non può aspettare i risultati dell‟emocoltura.
Cosa si può dare “al buio”? In questo caso ci si può aiutare con questi dati. Vedete che di solito l‟Enterococco e la
Candida scatenano infezioni dopo un certo di tempo: è raro che un paziente appena entra in ospedale, dopo due giorni
faccia già una candidemia, di solito si tratta di un paziente ricoverato da un periodo abbastanza lungo. Invece è più
frequente che all‟inizio il paziente si prenda un E. Coli o uno Stafilococco. Ovviamente ci sono numerose eccezioni.
Non è invece un‟eccezione ma un trend ormai diffuso quello che constata un aumento delle resistenze con l‟andare del
tempo. L‟MRSA (Stafilococco aureus meticillina resistente) è passato dal 30% al 60% di resistenza al farmaco,
mentre lo Pseudomonas aeuriginosa è multi resistente dal 10% al 30%. Il multi resistente (MDR: multi drug resistent)
è definito tale, nel caso dello Pseudomonas, quando è resistente ad almeno tre delle quattro classi di farmaci
attualmente in uso contro lo Pseudomonas, che sono i chinoloni (ciprofloxacina), carbapenemici, i beta-lattamici e
gli amminoglicosidi (gentamincina, amikacina). Non serve imparare queste cose perché ve li rifaranno forse in
malattie infettive e sicuramente in clinica medica, però il concetto mi serve adesso: quando voi avete resistenza dello
Pseudomonas ad almeno tre delle quattro classi di farmaci che si usano contro questi batteri (e in ospedale abbiamo
isolato decine di ceppi resistenti a tutte e quattro le classi di farmaci) si parla di patogeni multi resistenti che
determinano l‟adesione a un certo protocollo, come l‟isolamento del paziente.
Qui vedete la contaminazione ambientale e la durata di resistenza nell‟ambiente dei batteri a seconda delle condizioni
ambientali. Si va da pochi giorni a molti mesi. Per esempio il Micobatterio tubercolare o lo Pseudomonas possono
restare vitali nell‟ambiente anche per settimane o mesi, in condizioni favorevoli.
Questo è uno studio recentissimo italiano molto ben fatto uscito sulla migliore rivista degli anestesisti e non è un caso
che su una rivista di anestesia e rianimazione invece di esserci solo articoli sull‟assistenza respiratoria, sull‟assistenza
dialitica, sull‟assistenza al paziente critico, ci siano anche dati sulle infezioni nosocomiali perché quest‟ultime sono un
incubo per il medico di rianimazione. Questo è uno studio molto grosso che fa vedere che su 10000 pazienti ammessi
in 71 diversi reparti di rianimazione, l‟11% aveva un‟infezione acquisita già in comunità, cioè entrava già con
un‟infezione in ICU (ICU = intensive care unit); il 7% aveva un‟infezione acquisita in ospedale prima di arrivare in
ICU. Il problema è che l‟11% ha preso l‟infezione anche in ICU. Cioè si è preso la prima infezione in ICU o si è preso
una seconda infezione in ICU. Il problema in rianimazione è notevole, perché qui i pazienti sono già critici di loro.
L‟infezione acquisita in ICU aumenta la permanenza del paziente in ICU, la permanenza in ospedale, la mortalità in
ICU e la mortalità in ospedale.
Vedete una tabella con le principali infezioni contratte dai pazienti prima di entrare in ICU e acquisite in ICU, con le
relative percentuali.
Il grafico mostra come la curva dei pazienti con infezione prima di entrare in ICU e quella dei pazienti con infezione
presa in ICU hanno un andamento simile: all‟aumentare dei giorni di degenza in ICU aumenta il rischio di contrarre
un‟infezione. I pazienti che entrano in ICU con già un infezione sono più protetti perché sono controllati
diversamente, stanno già prendendo antibiotici (notate la curva più chiara che è più bassa nel grafico).
In quest‟altro grafico ci sono due curve di sopravvivenza per giorni di degenza in ICU per due gruppi di pazienti:
senza infezione e con infezione del sistema circolatorio. Nella tabella sotto vedete come la mortalità dei pazienti
ricoverati in ICU è più alta nei pazienti con infezione rispetto ai pazienti senza infezione, ancora più alta se quelli con
infezione hanno anche sepsi e ancora più alta se hanno oltre alla sepsi anche uno shock settico.
Non ci sono solo infezioni del sistema circolatorio, ma anche polmoniti, infezioni urinarie, infezioni da sito chirurgico
e altre. Le infezioni da sito chirurgico sono sempre un incidente, ma è molto difficile dimostrare, dal punto di vista
medico-legale, la responsabilità del chirurgo.
ICOS: infezioni correlate all‟assistenza ospedaliera. Colpiscono circa il 5-10% dei pazienti ricoverati, sono circa il
50% delle complicanze ospedaliere, costano un delirio sia in termini di risorse economiche sia in termini di vite
umane, anche se è difficile dimostrare che le morti siano dovute solo alle infezioni.
Importante è considerare che la quota di infezioni prevenibili è una quota importante. Cioè se si applicano le linee
guida per la gestione del paziente infetto e l‟identificazione precoce, si ha una discreta quota di casi evitabili e quindi
una discreta quota di decessi evitabili, nonché un considerevole risparmio economico. Il problema è che attuare queste
linee guida costa moltissimi soldi e i risultati si vedono a lungo termine, quindi l‟amministratore ospedaliero spesso
non intraprende queste iniziative perché spenderebbe dei soldi (e a fine anno deve rendere conto del bilancio) e i
risultati positivi li vedrebbe la successiva amministrazione.
Questa serie di studi fa vedere la percentuale di personale sanitario ospedaliero che si lava le mani. La percentuale va
da numeri molto bassi a numeri più alti a seconda degli studi. Probabilmente la verità sta nel mezzo, quindi circa il
40% del personale si lava le mani, percentuale comunque piuttosto bassa. Conclusione: ci si lava poco le mani!
Diapositiva che mostra i cinque momenti in cui ci si dovrebbe lavare le mani in ospedale: prima di toccare il paziente,
prima di compiere una procedura sterile, dopo esposizione a fluidi corporei del paziente (sangue, urine), dopo contatto
del paziente, dopo contatto con il letto e gli altri oggetti che sono stati a contatto con il paziente (ricordo quello che
dicevo prima riguardo al fatto che alcuni ceppi batterici possono vivere a lungo nell‟ambiente).
Il rischio di infezione c‟è anche nelle Long Term Care Facility (LTCF), cioè nei reparti di lungo degenza. Sono dei
reparti con caratteristiche diverse. Negli altri reparti si curano patologie acute con un costo per letto elevato, nei reparti
di lungo degenza vale più o meno il contrario. Anche qui ci sono lo S. aureus meticillina resistente (MRSA),
l‟Enterococco vancomicina resistente (VRE), lo Pseudomonas aeuriginosa resistente ai chinoloni e altri ceppi batterici
resistenti.
Facciamo l‟esempio dello S. aureus: di solito lo S. aureus meticillina sensibile è associato a una bassa mortalità, quello
meticillina resistente è invece correlato a una mortalità molto più elevata.
Uno studio americano dimostra come è cambiata l‟epidemiologia dello S.aeureus: si è passati infatti da avere
resistenza solo negli ospedali ad avere resistenza anche nel territorio.
Guardiamo la storia degli antibiotici contro lo S. aureus. Già durante la Seconda Guerra Mondiale gli Americani
portarono la penicillina e dopo pochi anni negli ospedali la resistenza alla penicillina arrivò al 25%. Nella comunità la
resistenza alla penicillina comparve più tardi, vent‟anni dopo.
La vancomicina si usa ancora oggi. Sono stati riscontrati di recente Stafilococchi resistenti alla vancomicina, ma è un
problema solo degli ospedali più grossi, infatti in comunità è rasissimo trovare ceppi di S. aureus resistenti alla
vancomicina. Invece la resistenza alla meticillina (che è un‟evoluzione della penicillina introdotta più o meno nella
stessa epoca) è più diffusa e ci ha messo circa trent‟anni a diventare un problema. Circa il 30% (media degli ospedali
italiani) di Stafilococchi è meticillina resistente, quindi quando si isola uno Stafilococco da un paziente con ascesso,
polmonite o batteriemia (quindi con gravi infezioni), bisogna trattarlo come se fosse meticillina resistente a priori, cioè
bisogna dargli la vancomicina, perché c‟è una probabilità su tre che sia meticillina resistente. Poi eventualmente dopo
l‟emocoltura, se il laboratorio dice che è meticillina sensibile, si sospende la vancomicina e si somministra meticillina.
Il problema è che si selezionano dei batteri, come alcuni ceppi di Enterococchi, che sono vancomicina resistenti.
L‟Enterococco vancomicina resistente non dà problemi al paziente, ma può infettare e colonizzare un paziente vicino
con una ferita chirurgica e dare gravi conseguenze. E questo è successo realmente.
Vediamo come si studiano le similitudini tra germi. Per lo Stafilococco a Padova abbiamo due sistemi.
- La PFGE (Pulsed Field Gel Electropheresis): si digeriscono i batteri che vogliamo studiare con degli enzimi, il Dna
estratto da essi è fatto correre su un gel; si origina un profilo di frammenti che viene paragonato a profili di altri
esemplari dello stesso batterio (cioè del tipo di patogeno che stiamo studiando) e che poi vengono confrontati
simultaneamente a delle bande di riferimento. Le similitudini e le differenze tra bande permettono di stabilire se i due
batteri sono tra loro correlati o "distanti", anche all‟interno della stessa specie batterica. Permette di stabilire quindi se
due S. aureus sono dello stesso ceppo, e in caso siano dello stesso ceppo si può ipotizzare una trasmissione tra un
paziente e l‟altro.
- Il MLST (Multi Locus Sequence Typing): identifica sette geni conservati differenti dello stesso batterio (identificati
per ogni batterio); la letteratura ha identificato dei primers che vanno a ibridare delle regioni conservate (stabilite in
letteratura), permettendo il sequenziamento di un breve tratto di genoma a livello di tutti e sette i geni. La banca dati
restituisce per ogni sequenza conservata un codice numerico. In base alla combinazione completa dei sette codici
numerici, la banca dati mi darà un numero che corrisponde al tipo di germe che ho analizzato.
Esempio: considero una parte di trenta pazienti studiati in una rianimazione. Si è deciso di studiare tutti pazienti prima
dell‟ingresso in ospedale per vedere la percentuale di portatori di S. aureus. Perché in Norvegia, Svezia, Finlandia e
Danimarca, per esempio, la percentuale di portatori di S. aureus in ospedale è molto bassa, del 5%, questi Paesi si
possono permettere il lusso di verificare all‟ingresso in ospedale chi è portatore di S. aureus e di isolarlo. In questo
modo mantengono una percentuale di infetti all‟interno dell‟ospedale bassissima. Noi che invece abbiamo una
percentuale di infetti da S. aureus nella popolazione del 95% non possiamo fare questo. Per stimare tutti questi infetti
bisogna fare ogni tanto una statistica. Nella rianimazione in questione hanno deciso di testare tutti i pazienti con un
tampone nasale. Poi hanno fatto un altro tampone nasale a tutti cinque giorni dopo. Quindi hanno trovato chi era
portatore all‟ingresso, chi non lo era, e chi si è positivizzato, se non lo era in origine, dopo cinque giorni. A Padova a
ogni codice (es. 228) corrisponde un particolare ceppo di Stafilococco. Io non so a quale ceppo corrisponda un certo
numero, ma posso osservare che non ho tanti numeri diversi, c‟è una certa ricorrenza di codici, per esempio ci sono
molti 228. Il 398 è uno solo e quindi è probabile che sia un ceppo che viene da fuori, mentre il 228 o l‟8 sono più
ricorrenti e quindi è probabile che siano ceppi che “albergano” nel reparto di rianimazione.
Ogni tanto capita che ci sia il “battesimo” di un nuovo pezzetto (cioè si ritrova una sequenza che non risiede in banca
dati) e il computer riporta un nuovo codice che genera poi alla fine un nuovo numero che identifica questo nuovo
ceppo batterico. “Nuovo” non significa necessariamente che è comparso di recente. Può anche esserci da migliaia di
anni, ma se nessuno lo aveva mai trovato, sequenziato e messo in banca dati, la banca dati non lo riconosce.
E‟ importante capire se il batterio è entrato in comunità perché negli anni Settanta noi siamo stati curati spesso con
Zimox e Panacef, per esempio per l‟otite e la faringite. Sono 10-15 anni che non si usano più questi farmaci proprio
perché sono degli antibiotici che vanno bene in condizioni di bassa resistenza di Stafilococco e Streptococco.
Aumentando le resistenze sul territorio, gli antibiotici di prima generazione non vanno più bene e bisogna dare altri
antibiotici, di solito più costosi, che aumentano per pressione selettiva lo sviluppo di altre resistenze. In questo modo
inseguiamo ceppi sempre più resistenti e creiamo sempre nuovi mostri. Il medico di base non può fare un‟emocoltura
prima di dare l‟antibiotico e quindi prescrive una terapia che sarà empirica. Le statistiche sulla resistenza nel territorio
dei ceppi batterici aiutano il medico di base a non sbagliare antibiotico.
MRSA in Europa: vedete percentuali bassissime nei paesi scandinavi e in Islanda. Noi stiamo insieme al Portogallo, la
Francia e l‟Inghilterra, in cui la percentuale è molto più elevata.
VRE (Enterococchi vancomicina resistenti). I VRE sono associati a più alta mortalità rispetto ai VSE (Enterococchi
vancomicina sensibili).
Annalisa Pantosti ha pubblicato uno studio sui VRE faecium ottenuti da pazienti ospedalizzati e ha dimostrato che
c‟era una diffusione grossomodo dello stesso ceppo di Enterococco. Il Dna è stato analizzato con PFGE e si è notato
che c‟era una certa rappresentazione costante del sottotipo 17. Negli ospedali grossi si trova il 17 o il 18 e altri
correlati al 17. La Pantosti ha trovato il 17: il problema è che il 17 è molto diffuso e non si può dimostrare che ci sia
stata una trasmissione tra pazienti.
Per quanto riguarda l'epidemiologia dei VRE in Europa bisogna ammettere che rispetto ad anni passati lo situazione
sta peggiorando per la crescita della resistenza. Fattori di rischio per contrarre un VRE: ospedalizzazione prolungata,
permanenza in ICU, severità della patologia di base, neutropenia, dialisi, piaghe da decubito, terapia antibiotica
prolungata soprattutto con glicopeptidi, soggiorno in strutture con elevata percentuale di pazienti colonizzati,
promiscuità con pazienti colonizzati, equipe terapeutica condivisa con pazienti colonizzati.
Risultati dello studio: sono stati trovati 40 ceppi di VRE, divisi in 9 sottotipi (ST). Gli ST più frequenti sono il 17, 18,
78.
Da marzo 2004 a settembre 2005 sono stati isolati VRE da 19 differenti reparti. L‟ST 18 è stato isolato nelle
rianimazioni (ST 18 è tipico degli ospedali).
Sono stati trovati tre ceppi nuovi ST 249, ST 287, ST 288.
La trasmissione degli Enterococchi avviene attraverso gli animali, l‟uomo e l‟ambiente. Bisogna adottare norme di
prevenzione come norme igieniche, il lavaggio delle mani e la decontaminazione ambientale.
Durata media di degenza ospedaliera per intervento chirurgico: confrontando pazienti senza infezione del sito
chirurgico, con infezione del sito chirurgico superficiale e con infezione del sito chirurgico profonda, vediamo che la
degenza aumenta in caso di infezione.
In chirurgia ortopedica hanno controllato i tempi di somministrazione della profilasi antibiotica pre-chirurgica e il
rischio di sviluppare infezioni del sito chirurgico. In questi casi prima si decide che antibiotico dare, anche in base alla
percentuale di ceppi resistenti, poi si stabilisce quando iniziare la terapia profilattica. Al momento in cui noi apriamo il
sito chirurgico ci deve essere una certa quantità di antibiotico per assicurare che il paziente sia protetto. Si consideri
anche che ogni farmaco ha una sua cinetica per cui se l‟intervento dura dieci ore e l‟antibiotico che somministro ha
efficacia per tre ore, l‟anestesista deve provvedere a somministrare altre dosi di antibiotico in sala chirurgica. Quando
dare la prima volta l‟antibiotico? Se in lista operatoria sono secondo, mi opereranno quando il primo paziente avrà
finito e in base a questa previsione si deciderà quando somministrarmi l'antibiotico.
Ci possono però essere degli imprevisti, perciò a volte è difficile prevedere esattamente quando verrà operato il
paziente. Vedete dal grafico che dare l‟antibiotico troppo presto o dopo l‟intervento è meno efficace che darlo al
tempo giusto, cioè appena prima dell‟intervento (circa un ora prima).
07/04/09
Diagnostiche recenti per batteriemia:
I Gram+ causano la maggior parte degli episodi di batteriemia nel reparto di terapia intensiva. Un infezione
nosocomiale in quest‟ambito aumenta la mortalità di 3 volte. Ci sono vari gradi di infezioni del torrente circolatorio.
All‟inizio si instaura una situazione di batteriemia (=sepsi); si può arrivare a shock settico quando intervengono
insufficienze d‟organo (rene,cuore..) difficili da recuperare; di shock settico si può morire. E‟ quindi importante il
riconoscimento precoce della sepsi per poterla recuperare (il prof. fa un esempio di una ragazza che torna in ospedale
tre giorni dopo la dimissione con febbre alta persistente: non viene ricoverata in terapia intensiva, non le vengono fatti
i giusti esami e così purtroppo muore in 2h per shock settico, cominciato con cellulite da streptococco).
Poiché quando si instaura un quadro di shock settico la situazione diventa critica in poche ore, è nato un “tavolo sepsi”
che ha deciso di progettare un corso per insegnare a riconoscere la sepsi e i meccanismi che in poche ore possono
portare a shock settico (l'idea è quella di insegnare a valutare se ci sono tutti gli strumenti necessari, se servono esami
microbiologici in urgenza, se serve una diagnostica per immagini...).
Dal punto di vista microbiologico si fa un‟emocoltura: si esegue un prelievo si sangue, lo si mette in brodo e si
aspetta che questo viri. Ci sono dei meccanismi automatizzati che prevedono l‟inoculazione di bottiglie che
contengono brodi di colture specifici per gram+, per gram- o per batteri aerobi o anaerobi. Dopo che il brodo è virato,
viene fatto incubare con dei sensori: quando in alcune bottiglie avvengono, a seguito della crescita batterica, delle
reazioni chimiche che determinano il cambiamento di colore, il sensore se ne rende conto e lancia un allarme. Quando
le bottiglie sono positivizzate, vengono ripassate per l‟identificazione dei batteri e per l‟antibiogramma. Questo
sistema poco costoso e abbastanza sensibile consente l‟isolamento e lo studio dell‟antibiogramma (cioè della
sensibilità ai farmaci). I tempi sono di 24 h per la crescita in brodo e 24 h per identificazione e antibiogramma. Quindi,
se il campione viene inoculato di venerdì, il procedimento viene a durare fino a 4 giorni (di sabato e di domenica il
laboratorio rimanda tutti gli esami al lunedì seguente); per questo la terapia dev‟essere iniziata prima del risultato di
laboratorio. Si somministrano antibiotici ad ampio spettro o in combinazione, per questo di solito si azzecca
l‟antibiotico giusto; tuttavia il 14,5% dei trattamenti antibiotici su infezioni acquisite in comunità sono sbagliati (per
dosaggio o qualità).
Si è condotto uno studio retrospettivo sull‟uso di terapia inadeguata all‟inizio di casi di shock settico:
Group n % AD O Sur(%) ADSur(%) IA Sur (%)
Overall 5715 80.1 43.7 52 11.3
Culture + 4056 76.6 43.7 53.6 10.3
Culture - 1659 88.6 43.8 48.8 5.3
Community 3142 81.2 51.3 60.2 14.6
Nosocomial 2573 71.6 34.8 45.1 8.8
Gram + 1355 77.8 44.4 52.8 15.3
Gram - 2002 83.7 50.1 57.9 14.7
Yeast 443 44.5 16 31 4
P<0.0001 for AD vs IA for each group.
Gli autori di questo studio avevano considerato fino a 5700 casi. Venivano valutati in base a coltura positiva (se la
coltura aveva rivelato qualche risposta, cioè presenza batterica), negativa (quando c‟è shock, ma non si trovano batteri
per qualche motivo), comunitaria o nosocomiale. Un'infezione comunitaria è una patologia presa fuori dall'ospedale
con batteri verosimilmente sensibili; un'infezione nosocomiale è causata da batteri principalmente resistenti.
Una terapia adeguata non è sufficiente per la sopravvivenza perchè ci sono altri fattori complicanti in gioco. La % di
sopravvivenza sul tot nelle infezioni comunitarie è più alta che non per le nosocomiali: la sopravvivenza va da 51% a
34%. È più facile tra l'altro non prevedere la batteriemia da germi resistenti. C‟è un enorme differenza anche tra
terapia adeguata e non: la sopravvivenza con terapia adeguata è 45% nelle infezioni nosocomiali (valore comunque
basso); i funghi (yeast) sfuggono sempre alle terapie, ma quando si passa da terapia non adeguata ad adeguata si va da
4 a 31 % sopravvivenza.
Normalmente si semina sangue in bottiglia. Se la crescita (1-3 gg) è negativa, si getta la bottiglia. Se è positiva si
procede con l‟identificazione e con l‟antibiogramma (che bisogna tenere sotto controllo per più giorni). Se la coltura
va male per crescita scarsa/lenta, perché la bottiglia è rotta o perché l‟identificazione è difficile, i giorni necessari
possono aumentare a 5-6. Sul positivo quando si hanno dubbi si possono usare tecniche di diagnostica molecolare
(accade di rado), che però non consente l‟antibiogramma. Alternativa recente: si passa direttamente dall'analisi in un
tubo di emocromo (cioè dal sangue in EDTA, potente antiossidante e agente chelante) alle tecniche molecolari (o
PCR specifica per il patogeno o PCR generalista e poi sequenziamento). Per trovare DNA impiego 10h, per il
sequenziamento 10-14h, per un totale di 24-30h. Nella realtà, dati gli orari lavorativi dei turnisti, si impiegano 2,5
giorni. Con PCR trovo la popolazione di germi prevalente, con l‟emocoltura trovo due o tre ceppi presenti, sia i
patogeni che i contaminanti. Da poco si è introdotta la PCR multiplex che consente l‟identificazione di 25 diversi
agenti (Gram+, gram-, funghi): il rischio è però la contaminazione del campione e un fatto negativo è che non posso
rivelare l'antibiotico-sensibilità; l'aspetto positivo è la velocità in quanto si ha una risposta in "sole" 8h. La PCR
multiplex è comunque ancora una tecnica in via sperimentale.
Quindi, la sensibilità del molecolare è molto maggiore del metodo
colturale perché viene selezionato il DNA specifico che si vuole
ricercare e lo si amplifica. Inoltre i tempi migliorano, anche se di
poco. Poiché la sensibilità è migliore, vengono rivelati anche i
batteri morti; inoltre c‟è il rischio delle contaminazioni che portano
a risultati falsi.
Ad ogni modo, anche nel colturale sono richieste buone capacità
tecniche, non solo nel molecolare.
Sono soprattutto gli internisti ad aver necessità della PCR
generalista. Con emocoltura positiva e PCR positiva ho risultanti
concordanti, quindi non ci sono problemi. Con emo+ e PCR- il molecolare ha "toppato", ho perso dei contaminanti
anche se non ho capito il perché. Con emo- e PCR+ ho rivelato un po‟ di batteri in più ( nell‟esempio 17 staphylo, 10
strepto e 14 non sequenziabili, cioè bande), che potrebbero essere dovuti a contaminazione o a qualche altro problema
che, finchè non viene risolto, fa sì cheil sistema generalista di PCR non serva a nulla, aggiunge poco.
Linee guida 2008 per la diagnostica dello shock settico:
Bisogna ricordarsi di ottenere appropriate colture prima di cominciare la terapia, perché queste consentono di
indirizzare meglio la terapia, una volta ottenuta una risposta (infatti bisogna cominciare comunque una terapia) perché
confermano l‟infezione (e ciò significa che si è fatta corretta diagnosi) e permettono la de-escalation della terapia
antibiotica dopo i risultati dell‟antibiogramma.
Esistono bottiglie pediatriche e per adulti standardizzate; il sistema è personalizzato. Per quanto riguarda il
molecolare, ci sono dei protocolli da seguire. Si parte da protocolli in-house personalizzati (cioè, il personale stesso
sceglie le sequenze dei primer per i batteri che si vogliono ricercare e fa gli oligo) e si cerca poi di invalidarli. Il passo
successivo sono gli oligo già sequenziati della ditta. Infine, posso comprare i kit dove è tutto già studiato, dosato,
pestato e validato. Quindi ci sono tre diversi livelli per i test.
Esempio: sono state eseguite 1606 emocolture da unità di cura intensiva (ad esempio emo di controllo in seguito ad
una terapia non efficace). 402 sono risultate positive, 1204 sono risultate negative. Tra i positivi ci può essere anche
una stessa persona che è stata contata più volte, perché non si riusciva a risolvere il problema e, quindi, si
continuavano a fare analisi; tra i negativi ci sono anche i positivi che si sono negativizzati in seguito. Cioè, i dati sono
grezzi e non si spiegano. Andando a studiare il comportamento su un singolo agente, però, i pazienti valutati totali
diventano 418 di cui 149 hanno almeno un esame positivo e 269 sono risultati sempre negativi (perché ad es. sono
state fatte emo di controllo per controllare una febbre non identificata o per cercare batteriemia). Per ridurre questo
numero si cercano metodi che migliorino la sensibilità.
La tabella riassume i vantaggi e gli svantaggi
delle due tecniche. Gli operatori devono
essere bravi per avere giusti risultati.
Infezioni del sistema nervoso centrale:
- sono associate ad alta mortalità;
- possono essere acute, subacute, croniche;
- i reperti chimici vengono dal sito
anatomico coinvolto, dal germe infettante e
dal responso dell‟ospite.
SCOPI DI UNA DIAGNOSI VELOCE:
- per capire se è meningite (ci sono segni
neurologici tipici);
- per cominciare rapidamente una terapia;
per
identificare
rapidamente
e
specificatamente l‟agente eziologico e per
aggiustare la terapia;
- per ottimizzare il management delle
complicazioni.
SEGNI NEUROLOGICI:
- febbre;
- mal di testa;
- stato alterato mentale, letargia o coma;
- meningismo;
- aumentata pressione intracranica che si manifesta con papilledema (motivo per cui serve un oculista) o aumentata
pressione della fontanella nei bambini;
- nausea, vomito.
ESAMI NEL SOSPETTO:
- dello stato mentale (se è lucido, sonnolento o confuso);
- dei nervi cranici e del fondo oculare;
- segni meningeali;
- esami generali: rash (perché c‟è stata prima una sepsi da meningococco, ad es., che determina esantema),
linfoadenopatia,...;
- esame radiologico senza contrasto (si fa con contrasto quando si sospettano masse, ascessi cerebrali, complicanze
post-chirurgiche).
PUNTURA LOMBARE:
L‟esame principe per ricercare la meningite è la puntura lombare. E‟ indicata con aumenti della pressione intracranica
(che fa sospettare la presenza di meningite). Si mette il paziente in posizione laterale e si entra tra L3-L4 o L4-L5.
Dev‟essere fatta con mano sicura e bisogna andare molto centrali, perché c‟è il rischio di complicanze. Si prendono 3
tubi: il primo serve per valutare glucosio e proteine, il secondo per la conta cellulare e differenziale (bianchi,
granulociti, monociti e linfociti) ed il terzo per Gram, coltura, Ag criptococcico, VDRL…
CARATTERISTICHE CSF:
La pressione del liquor in caso di infezioni varie sarà alta o normale/alta se si tratta di quelle fungine. Il Glu sarà basso
nelle infezioni batteriche (perché i batteri se ne nutrono), normale nelle virali, basso nelle fungine o tubercolari.
Bisogna comunque fare un'emocoltura, oltre alla LP (puntura lombare), perché anche nel sangue la glicemia sarà più
bassa. Le proteine sono di molto aumentate nelle infezioni batteriche, normali nelle virali ed alte nelle fungine e
tubercolari. Sono le proteine a conferire il colorito giallo torbido al liquor in caso di infezioni. Di globuli rossi nel CSF
se ne ritrovano pochi con le infezioni batteriche e nessuno negli altri tipi; i globuli bianchi inoltre sono più di 200 nelle
infezioni batteriche. Ma nella batteria veloce sono 200-300, normalmente però sono 1500-2000-2500. Negli altri casi
sono meno di 200. Nelle batteriche, infine, 80-90% dei G.B. sono PMN, nelle virali, fungine e tubercolari sono
linfociti.
È bene prelevare 3-4cc.
MENINGITI BATTERICHE da:
 Streptococco;
 Neisseriae meningitidis;
 Aemophilus.
MENINGITI CRONICHE negli immuno compromessi (per trapianti, per infez da HIV..):
 Hiv;
 meningite da Cryptococco;
 meningite tubercolare.
La meningite va curata con estrema velocità. Entro un‟ora dev‟essere stata fatta la PL e le varie analisi e si deve aver
cominciato la terapia empirica. Poi si aspettano 1-2h per i risultati dell‟analisi microbiologica. La diagnosi va fatta
subito per sapere se è Neisseriae o non è Neisseriae. Questo perché Neisseriae si trasmette molto velocemente, ma è
profilassabile. Neiss e Strepto non si trasmettono allo stesso modo e non sono ugualmente profilassabili. Dopo la PL il
laboratorio darà conferma di meningite batterica o di meningite sicuramente virale. La terapia empirica è solitamente
batterica. Se si sospetta la virale, si può o meno mettere l‟antibatterico. Che sia Strepto o Neiss le tecniche di coltura
sono quelle, non è la semina che cambia, ma è lo scopo: sapere qual è l‟agente eziologico è importante per chi deve
fare profilassi. Colorazione vetrino, test al lattice per agglutinazione di Strepto o Neiss sono, quindi, urgenti. Una
volta ottenuto il risultato della coltura, si può aggiustare la terapia empirica (accade di rado).
Un elevato numero di Gram, di proteine o di cellule (80-90% sopra i 1180/mm3) sono un indice prognostico negativo.
La LP è obbligatoria se è sospettata meningite batterica. È controindicata solo in pochi casi, come ad es. se ci sono
masse. Quindi, controindicazione assoluta si ha ce ci sono infezioni cutanee nel sito in cui bisogna fare l‟LP
(papilledema o segni neurofocali); controindicazione relativa si ha con aumenti di pressione intracranica senza
papilledema: in questo caso si chiama l‟oculista per vedere se c‟è edema e si fa fare una TAC (per fare diagnosi di
eventuale massa, ipertensione endocranica, tumore centrale ecc..). Altra controindicazione è una diastesi emorragica
con piastrine basse.
C‟è anche un eccesso di uso di LP; raramente è indicata se c‟è sospetto di meningite acuta, in altri casi è veramente
importante. La risonanza non è di solito utile per la diagnosi di meningite acuta a meno chè non ci siano complicanze
(vedi decorso terapia per massa cerebrale).
LP non si ripete per controllare se terapia procede bene: è però fondamentale se non c‟è una risposta, per le meningiti
di cui non si era fatta diagnosi o per controllare la risposta in meningiti croniche.
21-04-09
Si inizia suddividendo le infezioni batteriche del SNC in base all‟età di insorgenza: da 0 a 4 settimane si parla di
infezioni perinatali e i batteri interessati sono soprattutto lo S.Agalactiae, E.Coli (si trasmette attraverso vie urinarie
durante il parto), Enterococco (stessa cosa, lo eliminiamo normalmente con le feci) e Salmonella: queste son patologie
del SNC per cause materne, ad eccezione della Lysteria che è sempre per causa materna, ma è infetta in utero ed è
terribile (eziologia delle meningiti virali e batteriche è frequente domanda d‟esame e chi sa dare anche le fasi di età è
fantastico); da 4 a 12 settimane troviamo più o meno gli stessi batteri ma anche Streptococco, Neisseria ed
Haemophilus (questi tuttavia son piuttosto rari); dai 3 mesi ai 18 anni le più classiche infezioni son date da
Streptococco (soprattutto Pneumococco), Neisseria (la più classica cioè Meningitidis), Haemophilus (per il quale c‟è
un vaccino); dai 18 a 50 anni si trova l‟Haemophilus, ma molto raramente (quasi scomparso), lo Streptococco e
Neisseria; nell‟anziano ritrovo sempre Streptococco; classica è l‟otite da Pneumococco che degenera in infezione
delle meningi, la Neisseria e la Lysteria.
Quando ho un caso di meningite faccio subito l‟esame di GRAM e dell‟ANTIGENE per distinguere nell‟adulto e
nell‟anziano la meningite da Streptococco da quella da Lysteria ed evitare di profilassare chi non ne ha bisogno; se è
Neisseria profilasso con Cicloxin, se è streptococco NO, l‟ambulanza non si profilassa perchè risulta difficile, gli
ambulanzieri invece si perchè la Neisseria l‟abbiamo tutti in gola. La migliore profilassi è il Cicloxin in pillole da 500
o 750 mg che comunque non si può dare ai bambini sotto i 12 anni, trattati quindi alla vecchia maniera con
Rifampicina e Rinfadin per 3 giorni (effetto collaterale = urine rosse). La Lysteria è molto importante perché
nell‟anziano dà più facilmente meningite (la si trova per esempio nel formaggio di malga non pastorizzato); se va
male, con la meningite si finisce in rianimazione. Durante la gravidanza dà frequentemente parto pretermine e
infezione del feto, quindi il neonato è settico e il più delle volte muore entro le 24h; esiste una terapia in utero che non
è sempre efficace tuttavia si prova in caso di lysteriosi nella madre. La Lysteria è di quasi banale coltivazione quindi
posso facilmente fare una coltura da un soggetto con una lysteriosi importante. C‟è da ricordare che nella giovane
trentenne gravida da meningite tale infezione si palesa con una semplice febbre e influenza, ma nel neonato dà
meningite o subito dopo la nascita o dopo qualche settimana (quest‟ultimo caso è curabile).
Nell‟immunocompromesso altri batteri possono dare meningite: funghi nelle fratture della base del cranio; infezioni
da Streptococcus Aureus (le più frequenti) nelle post operazioni neurochirurgiche, causate per esempio da cattive
sterilizzazioni; infezioni di S.Epidermitis e Aureus a causa di shunt post chirurgici per drenare il liquor e alleggerire la
pressione intracranica.
Ora passiamo a dei cenni storici sul trattamento delle infezioni batteriche; per lungo tempo c‟è stata una diatriba che
vedeva contrapposti il trattamento con Ampicillina più Cloramfenicolo e quello con Rogefin (farmaco di recente
invenzione); l‟ampicillina aveva inoltre sviluppato varie resistenze nei batteri e si era quindi passati a ceftriaxone che
ora è lo standard. L‟Ampicillina è comunque il farmaco d‟elezione per la Lysteria e quindi dovrò somministrare
Ampi+Rogefin (antibiotico contenente cefalosporina e idocaina); se devo combattere un‟infezione neurochirurgica
somministro invece Vancomicina per combattere lo Stafilococco. I medici di una volta affiancavano alla normale
terapia antibiotica, dosi di corticosteroidi e quindi la vecchia pratica era ampicillina + cloramfenicolo + cortisone dato
in dosi non ben definite per 3giorni; tuttavia recentemente c‟è stato uno studio basato proprio sull‟utilità di integrare la
terapia con cortisone ed esso ha dato come risultati che se l‟eziologia della meningite è certa (quindi sicuramente son
presenti batteri) l‟uso del cortisone è utile, se l‟eziologia è incerta funziona meglio l‟effetto placebo. Esistono fattori
predittivi di outcome sfavorevole in caso di meningite quali: alterato stato mentale e convulsioni, altro fattore di
rischio è la non somministrazione dell‟antibiotico adeguato e da ciò si capisce che appena si sa quale meningite devo
curare devo correre.
Durata terapia: una volta stabilita con certezza l‟eziologia dell‟infezione e una volta che il paziente sta discretamente
bene (non devo assolutamente fare una lombare di controllo perchè ci sarebbero più rischi che benefici) devo
continuare la terapia a seconda del fattore infettante: con Haemophilus Influenzae continuo la terapia per 7 giorni, con
Neisseria dai 7 ai 14 giorni, con S. Pneumoniae dai 10 ai 14 giorni, con Lysteria dai 14 ai 21 giorni; se invece la causa
son batteri gram- devo continuare la terapia per più di 3 settimane.
A questo punto il professore racconta la storia dell‟ultima meningite diffusasi nel trevigiano, riporto i punti salienti
senza commenti e frecciatine varie. Il 12-13 dicembre a Treviso ci fu il primo caso di meningite (evento piuttosto raro,
in Veneto si registrano circa 30-40 casi all‟anno: 20-25 da Neisseria, 10-15 da Streptococchi) in un ragazzo,
immigrato, che finì in rianimazione a Conegliano; di conseguenza vennero profilassate tutte le persone che sarebbero
potute essere state a contatto con lui nelle notti di sabato e domenica (birreria e discoteca). Pochi giorni dopo si palesò
il secondo caso e vennero profilassate migliaia di persone; nei seguenti altri 2 giorni ci furono altri 2 casi e nella
popolazione regnava la paura; a questo punto si decise di tipizzare i ceppi con MLST (che serve per stabilire se i ceppi
son dello stesso tipo, facendo una sequenza di 7 geni per i quali son note le sequenze di riferimento): a Padova e si
trovò che tutti corrispondevano al tipo 11 già conosciuto in Veneto pochi mesi prima. Si palesarono altri due casi, uno
morto in casa e l‟altro uno studente di farmacia venuto a Padova per sostenere un esame, entrambi di ceppo 11; si
profilassò tutta l‟università di farmacia e serpeggiava la paura che lo studente trevigiano avesse contaminato anche
Padova. In regione pensarono di vaccinare tutti i giovani tra 20 e 50 anni, evento raro e di difficile organizzazione. Ci
furono molteplici messaggi sbagliati e contradditori dagli alti capi, uno di questi era la tempistica, perchè se decidi di
vaccinare devi correre e non far passare Natale e Santo Stefano, e un altro era che secondo loro, scaduto il termine di
15 giorni (limite max per incubazione batterio) l‟allarme sarebbe scomparso, ma questo è falsissimo perché vi sono
molti portatori sani e infatti vennero puntualmente smentiti: il limite dei 15 giorni scadeva il 3gennaio e il 5 ci fu un
nuovo caso a Mestre, fuori sede peraltro. Questo fu l‟ultimo caso e mesi dopo si palesò un altro caso ma con un ceppo
totalmente diverso, un C con neanche un gene in comune. Ci fu anche un paradosso: nei giorni in cui si decise di
vaccinare migliaia di persone si decise anche di togliere i vaccini obbligatori e di renderli facoltativi, azione
sbagliatissima perchè le persone girano e non è detto che se al nord c‟è un livello di protezione maggiore del 97% sia
cosi anche al sud o in altri paesi.
Esiste un vaccino per lo Pneumococco, ma esso protegge solo verso alcuni sierotipi e di conseguenza gli altri son
nettamente aumentati e tra l‟altro molti Pneumococchi son molto resistenti alla Penicillina.
Virus causanti encefalite e/o meningite:
C‟è un grosso capitolo di virus erpetici come HSV1 e 2, VZV, e
soprattutto EBV e CMV che tuttavia possono esser presenti nel
liquor in corso di linfoma, il primo, o in caso di tumore, il secondo,
quindi possono anche non esser associati a meningite; oltre a
meningite posson dare anche influenza, morbillo e parotite:
quest‟ultima, partendo dall‟orecchio, si distribuisce alle meningi
soprattutto nei bambini perciò è importante determinare se la
meningite è causata da parotite o da altri batteri/virus. SE IL
LIQUOR è LIMPIDO LA MENINGITE è VIRALE.
Anche Adenovirus può dare meningite (linfocitaria) e HIV che si
può ritrovare sia nel liquor che nel plasma; il liquor è difficilmente
accessibile, grazie agli astrociti, e quindi molti ceppi virali hanno
generalmente un evoluzione diversa nel SNC rispetto che nel SNP.
Stessa cosa accade per i farmaci che hanno pressione diversa sui vari
ceppi virali a seconda della loro localizzazione, ad esempio
plasmatica, linfonodale, gastrointestinale o liquorale: dovrò quindi
somministrare un cocktail di farmaci in cui alcuni possano passare facilmente la barriera ematoencefalica.
Anche il Rhabdovirus causa meningite: mentre una volta era la prima causa che veniva in mente quando si parlava di
infezione al SNC, oggi in Italia è da 25 anni che non si accerta un caso conclamato di rabbia nell‟uomo; questa
patologia rimane tuttavia presente soprattutto nell‟est Europa ed è proprio per questo che non essendo certi delle
provenienze dei cani, domestici o randagi che siano, ad ogni morso profondo bisogna sempre andare ad accertarsi che
non si tratti di rabbia: se il cane è reperibile, entro le 24-48h si va a prenderlo per testare se è rabbioso, se invece il
cane non è reperibile, il morsicato deve cercare di rifarsi in mente il film del morso ed è a sua discrezione la
vaccinazione.
Anche gli Enterovirus sono storicamente causa di encefaliti: Echo e Coxakie raramente, il Polio invece ha fatto stragi
soprattutto negli USA in cui negli anni ‟55-‟56 ci furono 20mila casi annui, ma anche in Italia nei secondi anni ‟50 ci
furono migliaia di casi; la rivoluzione fu il vaccino antipolio a virus inattivato introdotto a fine anni ‟50 da Salk e poi
perfezionato da Sabin che lo fece in gocce e quindi più facilmente gestibile anche in paesi disagiati come l‟Africa. Ora
quindi la Polio non rientra nella diagnostica differenziale di primo livello nelle meningo-encefaliti poiché noi abbiamo
una copertura superiore al 97% da ormai 15 anni.
Anche in Italia ora stanno "uscendo" gli arbovirus cioè virus trasmessi da artropodi (Toscana, Emilia-Romagna).
TERAPIA: Nel caso di meningiti virali si somministra acyclovir perché è l‟unico che funziona ma purtroppo non
copre tutti i virus (per esempio gli Entero sono esclusi). Oggigiorno i più frequenti sono il morbo di Lyme (borrelia
burgdorferi) nella Carinzia e nel bellunese, la Lectospira (attraverso i topi) che provoca danni epato-renali e disturbi
neurologici, la tubercolosi che da meningite tubercolotica molto dura da curare, streptococco nell‟ HIV, malaria
celebrale (Plasmodi) che è la più difficile da gestire.
DIAGNOSTICA: i batteri si vedono tranquillamente sul vetrino, poi posso fare un riconoscimento dell‟antigene ed in
30min ho già tutte le informazioni utili; a questo punto faccio la coltura ed in 2 giorni crescono i vari Neisseria,
Streptococco, Lysteria,... per sicurezza si fa sempre anche emocoltura; con i virus è più difficile la diagnosi perché la
sierologia aiuta poco e soprattutto aiuta in ritardo: per sapere di chè si tratta devo avere molta calma e nel frattempo
tratto il paziente con antibatterici e acyclovir. In aiuto ci viene la biologia molecolare con la PCR che si presta anche
al trasferimento del campione. I vecchi virologi usano ancora la coltura che sul fresco però è molto difficile, poco
sensibile e richiede linee cellulari adatte alla crescita dei vari virus, visto che ognuno cresce su un terreno diverso (è
difficilissimo aver più colture in linea fisse); bisogna poi aspettare che il virus cresca, processo che di solito avviene
molto lentamente: in definitiva con il metodo colturale dò poco aiuto al clinico. La PCR invece aiuta molto il clinico
(unico limite è che devo avere il primer specifico) perché è veloce anche se necessita del primer giusto: poichè
comunque nessun laboratorio ha i primer per tutti i virus neurotropi (a Padova 7-8 su 40 possibili), ci si basa su una
tabella di probabilità. Il molecolare è più sensibile e posso quindi lavorare con cariche virali inferiori o con virus
maltrattati (infatti non sempre il liquor viene trattato nel modo migliore per la sua conservazione).
Ceppi virali a caratterizzazione locale presenti per esempio maggiormente in Canada o in Giappone, in cui i
microbiologi andranno a tipizzare per quei ceppi, in Italia non saranno mai trovati in laboratorio perché non si hanno i
primer specifici per l'amplificazione del loro materiale genetico; ognuno trova ciò che cerca o ciò che si mette nelle
condizioni di trovare. Il virus Toscana per esempio fu scoperto da Paola Verani ed è un arbovirus descritto per la
prima volta in Toscana, ma poi ritrovato anche in altre regioni europee: esso dà una patologia encefalica a prognosi
tranquilla i cui sintomi sono: mal di testa, rigidità locale, segni neurologici importanti, globuli bianchi relativamente
bassi e discrete quantità di proteine; oltre a questo un‟altra caratteristica è che è molto diffuso in Toscana e quindi se
un soggetto, dopo aver soggiornato nel senese o nell‟entroterra toscano, torna con mal di testa e rigidità locale, il
laboratorio va subito a cercare il virus Toscana.
Un altro esempio di virus a caratterizzazione locale è il TBE (Tick-Borne
Encephalitis) presente nel Trentino Alto Adige, Carinzia, sud della Francia,... in
Austria e Slovenia è talmente presente che è consigliato il vaccino. La patologia
causata da infezione di TBE è un esempio di encefalite da virus (erpetica), l‟unica
trattabile perché per le altre c‟è ben poco fare; essa non è frequentissima e può esser
causata da una riattivazione, da un trasporto retrogrado per la via del nervo trigemino
o per le vie olfattorie. L‟encefalite erpetica è facilmente riconoscibile da TAC o ancor
meglio da una risonanza, e si colloca spesso nella regione temporale o parietale. I casi
meno ecclatanti necessitano del microbiologo per fare terapia.
L‟eziologia nel caso di encefalite virale non è facile da ricostruire. Ora analizziamo la
diatriba Coltura vs PCR: in una ricerca furono cercati HSV ed Enterovirus perché in
teoria sono i primi agenti eziologici; con coltura e PCR furono trovati 246 casi
positivi per Enterovirus, il 50% dei campioni erano per entrambi i metodi positivi, l'1% fu rilevato solo con la coltura,
il 48% fu rilevato solo con la PCR: con la coltura quindi prendo la metà dei casi mentre con la PCR ne prendo quasi il
98%, tuttavia devo avere i primer adatti ai virus che ricerco (per gli Entero ce ne sono veramente molti ed è difficile
avere i primer per tutti). Per gli herpes furono trovati 9 casi positivi con la PCR, ma nessuno con la coltura, anche se di
facile realizzazione secondo il Prof. Altro fattore importante e a favore della PCR è la tempistica che con la coltura si
aggira sui 15 giorni per la negatività, con la PCR invece so la negatività quando termina il processo di eventuale
amplificazione, quindi dopo 8-12h. Quindi PCR vince sia per sensibilità che per velocità sulla tecnica colturale.
Gli Enterovirus colpiscono soprattutto i ragazzi più giovani, a differenza di altri virus tra cui, soprattutto gli
Herpesvirus, colpiscono i più grandi.
I globuli bianchi e le proteine sono presenti a livelli più alti nel caso di infezione da virus erpetici.
28/04/2009
Il professore, dati i casi di influenza suina recentemente occorsi, suddivide la lezione in due parti: la prima verterà
sulle infezioni a carico del respiratorio; la seconda, sulla pandemia della SARS che offre un modello a noi noto e
concreto di come ci si debba comportare in situazioni di pericolo biologico -come quello contingente- per evitare lo
spreading epidemico.
Su richiesta di uno studente, viene chiarito, riprendendo la precedente lezione, che nei soggetti sotto ai 16 anni, in caso
di parotite, si registra una predisposizione dello sfociare della stessa in encefalite.
Tuttavia, l‟esito di encefalite nei bambini è più spesso associato ad infezione da Enterovirus, mentre nell‟adulto a
quella da Herpes, benché esistano anche numerosi episodi di encefalite non scatenati da questo. Vi sono, infatti, la
tendenza a sovrastimare l‟affezione da Herpes e la speranza che di esso si tratti per il valore prognostico altamente
favorevole, essendone nota la cura.
Ad ogni modo, l‟encefalite erpetica è ben più severa e aggressiva di quella da Enterovirus.
INFEZIONI RESPIRATORIE
Le polmoniti si dividono in comunitarie ed ospedaliere; le ultime sono, ovviamente, contratte durante il ricovero e si
contraddistinguono, soprattutto, per l‟eziologia, come rappresentato dal soggetto in rianimazione, intubato, che
presenta un motivo preciso per cui la sviluppa.
Vi sono, poi, le bronchiti croniche e riacutizzate e le sinusiti.
Tipi di polmoniti:
si classificano per eziologia e possono, quindi, essere infettive (batteriche, virali, fungine) o non infettive (es. da
aspirazione).
La polmonite da aspirazione (o ab ingestis) è, in ultima analisi, infettiva, poiché determinata da microrganismi
(tipicamente anaerobi) presenti nel bolo che raggiunge le vie respiratorie tramite vomito o colpo di tosse, in pz anziani
o in rianimazione.
Dal punto di vista, invece, della morfologia, riconosciamo la polmonite lobare (in cui generalmente esita l‟infezione
da Streptococco), la broncopolmonite e la polmonite interstiziale, d‟origine virale per lo più.
Nei bambini al di sotto dei 6 mesi ricorre spesso, come causa di polmonite interstiziale, il virus Respiratorio Sinciziale
che, nell‟adulto, dà, al contrario, solo raffreddore.
Anche Micoplasma, Chlamydia e Legionella provocano più comunemente questo tipo di polmonite o quella atipica.
Quasi sempre la polmonite è acuta e può cronicizzare.
Polmoniti comunitarie: Devono essere prontamente diagnosticate, per ovvi motivi terapeutici, dal medico di
comunità che, a differenza del clinico la cui diagnosi si basa su emocromo, rx del torace etc, non dispone di esami
specifici.
Nella pratica pediatrica e di medicina del territorio, le polmoniti comunitarie sono determinate classicamente da
Streptococco pneumoniae .
Non a caso, infatti, in commercio è disponibile un vaccino specifico per lo pneumococco con i sierotipi più diffusi, ma
inefficace per i più rari.
Si riscontrano poi le polmoniti da Stafilococco, ben più aggressive, spesso insorte come complicanze di infezioni
virali, ad esempio da morbillo, Aemophilus nel bimbo o Klebsiella, massivamente negli anziani.
Polmoniti ospedaliere: Gli agenti eziologici più diffusi sono Gram-, tipicamente Klebsiella e Pseudomonas.
Per quanto riguarda quelli virali, si ricordano virus influenzale A o B, parainfluenzale 1,2,3, Adenovirus, Coronavirus,
virus Respiratorio Sinciziale (nel bambino).
La polmonite classica subentra spesso all‟influenza che, di per sé, comprende febbre, cefalea, mialgia, ma non
polmonite.
Virus non correlati al respiratorio, ma che possono dare polmonite, sono Morbillo e CMV, riscontrabile nel liquido
broncoalveolare di pz immunodepressi, dopo BAL.
Da un grossolano calcolo probabilistico si rileva che in inverno circolano maggiormente il virus Respiratorio
Sinciziale, influenzale, Parainfluenzale, Pneumococco, Stafilococco e Aemophilus. Eccentrici rispetto al periodo
classico sono la Legionella e gli Entrovirus.
La Legionella, come lo Pseudomonas, cresce nel liquido di condensa dei condizionatori d‟aria e la si può, pertanto,
definire "malattia del progresso".
Venne per la prima volta scoperta in un albergo che ospitava un convegno di ex militari -di qui, il nome- che
manifestarono, con alcuni casi fatali, una polmonite atipica, in quanto resistente ai comuni antibiotici. Per legge, ora,
si impongono i controlli nei liquidi di condensa, negli scarichi di lavandini e docce degli ospedali, ma, in realtà questi
non si effettuano perché, in caso di riscontro positivo per Legionella (altamente probabile), bisognerebbe sottoporre le
tubature (attecchisce specialmente su quelle vecchie) a shock termico, con il risultato di renderle inutilizzabili; per poi
sostituirle, la struttura dovrebbe essere chiusa, con ovvi problemi per i cittadini. Fortunatamente, non sempre
Legionella dà malattia e quindi gli ospedali non sono poi così a rischio.
Tecniche diagnostiche:
- diagnosi fenotipica: Per patologie a carico del respiratorio si ricorre innanzitutto al tampone nasofaringeo e
all‟espettorato, impiegato per infezioni da batteri e realizzabile in pochi minuti.
L‟espettorato (a meno di pz neonati per i quali si procede col tampone nasofaringeo), è la pratica più diffusa, cui segue
la colorazione dello stesso con Gram. Si tratta di un test a sensibilità bassissima, ma specificità accettabile: aiuta
infatti, se ad essere coinvolto è un batterio, ad instradare verso una diagnosi, discriminando se il patogeno sia G+ o -.
Un‟applicazione importantissima di questo metodo riguarda la diagnosi la TBC: trovati i bacilli alcol acido- resistenti,
si può immediatamente decretarne l‟infezione e l‟alto grado di contagiosità cui consegue il ricovero in isolamento. Se
nell‟espettorato ve ne sono pochi, il test ha comunque un valore predittivo di alta contagiosità.
L‟altro impiego vantaggioso riguarda l‟utilizzo di questo stesso test per monitorare l‟efficacia della terapia antitubercolotica in progress: se, a distanza di giorni, l‟espettorato del medesimo pz mostra una carica batterica inferiore,
il trattamento è risolutivo.
Sempre con l‟ausilio dell‟espettorato, si può ricorrere alla coltura dei patogeni contenuti nello stesso con maggiore
sensibilità rispetto al metodo di colorazione Gram e buona specificità. Ha senso sottoporre il pz non ancora in terapia
alla coltura poichè, se il trattamento è stato già avviato, la diminuita carica batterica non avrebbe alcun valore ai fini
diagnostici. Grazie alla coltura, si può eseguire l‟antibiogramma per valutare le resistenze ai diversi antibiotici, nonché
verificare la presenza di eventuali ospiti per escluderli dai veri agenti eziologici, possibilità, queste, non offerte dal
solo esame microscopico. .
Anche l‟emocoltura è largamente impiegata nei pz non sottoposti a cura, ma è necessario tenere in considerazione che
la batteriemia non rimane costante; se all‟esame non si riscontrano microrganismi, non è lecito escluderne la presenza
nel soggetto. L‟emocoltura rileva solo il 25-30% di tutti i casi positivi per il determinato patogeno.
Se disponibile del liquido pleurico, lo si coltiva per escludere l‟empiema, ma è un esame estremamente invasivo e lo si
tende, pertanto, ad evitare.
-diagnosi molecolare: ha una probabilità di successo maggiore -sebbene vi sia il rischio di falsi positivi- ed un
esempio di applicazione è fornito dall‟immunofluorescenza su tampone nasofaringeo nei bambini, che consente di
diagnosticare il virus influenzale, l‟Adenovirus ed il Parainfluenzale, in mezz‟ora.
Perché il test dia un risultato, vi si impiegano anticorpi specifici per l‟antigene ricercato, senza i quali non si ottiene
alcunché.
Segue poi la virologia classica sullo stesso materiale, ovvero la coltura virale.
Soprattutto Padova e, in minor misura, Verona effettuano questa pratica diagnostica d‟elezione, ovvero le colture
cellulari, perché dispongono dei tessuti adatti.
La diagnosi molecolare si avvale anche di PCR che prevede l‟utilizzo di ben specifici primer.
La sierologia aiuta solo relativamente il clinico in casi di pz acuto: ad esempio, nell‟affezione da virus respiratoriosinciziale infantile, serve a poco.
Essa ha un senso nel pz con infezione prolungata, ad es. da M. pneumoniae che dà polmonite atipica, con tosse e
modesta febbre, ma non in casi acuti, dove non ci si aspetta di trovare anticorpi specifici per l‟infezione in corso. La si
può usare per avere un‟idea delle diverse “tare” anticorpali del soggetto.
Si parla di sieroconversione quando il titolo anticorpale aumenta di almeno 4 volte (ma si considera significativo
anche se subisce una caduta della stessa entità): è indicato per gli studi epidemiologici per stabilire, ad esempio, a
marzo se il determinato virus sia circolato nell‟inverno appena trascorso; per il singolo pz invece non è utile.
Esiste anche il test dell‟agglutinina a freddo per diagnosi comunemente di M. pneumoniae, mediante agglutinazione
delle emazie dopo raffreddamento del campione, che rivela una polmonite di primo grado: questo è tuttavia un test
molto aspecifico ed empirico.
La ricerca di antigeni si compie generalmente sull‟espettorato, ma per Legionella si può realizzare nelle urine.
La Chlamydia si coltiva esclusivamente con cellule di McCoin di cui soltanto un esiguo numero di laboratori dispone.
La ricerca di antigeni si fa anche su altri substrati, ben più preziosi come, ad esempio, il BAL, ossia il lavaggio
broncoalveolare, consistente nell‟aspirazione di 10-20cc di fisiologica precedentemente immessi con un sondino nel
pz che, tuttavia, dev‟essere intubato: è certamente molto efficiente come sistema, ma essendo di difficile realizzazione
lo si adotta solo per pz intubati urgenti.
La biopsia si attua sia per via transbronchiale sia dall‟esterno (se la lesione è lontana) quando la patologia è
prolungata, resistente alle terapie o di significato incerto, tipicamente per le infezioni fungine, non essendo sufficiente
la sola radiografia del polmone.
L‟esito è certo, ma la si usa solo nelle particolari condizioni citate, data l‟invasività della procedura per ottenerla.
EPIDEMIE E PANDEMIE:
Negli ultimi anni, gli allarmi biologici che ci hanno interessato sono stati la SARS, l‟aviaria e l‟influenza suina il cui
outbreak sta avvenendo in questi giorni.
Anche per l‟influenza suina, attraverso i mass media, circolano le più disparate notizie, contrastanti e inesatte.
Si è, infatti, affermato, all‟inizio, che il virus responsabile si era formato dalla ricombinazione di un virus suino,
aviario e umano nel maiale, poi trasferito all‟uomo, il chè dava ragione della gravità, non possedendo noi anticorpi per
segmenti virali di altre specie animali. A distanza di ore, si è, poi, accertato, grazie ad esami di laboratorio che ne
hanno fornito i primi dati di sequenziamento in USA e Spagna, che si trattava di un virus totalmente suino.
Sembra consistere in un virione molto simile all‟umano, motivo per cui è riuscito a “saltare” all‟uomo; l‟esemplare
spagnolo pare essere lo stesso del californiano, parimenti aggressivo in quanto, generalmente, non si muore a decine in
una manciata di giorni per una polmonite.
Ciò ci consente di asserire che il patogeno abbia “preso l‟aereo”, propagandosi, attraverso questo, dalla California alla
Spagna. In Inghilterra si attesta un caso.
Prima di ricorrere ai vari esami disponibili, è necessario isolare il virus. Esiste un test che potrebbe riconoscerlo, in
quanto rileva l‟influenza A o B in negativo, ma occorre prima isolarlo. (non è stato detto null’altro di preciso in
merito a questo test. n.d.S)
Bisognerà attendere, dopo tampone nasofaringeo, la coltura di tale patogeno, per poterlo sottoporre al suddetto test che
-si ritiene- sia predittivo per quest‟influenza, e farne PCR, per la quale si deve disporre dei primer di regioni
conservate dello stesso.
La tendenza diffusa a denunciare comuni casi di polmonite, spacciandoli per sospette influenze suine, come è
accaduto in questi giorni per pz ricoverati nel Veneto, nasce dal deprecabile desiderio dei clinici di aggiudicarsene il
primo caso per non essere secondi ai colleghi spagnoli ed oltreoceano. In queste situazioni di allarme, è bene, quindi,
filtrare le notizie in proposito.
L’esempio della SARS: Fu la prima epidemia globale, concetto diverso da quello di pandemia che trascende dal
numero di infetti e morti, considerandone l‟espansione geografica. L‟aviaria non divenne, invece, pandemia.
La peste impiegò 4 anni per salire dalla Sicilia alla Scandinavia, mentre oggi l‟aumentare della velocità dei trasporti ha
aumentato anche la velocità di diffusione delle malattie infettive, come attesta il modello della SARS che dal Sud-Est
Asiatico si è spostata in Canada.
Spesso i focolai partono dall‟Oriente, essendovi alte densità di popolazione, condizioni di vita disagiate e ampia
disponibilità di reservoir animali. I primi focolai di influenze stagionali, non a caso originano qui.
In Africa centrale si muore di colera per motivi igienico-sanitari, mentre in USA il West Nile virus ha causato più di
1500 morti. Nel mondo sono diffuse anche la febbre gialla, l‟ebola, il dengue e la malaria.
La SARS, rispetto a queste, rappresentava, quindi, una novità: fece 8400 casi con letalità del 10%, non essendovi
terapia specifica. Buona parte di morti ed infetti sono stati gli operatori sanitari dai quali lo spreading è avvenuto in
tutte le direzioni, contagiandone parenti, amici, pazienti etc., con anche spreading di comunità.
A contrarla, sul totale, l‟11% furono medici, gli infermieri per il 33%, i visitatori per il 33%.
Iniziò con una polmonite atipica in Cina che non guariva né veniva diagnosticata, che provocò 300 casi e 5 morti
poiché non era stata riconosciuta come problematica.
Accadde questo finchè un caso non comparve poi ad Hong Kong, divenendo il caso indice, seguito da una progressiva
e veloce espansione a Singapore, in Vietnam e a Taiwan.
Ciò suscitò, finalmente, l‟interesse mondiale con uno stato d‟allerta ritardato di un mese che scoraggiava
dall‟intraprendere viaggi e imponeva il monitoraggio dei soggetti che li avessero intrapresi di recente, per
comprendere come ne fosse avvenuto lo spostamento.
Si trattava di una polmonite atipica, ovvero interstiziale, con insufficienza respiratoria che richiedeva immediata
ospedalizzazione ed intubazione. Crebbe, così, il numero dei posti letto occupati, in maniera esponenziale, tanto che
ad Hong Kong si allestì un cantiere per costruire immediatamente ulteriori strutture di ricovero. La stranezza
consisteva nell‟elevata incidenza del morbo tra gli operatori sanitari.
La SARS approdò poi in Europa e Canada; a febbraio-marzo, era ancora confusa con l‟influenza perché era difficile
da diagnosticare, essendo a sintomatologia vaga, somigliante, appunto, all‟influenza, al punto che si corse ai ricoveri
indiscriminati perchè non si aveva idea del decorso clinico.
Si ignorava come, quando e per quanto il pz fosse infettivo, quanto fossero frequenti le infezioni subcliniche (ovvero
quanti infettati vi fossero stati ad opera del portatore, prima che questi ne avvertisse i sintomi) o se vi fossero reservoir
animali. La diagnosi era, quindi, solo clinica.
Le misure di controllo prevedevano l‟isolamento sia di persone infette che di potenzialmente tali, le quali dovevano
essere tenute separate per non contrarre la malattia, se originariamente sane.
In questi casi non è infatti indicato l‟isolamento per coorte di persone, bensì in stanza singola, purtroppo difficile ed
estremamente impegnativo logisticamente, essendosi, all‟epoca, verificatisi ben 8000 casi.
L‟isolamento si effettua in ospedale, adottando, per pz con affezioni del respiratorio, un sistema di ventole che
tengono la pressione lievemente al di sotto dell‟atmosferica cosicché l‟aria entri, ma non possa uscire. Si adoperano,
poi, anche filtri HEPA, a maglia sottile, per mantenere un buon riciclo d‟aria ai fini di una maggiore sicurezza; si
devono cambiare volumi d‟aria da 6 a 12 m3 in un‟ora. Nell‟ospedale di Padova la disponibilità di stanze singole è
ridottissima; attualmente, se vi fosse un‟emergenza di isolamento di pz con polmonite, vi sarebbero solo 6 stanze
fruibili.
In rianimazione vi sono tre stanze a pressione negativa, divise ognuna in tre settori:
1. SETTORE VERDE, un vestibolo dove si indossa l‟occorrente per entrare in tutta sicurezza, con soprascarpe,
occhialini, mascherina, etc, nel settore successivo;
2. SETTORE GIALLO, un corridoio;
3. SETTORE ROSSO, dove è alloggiato il pz con il suo bagno e da cui si esce e si ritorna al settore verde solo
dopo aver gettato gli indumenti contaminati.
Per garantire l‟efficienza di questo sistema è opportuno controllare i filtri, i volumi d‟aria scambiati e limitare gli
accessi alla camera del pz.
Un tempo venivano adibiti ad ospedali gli hangar che, essendo vasti, consentivano di tenere i pz allettati ad una certa
distanza gli uni dagli altri.
Si presentarono, inoltre, ulteriori problemi riguardanti la modalità di scarico dei materiali infetti, non sapendo come li
si potesse smaltire, e la quarantena dei soggetti che comunque si erano o si stavano spostando, senza essere ancora né
infetti né sospetti. Occorreva metterli in osservazione per un tempo adeguato, attendendo che sviluppassero -o menola malattia, come accadeva per le navi dei crociati che venivano tenute lontane dal porto per lungo tempo prima di
avere il permesso di attraccare.
La quarantena si può fare individuale o per gruppi, come il "cordone sanitario", impedendo di uscire dalla zona infetta
a medici ed infermieri a contatto con il pz o a passeggeri di una nave o un aereo.
A Toronto, dove il primo caso di SARS si presentò in febbraio, si “quarantinizzò” obbligando la popolazione a
rimanere a casa, bloccandola a coorti lì dove si trovava (asili, scuole, posti di lavoro), negli alberghi o nei centri
commerciali (capaci di garantire ampi spazi, cibo e servizi igienici su larga scala).
In Vietnam, non si conobbe una vera e propria epidemia, limitando i casi di SARS a 38 grazie al pronto intervento di
un medico italiano in quel Paese che comprese subito la gravità del problema, imponendo una tempestiva quarantena
in cui si confinò egli stesso, morendo, ma arginando notevolmente il problema.
Alla fine si apprese che la SARS era dovuta ad un omologo del Coronavirus dello zibetto (simile al coniglio) e di
questo, due tipi infettano l‟uomo, uno i polli, attaccando comunque il respiratorio e, qualcuno, anche il gastroenterico.
L‟agente eziologico della SARS è simile a questi due tipi umani; nel pz con SARS conclamata, nell‟aspirato, dopo
10gg vi è ancora virus; dopo 20gg dalla diagnosi, il titolo si dimezza.
Nelle feci, tutti gli affetti lo presentano; nelle urine, il 50%.
Nel mondo occidentale soprattutto gli anziani ne furono il bersaglio.
In Canada si registrarono due ondate infettive: la prima nei focolai di marzo-aprile; la seconda partì per alcuni casi di
pz anziani mal gestiti, i quali avevano occupato la stanza con affetti e poi, trasferiti in altre strutture, morirono per
diagnosi sbagliata di polmonite post-operatoria.
Questo costò, in tutto, l‟isolamento di 7000 persone e 7 morti; in Italia si ebbe un primo caso sospetto a Milano, a
marzo, portando, così come ora per la suina si sta facendo, a costituire punti di sorveglianza dei passeggeri che
scendevano dall‟aereo e, da lì, venivano trasportati in ospedale, per decidere se fossero infettivi o meno. Non vi fu,
però, nessun deceduto.
11/05/2009
HUMAN PAPILLOMA VIRUS (HPV)
Le più frequenti malattie sessualmente trasmesse sono la Candida, la Clamidia, l‟epatite, le infezioni erpetiche (Herpes
Simplex ed altri), la sifilide, Trichomonas, HIV, Neisseria, vaginosi batteriche, ma soprattutto (molto gettonata
ultimamente) l‟HPV.
[Piccola introduzione virologica tratta da Wikipedia:
Il papilloma virus umano o HPV (acronimo di Human Papilloma Virus) appartiene al gruppo dei papovavirus; è un
virus nudo, quindi senza pericapside, dotato di genoma a DNA circolare a doppio filamento. Appena entrato dentro le
cellule fa esprimere alcuni geni detti "early" (indicati con la lettera E) che servono a modificare il metabolismo della
cellula infettata per metterlo al servizio dell'HPV, il quale poco prima della fuoriuscita dalla cellula fa sintetizzare altre
proteine dette "late" (indicate con la lettera L) che sono in particolare due proteine strutturali, che associandosi tra loro
formano la struttura icosaedrica del capside virale (formato da 72 capsomeri). Le infezioni da HPV sono estremamente
diffuse e possono causare malattie della pelle e delle mucose.
Le proteine precoci del virus hanno lo scopo di favorire la crescita e la divisione della cellula; HPV può infatti
replicare solo nelle cellule in replicazione, in quanto non codifica per una sua DNA polimerasi e ha bisogno della
polimerasi della cellula ospite (che viene sintetizzata nelle cellule in attiva divisione). Le cellule bersaglio del virus
sono per questo gli epiteli della cute e delle mucose, che si rigenerano in continuazione. A seconda del luogo
dell'infezione si avranno dunque verruche nella cute e papillomi nelle mucose. La patogenesi è quindi la crescita
cellulare indotta dal virus negli strati basale e spinoso degli epiteli.
Si conoscono oltre 100 tipi di HPV, dei quali la maggior parte causa malattie non gravi, quali ad esempio le verruche
cutanee. Alcuni tipi di HPV possono tuttavia causare tumori benigni quale il condiloma genitale e anche maligni quale
il cancro al collo dell'utero, al cavo orale, all'ano, all'esofago, alla laringe. I condilomi, generalmente provocati dal
virus HPV, sono delle escrescenze della pelle di tipo verrucoso che colpiscono di norma le zone genitali, sia nel
maschio (glande, meno frequentemente sotto il prepuzio, corpo del pene e scroto) che nella femmina (perineo, vulva,
vagina e cervice uterina).
Si calcola che oltre il 70% delle donne contragga un'infezione genitale da HPV nel corso della propria vita, ma la
grande maggioranza di queste infezioni é destinata a scomparire spontaneamente nel corso di pochi mesi grazie al
sistema immunitario. Solo in caso di persistenza nel tempo di infezioni di HPV ad alto rischio oncogenico è possibile,
in una minoranza dei casi e nel corso di parecchi anni, lo sviluppo di un tumore maligno del collo uterino.]
Sono stati identificati più di 100 genotipi di HPV; hanno una dislocazione geografica che muta periodicamente,
proprio come il loro numero. Circa 40 tipi sono infettanti (causa lavori in corso, sicuramente saranno di più). Questi
40 tipi possono essere:
 a basso rischio che attaccano la cute (HPV 6, 11, 42, 43, 44); sono associati a verruche ano-genitali, della
mano o del corpo, comunque sempre a displasia moderata;
 ad alto rischio che attaccano le mucose (HPV 16, 18, 33, 35, 39, 45, 51, 52, 56, 58, 59, 68); sono associati a
displasia di alto grado e cancro ano-genitale (tutti pensano sempre alla cervice uterina, invece c’è anche il
cancro dell’ano, meno frequente, ma comunque sempre un problema).
Le infezioni ano-genitali da HPV sono le più comuni infezioni sessualmente trasmesse proprio perché sono
asintomatiche nella maggior parte dei casi (uno si prende HPV ma non se ne rende conto, mentre la vaginosi batterica
mi da un problema che è evidente come la Candida, che mi da un problema sia nel maschio che nella femmina). Negli
Stati Uniti si stima che 6.2 milioni di persone all‟anno hanno una nuova infezione da HPV; la maggioranza delle
infezioni sono asintomatiche quindi non si notano, ma soprattutto non si conosce la loro durata nel tempo.
HPV è stato associato definitivamente con il cancro umano. È responsabile di oltre il 99% dei tumori alla cervice, del
50% dei tumori alla vagina, del cancro della vulva, del cancro dell‟ano, del cancro del pene, del cancro orofaringeo
(faringe ed esofago spesso hanno tumori correlati ad HPV), dei tumori della pelle dopo aver escluso i melanomi.
Questi dati hanno giustificato lo screening della cervice in tutte le donne; nella gestione di soggetti HIV positivi lo
screening dell‟HPV è di routine; non si fa (non è consigliabile) lo screening ogni anno ad una donna sieronegativa.
Abbreviazioni delle alterazioni cellulari (che faremo a ginecologia/anatomia patologica) secondo una classificazione
anatomo patologica:
ASCUS alterazione delle cellule squamose in tumore alla cervice; i patologi le descrivono come stadio iniziale;[cellule
squamose abnormi, non ulteriormente classificabili]
LSIL [cellule di lesione squamosa intraepiteliale di basso grado]
HSIL [cellule di lesione squamosa intraepiteliale di alto grado]
CIN1 CIN2 CIN3 [neoplasia intraepiteliale cervicale lieve(1), moderata(2), grave(3)]
HPV e cancro
Il tumore alla cervice è stato una delle prime neoplasie (se non la prima) sulla quale è stata fatta una correlazione con
un infezione virale. Questa osservazione è stata fatta nel 1974 dal signor Zun Hausen (quest’anno, proprio per questa
scoperta, ha preso il premio nobel). Il principale indagati sono l‟HPV 16 e 18, responsabili di lesioni genitali,
papillomi laringei e tumori alla cervice.
Negli ultimi anni, molte ditte si sono scatenate nella costruzione di sistemini molecolari per la diagnosi rapida da
infezione da HPV; molti sono sistemini chiusi, cioè cercano solo alcuni genotipi di HPV e falliscono nella ricerca di
altri tipi; quindi questi permettono l‟identificazione di HPV 16, 18, 31, 33 o addirittura solo 16 e 18. Il vantaggio del
sistemino chiuso è che tutti lo sanno usare e quindi può essere utile per diagnosticare il “mondo”. Il sistema aperto,
che permette l‟identificazione di tutti i genotipi, ha il problema del trasferimento dei campioni visto che in Italia
esistono solo 2 laboratori per l‟analisi dei dati. Il pap test lo fa qualunque anatomo patologo; i test virologici o sono
molecolari chiusi, che però vedono solo qualcosa, oppure se sono aperti c‟è il problema del trasferimento dei campioni
(cioè collezionare il campione, trasferirlo ed avere una risposta in tempi umani).
Per stabilire l‟infezione, ci deve essere un microtrauma. L‟HPV deve infettare le cellule epiteliali basali, dove però
rimane in uno stato quasi quiescente e non si riproduce. Solo durante la trasformazione delle cellule si può attivare, si
può riprodurre e degenerare; quindi all‟inizio ci deve essere un‟infezione dello strato basale delle cellule multipotenti
oppure le basali epiteliali. Una volta che questa infezione viene destabilizzata, possiamo avere un‟infezione con un po‟
di produzione del virus, quindi la trasformazione di una buona quota di cellule, ma siamo ancora ad una lieve displasia
poco visibile; poi il virus smette di essere prodotto, ma le cellule ormai sono partite nella loro disregolazione.
La pericolosa origine si ha con l‟inizio dell‟attività sessuale; il vaccino per l‟HPV, viene fatto a 12 anni perché siamo
speranzosi nel fatto che non sia ancora iniziata l‟attività sessuale. In Italia la vaccinazione è gratuita per ragazze di 12
anni. A questo ipotetico momento d‟inizio e quindi di infezione, (quasi subito la fanciulla si infetta quasi come il
maschietto) esiste un „infezione importante che dura mesi, anni non sappiamo (perché non sono stati fatti studi
longitudinalmente per capire se l‟HPV che si trova a 18 anni è lo stesso di quello di 30 anni); l‟infezione può essere
causata da virus con lo stesso genotipo o con genotipi diversi.
L‟infezione può andare incontro a regressione oppure a stabilizzazione; possiamo continuare a trovare HPV come
possiamo non trovarlo più, però potrebbe essere partita la trasformazione che di solito ci mette 15-20 anni e potremmo
avere delle lesioni che sono visibili al pap test [(o citologia cervicovaginale) è un esame citologico che indaga le
alterazioni delle cellule del collo dell‟utero]. Lo step successivo potrebbe essere rappresentato dal cancro. Il picco
d‟incidenza di lesioni cancerose è dopo i 40 anni per persone che si sono esposte al rischio 20 anni prima. Dal punto di
vista politico sanitario ci sono varie opinioni sull‟utilità della vaccinazione perché non si è sicuri che il vaccino copra
l‟immunità per 20-30 anni. La partecipazione a questa campagna di vaccinazione, a partire da 12 anni, è stata del 50%
da parte degli aventi diritto.
Nell‟ambito della vaccinazione c‟è una terribile difformità tra il nord ed il sud, con diverse differenze tra le varie
regioni (anche all‟interno dello stesso nord). In alcune regioni sono state chiamate alla vaccinazione solo il 20% delle
donne aventi diritto e solo il 10-20% ha aderito all‟iniziativa: totale di vaccinati pari al 2%. Il vaccino, oltre a non
coprire tutti i genotipi di HPV (copre solo HPV16 e 18), non ricopre i maschietti che rimangono presunti untori.
Presentazione di alcuni lavori: Questi sono studi del 2005/2006 condotti su maschi (inutile concentrarsi sulle
femminucce se poi sono i maschietti che infettano) in Brasile, Giappone, Corea, Messico, Stati Uniti su piccole
numerosità. Lo studio prevedeva la ricerca di HPV non solo sull‟uretra o sul liquido seminale, ma anche sulla cute
perianale e dello scroto (perché l’HPV non sta nascosto solo a livello della cervice o nella mucosa anale ma sta anche
fuori). Le percentuali sono però poco attendibili perché ogni studio cercava diversi pannelli di HPV: se si sequenzia
con il sistema chiuso si trovano solo alcuni genotipi. Altri studi sono stati condotti con sistemi abbastanza aperti,
quindi i risultati hanno evidenziato molti virus appartenenti alla classe degli HPV. Ulteriori lavori hanno messo in
evidenza la percentuale di HPV in coorti di studenti universitari, di militari, di malati di malattie sessualmente
trasmesse, di partner di donne con malattie sessualmente trasmesse, e si sono riscontrate percentuali di HPV diverse.
Alcuni studi mettono in evidenza una positività per HPV che va dal 20 al 60%, altri una positività dal 5 al 40%
(positività non vuol essere positivi per tutta la vita, ma al momento del prelievo); altri studi mettono in evidenza
determinati genotipi di HPV (HPV16) quindi la prevalenza che riguarda solo HPV 16.
I reali tassi di prevalenza ed incidenza di infezione da HPV e delle varie manifestazioni cliniche sono di difficile
valutazione perché c‟è una grande differenza, anche nel mondo occidentale, nei programmi di screening. In Italia lo
screening, essendo per la maggior parte offerto dal sistema sanitario nazionale, permette di mantenere i conti su tutti i
risultati (es. CIN 1,2,3). Esiste però un problema, ovvero mancano i risultati di tutti i ginecologi privati che non
vogliono fatturare. Non volendo fatturare la prestazioni, spariscono dati importanti che sarebbero utili per formulare
tassi di prevalenza ed incidenza, visto che il SSN offre gratuitamente solo il pap test. Oggi rimane difficile avere la
stima delle infezioni senza correlato anatomo patologico. Per la popolazione maschile non esiste un programma di
screening quindi i dati in possesso sono derivati solamente dalla rete delle segnalazioni dei condilomi e dei carcinomi
da parte di medici di base e dermatologi. Noi non abbiamo una seria rete di sorveglianza delle manifestazioni cliniche
delle infezioni maschili a parte quelle serissime. La rete che c‟è non sappiamo se dà una sottostima. I carcinomi al
pene sono un evento serio che richiedono la chirurgia ospedaliera a differenza dei condilomi che implicano la visita
dal dermatologo; il medico li elimina bruciandoli, ma non li segnala a nessuno. (Parisi:“quando chiedi ai dermatologi
dei condilomi, loro rispondono: -eh… quanti ne vedo!-, ma se poi vedi il registro di segnalazione questo è vuoto”.). In
Italia dal 1991 al 2005 sono stati segnalati all‟Istituto superiore di Sanità 26000 casi di condilomi genitali, 75% dei
quali nel sesso maschile (sicuramente una sottostima della verità non solo nel privato ma anche nel pubblico;
segnalare diventa una scocciatura, quindi si risolve il problema e si va avanti!). Facendo così si è persa tutta quella
parte d‟informazione che permetteva di dire quale HPV era causa di determinati condilomi.
HPV e HBV sono i due principali vettori tumorali per i quali esiste la possibilità di vaccino; per HBV esiste un
vaccino totale, per HPV esiste una copertura solo per determinati genotipi (esiste comunque una cross-copertura anche
per genotipi non presenti nel vaccino, pur sempre non totale). Quindi quanto sia efficace e quanto sia duraturo il
vaccino, lo si capirà solo seguendo nel tempo la popolazione vaccinata.
- Studio epidemiologico condotto su una coorte di donne con vari genotipi di HPV: questo studio voleva mettere in
evidenza quanto più tempo passava tra la prima e la seconda osservazione e il rilievo di una conferma alla positività.
Prendiamo per esempio HPV 16; se ad una donna a cui era stato diagnosticato HPV 16 (alla prima osservazione), si
ritrovava HPV 16 dopo 6 mesi (alla seconda osservazione), questa aveva 6 possibilità su 10 di rimanere positiva in
futuro per quell‟HPV. Se l‟intervallo di tempo tra le due osservazioni fosse stato di 12 mesi era quasi sicuro che negli
anni successivi sarebbe rimasta positiva; tanto più si allungava l‟intervallo delle due osservazioni, tanto più alta
sarebbe stata la probabilità per la donna di rimanere positiva negli anni futuri.
Qual è la situazione a Padova per quanto riguarda l‟HPV? Si è osservato un campione di 1800 donne [attenzione: il
campione è viziato da un bias di selezione perché non è stato fatto uno screening aperto a tutta la popolazione, ma si
tratta di una raccolta di ciò che arriva dall‟ambulatorio (a volte è uno screening, a volte è un correlato di una donna
sintomatica), quindi è materiale “selezionato”]. I risultati evidenziavano il 64% di donne negative, il 17% ad alto
rischio, a basso rischio al 13% ed il rimanente in uno stato di coinfezione. L‟elenco degli HPV associati ad alto
rischio, trovato nelle sole fanciulle tramite screening, evidenzia in primis l‟HPV 16 poi il 58, il 53, il 31 ecc. Nei
maschi in testa alla classifica c‟è l‟HPV 16 (questi soggetti sono verosimilmente partner di donne HPV positive).
Trend dei virus: Nel 2003 l‟HPV 16 era il 50% del totale degli HPV, successivamente si è sgranato su un più ampio
numero di tipi isolati.
- Lavoro sperimentale svolto da Saverio Parisi, Renzo Scaggiante e Andrea Barelli: abbiamo campionato 168 pazienti
in un anno, HIV positivi, maschi, italiani che dichiaravano di essere omosessuali (l‟omosessuale tende ad avere HPV
nella mucosa rettale). Per motivi tecnici ne abbiamo studiati 147 positivi quindi l‟86%. È stato eseguito un tampone
rettale: 2 avevano l‟amplificazione della banda piccola che non ha dato luogo alla tipizzazione fenotipica, 12 avevano
un mix di HPV, 108 avevano un singolo genotipo di HPV oppure un genotipo ed una coinfezione. 38 soggetti di questi
108 erano ad alto rischio (35%), 58 a basso rischio, 12 a rischio non determinato (perché le infezioni cancerose non
sono ancora state ritrovate in questi tipi). Il 35% dei pazienti ad alto rischio andrebbe seguito/sorvegliato come nel
caso della donna, anche perché questi soggetti sono un po' immunodeficienti. Gli alto rischio erano: 12 soggetti per
HPV 16, 2 soggetti per HPV 18, 3 soggetti per HPV 33, 1 soggetti per HPV 35, ecc. I soggetti sono tutti stati
ricampionati (seconda osservazione) a 6 mesi di distanza per osservare la prevalenza quindi osservare se c‟era o non
c‟era persistenza. Dopo 6 mesi i 65 positivi risultavano ancora positivi, 17 su 17 erano alto rischio (quindi 17 su questi
65 avevano ancora alto rischio) di cui 11 avevano ancora lo stesso genotipo, invece 6 avevano un genotipo diverso
(qui si apre la questione virologica: è una popolazione di virus HPV veramente diversa o la volta scorsa non eravamo
riusciti a trovarli pur essendoci?); 32 su 36 erano ad alto rischio, 12 su 12 altro tipo. Fondamentalmente i positivi sono
rimasti positivi; da notare che 12 soggetti negativi al primo screening erano diventati positivi al secondo screening. Un
secondo rilievo (tramite tampone) rilevava la presenza di virus anche nell‟oro faringe oltre che nei genitali ed nell‟ano;
risultati: su 111 positivi rettali, 21 avevano un‟infezione da HPV e 90 erano negativi; quindi il 20% dei rettali positivi
aveva HPV anche nell‟oro faringe, 3 su 6 ad alto rischio nella faringe erano ad alto rischio anche nel retto. Messaggio
dello studio: sorvegliare HPV nell‟ambito degli HIV positivi.
L‟impatto del carcinoma anale tra i soggetti infetti da HIV può essere compreso paragonando l‟epidemiologia di
questa patologia con quella del carcinoma della cervice. Prima del pap test 50 casi su 100000 era l‟incidenza del
carcinoma alla cervice, dopo l‟adozione del test si è passati ad 8-10 su 100000, cioè l'incidenza è diminuita di più di 5
volte quindi il pap test ha una certa efficacia. In epoca precedente all'epidemia da HIV la stima del carcinoma anale
era di 37 casi su 100000 per gli omosessuali (incidenza simile a quella del carcinoma alla cervice). Oggi molti studi
riferiscono che l‟incidenza al carcinoma anale sia superiore nella popolazione HIV positiva. Tra gli omosessuali HIV
positivi, l‟incidenza è doppia rispetto agli HIV negativi; tutto ciò è dovuto a pratiche più a rischio o frequenze diverse
(partner non fisso); il rischio relativo di carcinoma anale invasivo è 37 volte maggiore per soggetti HIV positivi.
L‟incidenza tra tutti i maschi bianchi ispanici tra i 40 e i 64 anni è quadruplicata da prima dell‟HIV al decennio scorso,
da 3 a 14 casi.
- Leggendo ulteriori studi si osserva che le lesioni anali intraepiteliali e i condilomi causati da HPV, sono ugualmente
distribuiti nella popolazione di eterosessuali, omosessuali e donne. Su 470 pazienti tutti sieropositivi, 108 (23%)
avevano lesioni anali equamente distribuite tra omosessuali eterosessuali maschi e donne.
- Un altro lavoro evidenzia l‟aumento di incidenza di carcinoma invasivo anale nei pazienti HIV positivi. L‟incidenza
tende a salire in poco più di un decennio perché HPV sfrutta la marcata immunodeficienza di questa popolazione
(abbassamento della percezione dei rischi). L‟abbassamento della percezione dei rischi si vede anche nel caso della
sifilide. In uno studio condotto su una coorte, il 31% dei 160 soggetti era positiva per sifilide e il 40% dei positivi per
la sifilide era positivo anche per HPV ad alto rischio. Tenendo presente la prevalenza dell‟infezione, sono stati stilati
dei validi protocolli di gestione sia per la diagnostica sia per la terapia, che spesso è chirurgica. Nella terapia
chirurgica non dobbiamo includere solo gli uomini, ma anche donne con cancro alla cervice, con malattie bulbari,
soggetti con condilomi infettivi da HIV, soggetti con condilomi nell‟ano, ecc.
- L‟ultimo lavoro (molto simile a quello svolto da Parisi&Co.) vuole mettere in evidenza la persistenza/clearance di
HPV in una corte di fanciulli sieropositivi omosessuali; il 97% degli infetti aveva HPV multipli con una media di 5
genotipi per campione: i risultati hanno messo in evidenza una notevole presenza di HPV 16, HPV 6, HPV 42, HPV
18.
Diagnosi delle malattie sessualmente trasmesse
Perché la diagnosi delle malattie sessualmente trasmissibili è importante?
1. perchè possono diffondersi rapidamente (es. vettore rappresentato dalle prostitute);
2. perchè possono essere associate a malattia acuta;
3. perchè possono essere associate ad una malattia che cronicizza (es. sterilità indotta da alcune malattie infettive,
sifilide);
4. perchè possono facilitare l‟insorgenza di altre patologie (soggetti HIV positivi facilmente si infettano di patologie
batteriche e virologiche).
Considerazioni generali:
La malattia, ovviamente, deve essere curata, ma la maggior parte di queste diagnosi soffrono di grosse limitazioni sia
per la diagnosi clinica (bisogna trovare il virus giusto per capire di cosa si tratta) sia per la diagnosi di laboratorio che
spesso molti specialisti ignorano. Es. spesso di fronte a candidosi batterica si danno antibiotici che si sa essere efficaci
per la stragrande maggioranza di queste malattie e non si fa diagnosi sierologica. Il risultato è che si dà il chinolone e
si è ragionevolmente convinti di risolvere la maggioranza dei casi. Il medico non fa fare prima il tampone e poi chiede
al paziente di portargli i risultati, perché per trasmettere sicurezza si tende a dargli la pillola e non farlo più tornare.
Inoltre molte di queste diagnosi sono discrete (“per favore non lo dica a mia moglie", quindi figuriamoci se quello ti
porta il tampone). Tutto ciò è causa di una diagnosi di laboratorio veramente complessa. Inoltre ci sono dei problemi
di laboratorio sia per diagnosi sierologiche che per altre tipologie di diagnosi, come la sifilide, difficile da riconoscere
e difficile da diagnosticare se non si hanno le idee chiare; quindi ci vuole un iter diagnostico abbastanza chiaro.
Parlerò in maniera abbastanza esauriente di herpes genitale che può essere sia 1 che 2 (encefalite da herpes 1 e
infezione vaginale da herpes 2), sifilide, haemophilus ducrey (poco frequente da noi) e linfogranuloma venereo
(tecnicamente presente da noi ma poco frequente).
Infezioni non sessualmente trasmissibili classiche possono dare lesioni ulcerative difficili da interpretare.
Tra le infezioni non sessualmente trasmesse, la più frequente è la scabbia. Tecnicamente non è una malattia
dell‟apparato genitale però frequentemente comincia la sua azione patologica dall‟apparato genitale perché si
nasconde nella peluria inguinale, genitale e ascellare; questa rappresenta la zona in cui esordisce la malattia, con
sintomi come prurito, rossore e bruciore. La scabbia finisce per essere osservata dal dermatologo in un ambito di
diagnostica come se fosse una malattia sessualmente trasmessa; poi è realmente sessualmente trasmessa, nel senso che
fanciulli e fanciulle con attività promiscue tendono a prenderselo in occasione di incontri sessuali (“la scabbia si può
prendere anche dal vellutino del sedile del treno ma praticamente è più facile prenderselo in una pineta quando ci si
va ad appartare”). La scabbia, contrariamente a quanto si pensa, è molto diffusa e molto difficile da debellare (la
scabbia di un paziente in un reparto di malattie infettive deve essere diagnosticata velocemente altrimenti rischia di
contaminare il personale sanitario, i parenti ed i compagni di stanza); si diffonde da soggetto a soggetto in funzione
della sua localizzazione; se è diffusa in tutto il corpo si diffonde con estrema velocità, mentre se si trova in regioni
circoscritte coperte per esempio da vestiti, diffonde con più difficoltà. In una buona percentuale di casi non si arriva a
fare diagnosi di scabbia o perché l‟individuo si fa visitare tardi, o perché è già stata fatta terapia incongrua (classico il
cortisone), o perché il paziente si rivolge al medico quando la lesione è quasi risolta.
26/05/2009
La lezione di oggi prevede un accenno ad alcune febbri strane (West Nile, Chikungunya, febbri emorragiche -tipo
Dengue-) e poi riprende il discorso la sifilide.
CHIKUNGUNYA
Se ne è parlato 4-5 anni fa come un‟infezione incorsa nel sud-est asiatico ed in alcune isole ad est dell‟Africa. Non
sembrava una questione importante da studiare poiché l‟infezione non portava a morte e comunque non c‟era terapia:
è parsa come una delle tante febbri che una volta non venivano diagnosticate come entità gnoseologiche a parte.
Attualmente con le moderne tecniche di biologia molecolare è correlata ad un infezione da virus.
Nei primi anni duemila questo morbo destò l‟attenzione degli studiosi poiché Chikungunya infettò quasi un terzo della
popolazione dell'isola della Reunion. Il virus è stato riscontrato in Africa, sud-est asiatico, India, Seychelles, Congo,
Madagascar… si tratta di una delle tipiche febbri che si contraggono in vacanza. Nella Reunion un terzo della
popolazione totale di 770.000 persone è stato infettato fra la primavera e l‟estate del 2006: non si sapeva se si trattava
di una reinfezione o di un‟infezione primaria, ma era certo che la causa era una puntura d‟insetto di specie Aedes
Albopictus. Questo ci ha fatto ritenere che sia più probabile una diffusione degli insetti infettivi in aeree dove
precedentemente erano meno presenti, rispetto alla recrudescenza in quel periodo e in quella zona di un virus
preesistente. Date le zone di provenienza dell‟infezione, il virus è stato studiato particolarmente bene soprattutto dai
francesi, che sono riusciti anche a descrivere una sorta di filogenesi dei vari virus osservati negli ultimi anni,
suddividendoli in ceppo asiatico, ceppo del west-Africa e altri, in base alla provenienza geografica, e riuscendo a
dimostrare come, seppur parlando dello stesso virus, ceppi diversi siano in grado di evolvere un adattamento specifico
alla zona dove danno infezione.
Nella Reunion troviamo una popolazione particolarmente suscettibile ad infezione tanto da aver dato 230.000 casi,
237 morti e un caso clinico su mille. Questa febbre si associa ad atralgie, raramente a rash cutaneo. Un convegno a
Varsavia nel 2006 evidenziò malattie alla nascita forse correlate con infezioni intrauterine; resta tuttavia difficile
distinguere se davvero si trattasse di patologie infantili legate a tali infezioni o indipendenti da esse, vista la bassa
casistica con cui sono incorse.
I veicoli di diffusione sono inquinamento e riscaldamento globale, oltre che aerei e navi, attraverso le merci che questi
trasportano: questo ha comportato che dal 1980 la zanzara Aedes si sia diffusa da sud-est asiatico e Madagascar sino
in Australia, Europa, Africa del nord, Cina ed America nell‟arco di circa 20 anni.
In Italia si è verificato un outbreak nel 2007: questo fatto ha destato ansia nella ricerca di informazioni riguardanti la
malattia Chikungunya, ritenuta potenzialmente pericolosa. In realtà già negli anni 2005-2006 alcuni laboratori
avevano iniziato a studiare la malattia, procurandosi i primer, anche nel tentativo di rispondere alle domande dei
clinici che avevano ipotizzato febbri anomale in soggetti al ritorno dalle vacanze, e avevano richiesto diagnosi
differenziale di Chikungunya tramite PCR e test sierologici.
L‟outbreak accennato fa riferimento al caso di un signore che fra luglio, agosto e settembre del 2007, di ritorno
dall‟India, riportò la classica sintomatologia della febbre Chikungunya; un focolaio di infezioni in quel periodo fu
stato descritto dall‟Istituto Superiore della Sanità nei dintorni di Cervia, dove comparvero casi di soggetti con febbre,
spossatezza e rash (metà dei casi), mal di testa, vomito e diarrea.
Dopo l‟outbreak del 2007, nel 2008-2009 non si è più parlato di questo virus.
FEBBRI EMORRAGICHE
- CRIMEAN-CONGO: Si tratta di una febbre dalla sintomatologia importante. Nel 2005 è stato diagnosticato un
caso in Francia: non solo i medici che lavorano nei luoghi dove queste malattie sono più frequenti devono conoscerne
l‟eziologia, ma anche i medici che operano qui, poichè sono ormai ritenute “febbri d‟importazione”.
- DENGUE: Non è una febbre così distante da noi (esempio: un collega del professore andato in Thailandia qualche
anno fa per il Congresso Mondiale Aids, a Bangkok, in hotel lussuosi e ben puliti, si è preso la Dengue).
La sintomatologia prevede: febbre, mal di testa, fatica, dolore muscolare, piastrinopenia (che conduce a
sanguinamento nasale, problemi emorragici gastro-intestinali, problemi di coagulazione in generale),
ipertransaminasemia, epatite in qualche caso, aumento di LDH, aumento lieve o marcato di AST e ALT.
- EBOLA/MARBURG: Virus denominato Marburg poiché scoperto in Germania, nella città omonima, da parte di un
laboratorista che studiava vaccini su scimmia, infettandola nel tentativo di produrre una risposta anticorpale. La
scimmia era in realtà un reservoir importato dall‟Africa: questo signore si ammalò di febbre emorragica. Si usano le
scimmie per sperimentare vaccini perché il loro sistema immunitario è simile al nostro: il modello di malattia fra
uomo e scimmia è somigliante, la trasmissione di anticorpi da madre a feto anche, come la cinetica di perdita degli
anticorpi nella scimmietta appena nata. Per questo nel 1987 si studiò la trasmissione di HIV da madre a feto su
scimmie.
Digressione sul vaccino anti-polio:
Per produrre il vaccino anti-polio si effettua attenuazione del virus attraverso 33-34 passaggi su colture
cellulari EP-2 in maniera tale che il virus perda la virulenza accumulando mutazioni “attenuanti” (prendo il
virus, semino, le cellule si infettano, cresce il sovranatante, riprendo, risemino… e avanti così per decine di
volte): in questo modo si costruisce il vaccino anti-polio di Sabin (vaccino vivo attenuato), che è
somministrato per via orale ai bambini, ed è immunogenico, ma non neuro-patologico. Il cocktail
somministrato per via orale contiene virus attenuati HPV1,2,3. Il metodo usato per accertarsi che il virus
abbia perso la neuro-virulenza ma sia ancora vivo, prevede la somministrazione intrarachide di ogni lotto di
vaccino prodotto a scimmie, prima che agli uomini; si sacrificano le scimmie dopo pochi giorni e si fanno
fettine di midollo a livello spinale ed encefalico, per verificare se l‟infezione ha dato lesioni entro un certo
range di valori desiderato (non troppo e non troppo poco).
Il vaccino può retromutare nell‟intestino del vaccinato, riacquisendo virulenza. Escreto con le feci, questo
vaccino ha il vantaggio di vaccinare anche i contatti, e questo ha consentito di eradicare quasi del tutto la
polio; tuttavia se il virus è retromutato si può ben comprendere come quello che era un vantaggio (la
vaccinazione dei contatti), diventi un problema.
La causa che diede luogo al diritto di risarcimento da parte dello Stato a seguito di problematiche riguardanti
i vaccini, fu quella di una signora che, negli anni ‟50, cambiando il pannolino del figlio appena vaccinato con
Sabin, contrasse infezione: in questo caso non contò che il virus fosse retromutato o meno, poiché l‟adulto
può avere poliomielite paralitica anche se infettato con Sabin, motivo per cui un adulto deve essere
rivaccinato con Salk (vaccino antipolio inattivato).
Tornando alle febbri emorragiche, dopo il caso del 1967 a Marburg, ci fu in Zaire un‟infezione analoga causata da un
virus simile battezzato Ebola. La diagnosi per entrambi è semplice, attraverso coltura cellulare, ma richiede un livello
di sicurezza BL-4, che in Italia è stato ottenuto soltanto da un laboratorio di Roma. Diversamente si può fare diagnosi
sierologica, ma i risultati si hanno in alcuni giorni, quando ormai il soggetto presenta già emorragie diffuse (l‟analisi
sierologica si rivela utile nel caso in cui si voglia far diagnosi su contatti che non hanno sviluppato malattia). Il metodo
diagnostico più pratico è la PCR se possibile.
IMPORTANTE: bisogna fare diagnostica tempestivamente per evitare di far circolare un soggetto infettato o di
ricoverare fra individui malati un soggetto che in realtà ha una febbre comune, non emorragica.
Un rischio di pandemia per questi virus è pressoché inesistente poiché tali virus uccidono l‟ospite e sono difficilmente
trasmissibili dato che gli outbreak si autolimitano. Virus “furbi” da questo punto di vista sono HIV e HBV che non
uccidono l‟ospite o lo fanno lentamente, assicurandosi una “persistenza infettiva”. Tuttavia il traffico aereo consente
in poche ore ad un individuo infettato da Ebola in zone endemiche di trasferirsi in un luogo dove l‟infezione è poco
plausibile: la pandemia è poco plausibile, ma è aumentata la casistica in zone non endemiche e densamente popolate.
Gli out break si autolimitano facilmente solo nei piccoli paesi.
I focolai descritti negli anni dal ‟67 non sono molti. L‟ultimo è stato rilevato nel 2005 in Zaire ed è costato la vita ad
una pediatra italiana.
- ARBOVIRUS : WEST NILE
Si tratta di un flavivirus, ssRNA, dotato di envelope, scoperto per la prima volta in America, studiato attentamente
negli ultimi 5-6 anni. Causa per la maggior parte infezioni clinicamente non diagnosticabili e si pensava fosse
trasmesso anche per via trasfusionale, ma in realtà questo accade raramente. Comporta comunque malattia febbrile in
un quinto dei casi e malattia neurologica molto raramente: quando quest‟ultima incorre, conduce a morte per paralisi
acuta flaccida, convulsioni, sintomatologia atassica, danni ai nervi cranici. Il periodo di incubazione è variabile, il
reservoir sono alcune specie di uccelli, il vettore è un insetto che può trasferire all‟uomo e ai cavalli il virus. West Nile
è stato identificato nella pianura di Rovigo e diagnosticato sierologicamente ad una signora anziana, che quindi aveva
“visto” West Nile ma non è detto avesse sviluppato malattia: il suo, insieme ad altri casi, ha fatto temere un outbreak
in Italia.
La diagnosi si effettua mediante la ricerca di IgM con metodiche ELISA su liquor. Si può effettuare anche PCR su
sangue periferico, ma la sierologia rimane la tecnica di predilezione per una diagnosi in una fase transitoria della
malattia. Non c‟è terapia.
Importante: su liquor si fa diagnosi differenziale anche di altri tipi di virus come: Togavirus, Flavivirus, Bornavirus,
TBE, West Nile,...
West Nile è migrato dall‟America nord-orientale a tutti quanti gli Stati Uniti nel 1999, trasportato attraverso il traffico
aereo. Rapidamente dal ‟99 al 2005 si sono avuti in America migliaia di casi, e si sono attuati molti studi per
comprendere motivi ed elaborare soluzioni alle problematiche di infezione.
Alcuni dati: 2949 casi in 6 anni, 628 paesi interessati in 42 stati americani, 19000 casi diagnosticati, 8000 con malattia
neurologica, 780 morti. Nel periodo considerato va osservato che la patologia è passata dall‟essere estiva, a
primaverile ed estiva, e infine al divenire annuale. I casi di malattia neurologica hanno fatto preoccupare i medici, che
dovevano evitare la trasmissione sia mediante trapianto di organo solido, che attraverso trasfusione. Sono poche le
evidenze cliniche di trasmissione con trapianto, mentre è importante porre attenzione alle trasfusioni: bisogna
distinguere il sangue con PCR e IgM positive di individuo infetto e potenzialmente infettante, da sangue con sole IgM
(malattia recente ma senza virus) o IgG (esperienza di contatto con virus) positive (non infettanti).
Dopo l‟outbreak 2003-2004 i casi sono diminuiti. L‟essenziale è comprendere che si deve fare PCR prima di
trasfondere il sangue, perché è l‟unico modo per sapere se c‟è un‟infezione in corso. Inoltre si ricorda che la sierologia
dà spesso falsi positivi; comunemente si eseguono test per un pool di circa 10 virus prima di fare trasfusione, ma West
Nile non è fra questi, e va testato singolarmente, con evidenti costi di laboratorio.
I laboratori hanno sacrificato 2-3 milioni di Mosquitos e 21.000 uccelli alla ricerca delle specie animali infettanti:
hanno chiarito quali fossero le specie di uccelli reservoir, ma purtroppo non è possibile arginare la trasmissione.
Importante: la malattia neurologica sembra correlata ad una delezione genetica in CCR5, recettore coinvolto anche
nella patogenesi da HIV. In Italia tale delezione ha una prevalenza del 5-6%, nei Paesi Scandinavi del 15%: i soggetti
che la possiedono hanno maggiore probabilità di sviluppare West Nile “cattivo”, a parità di virus. Non si parla ancora
di vaccino; il monitoraggio degli animali serve sostanzialmente a controllare che non aumenti la percentuale di
reservoir e ad allertare la popolazione in tal caso.
ULCERE GENITALI DA SIFILIDE E HSV
Approccio diagnostico: una volta evidenziata la lesione genitale sul paziente bisogna chiedere se ha dolore, se ha
messo creme o sostanze sulla lesione (il maschio soprattutto mette cortisone, che rovina il quadro clinico), se ha avuto
precedenti diagnosi di HIV o di epatite, di eventuali malattie sessualmente trasmesse, se presenta allergie a farmaci
(che possono dare rash), fare domande sull‟attività sessuale (partner, uso di preservativo…), indagare sui viaggi svolti.
Esame clinico: si esamina la lesione, la distribuzione delle lesioni, il numero, la conformazione delle stesse (per la
sifilide si parla di un‟unica lesione solitamente, mentre per HSV si può trattare anche di un rash). Si passa poi
all‟esame genitale, solitamente ginecologico per la donna e di medicina generale per l‟uomo. Vanno infine tastati i
linfonodi evidenziando grandezza ed eventuale ingrossamento. Si procede all‟esame generale.
- HSV: Solitamente il metodo elettivo di diagnosi è la coltura su fibroblasti che dà un effetto citopatico in 4-6 gg. Una
volta evidenziato, va caratterizzato per HSV. In mancanza di un effetto citopatico bisogna attendere la negatività fino
a 10 gg. Quindi la diagnosi può richiedere un tempo lungo. In alternativa si fa diagnosi mediante l‟uso di anticorpi
monoclonali appositamente ingegnerizzati, con metodi di immunofluorescenza indiretta (si mette sulla coltura
anticorpo anti-HSV, quindi si aggiunge anti-anticorpo fluoresceinato): in questo modo si evidenzia l‟infezione prima
che l‟effetto citopatico compaia. Gli anticorpi monoclonali sono utili anche per compiere diagnosi differenziale per
HSV-1 e HSV-2. La PCR rimane un metodo di diagnosi vantaggioso, poiché dotata di alta sensibilità e specificità, e
fornisce risultati in poche ore, circa 12; può essere usata per caratterizzare Treponema Pallidum (si fa scarificazione
della lesione in sospetto di sifilide), HSV-1/2 (si preleva il liquido nella vescicola della lesione) e linfogranuloma
venereo. Solitamente la PCR è condotta in via multipla con un test che consente di avere una diagnosi per più germi
contemporaneamente.
Il Prof. riferisce l‟esempio di una diagnosi su PCR di varicella nell‟umor acqueo di una signora ricoverata in ospedale.
Si tratta di una recidiva di una precedente infezione da virus della varicella che si è riattivato nel ganglio ed ha
infettato l‟umor acqueo causando uveite (si verifica nell‟1% dei casi).
Dando alcuni dati si può affermare che 200-500 milioni di americani sviluppano infezione da Herpes Simplex Virus
ogni anno; sono molti i casi di infezioni secondarie da HSV e la maggior parte delle infezioni genitali è dovuta al
sierotipo 2, anche se è possibile un‟infezione genitale da parte del sierotipo 1 (è importante fare diagnosi
differenziale).
Due studi condotti in maniera indipendente dieci anni fa ci danno stime di prevalenza di infezione da HSV in Italia.
M. Cusini: dermatologo milanese, compie uno studio a Milano, su 600 maschi e 250 femmine, e dimostra che la
sieroprevalenza aumenta con l‟età.
B. Suligoi: compie studi di prevalenza a Roma, Lecce e Genova, e riscontra che 71% degli esaminati è sieropositivo
per HSV-1, e 9% è sieropositivo per HSV-2.
L‟importanza di fare diagnosi dipende dal fatto che il 20% dei casi è diagnosticato come infetto da HSV, ma
asintomatico; il 20% è diagnosticato come infetto da HSV e sintomatico; il 60% dei casi è sintomatico, ma non
diagnosticato come infetto da HSV.
Nella diagnosi bisogna garantire alta sensibilità e specificità, che sono una delle prerogative di PCR.
Nella diagnosi colturale su fibroblasti, a seguito di infezione le cellule sono portate a confluire, allungarsi, inturgidirsi
e staccarsi dal terreno di coltura. Con il metodo colturale SHELL VIAL si può ridurre il tempo di diagnosi ad 1-2 gg,
manipolando in maniera meccanica la coltura, procedimento che accelera i tempi di infezione, ma riduce la sensibilità
del metodo (è una tecnica usata per diagnosticare CMV, della stessa famiglia di HSV dunque) [da un sito: i metodi di
coltura rapida ("shell vial assay") usano la centrifugazione per aumentare l'infettività e l'anticorpo monoclonale per
dimostrare immediatamente gli antigeni precoci nelle cellule infettate di tessuto, per cui i risultati possono essere
ottenuti in 24 ore, ndcs]. Il metodo ELVIS-id presuppone l‟attivazione di un promotore per β-galattosidasi da parte di
HSV, una volta che quest‟ultimo ha infettato la cellula: di conseguenza la coltura diventa blu, e si possono avere
risultati entro 2 giorni. Lo svantaggio di questi ultimi due metodi colturali menzionati sta nel costo.
Tutte le metodiche di diagnosi per HSV prevedono prelievo di liquido dalla vescicola di infezione: bisogna tamponare
e prelevare il liquido da croste umide per trovare qualcosa di infettivo, non da croste asciutte. Quindi il materiale
prelevato va trasportato tempestivamente in laboratorio, possibilmente in terreno di coltura. Si può fare uno striscio e
richiedere l‟anatomia patologica (cercare l‟effetto citopatico di cellule giganti eventualmente presenti); si può fare
l‟immunofluorescenza sul tampone; si può infine eseguire diagnostica sierologica.
La sierologia consente di differenziare fra HSV-1 e HSV-2 cercando le glicoproteine gG1 e gG2, tipiche di ciascun
sierotipo rispettivamente.
Il Prof. fa ora riferimento a elenchi di vari tipi di Immuno-dot, Immuno-blot e Western-blot presenti nelle slides, che
si usano per far diagnosi di HSV, ma non comunemente in laboratorio, poiché troppo costosi.
- SIFILIDE: L‟agente eziologico è il Treponema Pallidum, probabilmente importato in Europa dall‟America con le
navi spagnole. Sembrava sparito nell‟800, ma ha subito una recrudescenza prima della seconda guerra mondiale; è
pressoché scomparso alla fine di quest‟ultima con l‟uso degli antibiotici. Nonostante questo negli anni ‟50 non era
infrequente trovare bambini nati da genitori con sifilide, che presentavano gravi patologie da sifilide congenita. M.
Cusini
ha
rilevato
un
outbreak
di
sifilide
a
Milano
nel
2000
di
centinaia
di
casi.
Questa malattia ha sempre avuto una nomea critica legata alla fama di malattia sessualmente trasmessa, che però
sembra avere perso da quando è curabile (il prof. ricorda a riguardo che quando è stato assunto in ospedale ha fatto il
test per sifilide e TBC, e chiunque all‟epoca fosse ritenuto infettato, veniva censito e curato, non più discriminato in
alcun modo). Si tratta della malattia sessualmente trasmessa a più alto tasso di mortalità, tralasciando HIV.
Per fare diagnosi non si utilizza la coltura in vitro; si può fare diagnosi diretta con microscopio in campo scuro,
eventualmente mediante la PCR o la sierologia.
La diffusione degli ipotetici 12 milioni di casi evidenzia 2 mln di casi in sud-Africa, 2 mln in sud-America, 4 mln nel
sud-est asiatico e anche un po‟ di casi sparsi nei paesi più sviluppati. Si sottolinea come i casi stiano diminuendo.
Dopo l‟outbreak 1999-2002 a Milano, se ne è palesato uno ulteriore, di circa 200 casi, fra 2003 e 2004, sempre a
Milano, nella comunità omosessuale. Un articolo redatto da un collega del Prof. che lavora a New York, fra i vari dati,
rivela che il 65% dei nuovi e aumentati casi di sifilide è nella comunità omosessuale maschile. Fra le varie
motivazioni che lo studioso cerca di trovare a questa constatazione, ci sono: l‟elusione del sesso sicuro, il successo
della HAART (ci si può curare da HIV, quindi a cosa serve proteggersi? -scordando altre malattie sessualmente
trasmesse-), le nuove conoscenze via internet, il sierosorting (un sieropositivo cerca un partner sieropositivo, un
sieronegativo fa il contrario -dimenticando sempre sifilide-), diffusione dei farmaci metanfetamine e viagra, e l‟errata
convinzione che il sesso orale sia privo del rischio di contrarre sifilide.
La sifilide primaria è caratterizzata da una singola lesione che spesso sfugge all‟esame a fresco e alla PCR poiché è
solitamente un‟ulcerazione non dolorosa: la maggior parte delle volte non si fa dunque diagnosi di sifilide primaria, e
la lesione sviluppatasi nel sito di inoculo del Treponema regredisce spontaneamente in qualche settimana.
Dopo un tempo variabile possiamo avere una sifilide secondaria, caratterizzata da un rash mucocutaneo che coinvolge
tutto il corpo, anche le palme delle mani e le piante dei piedi, ma che è facilmente confondibile con un rash dovuto a
molti altri microrganismi; ci sono in questa fase prodromi, come febbre, linfadenopatia, tosse, mialgie… che tuttavia
difficilmente fanno sospettare sifilide.
La sifilide terziaria si presenta dopo una fase di latenza, quando il rash di Sifilide secondaria non è stato di fatto
attribuito a Treponema (e quindi non si è fatta una cura per Sifilide); è caratterizzata dalla comparsa di lesioni
granulomatose in molti tessuti, e da malattia neurologica, danni agli occhi e al cuore. Nei pazienti affetti da HIV si fa
una puntura lombare per vedere la presenza di infezione con PCR, ed evitare una malattia sistemica.
La sifilide congenita può causare la morte in utero o la nascita di un feto con malattia sistemica. La probabilità di
sifilide congenita aumenta se la madre ha contratto infezione da Treponema Pallidum in tempi vicini alla gravidanza.
Il Prof. accenna a diagnosi diretta ed indiretta di infezione, VDRL (Venereal Disease Reference Laboratory), RPR
(Rapid Plasma Reagin) ed altri metodi di diagnosi (molecolari e sierologici), e dice che una domanda frequente
all‟orale è la diagnosi di sifilide (rispolverate il buon vecchio Murray!).
03/06/09
VIRUS EPATITICI
Parleremo di epatite A, B e C e faremo riferimento a metodiche che si possono applicare anche ad HIV.
Per lungo tempo si è parlato di epatite A, che era nozione comune si prendesse soprattutto per via alimentare, e di
epatite B, che si pensava essere trasmessa invece per via sessuale, dai tossicodipendenti e tramite trasfusioni. C‟era poi
l'epatite non A-non B, con caratteristiche di epatite acuta e virale, che è stata identificata alla fine degli anni „80 come
epatite C, trasmessa fondamentalmente per via parenterale.
Ci sono poi altri residuali virus che non trattiamo, perché non interessano molto dal punto di vista diagnostico.
HAV
Osservando un grafico dove sono riportati i casi di malattia prevenibili per mezzo di vaccinazione, si nota che 10 anni
fa negli USA l'epatite A era la più rappresentata con circa 10.000 casi: sarebbe utile quindi la vaccinazione per
epatite A soprattutto se si fa una vita movimentata, cioè se si è portati a viaggiare molto, particolarmente in zone
disagiate, anche se la vaccinazione non è obbligatoria.
Per quanto riguarda l‟epatite B, la nostra generazione è invece coperta da vaccinazione, o comunque al momento
dell‟assunzione al sistema sanitario nazionale saremo censiti per livelli anticorpali e qualora fossimo scoperti da
vaccinazione verremo rivaccinati.
HAV è un virus a RNA, con un singolo sierotipo che non dà un' infezione cronica e dà una protezione che dura tutta la
vita.
L'itterizia è il primo sintomo che viene associato a epatite in quanto l'iperbilirubinemia colora la cute in maniera
caratteristica. L'itterizia è però poco frequente nei bambini, diventa più frequente durante l'adolescenza ed è quasi la
norma nell'età adulta. Raramente c'è un'epatite fulminante o colestatica.
Il periodo di incubazione è di circa un mese.
- TRASMISSIONE E DIAGNOSI DI HAV dal punto di vista metodologico:
 Si fa diagnosi indiretta tramite le transaminasi (quando si osserva un paziente con itterizia, cioè di colorito
giallastro, gli si misurano prima di tutto le transaminasi e poi la bilirubina: attenzione però perché l'ittero può
essere dovuto anche a fattori tossici, come per esempio all'intossicazione da farmaci).
 Nel periodo in cui c'è viremia si trova ovviamente il virus nel sangue, anche se normalmente HAV non si
dosa, e, sempre nello stesso periodo, anche nelle feci che costituiscono una via di eliminazione del virus.
In questa fase c‟è anche un picco delle IgM che poi tenderanno a scendere e incroceranno le IgG le quali intanto
continuano a salire e saranno responsabili della protezione duratura contro il virus.
 La parte sintomatica corrisponde all'aumento importante delle transaminasi e delle IgM, e alla viremia (che
era già presente poco prima dell'esordio clinico e che rimane presente anche per buona parte della malattia
sintomaticamente rilevante), oltre che alla presenza del virus nelle feci.
Quindi il virus si ritrova tantissimo nelle feci, abbastanza nel sangue e tanto nella saliva. Questo è importante per
i contatti con altre persone e anche per la gestione del paziente che può trasmettere il virus anche tramite la
saliva.
- PATTERNS DI TRASMISSIONE: Dove c'è alta prevalenza di HAV, cioè nei paesi poco sviluppati e con basso
livello di igiene, molto spesso la malattia viene presa già nella prima infanzia e quindi non si prende da adulto solo
perché si è già avuta; di solito la trasmissione avviene da persona a persona, proprio per i bassi livelli di igiene. Dove
invece c‟è minore frequenza di infezione, cioè mano a mano che scende il livello di prevalenza, sale l'età d‟insorgenza
della malattia, la modalità continua ad essere da persona a persona tramite acqua o cibi contaminati o attraverso i
viaggiatori.
In generale la diminuzione della prevalenza correla con l‟aumento dell‟età di acquisizione dell‟infezione.
- DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA di HAV: L'Europa è quasi indenne, l‟Africa si colloca a un livello molto alto di
prevalenza e i paesi dell'est ad un livello intermedio. Anche la Groenlandia è una zona ad alta prevalenza di HAV.
La maggior parte delle malattie avvengono in un contesto di out-break di comunità, per la questione del cibo
contaminato, oppure si ha trasmissione interpersonale nei contatti familiari, e ci sono particolari gruppi a rischio
aumentato.
- SINTOMI CLINICI: Sintomi tramite i quali si può far diagnosi sono: dolore addominale, affaticamento, perdita
dell'appetito, nausea e vomito. In seguito comincia l'elevazione delle transaminasi, della bilirubina, delle IgM contro
epatite A.
Da quando sono disponibili i vaccini, circa fine degli anni „90, la prevalenza di epatite A è drasticamente diminuita,
sia tra i bambini sia tra gli adulti.
Si considera una regione a tasso elevato di HAV quando si superano i 10 casi/10.000 abitanti l'anno: negli USA la
costa occidentale, cioè la California e tutta la costa fino all'Alaska supera questo livello e quindi si considera regione a
tasso elevato di HAV. Il resto degli Stati Uniti invece rimane al di sotto della soglia.
- FATTORI DI RISCHIO:
 14% contatto sessuale o in casa;
 5% viaggiatori internazionali;
 10% omosessuali;
 6% tossicodipendenti;
 4% out-break da acqua o cibo contaminato;
 46% cause che non si riescono a ricostruire.
È importante badare all'igiene delle mani, sanificare soprattutto l‟acqua, somministrare il vaccino ovviamente prima
dell‟esposizione, usare le immunoglobuline pre e post esposizione. Se la persona ha già manifestato epatite A non ha
senso somministrare immunoglobuline, ma se la persona è a rischio perché è stata a stretto contatto con soggetti che
stanno manifestando epatite A, vale la pena dare le immunoglobuline.
- VACCINAZIONE: Il vaccino viene coltivato su fibroblasti, purificato e inattivato con formalina, infine viene
aggiunto l‟adiuvante. Lo schema di vaccinazione è 0-1-6 mesi: in realtà di solito si è già protetti dopo la prima dose,
ma il ciclo andrebbe completato.
A seconda della prevalenza c‟è una diversa raccomandazione di vaccinazione: negli Stati Uniti è assolutamente
raccomandata la vaccinazione nella costa occidentale, dove appunto la prevalenza è molto alta mentre nella costa
orientale la vaccinazione non è raccomandata perché la malattia è molto meno prevalente.
Negli Stati dove la vaccinazione è raccomandata (zona rossa della slide), si è passati da 25-30 casi/100.000 abitanti a
quasi zero, negli Stati dove è considerata (zona gialla) idem; negli Stati dove non è considerata (zona nera) era bassa e
oggi è ancora un po' più bassa perché qualcuno continua a vaccinarsi.
Grazie alla vaccinazione, per esempio, in Arizona si è passati dai 48 agli 8 casi/100.000 abitanti, in California dai 20
ai 5 casi/100.000 abitanti, a testimonianza che le vaccinazioni funzionano.
Ci sono poche distinzioni di incidenza tra maschi e femmine. Nel „90, epoca prevaccinale, negli USA l‟epatite A
colpiva sia giovani che adulti, ma prevalentemente i ragazzi perché erano quelli che entravano in contatto prima,
raramente si arrivava a prenderla da adulti.
In epoca post vaccinale, la malattia si diffonde meno, i ragazzi vengono vaccinati, l'età in cui si prende maggiormente
la malattia è l‟età adulta, con maggiore incidenza nei maschi, in particolar modo negli omosessuali. La vaccinazione è
raccomandata infatti agli omosessuali maschi, ai tossicodipendenti soprattutto venosi, ai frequenti viaggiatori
internazionali.
HBV
Periodo di incubazione di 60-90 giorni, un po' più lungo che per epatite A.
Anche qui si hanno basse percentuali di infezione in infanzia, che crescono sopra i 5 anni d‟età; basse percentuali di
manifestazioni con ittero, molto bassa anche la percentuale di casi di epatite fulminante, mentre, entro certi limiti, è
abbastanza frequente la cronicizzazione, comunque più frequente che per epatite A. Cronicizza molto facilmente nel
caso sia acquisita da un bambino piccolo, un po' meno nel bambino più grande nel quale però può comunque
cronicizzare.
La vaccinazione contro HBV è la prima vaccinazione che ha prevenuto il rischio di evoluzione in cancro, mentre HPV
è la seconda malattia virale correlata a cancro prevenibile con vaccinazione.
- SCHEMA DIAGNOSTICO: L'arrivo del virus determina abbondante viremia, che è un'acquisizione diagnostica
degli ultimi 15 anni. Oggi si monitorizzano sia l'andamento dell‟infezione che della terapia attraverso la viremia,
anche perché la terapia è costituita da più antivirali come per HIV. Negli anni i medici, soprattutto i gastroenterologi i
quali gestiscono le infezioni da HBV, così come le infezioni da HCV, hanno avuto il tempo di familiarizzare con il
quadro di antigeni e anticorpi nel sangue ricercati da test che sono singolarmente meno costosi, nella disponibilità di
molti laboratori, e che hanno costituito all'epoca il principale marker per la sorveglianza trasfusionale. Ancora adesso
sentiremo parlare, soprattutto quando si tratta di studi di efficacia di farmaci, di sieroconversione di HBe, oppure della
scomparsa di HBsAg o della sieroconversione in anti-HBs, cioè di cosa succede agli antigeni e agli anticorpi.
Il quadro antigenico, dal punto di vista dei test, è senz'altro utile da studiare, ma questi sono di sicuro meno sensibili
del test per HBV-DNA, cioè del dosaggio del virus vero e proprio, e sono sicuramente meno sensibili per quanto
riguarda gli antigeni, mentre la risposta anticorpale di solito correla con l'andamento di HBV-DNA; studiare
l‟andamento di HBV-DNA rimane dunque essenziale e anche se il singolo test costa di più, è però decisamente più
risolutivo.
Nell'infezione acuta possiamo osservare questo decorso con i marcatori classici:
 HBsAg, cioè l'antigene s di HBV, ha un picco che tende, dopo qualche settimana, a scomparire, mentre
comincerà a comparire, in un quadro risolto di epatite, l‟anti-HBs cioè l'anticorpo contro l‟antigene HBs.
L‟antigene s è il principale marcatore che si cerca quando si vuole cercare un' epatite in replicazione. Prima di
HBV-DNA si cercava l'antigene s in ambito trasfusionale o come diagnosi di risposta alla terapia per capire se
c'era una riattivazione della malattia.
 Subito dopo la determinazione dell'antigene s, cominciano ad essere presto determinabili le IgM anti-HBc,
cioè contro l'antigene c del core di HBV. Mentre nel sangue periferico non troviamo l'antigene, perché lo
troviamo solo nel fegato, nel sangue riusciamo a trovare subito l‟anticorpo anti-HBc. Quando scompaiono le
IgM anti-HBc rimangono le corrispondenti IgG.
Quindi mentre le IgM cominciano ad aumentare insieme all‟HBs e dopo un po' diminuiscono, le IgG rimarranno
a conferire protezione.
 Abbiamo poi l'antigene e e l‟anticorpo anti-HBe correlato che compare in concomitanza con la scomparsa
dell'antigene.
- SINTOMI CLINICI: Dopo due o tre mesi dall'infezione si ha un breve periodo di sintomi di epatite acuta.
Come si distingue un vaccinato da un soggetto che ha avuto la malattia più o meno sintomatica e l‟ha risolta? Ho un
soggetto vaccinato che è entrato in contatto con HBV tramite la vaccinazione e si è difeso, e un paziente che ha avuto
un' epatite non necessariamente clinica: cos‟è che troveremo sempre nel vaccinato?
Di sicuro troveremo l‟anti-HBs perché il vaccino è un vaccino ricombinante costituito da unità HBsAg, perciò i
vaccinati hanno visto HBs, il loro sistema immunitario ha imparato a difendersi contro questo e perciò hanno gli
anticorpi anti-HBs. Si può NON trovare anti-HBs in un vaccinato solo se la vaccinazione ha perso forza. L‟anti HBs è
perciò il segno distintivo della vaccinazione.
Chi ha avuto la malattia, se è sfortunato, può avere HBsAg, può avere anti-HBs, può avere anti-HBe, ma non può non
avere l‟anti-HBc: il soggetto ha visto il virus e perciò avrà fatto gli anticorpi contro il core. Può non avere gli anti HBs
ma sicuramente avrà gli anticorpi anti-HBc.
Quindi è proprio l‟anti-HBc a distinguere il vaccinato da chi ha avuto la malattia: oltre al vaccinato anche chi ha avuto
la malattia può avere l‟anti-HBs, ma mentre il vaccinato avrà solo anti-HBs, chi ha avuto la malattia avrà anche gli
anti-HBc.
Il titolo anti-HBc tende a rimanere costante, potrà scendere di poco, ma rimane abbondantemente determinabile.
La progressione in cronicità si distingue perché può rimanere l‟HBs-Ag, non avremo anti-HBs, non avremo anti-HBe
ed avremo magari per più tempo l‟antigene e. Avremo gli anti-HBc, ma servono poco.
- TEST PER HBV-DNA: Un tempo c‟erano due diverse PCR e ora ce n'è una terza di Abbott; c‟era inoltre un sistema
di ibridazione, ma ora si usa quasi dappertutto un sistema con Real time PCR che è sia Abbott che Roche.
Il sistema con Real time ha la caratteristica di avere un altissimo range di copertura cioè arriva all'amplificazione e alla
quantificazione di centinaia di migliaia di copie oltre che per HBV anche per HCV e per HIV: sono la Taqman o la
Versant Abbott.
È importantissimo, se pensiamo di monitorare una terapia, controllare che il paziente esegua il test per HBV-DNA
sempre nello stesso laboratorio, e se cambia laboratorio bisogna controllare la macchina con cui è stato eseguito il test
di viremia perché macchine diverse danno spesso valori diversi, principio che vale anche per i test per HCV e HIV.
Oltre alla variabilità individuale, cioè nei risultati che si ricavano dalla stessa persona da una settimana all‟altra, c'è
anche variabilità a carico della macchina stessa che può dare risultati diversi tra un giorno e l‟altro e c‟è persino una
enorme variabilità tra i tipi di test. Il tutto può contribuire a rendere fallace l‟interpretazione della situazione.
- TERAPIA: Il primo obiettivo che si persegue nel trattamento anti HBV è di produrre un effetto antivirale profondo e
sostenuto: non ci si accontenta cioè di un abbassamento dell‟ordine di 1-2 logaritmi della carica virale, ma questa
dev‟essere azzerata e rimanere tale nel tempo per evitare le complicazioni dell'infezione cronica. La somministrazione
continua di inibitori della replicazione di HBV può però dar luogo alla selezione di resistenze: si formano delle
varianti a causa di sostituzioni aminoacidiche che rendono il virus insensibile all‟azione del farmaco che usiamo.
Queste mutazioni sono concentrate soprattutto a livello della polimerasi di HBV (nel nostro laboratorio sequenziamo
da 6 a 345 di rt -per rt si intende reverse transcriptase- che è una regione ampia e comprende tutti i siti a rischio per
l'insorgenza di mutazione). Altri kit sono invece disegnati per coprire regioni leggermente ridotte che non vedono
perciò tutte le mutazioni.
- FALLIMENTO DELLA TERAPIA: Fallimento primario è la non-risposta: l‟antivirale fallisce l‟obiettivo di
abbassare la viremia a livelli non determinabili quindi la viremia non scende a distanza di 3-6 mesi, il che significa che
la terapia non funziona.
Fallimento secondario: la viremia scende, cioè in un primo momento la terapia funziona, e poi la viremia risale.
- SELEZIONE DELLE RESISTENZE: Le resistenze si selezionano perché in natura (questo vale soprattutto per HIV
che sbaglia moltissimo nel replicare, ma anche per virus a DNA come HBV) ci sono moltissimi possibili errori nel
corso delle centinaia di migliaia di repliche nell'unità di tempo. Questi errori possono essere sinonimi (la mutazione
della base non determina la modificazione dell‟aminoacido codificato dalla tripletta) oppure non sinonimi (le
modificazioni producono modifiche). Gli errori hanno un impatto più o meno importante sulla biologia replicativa del
virus: singoli errori possono essere errori “naturali” che poi nella storia evolutiva vengono eliminati, cioè gli errori più
grossi non rimangono nell'evoluzione perché il virus risulta svantaggiato per tali errori nel ciclo replicativo; gli errori
lievi possono essere conservati anche se poi fatalmente si perdono perché non selezionati, nel senso che non è quella
la migliore forma possibile del virus in natura.
Tutti questi piccoli errori sono presenti e non selezionati in una grande quantità di virioni che si replicano
normalmente in una persona infetta.
Quando però applichiamo una pressione selettiva sufficientemente potente da abbattere la viremia (o la rendiamo
talmente bassa da non essere rilevabile dai nostri sistemi), i mutanti resistenti al farmaco che stiamo usando non fanno
in tempo a selezionarsi: i mutanti resistenti a quel farmaco esistono sicuramente in natura, ma non diamo loro il tempo
di selezionarsi e quindi, quando la replicazione residua diventa molto bassa, la probabilità che emergano questi
mutanti resistenti è anch'essa molto bassa. Se invece utilizziamo un farmaco meno potente, oppure abbiamo una
minore aderenza al trattamento da parte del paziente, abbiamo una replicazione residua più consistente ed è quindi
possibile che delle mutazioni, avvantaggiate rispetto al wild-type o ad altri virus mutati in altri codoni, si selezionino
perché hanno un vantaggio selettivo in quanto conferiscono al virus la capacità di replicarsi nonostante la presenza del
farmaco. Queste si chiamano mutazioni di resistenza primarie. Una volta che le mutazioni si sono selezionate, se la
pressione selettiva continua, il virus resistente diventerà il virus dominante cioè avremo una replicazione residua più o
meno efficace, ma costituita tutta da virioni resistenti. Questo principio di insorgenza di resistenza dei virus si applica
anche ai batteri, è una sorta di regola evolutiva.
Dopo che si è selezionata una popolazione di virus resistente, il virus monterà altre mutazioni secondarie per
ripristinare e bilanciare le funzioni normali penalizzate nel virus resistente (come per esempio la capacità replicativa).
In genere il virus resistente ha una capacità replicativa meno efficace del wild type perché il virione migliore
selezionato negli anni è il wild type! Un virus mutato, pur essendo resistente ai farmaci che usiamo, in natura è di
sicuro svantaggiato rispetto al wild type. La pressione selettiva del farmaco che già ha prodotto una mutazione (per
esempio rt-204), indurrà il virus a montare altre mutazioni che bilanceranno l‟effetto della prima: la 204 difende il
virus dall‟azione della lamivudina (farmaco usato nel trattamento di HBV) e la 80 aiuta la fitness, quindi mentre un
wild type non ha né la mutazione 204 né la 80, il virus mutato avrà sicuramente la 204 e probabilmente avrà un corteo
accessorio di mutazioni secondarie che bilanciano gli effetti negativi conseguenti alla prima mutazione.
L‟emergenza di mutanti resistenti è perciò funzione della replicazione residua (quindi la potenza del regime
terapeutico dev‟essere importante: meglio non dare una terapia che darla male!) ed è anche funzione della barriera
genetica, cioè del numero di mutazioni che quel virus deve montare per essere resistente a quel farmaco.
Ci sono farmaci per HIV ma anche per HBV per i quali una sola mutazione induce resistenza totale (i non nucleosidici
in HIV), mentre ci sono altre classi di farmaci, come le proteasi, che vengono inattivate da una serie di mutazioni: la
barriera genetica è tale per cui la resistenza al farmaco richiederebbe di montare 5-6 mutazioni insieme, il che è
difficile avvenga e difficilmente in questi casi si sviluppa resistenza.
Una volta che un virus che diventa resistente si diffonde NON diventa il wild type, ma semplicemente il ceppo
prevalente di quel soggetto: wild type per definizione è il "selvaggio" o il "prototipo", il virus senza alcuna mutazione,
il ceppo normale non addomesticato. I ceppi resistenti sono il prodotto delle nostre selezioni.
I mutanti hanno un vantaggio competitivo rispetto al wild type in presenza del farmaco: se togliamo il farmaco
predomina di nuovo il wild type perché ha un vantaggio competitivo, mentre in presenza del farmaco la situazione si
capovolge, sarà il mutante ad avere il vantaggio competitivo.
- TEST DI RESISTENZA: Perché vengono utilizzati i test di resistenza?
Innanzitutto in HIV e ora anche in HBV la resistenza di baseline è predittiva di risposta virologica.
È normale che un soggetto sia infetto da un ceppo resistente di HIV perché abbiamo tanti pazienti viventi resistenti
che trasmettono il virus e quindi abbiamo anche una percentuale dal 10 al 15% di pazienti naive (cioè che non hanno
mai preso una terapia) con diagnosi recente di mutazioni di resistenza, cioè che hanno preso virus resistenti già
all‟inizio. Di solito queste resistenze sono però eterogenee come popolazione e in HIV, senza pressione selettiva,
rapidamente emerge di nuovo il wild type. In HBV i tempi sono un pochino più lenti, ci sono meno pazienti con
HBV-resistenza, e quindi per HBV il fenomeno dei pazienti naive con mutazioni di resistenza è assolutamente
trascurabile. Dobbiamo però tenere in considerazione questo fenomeno per esempio in riferimento agli incidenti
professionali: se un medico si punge da un paziente in terapia per HBV, può prendersi direttamente un HBV con
resistenza.
La resistenza di baseline va perciò considerata e prima di iniziare la terapia va fatto il test, d'aiuto nella scelta del
regime terapeutico ottimale.
- TIPI DI MUTAZIONI: In HBV le mutazioni riguardano principalmente la polimerasi, nel nostro laboratorio
sequenziamo da rt6 a rt345 come si vede dalla slide.
Rt 204 è la prima mutazione che è stata descritta per effetto della lamivudina, il primo farmaco importante che è
diventato ed è ancora uno dei principali nella terapia di HBV. Inizialmente si somministrava in monoterapia. Questo
farmaco è anche uno dei capisaldi della terapia contro HIV. La 204 è una delle mutazioni classiche dovute a
lamivudina.
Uno dei problemi che insorgono nella terapia di HBV nei pazienti coinfetti HBV/HCV o HBV/HIV è che quando noi
trattiamo l'infezione da HIV, se il paziente è coinfetto con HBV noi in qualche modo ragioniamo anche su HBV:
essendo lamivudina uno dei farmaci d‟elezione per la terapia contro HIV noi somministriamo al soggetto lamivudina
per colpire HIV. Se però il paziente è coinfetto con HBV, lamivudina avrà un effetto anche sulla replicazione di
questo, pur non volendo trattare intenzionalmente HBV con lamivudina! Abbiamo perciò centinaia di migliaia di
pazienti HBV positivi trattati “non volendo” con lamivudina, nel senso che noi pensando a colpire HIV trattiamo di
riflesso anche HBV e, siccome la monoterapia con lamivudina di HBV è efficace nel breve e medio termine, ma tende
poi a sviluppare resistenze, abbiamo molti pazienti coinfetti HIV/HBV che vanno abbastanza bene per HIV ma che
abbiamo "maltrattato" per HBV perché li abbiamo esposti a questa terapia non volendoli trattare. In questi anni si sta
valutando con molta cura l'efficacia di questi trattamenti paralleli.
- FALLIMENTO VIROLOGICO: Si ha quando c'è un aumento nel sangue di HBV-DNA dopo la terapia, quindi sale
la viremia e aumentano le transaminasi: è un indice indiretto. Si fanno allora i test di resistenza fenotipica e i test di
resistenza genotipica.
Questa distinzione non si ha nei batteri per i quali facciamo test solo di resistenza fenotipica, mentre i test di genotipo
sono ancora abbastanza sperimentali. Per i batteri si fa di norma l‟antibiogramma: in presenza di dosi scalari o
qualitative di farmaco inoculiamo il battere e lo facciamo crescere: se il battere cresce significa che è resistente, se non
cresce significa che è inibito da quel farmaco a concentrazioni che possiamo decidere. Sul terreno solido di solito si fa
il test qualitativo, sul terreno liquido in genere si fanno concentrazioni scalari. Questi sono test fenotipici perché il
correlato genotipico della resistenza nei batteri è un po' più difficile, più complesso da ricostruire.
Nei virus invece è abbastanza semplice: si parte dal TEST FENOTIPICO, per il quale una volta c'erano test empirici,
mentre ora sono le aziende nella fase di premarketing a testare l‟efficacia del farmaco prima su campioni di sangue
(fase 1) e poi nei malati (fase 2). Si coltiva il virus in presenza di farmaco e dopo una serie di passaggi si osserva che il
virus monta la resistenza giusta e quindi, fenotipicamente, prima di immettere il farmaco nel mercato, le ditte hanno
già cominciato a studiare i ceppi che in vitro hanno indotto resistenza.
Si parte dal fenotipo: il test di resistenza fenotipica prevede la coltura, un controllo positivo, cioè una certa quantità di
virus su cellule e poi la stessa quantità di virus in presenza di dosi scalari di farmaco. Il ceppo resistente crescerà a
partire da una certa quantità di farmaco. La quantità di farmaco non può essere eccessiva perchè il farmaco in coltura
può arrivare ad essere tossico ed è inutile dare in coltura dosi massive di farmaco che poi non hanno un equivalente in
clinica.
Questi sono i test classici di resistenza fenotipica che esistono da quando si è imparato a coltivare HBV.
TEST GENOTIPICO: E‟ l'analisi della sequenza e si fa da quando sono stati scoperti e studiati HIV e HBV perché il
testo genotipico è stato inventato negli anni „70. Come operiamo il test genotipico?
Ipotizziamo di fare un test genotipico su un nuovo farmaco: ho il wild type e il virus resistente che in coltura cresce
nonostante la presenza di farmaco, sequenzio il resistente, valuto tutte le mutazioni che lo rendono differente dal wild
type e cerco di capire quali sono le mutazioni che conferiscono resistenza.
Con il test fenotipico vedo semplicemente quando il virus cresce nonostante la presenza di farmaco, mentre il test
genotipico necessita di una banca dati, cioè devo aver avuto precedentemente il testo fenotipico che abbia evidenziato
in vitro la presenza del virus resistente e devo aver capito col sequenziamento quali sono le mutazioni. A quel punto
sui pazienti che assumono un certo farmaco e che hanno resistenza clinicamente rilevabile, cioè per cui il virus non
viene ucciso dal farmaco, studio le mutazioni e se trovo quelle mutazioni descritte in letteratura posso dire che il
paziente ha il virus resistente.
Per riconoscere queste mutazioni devo però prima conoscerle! Non posso individuare le mutazioni per ogni singolo
paziente perché di tutte le possibili mutazioni che trovo in un paziente tante sono polimorfismi non riconducibili a
resistenza effettiva. Il test fenotipico è il test che nasce prima, in elaborazione di conoscenze, mentre il testo
genotipico si può eseguire solo avendo a disposizione una banca dati.
Nei fatti invece quando siamo in fase diagnostica, ho un paziente a cui devo dare una terapia. E‟ molto più semplice
fare un test genotipico (perché c‟è una banca dati adeguata e sufficiente per i 4-5 farmaci per HBV attualmente in
uso), piuttosto che fare un test fenotipico che prevede la coltura del virus, per cui servono laboratori particolarmente
attrezzati. Il test genotipico è tecnicamente una procedura alla portata di molti laboratori perché è sufficiente un
sequenziatore, nonostante questo sia costosissimo e necessiti di personale molto preparato. In Italia HIV viene
coltivato in tre o quattro laboratori mentre il test genotipico si esegue più o meno in 30 o 40 laboratori, per HBV siamo
più o meno sulle stesse cifre.
Abbiamo una serie di mutazioni che sono state riconosciute responsabili di resistenza per i vari farmaci.
In alcuni casi le mutazioni sono simili: la 180 dà resistenza a lamivudina ed entecavir, la 204 sicuramente a
lamivudina ed entecavir, per il tenofovir si sta ancora discutendo. È notevole il fatto che mentre alcune mutazioni sono
singolarmente sufficienti a dare resistenza ad alcuni farmaci (es 180 e 204 sono sufficienti a sviluppare resistenza
contro lamivudina), per altri come entecavir, per esempio, bisogna montarne almeno tre o quattro
contemporaneamente.
Come si monitorizzano le resistenze?
Innanzitutto con la quantità di virus, cioè se il virus non è presente allora non c'è resistenza e la terapia è efficace.
(Bisogna sempre fare attenzione ad usare lo stesso test!). Se invece c‟è viremia si può fare il test per la resistenza.
Abbiamo, a proposito dei vari test, due articoli che dimostrano come i due migliori sistemi, Roche e Abbot, correlino
bene: lo stesso paziente è stato testato con entrambi i test e vediamo che per il primo articolo sono abbastanza ben
correlati, l‟altro articolo sostiene che lo siano un po‟ meno, cioè a seconda del test utilizzato cambia il numero di
logaritmi. Insomma è importantissimo usare sempre lo stesso test per avere uno studio longitudinale che abbia un
senso.
METODI PER STUDIARE LE RESISTENZE COL SISTEMA GENOTIPICO:
 SEQUENZA DI POPOLAZIONI: si fa un sequenziamento aperto, cioè facciamo la reazione di sequenza
partendo dall'estratto, di solito dal plasma, e si ottiene una sequenza che viene inserita in banca dati e dice
quali sono la sequenza e la traduzione rispetto al wildtype e quali sono le modifiche rispetto al wildtype. Le
migliori banche dati danno anche una predizione di resistenza.
Per HIV la banca dati è ben fornita, per HBV le banche dati sono ancora in elaborazione; c'è da dire a tal
proposito che per HBV si è usciti dalla monoterapia solo da circa 3 anni, per HIV la terapia è arrivata oggi a 25
farmaci, ma ne abbiamo a disposizione una decina da 15 anni. La sequenza di popolazioni è poco sensibile
perché non coglie le mutazioni presenti in meno del 20% del campione, cioè le popolazioni minoritarie presenti
come popolazione inferiore al 20% non vengono di sicuro trovate, quindi non identifica una popolazione
minoritaria che sta emergendo. Serve perciò un algoritmo interpretativo perché non capiamo le nuove mutazioni:
le vediamo, ma non sappiamo che peso dar loro, quindi per i nuovi farmaci questo serve per acquisire dati che
poi qualcuno dovrà interpretare.
 SISTEMA DI IBRIDAZIONE: molto buono perché molto sensibile ai virioni presenti in percentuali anche del
4-5% della popolazione generale, peccato che, avendo diversi virioni con tutte le possibili mutazioni che ci
interessano su un‟unica strisciolina di carta, trova solo le mutazioni note che ci aspettiamo di poter trovare.
Una volta fatta una sequenza possiamo rivalutarla anche dopo diversi mesi, qualora si formuli un algoritmo
nuovo, perché abbiamo la sequenza vera, cioè alcune centinaia di basi in sequenza da conservare. Il sistema
con la strisciolina invece mostra solo se ci sono o meno circa 5 mutazioni: tutto ciò che non era presente nel
pacchetto non può essere reinterpretato perché mostrava la presenza di mutazioni solamente sulle 4-5-6
posizioni note, cioè non fa una sequenza, ma cerca solo delle varianti.
 PCR ALLELE-SPECIFICA: per ricerca oggi questa tecnica va molto di moda. Per esempio prendendo in
considerazione 184-VMI, facciamo tre PCR diverse che ci dicono quanta V, quanta M, e quanta I ci sono.
Ogni volta si fa una Real time per ogni mutazione, per due o più posizioni, tenendo conto che interpretiamo
virus con venti mutazioni, cioè 20 codoni mutati, con 2 o 3 mutazioni a codone dovremo fare circa 60 PCR,
il che è impossibile, quindi si usa per fare ricerca su singole mutazioni.
 ULTRA DEEP PYROSEQUENCING: è una novità che costa circa 500.000 euro (mentre il sequenziatore
costa circa 250.000 euro). È un sequenziatore in grado di fare milioni di sequenze piccole di 100/200 basi, a
seduta.
Costa molto anche se la singola sequenza costa poco: se il costo di una sequenza normale è di 200 euro, il costo
di un ultra deep è di 10.000 euro a piastra però con una piastra si fanno venti pazienti, quindi sono circa 500 euro
a paziente, soltanto che la realizzazione richiede circa un mese e un altro mese serve ad un ingegnere per
analizzare il risultato. Il test dura 24 ore e costa 10.000 euro però le persone fisiche che intervengono prima e
dopo il test costano molto. Il vantaggio è che questa tecnica permette di analizzare con una singola piastra 20
pazienti, cioè venti plasmi con una risoluzione dello 0,5%, cioè fino a 5.000 sequenze dello stesso plasma, e
quindi fino a 4-5.000 virioni diversi (che possono essere tutti uguali oppure tutti diversi a seconda di cos‟ha il
paziente), moltiplicate per 10-20 pazienti. Ovviamente maggiore è il numero di sequenze che facciamo per ogni
singolo paziente, minore è il numero dei pazienti che possiamo analizzare, però mediamente, per le nostre
esigenze, è inutile scendere sotto l‟1% per vedere cioè le popolazioni minoritarie presenti in percentuale dell‟1%,
che non sono ancora prevalenti, ma potrebbero
diventarlo; questa tecnica quindi serve per lo più per
motivi di studio.
Vediamo nella slide l‟elettroferogramma che
dimostra:
- nel primo caso, nella posizione considerata prevale
nettamente la “A”, non ci sono altre possibilità;
- nel secondo si hanno un po‟ A e un po‟ T, si nota
che entrambi si muovono; - nel terzo caso non si
riesce a determinare; nell‟ultimo caso in basso
prevale la “G”;
Sotto il 20% si deve fare editing: la persona che si
occupa di leggere e quindi di scrivere la sequenza nel
primo caso dirà di sicuro A, nel secondo caso la
considererà mista 50%-50%, nel terzo dirà
probabilmente G, nel quarto dirà con certezza G.
Quando leggiamo la sequenza di basi non sappiamo
cosa c‟era all‟inizio perché l‟operatore che ha fatto
editing e sequenziato ha scelto le basi, oppure ha
indicato di non sapere qualora il risultato fosse poco chiaro. Con il pyrosequencing abbiamo invece una percentuale di
cosa c‟era.
TEST FENOTIPICO
 Il fenotipo classico è quello con la coltura, cioè si isola il virus, lo si titola con un sistema di archeovirologia;
si semina sui pozzetti sempre la stessa quantità di virus in presenza di dosi scalari di farmaco e poi si vede se
il virus è più o meno cresciuto a seconda della presenza di farmaco. Si applica infine una certa formula per
definire quanto il virus è resistente. Questa procedura prevede da 7 a 15 giorni per isolare, 7 giorni per
titolare, 7 per il test fenotipico, quindi un mesetto.
 C‟è un test che introduce una base di biologia molecolare, cioè dal virus del paziente si prende solo il pezzetto
di trascrittasi o di proteasi d‟interesse, lo si mette su un vettore e si fa la coltura con un virus standardizzato:
in questo modo si analizza solo il virus inserito nel vettore che non è il virus del paziente, ma un pezzetto del
virus del paziente. Questo permette di ottimizzare i tempi perché in questo modo servono in tutto 8 giorni, il
difetto è che si ragiona solo sull‟influenza sulla crescita in vitro del pezzettino che ho cucito, quindi bisogna
essere sicuri che tutte le resistenze che ci possono interessare siano comprese nel pezzettino di virus “preso e
cucito”; quando si operano isolamento, titolazione e infezione classica si valuta invece l‟intero corpo del
virus.
DIFFERENZE TRA FENOTIPO E GENOTIPO
Un lavoro del 2002 mostra ceppi resistenti di pazienti valutati con genotipo e fenotipo.
Consideriamo un farmaco classico, uno dei meglio studiati cioè l‟azidovudina (azt); consideriamo un gruppo di
pazienti resistenti e un gruppo di sensibili, cioè facendo il genotipo e mettendoli in banca dati, questa dava per
sensibili gli uni e resistenti gli altri.
Consideriamo anche che la banca lavora su farmaci singoli, non comprende le combinazioni, dobbiamo essere noi a
sommare le valutazioni di eventuali combinazioni di farmaci. Abbiamo saggiato in vitro e quindi fenotipicamente gli
stessi isolati di pazienti.
 Riesco a comprendere i pazienti che risultano resistenti sia per genotipo che per fenotipo cioè per cui la banca
dati dice che sono resistenti, e ho anche il riscontro fenotipico per cui coltivandoli in presenza di farmaco
questi continuano a crescere.
 Riesco a comprendere anche il pool di sensibili cioè il genotipo (banca dati) ci dice che sono sensibili, ed
effettivamente coltivandoli con una dose esigua di farmaco si riesce ad inibirne la crescita.
 Non riesco invece a capire i casi che il test genotipico considera sensibili, ma che facendo il test fenotipico,
cioè coltivandoli con azidovudina, crescono comunque!
SULTANO SENSIBILI AL TEST GENOTIPICO MA NON A QUELLO FENOTIPICO. Come si
può interpretare questa discordanza di risultati? Di sicuro essi saranno resistenti perché il test fenotipico è
affidabile, non tradisce e ci dice appunto che sono resistenti, significa invece che è la banca dati a non essere
aggiornata al punto da riconoscere questo virus come resistente.
La banca dati restituisce le informazioni che le vengono fornite. Nonostante il farmaco considerato avesse nel
2002 circa 15 anni, alcune mutazioni o combinazioni di mutazioni sfuggivano alla capacità di analisi della banca
dati per cui, sulla base delle mutazioni che io avevo fornito alla banca, essa non era capace di prevedere
resistenza sui virus di questi pazienti, nonostante in vitro i virus fossero effettivamente resistenti.
 Il caso opposto (
NON A QUELLO
FENOTIPICO) e interpretabile in modo analogo è quello per cui la banca dati aveva interpretato il virus
come resistente perché c‟erano delle mutazioni che la banca dati leggeva come conferenti resistenza, ma
probabilmente c‟erano altre mutazioni, magari in altre zone del virus, che la banca dati non era capace di
leggere e che bilanciavano l‟effetto di quelle mutazioni capaci di conferire resistenza, con la conseguenza che
nei fatti un po‟ di farmaco inibiva la crescita. Queste sono delle risposte discordanti per un farmaco che nel
2002 era già molto diffuso e molto ben conosciuto. Per alcuni farmaci meno noti del precedente, negli anni
2001-2002 succedeva che la banca dati non li sapesse neppure leggere nonostante esistessero ceppi resistenti.
Il risultato del test fenotipico è che aumentando la concentrazione di farmaco si trova la concentrazione alla quale,
inibiamo il 50 o il 90%, la IC50 (INHIBITORY CONCENTRATION) o IC90, del virus, dei pozzetti o del virus in toto.
Quando abbiamo un paziente resistente aumenta la quantità di farmaco necessaria a ottenere una IC 50 o una IC90 cioè
la curva nel grafico [inibizione di replicazione virale/concentrazione di farmaco], si sposta a destra.
FITNESS VIRALE: Partiamo dal presupposto che la forma del virus che cresce in assenza di farmaco sia quella con
maggiore fitness, questa ha replicazione più rapida, e minor inibizione da parte del sistema immune.
Per capacità replicativa si intende la replicazione in vitro, convenzionalmente per fitness si intende lo stesso concetto
ma in vivo: quindi in vitro noi parliamo solo dell‟azione inibitoria svolta dai farmaci, in vivo è un concetto che si
allarga all‟azione da parte del sistema immunitario e tiene conto anche della capacità di infettare diversi tipi di cellule,
è quindi la capacità di riprodursi comunque.
Con la comparsa delle resistenze possono venire selezionati ceppi diversi che in presenza del farmaco crescono meglio
del wild type, ma con meno fitness in assenza dello stesso e che quindi in natura sono svantaggiati. Sono avvantaggiati
solo in presenza del farmaco e quindi noi diamo il farmaco, la replicazione scende perché ci sono mutazioni di
resistenza, quindi in qualche modo il virus si replica ma ha perso velocità e in più ci sono mutazioni che ripristinano
anche questa capacità replicativa.
Un esempio è la sostituzione in posizione 80 nella reverse transcriptase di HBV: la mutazione è associata con la
resistenza alla lamivudina, ma aumenta la capacità replicativa. Quando c‟è la mutazione 204, quindi resistenza, con la
mutazione I o con la V o con entrambe, molti virus presentavano anche la mutazione 80 soprattutto con la I quindi
avevano questa mutazione che si aggiungeva per compensare i danni replicativi della 204. La cosa più complicata qui
era che si associava più facilmente alla I che non alla V.