MARCO PANATTONI TECNICA DEI SISTEMI ENERGETICI MACCHINE E IMPIANTI TERMOTECNICI I PARTE da pag.1 a pag. 90 • IDRAULICA • MACCHINE IDRAULICHE • TERMODINAMICA • TRASMISSIONE DEL CALORE • COMBUSTIBILI E COMBUSTIONE II PARTE da pag.1 a pag. 39 • MACCHINE TERMICHE • IMPIANTI A VAPORE • IMPIANTI DI RISCALDAMENTO • CRITERI DI RISPARMIO ENERGETICO • POMPE DI CALORE E IMPIANTI FRIGORIFERI III PARTE • IMPIANTI DI CONDIZIONAMENTO AMBIENTI • QUALITA’ DEGLI IMPIANTI TERMOFLUIDICI • FONTI RINNOVABILI DI ENERGIA • ANTINFORTUNISTICA E SICUREZZA SUL LAVORO PREFAZIONE Sono oramai molti gli anni che ho trascorso cercando di accompagnare gli studenti del “Corso Termico” nel percorso di acquisizione di quelle conoscenze e competenze, previste nei programmi Ministeriali, ma soprattutto necessarie a fare di Loro dei bravi Tecnici dei Sistemi Energetici. Durante questo percorso comune, molte sono le cose che ho imparato dai miei Studenti e che ritengo mi abbiano reso migliore, non solo come insegnante ma anche come persona; spero di avere, almeno in parte, ricambiato. Le varie materie professionalizzanti che, dalla classe seconda fino alla quinta, caratterizzano il percorso formativo, affrontano tematiche diverse ma aventi un’unica matrice: l’energia, i modi di produrla, di sfruttarla nel rispetto dell’ambiente e soprattutto sfruttarla bene in quanto sempre più preziosa. Sono molti i testi di letteratura tecnico – scientifica che affrontano questi argomenti e dai quali spesso abbiamo attinto nello svolgimento delle nostre lezioni, ma abbiamo anche riscontrato difficoltà di comprensione e soprattutto di sintesi da parte degli alunni. Da qui l’esigenza che ho avvertito e che mi ha indotto a scrivere la mia “Tecnica dei Sistemi Energetici”. Questo lavoro ha origine dalla raccolta di appunti delle lezioni svolte agli Studenti del Corso Termico dell’Istituto Professionale Statale “A.Pacinotti” di Pescia, a cui è dedicato, e vuole essere una traccia del percorso formativo che, nello svolgimento delle 3 parti in cui è suddiviso, tocca in maniera semplice e di facile lettura i concetti e le conoscenze basilari necessarie su tutte le tematiche previste nel Programma Ministeriale. Sarò ben lieto di accogliere osservazioni, critiche e suggerimenti tali da portare migliorie a questa prima stesura. Marco Panattoni 2 I PARTE MODULO 1 CONOSCERE E MISURARE IL NOSTRO AMBIENTE U.D. 1 - STATI FISICI DELLA MATERIA - La materia che ci circonda può assumere tre stati fisici diversi: STATO SOLIDO ha una forma ed un volume proprio STATO LIQUIDO ha un volume proprio ma assume la forma del recipiente che lo contiene STATO AERIFORME non ha né volume né forma propria ma assume i valori sia di volume che di forma del recipiente che lo contiene. Lo stato aeriforme lo possiamo poi suddividere in: STATO AERIFORME VAPORE si può liquefare con la sola operazione di compressione ( es. il vapore d’acqua a temperature) GAS non è possibile liquefarlo con la sola operazione di compressione ( es. il gas d’acqua a temperature) ( di poco superiori a quella di ebollizione ) (molto superiori a quella di ebollizione) La materia può passare da uno stato fisico agli altri a seconda dell’energia che possiede e che noi possiamo aumentare o diminuire, ad esempio fornendo o togliendo calore; così se diamo calore ad una certa quantità di ghiaccio (solido), vediamo che ad un certo punto questo diviene acqua (liquido) e se continuiamo a fornire calore avremo poi il vapore d’acqua (aeriforme) che, continuando a fornire ulteriore calore fino a portarlo a temperature molto alte, definiremo gas d’acqua. Il processo contrario si può naturalmente avere sottraendo calore. 3 Questo modo di operare lo possiamo rappresentare in un piano cartesiano ( x – y ) dove riportiamo in ordinata le variazioni della temperatura ( T ) ed in ascissa il calore fornito ( Q ) : T qs=(q5-q4) qv=(q4-q3) qr’=(q3-q2) te qr qf=(q2-q1) tf 0 q1 q2 q3 q4 q5 Q q0 Il ghiaccio è inizialmente ad una temperatura inferiore a 0°C, forniamo la quantità di calore qr (calore di riscaldamento) e la temperatura sale fino a 0°C (temperatura di fusione del ghiaccio); diamo ancora calore qf (calore di fusione), il ghiaccio fonde pian piano fino a diventare tutta acqua. Durante il passaggio di stato la temperatura resta costante fino a che tutto il ghiaccio non è liquefatto. Poi diamo calore qr’ (riscaldiamo l’acqua), la temperatura sale di nuovo fino ad arrivare ai 100°C (temperatura di ebollizione dell’acqua alla pressione atmosferica normale). Giunta la temperatura a 100°C l’acqua inizia a bollire e pian piano diventa vapore, con qv abbiamo indicato il calore da dare per far evaporare tutta l’acqua. A questo punto se il vapore è stato raccolto e non disperso nell’aria, possiamo fornire ancora calore qs e la sua temperatura salirà sempre di più. Il calore che abbiamo fornito in tutto il processo, evidentemente non ha dato sempre gli stessi effetti: qr ……. qr’ ……………. qs hanno fatto aumentare la temperatura qf …………… qv la temperatura è rimasta costante Chiameremo: CALORE SENSIBILE il calore fornito ad una sostanza che ha come effetto un aumento di temperatura; CALORE LATENTE il calore, fornito durante i passaggi di stato, che serve agli atomi della sostanza per aumentare la loro energia e passare dallo stato solido a quello liquido o da quello liquido a vapore, con la temperatura che rimane sempre la stessa (non sale e non scende) . 4 Questi termini sono facilmente memorizzabili se pensiamo che: SENSIBILE perché il termometro che misura la temperatura sale e quindi vediamo con i nostri sensi l’effetto del calore che forniamo, istante per istante; LATENTE cioè non visibile perché il termometro fermo non ci permette di vedere istante per istante l’effetto del calore che forniamo. Il grafico che abbiamo disegnato può essere percorso anche al contrario, ed allora: una massa di vapore cede calore sensibile e calore latente, prima raffreddandosi da alte temperature fino alla temperatura di ebollizione e poi condensando (cioè passando da vapore ad acqua). Il calore latente è molto più grande del calore sensibile e questo, come vedremo, rende il vapore d’acqua sfruttabile in molte applicazioni impiantistiche. L’esempio dei passaggi di stato della materia H2O (acqua) è valido per qualunque altro materiale, naturalmente cambiano i valori delle temperature e delle quantità di calore in gioco. U.D. 2 - GRANDEZZE FISICHE ED UNITA’ DI MISURA ( Il sistema internazionale di misura “ S.I. “ ) Le principali grandezze fisiche a cui più frequentemente ci riferiamo, sia nella vita di tutti i giorni, sia nello studio energetico e più in generale impiantistico sono: Grandezze scalari ( Sono definite solo dalla intensità ) LUNGHEZZA – misura di una linea retta ---- si misura in metri ( m ) ; SUPERFICIE – misura una area ---- metri quadri ( m2 ) ; VOLUME – misura lo spazio occupato da un corpo ---- metri cubi ( m3 ) ; TEMPO – misura la durata di un evento ---- secondi ( s ) ; TEMPERATURA – misura il livello di energia termica contenuta dalla materia o potremmo anche dire che misura la “qualità” dell’energia termica contenuta ---- si misura in gradi kelvin ( °K ) ; CALORE – è una delle due forme “terminali” dell’energia, l’altra è il lavoro meccanico, e come questo si misura in ---- joule ( J ) --- (da non confondersi con la temperatura) ; MASSA – quantità di materia presente in un solido, in un liquido o anche in un aeriforme ---si misura in chili (Kg) ; 5 Grandezze vettoriali ( Sono definite se ne conosciamo: intensità – direzione – verso ) VELOCITA’ – misura lo spazio percorso nell’unità di tempo ---- metri diviso secondo ( m/s ) ; ACCELERAZIONE – misura in quanto tempo si passa da un valore di velocità ad un altro ( V1 – Vo ) / tempo ---- si misura in metri diviso secondo quadro ( m / s2 ) ; FORZA – misura “lo sforzo” che dobbiamo fare per imprimere una accelerazione di 1 m / s2 ad un corpo di massa pari a 1 Kg ---- si misura in newton ( N ) ; PESO ( Forza peso ) – è la forza con cui la terra attrae una massa, come tutte le altre forze si misura in newton ( N ) ---- questa forza particolare (peso) cambia se cambia il valore della accelerazione dovuta alla gravità terrestre che solo al livello del mare è di 9,81 m / s2 ma se andiamo in alta montagna un po’ diminuisce (più ci allontaniamo dal centro della terra e più cala) ; PRESSIONE – è il rapporto tra la forza e la superficie dove tale forza agisce, quindi N / m2 ---- a questa unità di misura si dà il nome di pascal ( Pa ) . Consideriamo per finire LA POTENZA ( che va inserita nel gruppo delle grandezze fisiche scalari ) POTENZA – misura quanta energia ( calore o lavoro ) viene “sprigionata” nella unità di tempo ---- si misura perciò in joule / s a cui diamo il nome di watt ( W ) . ALCUNE CONSIDERAZIONI • Nella trattazione di macchine ed impianti termici vedremo quale particolare importanza rappresenta la POTENZA e non tanto l’energia : una macchina o un impianto saranno giudicati per la capacità di erogare energia nel più breve tempo possibile e quindi in base alla loro più o meno grande potenza. • La MASSA è la quantità di materia di cui è costituito un corpo e dovunque lo porto, a meno che non se ne perda pezzi per strada, la sua massa resterà sempre costante, il suo peso invece cambia perché dipende dalla attrazione di gravità che c’è in quel punto ( fuori dalla atmosfera terrestre il corpo non ha più peso, ma ha sempre la stessa massa) . • Abbiamo definito la TEMPERATURA come un “indice della qualità del calore contenuto in un corpo”, si capirà meglio questo concetto con un esempio : supponiamo di fornire la stessa quantità di calore ad uno spillo e ad un blocco di acciaio di 20 Kg (mettendoli ambedue per 30 secondi sopra lo stesso fornello); il blocco da 20 Kg raggiungerà una temperatura di pochissimo superiore a quella ambiente, che ci faccio ? Poco o niente…. Lo spillo sarà invece incandescente, ad alta temperatura, posso utilizzarlo per eseguire un foro su un foglio di plastica, se ho il brutto vizio di fumare posso accenderci una sigaretta, ecc. ecc. ….La stessa quantità di calore se contenuta in un corpo 6 ad alta temperatura è più facilmente sfruttabile e quindi per me di “migliore qualità”. • Le grandezze fisiche adesso richiamate non sono certo tutte, ma sono quelle che incontreremo più spesso e quindi dobbiamo imparare ad usarle in modo appropriato. Anche le unità di misura ad esse associate non sono le uniche, ma sono quelle del SISTEMA INTERNAZIONALE che dovremo sempre usare, nel linguaggio tecnico e specialmente nei calcoli; altre, del Sistema Tecnico ad esempio, le useremo per comodità solo in alcuni specifici casi e con molta accortezza per non fare confusione. Se avete capito, alla domanda: quanto pesi ? …………..risponderete……… ….Ho una massa di 70 Kg quindi, al livello del mare, peso circa 700 N … Se la vostra risposta è stata invece molto diversa, occorre rileggere con più attenzione le pagine precedenti..! ! ! MODULO 2 PRINCIPI DI IDROSTATICA U.D. 3 - PROPRIETA’ FISICHE DELL’ACQUA ( H2O ) – L’idrostatica è la parte di idraulica che studia i liquidi in quiete, cioè fermi. I principi e le leggi valide per i liquidi, lo sono anche per gli aeriformi, tenendo però sempre presente che mentre possiamo considerare un liquido praticamente incomprimibile (volume proprio costante), questo non vale certo per un vapore od un gas e ne dovremo tenere conto. MASSA VOLUMICA ( chiamata spesso anche DENSITA’ ) la quantità, in Kg, della sostanza in esame, che entra in 1 m3 di volume; la sua unità di misura è quindi Kg / m3 ; per l’acqua dolce la possiamo considerare pari a : Mv = 1000 Kg / m3 ( 1 litro = 1 dm3 contiene circa 1 Kg di acqua alla temperatura ambiente ) . Ricordiamoci però che questo valore non è costante ma varia con la temperatura: se l’acqua è più calda si dilata e quindi in quel m3 ne entra di meno. PESO SPECIFICO il peso in newton della massa di sostanza contenuta in 1 m3 di volume e quindi la sua unità di misura è N / m3; per l’acqua sarà quindi Ps = Mv • g dove g rappresenta l’accelerazione di gravità in m / s2 . Al livello del mare, dove g assume il valore di 9,81 m / s2 il peso specifico dell’acqua a temperatura ambiente è : Ps = 9810 N / m3 VISCOSITA’ immaginiamo una massa di fluido che scorre come una serie di piani fluidi che scorrono uno sull’altro a diverse velocità, possiamo vedere la viscosità come 7 l’attrito interno al fluido stesso che si sviluppa tra i diversi piani in movimento reciproco. F V H v A A Se abbiamo piani fluidi di uguale area S ( di cui sul foglio ne vediamo la traccia A – A ) che scorrono con velocità diverse ( da v a V ), la forza F, da applicare al piano distante H da quello più lento affinché si muova con maggiore velocità V, è direttamente proporzionale all’area S e alla differenza di velocità ( V - v ) ed inversamente proporzionale alla distanza H fra i due piani : S•(V–v) F = μ • ------------------H La costante μ di proporzionalità prende il nome di viscosità dinamica e ricavando dalla relazione precedente μ : F • H μ = ---------------------------S • (V–v) L’unità di misura di μ , ricavabile dalla precedente formula è [ Pa • s ] Usualmente il coefficiente di viscosità viene espresso in centipoise ( cP ) 1 cP = 1 mPa • s La viscosità di un liquido diminuisce all’aumentare della temperatura mentre si può in pratica considerare indipendente dalla pressione. U.D. 4 -PRESSIONE RELATIVA E PRESSIONE ASSOLUTA-LA PRESSIONE IDROSTATICAAbbiamo già definito la pressione come il rapporto tra una forza ( N ) e la superficie ( m2 ) dove la forza stessa agisce : p = F / S [N/ m2] ; ma la forza in questione potrebbe essere anche il peso di una colonna di fluido, ad esempio l’aria che ci circonda e che si trova sopra di noi fino ai limiti dell’atmosfera terrestre, e la superficie S potrebbe essere un piano orizzontale di 1 m2 posto al livello del mare 8 atmosfera 1m 1m Il peso di questa colonna di aria alta molti Km e circa 100000 N , perciò la pressione dovuta all’aria, sul livello del mare è : p atm = 100000 / 1 = 100000 [N/ m2] cioè 100000 Pa Fuori dalla atmosfera terrestre non c’è più aria ( il vuoto ) e quindi lì la pressione è zero. Consideriamo adesso un bacino di acqua dolce situato al livello del mare : atmosfera livello mare h S una superficie orizzontale S comunque grande immersa in acqua ad una profondità dal pelo libero di h metri. Sulla superficie S grava oltre alla pressione atmosferica di 100000 Pa anche la pressione dovuta al peso della colonna d’acqua che c’è sopra e che possiamo calcolare così : S • h • Ps pi = --------------------dove S • h = volume colonna S Ps = peso specifico acqua e semplificando pi = Ps • h pi = pressione idrostatica (dovuta al liquido fermo) 9 p tot = p atm + pi La p tot (pressione totale) è la pressione rispetto al vuoto e viene definita “pressione assoluta”. La pì (pressione idrostatica) è la pressione relativa all’atmosfera e si definisce appunto “pressione relativa” . In conclusione se ho la pressione relativa in un punto e voglio trovare il valore della pressione assoluta devo sommare la pressione atmosferica in quel punto (generalmente possiamo assumere quella al livello del mare, cioè circa 100000 Pa). MISURE DI PRESSIONE Gli strumenti che misurano la pressione, sono dotati di un sensore che sente il valore della pressione nel punto dove lo inseriamo e di un quadrante dove noi possiamo leggere il valore misurato. Dobbiamo sempre tenere presente che questo valore sarà la pressione del punto dove è inserito il sensore rispetto a dove si trova il quadrante: in genere il sensore è in acqua ed il quadrante è in atmosfera, perciò quel valore che leggiamo è la pressione relativa; solo se intorno al quadrante potessimo togliere tutta l’aria (cioè fare il vuoto) leggeremmo la pressione assoluta. Per meglio capire: se gettiamo lo strumento, che segna zero, dentro il bacino d’acqua, a qualunque profondità esso segnerà sempre zero perché sia il sensore che il quadrante si trovano sempre alla stessa pressione. Da quanto sopra detto la pressione idrostatica pi = Ps • h aumenta in modo direttamente proporzionale all’altezza di affondamento h (supponendo costante in tutta la massa d’acqua il suo peso specifico), essa sarà quindi zero al pelo libero e massima in corrispondenza del fondo, è questo il motivo per cui una diga, ad esempio, deve reggere una spinta piccola vicino alla superficie del lago e una grossa spinta in prossimità del fondo 0 Pi Ps•h 10 U.D. 5 - IL PRINCIPIO DI PASCAL – Principio di Pascal: nei fluidi, la pressione esercitata su una porzione qualsiasi della loro superficie si trasmette in tutte le direzioni con pari intensità e sempre perpendicolarmente alla superficie premuta. Su questo principio sono basate le trasmissioni idrauliche che consentono, attraverso un liquido in pressione, la trasmissione e l’eventuale moltiplicazione delle forze. F1 F2 > di F1 S1 S2 > di S1 La moltiplicazione delle forze è realizzata facendo agire la pressione esercitata sul liquido dalla forza minore agente sulla superficie minore, sulla superficie maggiore, ottenendo con ciò una moltiplicazione della forza applicata pari al rapporto tra le superfici: p1 = F1 / S 1 p2 = F2 / S 2 p 1 = p2 = F1 / S 1 = F2 / S 2 F2 = F1 S2 / S1 11 Tipiche applicazioni di tale principio sono i sistemi di frenatura delle autovetture, le presse idrauliche ed i sollevatori idraulici. Da notare che il principio è valido per tutti i fluidi, non solo per i liquidi ma anche per gli aeriformi; ne abbiamo un pratico esempio nei circuiti pneumatici, dove l’aria messa in pressione da un compressore, attraverso le tubazioni di distribuzione e le varie valvole di controllo e comando, arriva ad azionare gli attuatori inseriti nel circuito stesso. La differenza principale tra circuiti pneumatici e circuiti idraulici sta nel fatto che i primi usano un fluido comprimibile ed i secondi un fluido praticamente incomprimibile: i circuiti pneumatici sono quindi adatti a trasmettere pressioni medio basse, sfruttabili come comando, i circuiti idraulici pressioni alte tipiche delle trasmissioni di potenza. Ricordiamo inoltre che la pressione si trasmette “ in tutta la massa fluida, in ogni direzione e con la stessa intensità” ; anche le tubazioni e tutti i componenti del circuito sono quindi sottoposti alla stessa pressione, indipendentemente dalla loro dimensione e collocazione. Analizzando con più attenzione la relazione che ci consente il calcolo della forza F2 ricavata dalla trasmissione idraulica ed esprimendo le superfici dei pistoni in funzione dei rispettivi diametri si ottiene: F2 = F1 S2 / S1 = F1 (πD2/4 : πd2/4) = F1 D2/d2 le forze agenti sul sistema idraulico sono inversamente proporzionali al quadrato dei diametri dei rispettivi pistoni. 12 U.D. 6 -IL PRINCIPIO DEI VASI COMUNICANTI( Applicazione della legge di Stevino ) Un liquido di peso specifico γ1, come anche l’esperienza di tutti i giorni ci dice, si pone allo stesso livello in vasi comunicanti diversi; ma se abbiamo due liquidi non miscelabili fra loro e di peso specifico diverso γ1 e γ2 ? 13 Per l’equilibrio verticale alla quota “ h “ si può scrivere: p (lato fluido 1 ) = p (lato fluido 2 ) pa + γ1 h1 = pa + γ2 h2 Se il liquido è lo stesso (γ1 = γ2 ) ed entrambi i serbatoi sono a pressione atmosferica le colonne dei due liquidi si predisporranno alla stessa altezza (h1 = h2) . Se i due liquidi sono diversi, l’equilibrio verticale si otterrà con le colonne predisposte in misura inversamente proporzionale alle rispettive densità. U.D. 7 – PRINCIPIO DI ARCHIMEDE – Il principio di Archimede afferma che un corpo immerso in un fluido riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso del volume del fluido spostato. Se il peso del fluido spostato è maggiore del peso del corpo, quest’ultimo galleggia; se i due pesi si equivalgono il corpo rimane in equilibrio; se il peso del fluido spostato è minore del peso del corpo questo affonda. Notiamo che il principio di Archimede vale per qualunque fluido, quindi sia per un liquido come l’acqua che per un gas come l’aria. Quando nuotiamo agitiamo braccia e gambe perché così facendo spostiamo un volume d’acqua maggiore e riceviamo quindi una spinta verso l’alto più elevata che ci aiuta a galleggiare. Gli uccelli per volare agitano le ali perché così facendo spostano un volume e quindi un peso d’aria maggiore che permette loro di galleggiare nell’aria stessa. E’ molto più difficile galleggiare nell’aria piuttosto che nell’acqua perché l’aria è molto più leggera e per spostarne uno stesso peso dobbiamo spostarne un volume molto più grande. E’ più facile galleggiare nell’acqua di mare piuttosto che in piscina perché l’acqua di mare ha molti sali disciolti e il suo peso specifico è maggiore rispetto all’acqua dolce, quindi spostando lo stesso volume d’acqua, in mare, la spinta di Archimede che ci permette di galleggiare è più elevata. 14 15 MODULO 3 DINAMICA DEI FLUIDI U.D. 8 - MOTO LAMINARE E MOTO TURBOLENTO – ( Numero di Reynolds ) Analizziamo adesso il moto di un fluido: questo può avvenire in un canale aperto oppure in un condotto chiuso, delimitato da pareti rigide, in cui il fluido scorre in pressione; quest’ultimo caso (tubazioni o condotte forzate) è quello che tecnicamente più ci interessa. Se continuiamo a vedere lo scorrere del fluido come un insieme di piani (o filetti) fluidi che viaggiano a velocità diverse l’uno a contatto dell’altro, il diagramma di distribuzione delle varie velocità può essere il seguente: moto laminare S moto turbolento S S S Vs media Vs media Per effetto dell’attrito, sia esterno (con le pareti del condotto) che interno (tra i vari filetti fluidi), il liquido in ogni punto della sezione della condotta (area in m2 della figura geometrica che si ottiene tagliando il condotto con un piano perpendicolare al suo asse) ha velocità diverse; la velocità massima sarà al centro e la minima (uguale a 0 ) a contatto con le pareti. Il modo di scorrere: • l a m i n a r e è caratteristico di fluidi molto viscosi e basse velocità; • t u r b o l e n t o caratteristico d fluidi poco viscosi e alte velocità . Quando parleremo di Velocità nella sezione S e la indicheremo con intenderemo sempre la Velocità media in quella sezione. Vs , Il verificarsi del moto laminare o del moto turbolento è dovuto ad una serie di fattori che possono riassumersi nel parametro dimensionale conosciuto col nome di : ρ • Vs • D Numero di Raynolds Re = -------------------μ dove ρ = massa volumica liquido ; Vs = velocità media nella sezione D= diametro interno tubo ; μ = viscosità dinamica liquido 16 In base ad esperienze di laboratorio condotte con liquidi di natura diversa, che scorrono in tubazioni circolari di diametro interno D diverso, si può sintetizzare i risultati ottenuti con : Re = ……2100………4000…5000……….. (valori del n° Reynolds) moto laminare zona transizione moto turbolento U.D. 9 - PORTATA VOLUMICA E PORTATA MASSICA – (Equazione di continuità) Definiamo portata (indicata con “ Q “) la quantità di fluido che attraversa una sezione S di una vena fluida nell’unità di tempo ( 1 secondo) : S tubazione fluido in pressione VV S Δx se la quantità di fluido è misurata in m3 avremo la portata volumica Qv in [m3/s] se la quantità di fluido è misurata in Kg avremo la portata massica Qm in [Kg/s] Se indichiamo con Δx lo spazio percorso dal fluido, che attraversa la sezione di area A , nel tempo t e con V la velocità media del fluido si ha : A • Δx Qv = ---------------t con A • Δx = volume di fluido (superficie di base A per altezza Δx) ma Δx / t = V (spazio / tempo = velocità media del fluido) , otteniamo : [m3/s] Qv = A • V 17 La portata volumica è data dal prodotto dell’area della sezione per la velocità media del fluido nella sezione stessa. Notiamo inoltre che se moltiplichiamo il volume di fluido (A • Δx) per la massa volumica (densità ρ) del fluido otteniamo la massa M in Kg del fluido stesso, e perciò: A • Δx M ---------------- • ρ = Qv • ρ = ----------- = Qm s s quindi Qm = Qv • ρ [ Kg / s ] La portata massica si può trovare moltiplicando la portata volumica per la densità del fluido. Se consideriamo due sezioni diverse della stessa vena fluida, S1 ed S2 S2 S1 V1 V2 S1 S2 e con V1 e V2 indichiamo le rispettive velocità medie del fluido, se : 1. – nel tratto di condotta compreso tra le due sezioni non ci sono né ingressi né uscite di fluido, cioè il fluido che entra è uguale a quello che esce: portata costante ; 2. – col trascorrere del tempo la portata di fluido rimane sempre uguale: regime permanente ; (questo non avviene per esempio durante le manovre di apertura e chiusura delle valvole di flusso) possiamo scrivere : Qv1 = Qv2 e sostituendo A1 • V1 = A2 • V2 che è conosciuta come equazione di continuità . Se conosciamo tre dei quattro termini dell’equazione possiamo ricavare il quarto, ma ricordiamo che essa è applicabile solo se sono verificate le condizioni 1. e 2. . 18 U.D. 10 - EQUAZIONE DI BERNOULLI – Parliamo adesso dell’energia che possiede una massa di fluido che si muove all’interno di una condotta in pressione. Essa può avere tre tipi di energia : • energia di posizione (geodetica) dovuta alla sua altezza rispetto ad un piano di riferimento; • energia di velocità (cinetica) dovuta appunto alla velocità con cui si muove (assumeremo sempre la velocità media); • energia di pressione (piezometrica) dovuta all’azione che le altre masse fluide circostanti esercitano su di essa (siamo all’interno di una condotta in pressione). Ricordiamo dalla fisica che l’energia di posizione, detta anche energia potenziale, di una massa M posta ad altezza H rispetto ad un piano di riferimento, può essere espressa come: E pot. = M • g • H [ joule ] con g = accelerazione di gravità l’energia cinetica posseduta da una massa M che si muove di velocità V, come: E cin. = ½ M • V2 [ joule] l’energia di pressione, ricordando che la pressione idrostatica è pi = ρ • g • h e quindi h = pi / ρ • g , come : E press. = M • g • h = M • pi / ρ [joule] con ρ = densità del fluido Se sommiamo le tre forme di energia otteniamo l’energia totale E tot. della massa fluida M in movimento : E tot. = E pot. + E cin. + E press. = M • g • H + ½ M • V2 + M • pi / ρ e dividendo tutti i termini dell’equazione per “M • g“ (peso della massa fluida), otteniamo l’energia totale dell’unità di peso di fluido in movimento: E = H + V2/ 2 g + pi / ρ•g che possiamo, in modo più generale, e sostituendo ρ•g = γ (peso specifico fluido), scrivere: 19 E = H + V2/ 2 g + p / γ dove E = energia totale per unità di peso [ joule/ N = N • m / N = m ] H = energia di posizione per unità di peso (altezza geodetica) [m] V2/ 2 g = energia cinetica per unità di peso (altezza cinetica) [m] p / γ = energia di pressione per unità di peso (altezza piezometrica) [m] Applichiamo adesso il nostro studio energetico all’unità di peso di un fluido che scorre in una condotta in pressione, passando da una sezione 1 ad una sezione 2, di diametro diverso, e supponendo che nel tratto di condotta compreso tra le due sezioni valgano le stesse condizioni poste per l’applicabilità dell’equazione di continuità, e cioè: portata costante e regime permanente : 1 condotta in pressione 1 V1 2 H1 V2 2 H2 piano di riferimento E1 = E2 principio di conservazione dell’energia se il fluido è ideale, cioè privo di viscosità, e quindi passando dalla sezione 1 alla 2 non si dissipa energia perché non c’è attrito: H1 + V12/ 2 g + p1 / γ = H2 + V22/ 2 g + p2 / γ 20 Questo vale per qualunque altra sezione della vena fluida, purché siano sempre valide le due condizioni di applicabilità: portata costante e regime permanente; più in generale possiamo quindi scrivere: H + V2/ 2 g + p / γ = Cost. e possiamo enunciare così l’equazione di Bernoulli : in una vena fluida in pressione, se il fluido può ritenersi privo di viscosità (ideale), con portata costante e regime permanente, la somma delle tre altezze, geodetica, cinetica e piezometrica è costante in qualunque sezione. U.D. 11 – PERDITE DI CARICO DI UNA CORRENTE FLUIDA – Per perdite di carico si intende perdite di energia, sotto forma di calore, dovute agli attriti, di un fluido che scorre in una condotta: attrito dei filetti fluidi che scorrono a contatto l’uno con l’altro a velocità diverse e attrito con la superficie interna della condotta stessa. Questa perdita di energia è zero per un fluido ideale (privo di viscosità) ed assume invece valori sempre più alti, quindi significativi dal punto di vista del bilancio energetico, man mano che aumenta la viscosità del fluido. Anche questa perdita di energia può essere calcolata per unità di peso del fluido e quindi la sua unità di misura è il m (metro); in accordo a quanto detto nella U.D. 10 a proposito delle forme di energia di un fluido in movimento. Le perdite di carico possiamo suddividerle in distribuite (o continue o lineari) e localizzate (o concentrate o accidentali); quelle distribuite sono dovute agli attriti incontrati nello scorrere del fluido all’interno della condotta dritta e a diametro costante, quelle concentrate sono invece dovute agli ulteriori attriti che si creano quando il fluido incontra ostacoli al suo scorrimento quali: curve, variazioni di sezione della condotta, valvole, filtri o quant’altro. La perdita di carico localizzata Δh , dovuta ad un ostacolo nello scorrere della vena fluida è, così come la perdita di carico distribuita, direttamente proporzionale al quadrato della velocità di scorrimento del fluido : Δh = k • V2 per il calcolo delle perdite di carico localizzate poniamo K = ξ / 2g con ξ ( psi ) coefficiente tabellato in funzione del tipo di discontinuità e g = accelerazione di gravità al livello del mare = 9,81 m/s2. 21 Se, a parità di ogni altro elemento, raddoppiamo la velocità del fluido, le perdite di carico diventano quattro volte più grandi, se triplichiamo la velocità le perdite saranno nove volte maggiori, e così via……. Ci sono diversi modi di calcolare queste perdite di carico: Darcy ; Colebroock; ecc. ecc. , ma il metodo più usato nella pratica impiantistica è quello di usare abachi che danno, in funzione del tipo di tubo, della portata d’acqua e della velocità, la perdita distribuita per metro di tubazione e tabelle che indicano i coefficienti per il calcolo di ogni singola perdita localizzata. Questo metodo è semplice ed immediato e con l’ausilio di un buon manuale può dare risultati soddisfacenti sia in tempo di calcolo che in precisione. Con un esempio tutto ci apparirà più semplice: una condotta porta acqua dolce con una portata volumica di 1m3/h (1 metro cubo ogni ora) condotta in rame con acqua alla temperatura di 10°C 50m tubo φ 22 mm + 150m tubo φ 12 mm in questa condotta, realizzata in tubo di rame, della lunghezza complessiva L =200 m di cui 50 m del diametro grande in cui l’acqua scorre con velocità 1,2 m/s e 150 m del diametro piccolo con velocità dell’acqua di 2,5 m/s ; ci sono: - 5 curve a 45° - 3 curve a 90° - 1 restringimento graduale di sezione Come possiamo calcolare la perdita di energia per attrito in questo tratto di 200 m ? Nei manuali tecnici possiamo trovare un diagramma per la determinazione delle perdite di carico distribuite di tubi in rame ed in funzione della portata di 1m3/h = 1000 litri/h e delle due velocità 1,2 m/s e 2,5 m/s leggiamo rispettivamente una perdita di carico distribuita di: - 1200 Pa / m ( 1200 pascal per ogni metro ) nel tubo grande lungo 50m; - 6500 Pa / m (6500 pascal per ogni metro ) nel tubo più piccolo lungo 150m; 22 moltiplicando per le rispettive lunghezze dei due tratti di tubo e sommando si ha: Δh = 1200 • 50 + 6500 • 150 = 60000 + 975000 = 1035000 Pa = 107 mc.a. (distrib.) queste sono le perdite distribuite in tutta la condotta . Dallo stesso manuale, leggiamo i coefficienti ξ ( psi ) per il calcolo di ogni perdita localizzata presente nella nostra tubazione: ξ curve 45° = 0,4 ; ξ curve 90° = 1,3 ; ξ restringimento graduale = 0,08 (nel nostro caso A2/A1 = V1/V2 = 1,2 / 2,5 = 0,48) -equazione di continuità- La relazione per il calcolo delle perdite localizzate, con l’introduzione del coefficiente ξ diviene : ξ • V2 Δh = --------2g moltiplicando per il rispettivo numero di discontinuità e sommando si ottiene: 0,4 • 1,22 • 2(curve)+1,3 • 1,22 • 1(curva)+0,08 • 1,22 • 1(restring.) Δh = ---------------------------------------------------------------------------------= 1,33 mc.a. (50m) 2g 0,4 • 2,52 • 3(curve)+1,3 • 2,52 • 2(curva) Δh = ---------------------------------------------------- = 1,21 mc.a. (150m) 2g ed infine sommando tutte le perdite Δh (distrib.) + Δh (50m) + Δh (150m) = 107+1,33+1,21= 109,5 mc.a. Il totale delle perdite di carico nella condotta in esame risulta pari a 109,5 mc.a. L’energia persa dall’unità di peso di acqua che attraversa la condotta si trasformerà in calore a scapito della pressione. 23 Dal precedente esempio di calcolo possiamo anche trarre alcune indicazioni: • per tubazioni lunghe le perdite di carico concentrate incidono poco sul totale, questo non avviene invece per tratti relativamente più brevi; • la portata e di conseguenza la velocità che assume l’acqua nella tubazione incide molto sulle perdite di carico, già dimezzando la portata e di conseguenza anche la velocità si avrebbero perdite di carico 4 volte minori, a tutto vantaggio del mantenimento della pressione a valle della condotta; • nel caso in esame, visto il valore di portata e la lunghezza della tubazione, sarebbe stato opportuno prevedere diametri diversi e forse anche materiali diversi: facciamolo come esercizio didattico e confrontiamo poi i diversi risultati, ne trarremo utile esperienza. U.D. 12 - EQUAZIONE DI BERNOULLI APPLICATA A LIQUIDI REALI Come abbiamo visto nell’U.D.10, l’equazione di Bernoulli non è altro che il più generale “principio di conservazione dell’energia” applicato all’unità di peso di un fluido che scorre in una condotta; se il fluido è privo di viscosità (ideale) e se la portata è costante e non varia nel tempo (regime permanente), allora: la somma delle tre energie di cui è dotato, altezza geodetica, altezza cinetica e altezza piezometrica, è costante in qualunque sezione della condotta (si usa chiamarle altezze anche perché si misurano in metri). Ma se il liquido è viscoso, come è per qualunque liquido reale? Tutto quello che abbiamo finora detto resta valido, basta soltanto mettere nel conto, e quindi inserire nella equazione, il termine che rappresenta le perdite di carico totali nel tratto di condotta compreso tra le due sezioni scelte per applicare l’equazione di Bernoulli; otterremo quindi: H1 + V12/ 2 g + p1 / γ - ΣP(d+c) = H2 + V22/ 2 g + p2 / γ dove ΣP(d+c) (sommatoria delle perdite di carico distribuite e concentrate) - nel tratto di condotta compreso tra la sezione 1 e la sezione 2 – 24 ESEMPI DI APPLICAZIONE DELL’EQUAZIONE DI BERNOULLI pressione atmosferica A A D h B v atmosfera B Un serbatoio di capacità molto grande è pieno di acqua dolce fino al livello A-A, il serbatoio è aperto; in D è installata una tubazione avente diametro interno Di = 12 mm la quale è intercettata da una valvola “v” che regola la portata d’acqua alla bocca di efflusso B-B, posta ad una altezza h = 20 m più in basso del pelo libero del serbatoio, al valore di 0,3 litri /s . 1) Vogliamo calcolarci a quanto ammontano le perdite totali di carico in tutta la condotta (perdite idrauliche distribuite e concentrate) ΣP(d+c) . Qv = SB • VB la portata volumica = area sezione tubo in B x velocita acqua VB Qv = 0,3 litri /s = 0,3 • 10 - 3 m3/s SB = π • Di2 / 4 = 3,14 • 0,0122 / 4 = 1,1304 • 10—4 m2 (area sezione B) e sostituendo VB = Qv / SB = 0,3 • 10—3 / 1,1304 • 10—4 = 2,65 m /s applichiamo l’equazione di Bernoulli tra le due sezioni A-A e B-B : (la portata è costante, il regime permanente e le due sezioni fanno parte della stessa vena fluida); HA + VA2/ 2 g + pA / γ - ΣP(d+c) = HB + VB2/ 2 g + pB / γ come piano di riferimento assumiamo il piano orizzontale passante per la sezione B-B : HB = 0 e HA = h = 20m le sezioni A-A e B-B sono ambedue a contatto con l’atmosfera e quindi: pA = p B 25 il serbatoio è di grande capacità e quindi l’acqua che esce non fa abbassare in maniera sensibile il suo livello: VA = 0 l’equazione si riduce perciò a: 20 - ΣP(d+c) = VB2/ 2 g sostituendo i valori di VB e di g e ricavando ΣP(d+c) si ottiene : ΣP(d+c) = 19,64 mc.a. le perdite di carico totali nell’intera condotta ammontano a 19,64 mc.a. (metri di colonna d’acqua. 2) Se l’acqua che riempie il serbatoio fosse completamente priva di viscosità (fosse cioè un liquido ideale) con quale velocità V essa uscirebbe dalla bocca di efflusso B-B ? Applichiamo nuovamente l’equazione di Bernoulli tra le due sezioni A e B ; le condizioni espresse al punto (1) restano tutte valide, ma essendo adesso il liquido ritenuto ideale non ci sono perdite di carico nella condotta ed allora: HA + VA2/ 2 g + pA / γ - ΣP(d+c) = HB + VB2/ 2 g + pB / γ 20 si ottiene quindi 0 0 VB2/ 2 g = HA VB = e ricavando VB 2 g • HA = 19,81 m /s la velocità di efflusso sarebbe di 19,81 m /s . Generalizzando il risultato ottenuto possiamo affermare che: in assenza di attriti (liquidi ideali), la velocità di efflusso V di un liquido è uguale a quella che avrebbe un corpo che cade da una altezza uguale al dislivello esistente tra il pelo libero del liquido e la luce di efflusso (tale altezza è detta battente idraulico H ) : V = 2g•H questo è il Principio di Torricelli e V è anche detta velocità di Torricelli. 26 ALCUNE CONSIDERAZIONI GENERALI SULLA APPLICAZIONE DELLA EQUAZIONE DI BERNOULLI : • dobbiamo scegliere le due sezioni della vena fluida in modo opportuno, cioè sceglieremo quelle sezioni in cui conosciamo il maggior numero di grandezze idrauliche ( posizione, pressione, velocità); • sceglieremo il piano di riferimento nella posizione a noi più vantaggiosa dal punto di vista del calcolo; • assumeremo per i nostri calcoli, a meno di avere espliciti dati diversi, acqua dolce che scorre in condotte al livello del mare e quindi avremo sempre γ = 9810 [N / m3] e g = 9,81 [m /s2] . • quando le due sezioni sono relativamente vicine (tratto tubo breve) potremo approssimare il calcolo trascurando le perdite di carico (cioè considerando l’acqua un fluido ideale) senza commettere un errore significativo. • infine, ma non ultimo per importanza, verificheremo sempre che tra le due sezioni scelte la portata sia costante ( Q1 = Q2 ) e non cambi nel tempo (regime permanente). Se impareremo ad applicare l’equazione di Bernoulli in modo corretto e sicuro, avremo un valido strumento che, assieme alla equazione di continuità, ci permetterà di risolvere innumerevoli casi che incontreremo nel dimensionamento e calcolo degli impianti e delle macchine idrauliche. MODULO 4 MACCHINE IDRAULICHE U.D. 13 - MACCHINE IDRAULICHE OPERATRICI – CARATTERISTICHE GENERALI Trasformano l’energia meccanica fornita loro da un motore in energia idraulica del liquido che le attraversa: sono le pompe. Classifichiamo le pompe in funzione del modo di operare: POMPE VOLUMETRICHE Masse di liquido in volumi definiti trasportate da un ambiente a basso livello energetico ad uno a più alto livello - Alternative - A Ingranaggi - A Viti - A Capsulismi FLUIDODINAMICHE Cessione di energia per effetto della interazione dinamica fra giranti e liquido pompato - Centrifughe - Semiassiali - Assiali 27 Le grandezze che caratterizzano una pompa sono essenzialmente due: PORTATA quantità di liquido lavorato dalla pompa nell’unità di tempo PREVALENZA energia data all’unità di peso di liquido che la attraversa pm serbatoio mandata Hg P Ha pa serbatoio aspirazione indicato con P la generica pompa; la tubazione di aspirazione; la tubazione di mandata il liquido verrà aspirato, dal serbatoio di aspirazione alla pressione pa, che se il serbatoio è aperto al livello del mare sarà la pressione atmosferica normale, se il serbatoio è chiuso potrà essere una qualunque altra pressione, ed inviato al serbatoio di mandata dove dovrà sgorgare con una certa velocità V e per entrare vincere la pressione che qui regna pm . Quanta energia la pompa dovrà fornire al liquido per fare tutto questo? Forti di quello che abbiamo imparato trattando l’equazione di Bernoulli e continuando a ragionare, per semplicità sull’unità di peso di liquido, diciamo che: - la pompa deve fornire l’energia necessaria a vincere il dislivello Hg tra i due serbatoi, chiamata altezza geodetica; - deve dare l’energia necessaria a vincere la differenza di pressione tra i due serbatoi (pm – pa) / γ , detta altezza piezometrica; - deve fornire al liquido la necessaria velocità V per sgorgare con un sufficiente getto V2 / 2g , chiamata altezza cinetica; 28 - deve infine vincere gli attriti che ostacolano lo scorrimento del liquido in tutto il suo percorso ΣP(d+c) , perdite di carico distribuite e concentrate nell’impianto (ad esclusione di quelle all’interno della pompa stessa) . Quindi indicando con Hm l’energia totale, per unità di peso di fluido pompato, che la pompa dovrà fornire al liquido, si ottiene: Hm = Hg + (pm – pa) / γ + V2 / 2g Hm viene definita prevalenza monometrica della pompa, monometrica perché se installiamo due manometri, uno all’ingresso ed uno all’uscita della pompa, la differenza di pressione tra le due letture, in m c.a. , ci darà proprio il valore di Hm calcolato. POTENZA UTILE E POTENZA ASSORBITA DA UNA POMPA Viene detta POTENZA UTILE della pompa l’energia per unità di tempo che la pompa fornisce al liquido, essa è data da: Pu = γ • Qv • Hm Con [J / s = watt] γ (peso specifico liquido) ......per l’acqua dolce 9810 N / m3 Qv portata volumica del liquido lavorato ……m3 / s Hm prevalenza monometrica fornita dalla pompa …… m c.a. La pompa, come qualunque altra macchina, non è “perfetta” e perde quindi una parte di energia che il motore ad essa accoppiato le fornisce: - perde energia per gli attriti delle parti meccaniche in movimento ηm rendimento meccanico - perde energia per gli attriti del liquido con la pompa stessa e per i cambi di direzione a cui il liquido è costretto al suo interno (perdite di carico) ηH rendimento idraulico - una parte di liquido sfugge e ritorna in aspirazione invece di uscire tutto dalla mandata della pompa (viene lavorato due volte) ηQ rendimento volumetrico il rendimento totale della pompa è perciò il prodotto dei tre rendimenti parziali: ηT = ηm • ηH • ηQ 29 il rendimento ha sempre valori minori di uno…….0,75 – 0,8 – 0,84 – 0,86 -…ecc. ed i costruttori di pompe ci forniscono, assieme agli altri dati tecnici, anche il valore del rendimento ηT dei loro prodotti; conoscendo quindi ηT possiamo calcolare la potenza assorbita dal motore: PASS. = Pu / ηT U.D. 14 - ALTEZZA MASSIMA DI ASPIRAZIONE Definiamo altezza di aspirazione il dislivello tra l’ingresso della pompa ed il pelo libero del serbatoio di aspirazione. Non possiamo installare una pompa all’altezza di aspirazione che vogliamo perché c’è il rischio che essa non riesca a pompare il liquido o che lo faccia in condizioni di lavoro tali da essere seriamente danneggiata. Per capire il motivo di questa affermazione, dobbiamo tenere presente che non è la pompa a sollevare l’acqua dal serbatoio di aspirazione fino al suo ingresso, essa non può fare altro che aspirare via l’aria che si trova nel tubo di aspirazione creando all’interno del tubo stesso una depressione (pressione minore di quella atmosferica) e di conseguenza l’acqua salirà nel tubo spinta dalla pressione maggiore che c’è sul pelo libero del serbatoio: se il serbatoio è aperto al livello del mare questa pressione è di 1 bar = circa 100000 Pa = 10,33 m c.a. nel migliore dei casi, la pompa toglierà tutta l’aria all’interno del tubo di aspirazione, creandovi il vuoto (pressione = 0) e l’acqua potrà quindi salire nel tubo fino ad un massimo appunto di 10,33 m (se il liquido è acqua dolce). Se installassimo la pompa ad una altezza maggiore, in queste condizioni operative, essa non potrà lavorare perché l’acqua non vi arriverà mai (girerà a vuoto). La massima altezza teorica di aspirazione calcolabile dividendo la pressione in pascal che c’è sul pelo libero serbatoio per il peso specifico γ in N / m3 del liquido pompato: HT = p s.a / γ nel caso di acqua dolce e serbatoio aperto a livello mare è HT = 10,33 m . 30 Ammesso che la pompa possa aspirare tutta quanta l’aria dal tubo, la pressione a cui si troverebbe l’acqua man mano che sale, spinta dalla pressione atmosferica, sarebbe sempre più bassa fino a raggiungere all’ingresso della pompa stessa il valore zero: pompa P p = 0 (vuoto) 10,33 m 1 bar 1 bar p=1 bar = 10,33 m c.a. acqua dolce La temperatura di ebollizione dell’acqua è di 100 °C quando si trova alla pressione di 1 bar , ma scende …. 100 … …….90…. ….70…. ……20…. …10…. man mano che cala la pressione a cui si trova l’acqua, quindi installando la pompa a 10,33 m di altezza rispetto al pelo libero, se anche l’acqua la raggiunge la bassissima pressione che trova nell’ultima parte di tubo fa si che inizi a bollire creando piccole bolle di vapore anche se la sua temperatura è relativamente bassa, ad esempio di 20 – 25 °C . Le bollicine di vapore che si sono create entrano nella pompa trascinate dal resto dell’acqua che non ha fatto in tempo a vaporizzare; la pompa innalza la pressione dell’acqua a valori molto più alti e le bolle di vapore sono costrette a ricondensare tornando liquido, la condensazione è molto veloce, le bolle implodono e le particelle liquide vicine vanno ad occupare il vuoto lasciato con altissime accelerazioni. Questo fenomeno viene chiamato cavitazione . Le accelerazioni impresse alle particelle liquide durante la cavitazione producono altissime temperature e sovrappressioni localizzate in spazi piccolissimi che (come tante punte di spillo roventi) colpiscono la tubazione e i vari componenti della pompa stessa con effetti rumorosi (si sente come se la pompa pompasse acqua mista a ghiaia) e dannosi per l’alta usura che comporta, in breve tempo, la rottura . Per quanto adesso descritto, affinché l’acqua possa giungere alla pompa senza che si verifichi cavitazione, dobbiamo calcolare la massima altezza di aspirazione possibile Hmax.asp. e installare la pompa ad una altezza dal pelo libero del serbatoio di aspirazione minore o uguale alla Hmax.asp. 31 Hmax.asp. = HT - pv / γ - ΣP(d+c) ASP. - N.P.S.H. dove : HT = p s.a. / γ ( pressione in pascal nel serbatoio aspirazione / peso specifico liquido) pv = tensione di vapore del liquido alla temperatura a cui si trova (è la pressione in pascal che fa bollire il liquido alla temperatura che ha) ΣP(d+c) ASP = perdite di carico distribuite e concentrate nel tubo di aspirazione N.P.S.H. (Net Positive Suction Head) = altezza netta positiva di aspirazione (dato fornito dal costruttore della pompa: è la pressione residua, in m c.a. che deve ancora avere il liquido all’ingresso della pompa per garantire che la cavitazione non inizi nemmeno quando all’ingresso della girante si ha un repentino aumento di velocità, prima che questa venga trasformata in pressione). Possiamo adesso provare a calcolare Hmax.asp. (l’altezza massima di aspirazione) per liquidi diversi a diversa temperatura e pressione nel serbatoio di aspirazione; per l’acqua dolce a temperatura ambiente e con serbatoio di aspirazione aperto troveremo valori non superiori ai 7 ….8 m e non più i 10,33 m teorici. Se la temperatura dell’acqua da pompare è più elevata, 65 …70 °C , il calcolo ci darà un valore della Hmax.asp. negativo: questo significa che la pompa dovrà essere installata più in basso del pelo libero del serbatoio di aspirazione; questo tipo di installazione si dice sottobattente o a pompa immersa. ACCORGIMENTI PER EVITARE LA CAVITAZIONE • • • • • • • • avvicinare la pompa al serbatoio di aspirazione mettere la pompa abbastanza sottobattente se possibile raffreddare il liquido ridurre le perdite di carico nel tubo di aspirazione (tubo grosso, liscio internamente, senza curve) utilizzare pompe con basso NPSH (valori bassi indicano accuratezza di progettazione e di lavorazione) utilizzare pompe a basso regime di rotazione, con grandi diametri (più costose) utilizzare giranti a doppia aspirazione, riducendo così la velocità del fluido all’ingresso della girante utilizzare l’ inducer , cioè una girante assiale a monte della girante centrifuga che aumenta la pressione del fluido prima dell’ingresso in quest’ultima. 32 U.D. 15 - POMPE ALTERNATIVE Le pompe alternative sono costituite da uno o più cilindri dove scorre un pistone mosso, nel suo moto “alternativo”, tramite un sistema biella – manovella, da un motore: mandata POMPA A SEMPLICE EFFETTO valvola mandata Pm.s pistone Pm.i. manovella pist biella albero motore cilindro valvola aspirazione anello tenuta aspirazione - durante la fase di aspirazione (pistone che va dal Pm.s. al Pm.i.) la valvola di aspirazione si apre e quella di mandata si chiude (effetto “risucchio”), la depressione creata dal movimento del pistone fa si che l’acqua, spinta dalla maggiore pressione che c’è sul serbatoio di aspirazione, riempie il cilindro; - nella successiva fase di compressione (pistone dal Pm.i. al Pm.s.) la valvola di aspirazione tende a chiudersi e quella di mandata ad aprirsi, spinte dalla pressione dell’acqua che aumenta sempre più e viene quindi spinta verso la mandata; - ogni giro di manovella e quindi ogni giro dell’albero motore sulla quale è calettata, il pistone esegue una corsa di aspirazione ed una di mandata (semplice effetto). Calcoliamo la portata volumica Qv s.e. di acqua data dalla pompa alternativa a semplice effetto: indichiamo con - D il diametro interno del cilindro ( alesaggio ) [in m] - c la distanza tra Pm.i. e Pm.s. [in m] - n il numero di giri al minuto fatti dall’albero motore [giri / min.] - N il numero di cilindri di cui la pompa è dotata - ηV il rendimento volumetrico della pompa (dovuto al fatto che le valvole hanno una certa “inerzia” e ritardano ad aprire e chiudere, quindi un po’ di acqua invece che andare alla mandata ritorna nella tubazione di aspirazione e viene lavorata due volte). Qv s.e. = π D2 / 4 • c • n / 60 • N • ηV 33 [m3 / s] POMPA A DOPPIO EFFETTO mandata valvola mandata Pm.s pistone Pm.i. guarnizioni di tenuta manovella pist biella albero motore cilindro valvola aspirazione anello tenuta aspirazione Nella pompa a “doppio effetto” ogni giro dell’albero motore e quindi ogni corsa completa del pistone si hanno due aspirazioni e due mandate (il pistone lavora da ambo i lati) e quindi la quantità d’acqua lavorata dalla pompa,trascurando la differenza di volume tra le due camere dovuta alla presenza della biella, raddoppia; perciò la portata della pompa a doppio effetto è : Qv d.e. = 2 Qv s.e. - Le pompe alternative vengono usate quando occorre avere alte pressioni con basse postate d’acqua (ad esempio un uso comune è quello delle idropulitrici) ; - essendo dotate di moto alternativo non possono essere accoppiate direttamente a motori elettrici che hanno elevato numero di giri ma occorre interporre un cambio di velocità; - necessitano di frequente manutenzione: le tenute, e soprattutto le valvole che si usurano e non chiudono più bene; - la portata, in mandata, non è costante e all’utenza l’acqua arriva con un getto non uniforme: Qv pompa a semplice effetto Qv pompa a doppio effetto s.e. d.e. n n 34 Per rendere la portata più regolare si usa installare una “ cassa d’aria” sulla mandata della pompa: aria in pressione membrana elastica uscita pompa mandata alla utenza essa fa da “polmone”, immagazzinando acqua quando la portata che arriva dalla pompa è superiore a quella richiesta dall’utenza e restituendola quando la pompa non manda acqua sufficiente: Qv s.e. pompa a semplice effetto Qv d.e. n pompa a doppio effetto n Qu (portata all’utenza) 35 U.D. 16 - POMPE CENTRIFUGHE - COMPONENTI DI UNA POMPA FLUIDODINAMICA (CENTRIFUGA) La figura mostra una pompa centrifuga orizzontale a singola girante. In essa distinguiamo uno statore (o corpo pompa) e un rotore. Il corpo pompa è la parte fissa che deve: - convogliare il liquido sulla girante; - provvedere a raccogliere il liquido che esce dalla girante; - inviare il fluido all'impianto. Tali funzioni vengono svolte rispettivamente da: - tubo di aspirazione; - diffusore o voluta (o chiocciola); - tubo di mandata. Altre parti essenziali sono: - cuscinetti di sostegno delle parti rotanti; - tenuta sull’albero per evitare le fughe di liquido; - tenute fra girante e corpo pompa. La girante è calettata sull'albero e rappresenta la parte attiva che, ruotando, conferisce energia al liquido ed è composta essenzialmente da uno o più dischi sui quali sono ricavati un certo numero di pale che delimitano i canali mobili. 36 Le caratteristiche principali della girante sono : - diametro dell'"occhio" (d1); - diametro esterno (d2); - sezione di passaggio del liquido in ingresso e in uscita (S1 e S2); - numero di pale. TIPI DI GIRANTE 37 NUMERO DI GIRI CARATTERISTICO E SCELTA DELLA GIRANTE Una pompa cui sia richiesto alta portata e piccola prevalenza avrà una girante di piccolo diametro con ampi spazi tra le pale, mentre se deve fornire portata modesta con alta prevalenza avrà una girante di grande diametro, con molte pale e passaggi stretti tra le stesse. Queste considerazioni possono essere riassunte nella espressione di una grandezza “fittizia” (non concreta) definita numero di giri caratteristico nC : n • N nC = --------------H• 4 H in cui n numero di giri al minuto compiuti dalla pompa N potenza utile della pompa espressa in Cv ( 1 Cv = 735 w) H prevalenza totale fornita dalla pompa espressa in m c.a. La forma della girante della pompa può quindi essere messo in relazione al valore assunto dal nC 38 VISTA DI UNA GIRANTE DIFFUSORE Il diffusore trasforma in pressione parte dell'energia cinetica di cui è dotato il fluido all'uscita della girante. Nelle pompe a singola girante tale funzione può essere svolta dalla stessa cassa la quale ha una forma di chiocciola in cui la sezione di passaggio offerta al liquido è crescente, da zero a un massimo su un arco di 360°. Se però la sezione aumenta (sulla circonferenza) con la stessa legge della portata, si avrà: - velocità media costante; - pressione costante (pressione scarico della girante); - trasformazione della velocità in pressione solo nell'ultimo tratto di tubazione che è divergente. La sezione può essere circolare, rettangolare, ecc. Quanto sopra vale per la portata di progetto della pompa. In altri casi la girante è circondata da un diffusore palettato ad essa concentrico. Nei canali del diffusore, il fluido viene rallentato e recupera pressione. Questo secondo sistema, rispetto al primo, ha degli svantaggi: - maggior complessità costruttiva; - maggior costo; - maggior ingombro ma anche dei vantaggi: - il fluido viene meglio guidato nella direzione tangenziale e dà minori urti, quindi si ha miglior rendimento. 39 Viene usato per pompe medio grandi e di elevate prestazioni. Naturalmente, per le pompe multigiranti, il diffusore palettato ha anche la funzione di convogliare il fluido sull'aspirazione della girante successiva e quindi diventa essenziale. VELOCITA’ DEL FLUIDO ATTRAVERSO LA GIRANTE ( Triangoli delle velocità) Affinché il rendimento di una macchina idraulica sia elevato, il liquido deve: 1) entrare con il minimo urto possibile; 2) uscire con la minima velocità possibile (compatibilmente con la portata richiesta); queste due condizioni generali sono conosciuti come i due “aforismi idraulici”. Indichiamo con: - W la velocità relativa del liquido rispetto alla pala; - U la velocità periferica della pala; - C la velocità assoluta (rispetto ad un osservatore fisso) dell’acqua; 40 il punto A è il punto di ingresso del liquido nella girante (occhio della pompa) e il punto B è il punto di uscita dalla girante : dai triangoli della velocità vediamo che affinché siano soddisfatti i due aforismi idraulici C1 deve risultare tangente alla pala nel punto di ingresso e C2 deve essere piccola, quindi W2 deve risultare rivolta all’indietro rispetto al senso di rotazione della girante: questa è la ragione del profilo che assume la pala. SE LA PALA AVESSE UN PROFILO RADIALE 41 CON PALA RIVOLTA IN AVANTI (POMPE AD AZIONE) CON PALA RIVOLTA ALL’INDIETRO (POMPE A REAZIONE) Le pompe a centrifughe a pale radiali non si usano, quelle ad azione (pale in avanti) si usano raramente: quando interessa avere grandi portate con piccole prevalenze anche a scapito del rendimento che sarà basso per le alte perdite di carico. Le centrifughe a reazione sono le più usate: energia fornita al liquido sotto forma di pressione, velocità minima del liquido nella macchina con conseguenti basse perdite di carico e quindi buoni rendimenti. Da questa analisi, che motiva la classica forma delle pale della girante, si può anche notare che lo svergolamento delle pale e funzione anche della velocità con cui il liquido attraversa lo spazio tra una pala e l’altra e di conseguenza della portata prevista per la pompa: ogni pompa sarà quindi progettata e costruita per un dato valore di portata, se noi la facciamo lavorare con portate diverse da questa, minori o maggiori che siano, il rendimento della pompa sicuramente calerà 42 La portata Qv e la prevalenza Hm di una pompa centrifuga variano in funzione del numero di giri al minuto compiuti dalla pompa ed inoltre le due grandezze sono strettamente legate l’una all’altra (ricordiamo che Pu = γ Qv Hm ) , quindi variando la portata, come più comunemente avviene, varia di conseguenza la prevalenza; teoricamente questa variazione, nel piano cartesiano ( Q , H ) sarebbe una retta discendente ma le perdite di carico (per attriti interni e per urti e vortici) variano con legge parabolica (dipendendo dal quadrato della velocità e quindi anche dal quadrato della portata); per questo motivo la legge di dipendenza tra portata Q e prevalenza H di una pompa centrifuga si trasforma in una curva prima crescente e poi decrescente : curva caratteristica reale ( ad un ben determinato numero di giri “ n “ ) I costruttori di pompe usano darci le caratteristiche del loro prodotto riassunte in grafici simili a quello seguente, dove possiamo valutare oltre che l’andamento della prevalenza in funzione della portata (curva caratteristica della pompa) anche le variazioni di rendimento, di potenza e di N.P.S.H. richiesti sempre al variare della portata. In effetti poi, i grafici che troveremo sulle schede tecniche dei cataloghi di pompe centrifughe, saranno un po’ più complessi da valutare perché riporteranno le diverse curve anche al variare del numero di giri della pompa; ma con un po’ di esercizio tutto ci parrà chiaro. 43 CURVE CARATTERISTICHE DI UNA POMPA CENTRIFUGA U.D. 17 - SCELTA DELLA POMPA - PER UN IMPIANTO IDRAULICO ASSEGNATO – Anche per un impianto idraulico (tubazioni, valvole, curve, riduzioni, ecc.), così come per la pompa, si può tracciare, sullo stesso piano cartesiano (Q , H ) la curva caratteristica (detta anche curva resistente); essa sarà la prevalenza richiesta dal circuito alla pompa, per poter funzionare, al variare della portata. pm V Hg Pompa pa 44 Supponiamo di avere l’impianto della figura precedente, di cui conosciamo tutte le dimensioni e caratteristiche; esso richiederà alla pompa una energia, per unità di peso di fluido che la attraversa, tale da poter: - vincere il dislivello tra i due serbatoi Hg e la differenza di pressione tra di essi (pm – pa) / γ quindi Hs = Hg + (pm – pa) / γ [ m c.a. ] Hs prende il nome di prevalenza statica (da vincere anche con fluido fermo); - vincere le perdite di carico, distribuite e concentrate in tutta la condotta: Hd = K • V2 [ m c.a ] direttamente proporzionali al quadrato della velocità e quindi anche al quadrato della portata Hd prende il nome di prevalenza dinamica (richiesta per vincere gli attriti del fluido in movimento) Curva Caratteristica Impianto HT Hd (prevalenza totale HT richiesta al variare di Q) Hs 0 Q Sovrapponendo le due curve caratteristiche: quella della pompa e quella dell’impianto, troviamo il punto di intersezione e sugli assi potremo leggere la portata e la prevalenza che quella pompa ci potrà dare se installata in quell’impianto, il rendimento della pompa stessa se fatta f8unzionare in quelle condizioni, il numero di giri che dovrà fare, ecc. ecc.. Se tutte le condizioni sono soddisfacenti abbiamo trovato la pompa giusta, altrimenti potremo scegliere un’altra pompa oppure possiamo modificare il nostro impianto e di conseguenza la sua curva caratteristica. 45 DETERMINAZIONE PUNTO DI FUNZIONAMENTO IMPIANTO – POMPA U.D. 18 - REGOLAZIONE DELLA PORTATA DI UNA POMPAPer variare la portata erogata dalla pompa si possono usare due sistemi: 1) installare una strozzatura regolabile (rubinetto a volantino) sulla tubazione di mandata; 2) variare il numero di giri del motore accoppiato alla pompa stessa. Nel primo caso varierà la curva caratteristica dell’impianto, nel secondo la curva caratteristica della pompa, ma il risultato sarà comunque quello di avere un nuovo “punto di funzionamento” con valori diversi di prevalenza e di portata. Il sistema con strozzatura in mandata è molto economico e di facile installazione ma, aumentando le perdite di carico, fa diminuire il rendimento dell’impianto. Variare il numero di giri del motore è, dal punto di vista del rendimento, senz’altro preferibile, ma se il motore è elettrico ed in corrente alternata, come nella maggioranza dei casi, la sua velocità di rotazione è fissa in quanto dipende dalla “frequenza” della c.a. (in Italia f = 50 Hz) e dal numero di coppie polari “p“ 46 possedute dal rotore e non facilmente variabili a meno di smontare il motore e sostituirlo: (n° giri/min. motori elettrici in c.a.) n = 60 f / p [giri / min.] si può però dotare il motore di inverter (sistema elettronico di variazione della frequenza) ed in questo modo avere la possibilità di far funzionare la pompa a diverso numero di giri; i motori in c.a. con inverter costano di più ma, specie per pompe di grande potenza sono preferibili. Un terzo sistema per variare la portata della pompa è un “ by – pass” : mandata valvola regola flusso by-pass pompa aspirazione non molto usato; porta ad un sensibile abbassamento del rendimento volumetrico ηV . 47 U.D. 19 - MACCHINE IDRAULICHE MOTRICI TURBINE IDRAULICHE ( Cenni ) Mentre le macchine idrauliche operatrici (pompe) trasferiscono al fluido che le attraversa l’energia meccanica data loro da un motore, le macchine motrici (turbine) fanno il contrario e cioè, trasformano in energia meccanica disponibile sul loro asse l’energia data loro dal liquido che le attraversa . In natura, il liquido di cui disponiamo è l’acqua e l’energia che queste masse di acqua hanno è energia geodetica (dovuta all’altezza rispetto al punto di installazione della turbina) o energia cinetica dovuta alla velocità con cui scorrono (acque fluenti dei fiumi); scopo dei vari tipi di turbine idrauliche è quindi trasformare queste energie idriche in energia meccanica, la quale verrà poi sfruttata per produrre energia elettrica per mezzo di alternatori mossi dalle turbine. Un alternatore è sostanzialmente “ l’inverso” di un motore elettrico in c.a. e la relazione che lega la sua velocità di rotazione alla frequenza della corrente “ f “ è la stessa già vista (n = 60 f / p) per cui se l’alternatore deve generare corrente alternata con frequenza fissa di 50 Hz (valore di distribuzione sulla rete nazionale italiana) il numero di giri al minuto che la turbina deve far fare all’alternatore deve essere sempre costante; ma al variare del carico allacciato sulla rete elettrica, l’alternatore tende ad accelerare aumentando o diminuendo la sua velocità, la turbina che lo aziona deve quindi a sua volta ridurre o aumentare la coppia motrice sviluppata in modo da riportare “n” al valore stabilito: questa regolazione, in automatico, comporta un sistema di variazione continua della portata d’acqua in ingresso alla turbina. Quando la massa d’acqua in movimento è grande, diminuire la portata e cioè la sua velocità non è semplice, infatti se questa diminuzione è troppo repentina l’energia cinetica si trasforma in improvviso aumento di energia di pressione (niente si crea e niente si distrugge) che potendo raggiungere valori molto elevati porterebbe seri problemi di tenuta della condotta, questo effetto è chiamato “colpo d’ariete”. Le turbine sono perciò dotate di particolari sistemi di variazione graduale della portata d’acqua in ingresso ed inoltre le condotte di alimentazione (condotte forzate) hanno a monte “pozzi piezometrici” capaci di assorbire, con oscillazioni di livello, le variazioni di pressione che, anche se attenuate, comunque si manifestano: 48 pozzo piezometrico bacino condotta forzata Hg centrale idroelettrica turbina alternatore Indicando con Hg il salto geodetico (dislivello tra pelo libero del bacino e pelo libero del canale di scarico della turbina), è questa l’energia idraulica disponibile che, tolte le perdite di carico della condotta, ritroveremo all’ingresso della turbina nell’organo chiamato distributore. Se la trasformazione da energia potenziale (geodetica) ad energia di velocità (cinetica) avviene nel distributore la turbina si dice ad azione ( turbina Pelton) ; se invece questa trasformazione avviene parte nel distributore e parte nella girante della turbina stessa si ha una turbina a reazione ( Francis e Kaplan ). Per salti Hg molto alti si utilizzano turbine Pelton, per salti più bassi si passa alle Francis lente, poi alle Francis medie, poi alle Francis veloci ed infine per salti di 3 – 4 metri ma con grandi portate fluenti si usa le turbine ad elica di cui le Kaplan sono le più rappresentative ( pale regolabili che permettono di adeguare il profilo alla portata di lavoro ed ottenere rendimenti migliori). Si, anche per le turbine, come per tutte le macchine idrauliche, valgono i due “aforismi idraulici” ed i triangoli di velocità, con tutto quello che ne consegue, li possiamo tracciare e studiare analogamente a quanto fatto per le pale delle pompe centrifughe ( il diffusore delle pompe sarà il distributore delle turbine e l’acqua entrerà dalla periferia ed uscirà dall’occhio della girante) ma tutte le considerazioni fatte restano uguali. Anche tutto quello che abbiamo visto per le pompe riguardo a : potenza, rendimenti e numero caratteristico di giri, con le opportune variazioni di significato dei simboli assunti, rimane valido anche per le turbine; soprattutto le Francis (numero caratteristico di giri da 80 a 400) possono vedersi come vere e proprie pompe centrifughe a funzionamento invertito; tanto è vero che in alcune centrali idroelettriche, come ad esempio quella di Brasimone (sull’appennino tosco – emiliano) durante il giorno lavorano da turbine producendo energia elettrica (prezzo più alto dell’energia elettrica) e durante la notte lavorano da pompe consumando 49 energia elettrica (che di notte costa meno) e riportando acqua al bacino superiore in modo da ripristinare così la riserva idrica necessaria per il giorno successivo. Ci sarebbero tante e tante cose interessanti da dire sulle “turbine idrauliche”, ma si ritiene che le finalità di questo corso le rendano un argomento marginale, su cui quindi non intendiamo dilungarci oltre ma lasciare a Voi la curiosità, e speriamo anche il desiderio di saperne di più; potrete in questo caso consultare i testi di Macchine a Fluido che la vasta letteratura tecnica mette a disposizione. 50 MODULO 6 PRINCIPI DI CALORIMETRIA E TERMODINAMICA U.D. 20 -CALORE E TEMPERATURAIl calore è una forma di energia e come le altre si misura in “juole” ma, rispetto ad altre, come il lavoro meccanico o l’energia elettrica ad esempio, è considerato meno pregiato, in quanto volendo trasformare una forma di energia nell’altra: Fornendo calore ad una massa, se non siamo in presenza di passaggi di stato, si ottengono due effetti: - si ha un aumento di temperatura; - si ha una diminuzione di massa specifica (o densità); la variazione sia della temperatura che della densità cambiano a seconda della natura della massa stessa. Calore specifico : quantità di calore da fornire alla massa di 1 Kg perché la sua temperatura salga di 1°C . Per l’acqua il “ Cs “ vale 1 Kcal / Kg • °C = 4186 J/ Kg • °C se misurato quando la temperatura di 1 kg di acqua distillata passa da 14,5°C a 15,5°C ; per temperature più alte il calore specifico aumenta in modo lineare e quindi dovremmo assumere i valori che di volta in volta rileviamo da apposite tabelle di manuali tecnici ma, per campi di temperatura entro i 100 °C possiamo considerare sempre il Cs acqua = 4186 J / Kg • °C senza commettere un errore sensibile. 51 Ogni sostanza ha il suo calore specifico (detto anche “capacità termica massica”) Se continuiamo a fornire calore a quella massa di 1 Kg , la sua temperatura sale ancora perché aumenta il livello di energia termica contenuto. Se lo stesso calore lo avessimo fornito a 100 Kg dello stesso materiale, invece che ad 1 Kg, il livello di energia termica raggiunto, e cioè la temperatura raggiunta, sarebbe stato molto inferiore. La temperatura indica perciò il livello di energia termica contenuto da un corpo e non la quantità. Avere la stessa quantità di calore a livelli termici superiori significa avere maggiori possibilità di sfruttare proficuamente questa forma di energia, in conclusione: La temperatura è un indice del livello di energia termica e quindi della “qualità del calore” contenuto in un corpo. Noi siamo abituati a misurare la temperatura in gradi centigradi (scala Celsius), ma nel S.I. (Sistema di Misura Internazionale) la scala da usare è la Kelvin (°K) ; per nostra fortuna l’ampiezza del °K è la stessa del °C e quindi una differenza di temperatura avrà numericamente lo stesso valore: T1 – T2 = ΔT = x °C = x °K ma i valori delle singole temperature variano: T1 = x °C = ( x + 273,16) °K 52 La scala Fharenait (°F) ha invece l’ampiezza di grado maggiore ed occorre quindi tenerne conto: 53 U.D. 21 -EQUAZIONE FONDAMENTALE DELLA CALORIMETRIA – Avendo definito il Cs (calore specifico) come la quantità di calore da fornire alla massa di 1 Kg per ottenere un aumento di temperatura ΔT di 1°C è facile intuire che se la massa è invece m (Kg) e vogliamo aumentare la temperatura da T1 a T2 il calore Q occorrente sarà dato da: Q = m • Cs • (T2 - T1) [joule] conosciuta come « equazione fondamentale della calorimetria ». Se dividiamo ambedue i termini della equazione per il tempo [ s ] , diverso da zero, le regole di matematica ci dicono che l’equazione resta valida: Q m • Cs • (T2 - T1) ----- = ---------------------s s Q / s = energia / tempo = potenza [watt] m/s = massa / tempo = portata massica [Kg / s ] e sostituendo: W = Qm • Cs • (T2 - T1) [ watt ] questa relazione, ricavata direttamente dall’equazione fondamentale della calorimetria, ci sarà molto utile nei calcoli di impianti termici. L’equazione fondamentale della calorimetria non è applicabile nel calcolo del calore fornito (o sottratto) ad una massa durante i passaggi di stato; ricordiamo che nei passaggi di stato la temperatura resta costante e quindi T2 - T1 = 0. Questa equazione la possiamo utilizzare quindi solo per il calcolo del calore sensibile ceduto o sottratto; per il calcolo del calore latente dovremo fare in altro modo. 54 U.D. 22 - DILATAZIONE TERMICAUno degli effetti fisici della somministrazione di calore ad una massa, solida, liquida o gassosa, è la diminuzione del valore della sua massa volumica (o densità): questo è dovuto ad un aumento del volume occupato. La materia è formata da molecole dei diversi elementi chimici che si agitano sempre di più man mano che forniamo energia, ad esempio calore; più si agitano, più tendono ad allontanarsi le une dalle altre vincendo l’attrazione reciproca e più spazio occupano; così facendo la stessa quantità di materia occupa sempre più spazio, si dilata: - per un corpo solido (volume proprio) possiamo misurare questa dilatazione lungo una sola direzione (dilatazione lineare) o considerare invece l’aumento complessivo di volume (dilatazione volumica); - per i liquidi ovviamente consideriamo solo la dilatazione volumica; - per i gas, che occupano sempre e comunque tutto lo spazio del recipiente che li contiene, la dilatazione si concretizza in un aumento di pressione che il gas eserciterà sulle pareti del contenitore. Facendo riferimento al caso di un corpo solido, definiamo coefficiente di dilatazione termica lineare Cd.l. il rapporto tra la variazione di lunghezza ΔL subita dopo il riscaldamento e la lunghezza iniziale Lo (prima del riscaldamento) per la variazione di temperatura ΔT : ΔL Cd.l. = -------------[ mm / m • °C] Lo • ΔT per ragioni di praticità, in genere si misura in “mm” la variazione di lunghezza ΔL, piuttosto piccola rispetto alla lunghezza iniziale Lo che si mette in “m” ; su alcuni manuali questo coefficiente si può a volte trovare con la stessa u.d.m. sia per ΔL che per Lo ed allora l’unità di misura di Cd.l. diventa [°C-1] cioè [1/°C]. Analogamente definiremo il coefficiente di dilatazione termica volumica Cd.v. come: ΔV oppure [°C-1] Cd.v. = -------------[ mm3 / m3 • °C] Vo • ΔT Ogni materiale ha un proprio coefficiente di dilatazione termica che all’occorrenza potremo trovare tabellato sui manuali tecnici. Per i solidi, generalmente Cd.l. = Cd.v. / 3 55 Le variazioni di lunghezza, di spessore e più in generale di volume, dovute a variazioni di temperatura, sia delle parti solide che costituiscono un impianto o una macchina termica che dei fluidi che vi scorrono all’interno, comportano problematiche che di volta in volta andranno affrontate e risolte con opportuni accorgimenti tecnici, al fine di permettere un regolare funzionamento del sistema, ed evitare che queste dilatazioni comportino tensioni nei materiali e sovrappressioni tali da rendere gli impianti stessi insicuri e a volte anche pericolosi. Se vogliamo calcolare la variazione di volume, conoscendo il materiale e quindi da tabella il suo Cd.v. , il volume iniziale Vo e la variazione di temperatura a cui viene sottoposto ΔT , basta ricavare ΔV dalla precedente relazione: ΔV = Cd.v. • Vo • ΔT ΔV positivo (dilatazione) se ΔT = T2 – T1 > 0 riscaldamento se ΔT = T2 – T1 < 0 raffreddamento ΔV negativo (restringimento) ricordiamo di fare sempre attenzione alle u.d.m. dei coefficienti desunti dalle tabelle dei manuali e di adeguare a queste il calcolo in cui li utilizziamo. U.D. 23 - MODI DI TRASMISSIONE DEL CALORE – Il calore si trasmette naturalmente da un corpo più caldo (T) ad uno più freddo (t) in tre modi diversi: conduzione ; convezione ; irraggiamento. La conduzione è caratteristica dei solidi: l’energia calore fa si che le molecole del solido aumentino la loro agitazione ed urtando quelle a loro adiacenti trasferiscono questa energia che, con lo stesso sistema, passa alle molecole successive, e così via. Nella trasmissione di calore per conduzione non c’è movimento di materia ma si trasmette pura energia. Se immaginiamo di avere un corpo solido di materiale omogeneo avente due faccie parallele a temperature diverse ( parete solida omogenea): s con W T1 T2 W 56 T1 > T2 s = spessore in m la quantità di calore nell’unità di tempo W che attraversa 1 m2 di superficie della parete si può calcolare con: λ • ( T1 - T2 ) W = ----------------s con λ = coefficiente di conduzione del materiale di cui è costituita la parete. Indicando con U = λ / s la trasmittanza della parete si può scrivere: W = U • ( T1 - T2 ) oppure con R = 1 / U = s / λ la resistenza termica della parete : W = ( T1 - T2 ) / R Dalle precedenti relazioni, ricordando che abbiamo assunto 1 m2 di superficie e che il calore nell’unità di tempo W che l’attraversa è una potenza [watt], possiamo ricavarci le unità di misura di : - λ coefficiente di conduzione del materiale [ w / m °K] - U trasmittanza della parete omogenea = λ / s [w / m2 °K] Se la parete è composta da più strati di diverso materiale e di spessore s1 , s2 , ….si la trasmittanza totale è : Utot = λ1/s1 + λ2/s2 + …….+ λi/si La convezione si verifica nei fluidi quando una parte del fluido a contatto con una fonte di calore, scaldandosi si dilata e diminuisce la sua densità, di conseguenza essendo più leggero sale verso l’alto lasciando posto a parti di fluido ancora fredde che scendono: in questo modo si crea un movimento naturale per cui il calore viene pian piano trasmesso a tutta la massa fluida : convezione naturale. Se il movimento della massa fluida è determinato anche da differenze di pressione generate meccanicamente, si parlerà di convezione forzata. 57 Lo scambio di calore nell’unità di tempo tra un corpo avente superficie di area “S” a temperatura “ T1 “ e un fluido a temperatura “ T2 “ che lo lambisce è dato da: W = α • S • (T1 – T2) dove α rappresenta il coefficiente di convezione che dipende oltre che dalla natura del fluido, dalla scabrosità della superficie del corpo, dalla velocità e movimentazione del flusso, ecc. ecc.; per cui tali coefficienti sono stati determinati sperimentalmente e si trovano gabellati sui manuali tecnici. L’irraggiamento è dovuto alla emissione, da parte del corpo caldo, di onde elettromagnetiche (di diverse lunghezze d’onda) in grado di attraversare il vuoto, come anche i fluidi o i solidi, fino a colpire il corpo più freddo dove buona parte di queste radiazioni si riconvertono in calore. L’emissione di onde elettromagnetiche avviene a qualunque temperatura ma diventa significativa quando i valori di questa sono elevati; il caso del nostro sole che ci scalda, anche attraverso lo spazio vuoto e poi attraverso l’atmosfera terrestre è quello più facilmente percepibile e verificabile giorno per giorno. In genere le frazioni assorbite (a), riflesse (s) e trasmesse (r) possono variare in funzione della lunghezza d’onda. Ad esempio il vetro è quasi sempre completamente trasparente nel campo del visibile (r=1) ha potere assorbente (a=1) nel campo dell’ultravioletto, ed ha un comportamento molto irregolare nel campo dell’infrarosso. Per ovviare a tale difficoltà si è introdotto il concetto di corpo nero (a=1 e r=0) e di corpo grigio (a= valore medio tabellato per materiali reali) dove si ha indipendenza dalla lunghezza d’onda. 58 Una qualunque cavità mantenuta a temperatura costante e provvista di un piccolo foro si comporta come un corpo nero perché un raggio che penetra viene continuamente parzialmente assorbito e riflesso finché sarà del tutto estinto. L’energia termica che si propaga per irraggiamento, ha le proprietà uguali a quelle della luce e si muove nel vuoto alla velocità di 300.000 km/sec. Un corpo nero irradia verso l’ambiente che lo circonda una quantità di calore nella unità di tempo ( W ) calcolabile con: W = σ • S • (TA4 – TB4) conosciuta come legge di Stefan – Boltzmann. W = quantità di calore irradiata nell’unità di tempo σ = costante di Stefan-Boltzmann (5,67 · 10-8 W / m2 · K4 ) S = superficie del corpo TA = temperatura assoluta del corpo TB = temperatura assoluta dell’ambiente Per i corpi grigi è introdotto un “coefficiente di emissività (e) che rappresenta il rapporto tra l’energia emessa da un corpo reale e quella emessa da un corpo nero. Quindi si avrà: W = e • σ • S • (TA4 – TB4) Dove “ e • σ “ rappresenta la quantità di energia irradiata per unità di superficie, nella unità di tempo e per grado di temperatura assoluta, dal corpo reale. 59 U.D. 24 TRASMISSIONE DI CALORE TRA FLUIDI SEPARATI DA UNA PARETE SOLIDA Indicando con: Ta la temperatura del fluido caldo A Tb la temperatura del fluido freddo B T1 la temperatura della faccia parete lato A T2 la temperatura della faccia parete lato B Trascurando in prima approssimazione l’irraggiamento (ammissibile per temperature in gioco non troppo elevate) e per quanto detto nella U.D. 23, la quantità di calore nell’unità di tempo (W) che passa dal fluido A alla parete, che attraversa 1 m2 di superficie della stessa fino all’altra faccia e che da questa passa poi al fluido B, si può rispettivamente esprimere con: S W = αA • (Ta – T1) FLUIDO A W = λ / S • (T1 – T2) FLUIDO B W = αB • (T2 – TB) Ricavando dalle tre relazioni la differenza di temperatura e sommando si ottiene: (Ta – T1) + (T1 – T2) + (T2 – TB) = W • (1 / αA + S / λ + 1 / αB) 60 1 W = -------------------------- • (Ta – Tb) 1 / α A + S / λ + 1 / αB da cui 1 K = ---------------------------1 / α A + S / λ + 1 / αB e ponendo [w / m2 °K] coefficiente globale di scambio termico ( trasmittanza) della parete si può scrivere W = K • (Ta – Tb) Per una generica parete solida composta da n superficie S m2 si ha: W = Kp • S • (Ta – Tb) dove 1 Kp = ----------------------------------1 / αA + Σni=1 si /λi + 1 / αB strati di diverso materiale e di [watt] [w / m2 °K] è il coefficiente globale di scambio della parete di n strati che separa i due fluidi a diversa temperatura. • I valori dei coefficienti di convezione α dei fluidi e delle conduttanze termiche λ dei materiali solidi si trovano tabellati; • gli spessori S dei vari strati solidi devono essere espressi in m ; • la superficie S (area) della parete deve essere espressa in m2 . 61 U.D. 25 - SCAMBIATORI DI CALORE - Si definisce “scambiatore di calore” una apparecchiatura in cui un fluido caldo cede calore ad uno freddo attraverso una superficie solida che li separa; la superficie di separazione può essere piana (scambiatori a piastre) o cilindrica (scambiatori a fascio di tubi); in quest’ultimo caso potremo schematizzare così l’apparecchio: T2u collettore collettore ingresso uscita T1i scambiatore di calore controcorrente T1u fascio tubiero T2i T2i collettore collettore ingresso uscita T1i scambiatore di calore equicorrente T1u fascio tubiero T2u e supponendo che il fluido “ 1 “ ceda calore (fluido caldo) al fluido “ 2 “ (fluido freddo) attraverso le pareti cilindriche del fascio di tubi, il calore scambiato nell’unità di tempo (potenza termica) è dato da: W = A • K • (T1m – T2m) [watt] con T1i + T1u T1m = ------------2 temperatura media fluido 1 T2i + T2u T2m = ------------temperatura media fluido 2 2 A = area esterna complessiva del fascio di tubi scambiatori in m2 K = coefficiente globale di scambio dell’apparecchio in w / m2 °K 62 Riportando graficamente l’andamento della temperatura dei due fluidi all’interno dell’apparecchio, tra il collettore di ingresso c.i. e quello di uscita c.u. ,si ha: T1i T1u scambiatore controcorrente ΔTA T2u T2i ΔTB ΔTA = ΔTB = cost. l’apparecchio dall’ingresso all’uscita lavora in modo più uniforme c.i. c.u. T1i T1u scambiatore equicorrente ΔTA T2u T2i ΔTB c.i. ΔTA >> ΔTB l’apparecchio scambia molto calore all’ingresso e sempre meno andando verso l’uscita c.u. Come abbiamo visto, il coefficiente globale di scambio termico dell’apparecchio dipende molto dal valore assunto dai coefficienti di convezione dei due fluidi (αA e αB) che cambiano a seconda della natura dei fluidi stessi e della loro agitazione; ad esempio, nel caso che lo scambiatore sia adibito a bollitore di una caldaia, i tibi si trovano a contatto da un lato con i fumi caldissimi prodotti dalla combustione (1000 ….1200 °C) con αA = 20…..47 [w/m2°K] e dall’altro lato con acqua in fase di ebollizione αB = 1750……11700 [w/m2°K] . L’enorme differenza tra i due coefficienti fa si che il salto di temperatura fra i fumi caldi e la faccia dei tubi a contatto con essi sia molto più grande del salto esistente fra l’acqua e l’altra faccia: Tf 1200°C Fumi acqua 300°C Ta 63 Questo permette di mantenere la temperatura dei tubi metallici dello scambiatore a valori di poco superiori a quello dell’acqua contenuta nella caldaia. Nella sciagurata ipotesi di una mancanza di acqua all’interno dello scambiatore, dovuta ad un difetto nella alimentazione (guasto pompa di alimento), la poca acqua ancora presente si trasforma subito in vapore con la conseguenza che il valore di αB si avvicina molto a quelli caratteristici di αA ed anche i rispettivi salti di temperatura tendono ad uguagliarsi; i tubi metallici si riscaldano oltre i limiti accettabili, il materiale perde le sue proprietà meccaniche di resistenza (plasticizza) ed essendo il fluido all’interno ad elevata pressione, si può avere l’esplosione della caldaia: evento molto pericoloso sia dal punto di vista strutturale che soprattutto per i danni umani che può provocare. Come studieremo più dettagliatamente trattando i generatori di vapore, quando questi apparecchi hanno al loro interno grandi masse d’acqua sono meno pericolosi perché, in caso di insufficiente alimentazione c’è il tempo per fermare il generatore prima che si verifichi quanto appena detto, ma i moderni generatori di vapore lavorano con piccoli contenuti d’acqua e sotto grandi pressioni (velocità elevate di messa a regime) e per questi non c’è il tempo di intervenire in caso la pompa di alimento dell’acqua si fermi; per questo motivo e per avere maggiori sicurezze si impiegano 3 pompe in parallelo che funzionano con fonti di energia diverse, di modo che se una si ferma ci sono le altre che garantiscono il necessario flusso d’acqua. U.D. 26 -SISTEMA TERMODINAMICOTrasformazioni termodinamiche Un sistema termodinamico è una entità fisica dotata di massa, occupante un certo volume, delimitato da un contorno che lo separa dall’ambiente esterno ma con il quale può scambiare energia meccanica e termica (lavoro e calore) in un senso o nell’altro; definiremo per convenzione: scambio di lavoro • positivo se il sistema espandendosi compie lavoro verso l’esterno; • negativo se è dall’esterno che si compie lavoro sul sistema comprimendolo; scambio di calore • positivo il calore acquistato dal sistema; • negativo se il calore è ceduto dal sistema all’esterno. 64 Possiamo immaginare un sistema termodinamico come un gas racchiuso in un cilindro con il pistone, a tenuta, in grado di muoversi nei due sensi: lavoro negativo calore positivo lavoro positivo GAS calore negativo Lo stato fisico di un sistema termodinamico è determinato quando si conoscono: • la sua pressione assoluta (rispetto al vuoto) p misurata in Pa; • la sua temperatura assoluta T misurata in °K; • il suo volume specifico (inverso della densità) v misurato in m3/ Kg ; queste tre grandezze prendono il nome di variabili di stato e sono collegate fra loro da una relazione conosciuta come equazione di stato : p ٠ v = R ٠ T con R costante caratteristica del gas costituente il sistema termodinamico in J/ Kg °K . Questa equazione, valida per i gas perfetti (che in realtà non esistono) è ancora applicabile con sufficiente approssimazione ai gas dei sistemi termodinamici reali. Definiremo poi trasformazione termodinamica una qualunque variazione dei tre parametri del gas in esame (p , v , T ) che sarà comunque sempre legata dalla stessa relazione (con R costante una volta definito il tipo di gas) : isoterma (trasformazione termodinamica in cui rimane costante la temperatura) p ٠ v = (R ٠ T) = cost p ٠ v = cost 65 e quindi: nel piano p , v (pressione, volume specifico) è rappresentata da una iperbole p v isobara (trasformazione termodinamica in cui resta costante la pressione) p v / T = cost v isovolumica ( o isocora ) trasformazione termodinamica a volume costante p p / T = cost v adiabatica ( trasformazione termodinamica senza passaggio di calore con l’esterno) p p ٠vK = cost dove K = Cp / Cv v rapporto tra calore specifico a pressione costante Cp e calore specifico a volume costante Cv del gas. Per i gas a molecola biatomica (O2 , H2 , N2 , ecc. ) ed anche per l’aria K vale circa 1,4 . 66 politropica (trasformazione termodinamica compresa fra la isoterma e la adiabatica) nella isoterma p ٠ v n = cost con “n” = 1 p٠ v = cost nella adiabatica p٠ v n = cost con “n” = K p٠ v K = cost nella politropica p ٠ v n = cost con 1 < n < K p adiabatica n=K isoterma n=1 v Se invece di limitarci a far compiere al gas una sola trasformazione termodinamica, ne facciamo due o più di due, in maniera tale che alla fine riportiamo il gas nelle stesse condizioni di p , v e T iniziali, abbiamo fatto fare al gas un ciclo termodinamico : definiamo ciclo termodinamico una successione di almeno due (numero minimo) di trasformazioni termodinamiche che riportano il gas nelle stesse condizioni termodinamiche di partenza ( A B ; B A) p A- • -B v 67 U.D. 27 - PRIMO PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA – Concetto di energia interna ed entalpia Se immaginiamo di fornire una certa quantità di calore Q al sistema termodinamico formato dal gas racchiuso in un cilindro ottimamente coibentato (adiabatico), l’energia calore fornita ha due effetti : • aumento della temperatura del gas dovuto ad un aumento dell’energia termica “di agitazione” delle sue molecole (aumento dell’energia interna Δ U); • espansione del gas che muove il pistone verso l’esterno compiendo un lavoro contro la pressione dell’ambiente esterno (lavoro meccanico L ) . Quindi possiamo affermare che : ( 1° principio della termodinamica ) il calore fornito al sistema termodinamico, parte lo ritroviamo in lavoro di espansione verso l’esterno e parte in aumento di energia interna del sistema stesso Q = L + ΔU Possiamo fornire energia ad una massa di gas in due modi, o fornendo calore o comprimendola e quindi fornendo lavoro meccanico (che in questo caso è negativo); avremo sempre una variazione positiva di energia interna ΔU della massa gassosa. Non c’è modo di misurare in assoluto il contenuto di energia interna di una massa, ma assumendo un valore zero di riferimento in determinate condizioni termodinamiche di pressione e di temperatura, possiamo facilmente calcolarne la variazione. Se prendiamo una massa unitaria ( 1 Kg ) di fluido alla temperatura di 0°C ed alla pressione assoluta di 1 bar = circa 100000 Pa (pressione atmosferica al livello del mare) e assumiamo uguale a zero la sua energia interna in queste condizioni, quando questa massa di 1 Kg si troverà ad una temperatura T > 0 e ad una pressione p > 1 bar , essa avrà un contenuto di energia interna pari a ΔU ottenuto sommando l’energia calore “Q” e/o l’eventuale energia lavoro “-L” che gli abbiamo dovuto fornire per portarla in quelle condizioni di temperatura e di pressione: T ΔU0°C p 1 bar = Q - L = I (entalpia) questa energia interna prende il nome di ENTALPIA L’entalpia ( I ) di un fluido è l’energia sotto forma di calore e di lavoro meccanico che dobbiamo fornire alla massa di 1 Kg per portarla dalle condizioni iniziali di T =0°C e p = 1 bar alle condizioni finali di temperatura e di pressione in cui si trova. Viene normalmente misurata in Kj / Kg 68 U.D. 28 CONVERSIONE DI ENERGIA TERMICA IN MECCANICA Secondo principio della termodinamica Applicando il 1° principio della termodinamica alle trasformazioni termodinamiche considerate vediamo come, per alcune di esse, il calore che viene fornito al fluido produce una dilatazione e quindi un lavoro meccanico verso l’esterno che può essere utilizzato: questo è realizzato tramite una macchina termica. Se consideriamo infatti la trasformazione termodinamica generica A - B , rappresentata ne piano p – v , notiamo che il fluido espandendosi da A verso B compie un lavoro LF verso l’esterno che è equivalente all’area sottesa alla linea della trasformazione A – B e che in parte può essere raccolto sull’organo meccanico della macchina termica ed essere utilizzato. p Q1 LF = Σ p Δv = lavoro fornito (area blu) pA A p B pB v vA Δv Q2 vB Lp = lavoro perso (area rossa) Per assicurare alla macchina termica una continuità di funzionamento occorre riportare il fluido allo stato iniziale (A) in modo da poter effettuare una nuova espansione, e poi un’altra, e poi un’altra, e così via……. Questo può essere realizzato in due modi: - disponendo di una elevata quantità di fluido nelle condizioni (A) in sostituzione di quello che ogni volta viene scaricato all’esterno alla fine dell’espansione (ciclo aperto); - riutilizzando lo stesso fluido, riportandolo nello stato iniziale, dopo la fine di ogni espansione (ciclo chiuso) Lavorando in ciclo chiuso notiamo che: se il ritorno alle condizioni (A) è fatto sulla stessa linea A-B la macchina dovrebbe adesso lei fornire al fluido un lavoro pari a quello che il fluido le ha fornito in fase di espansione ed il bilancio complessivo sarebbe nullo; una macchina simile non produrrebbe nessun lavoro utile e addirittura, per via degli attriti e perdite varie non potrebbe funzionare. E’ perciò indispensabile fare in modo che il lavoro di compressione che la macchina deve dare al fluido per riportarlo in (A) sia minore di quello prodotto nell’espansione, questo si ottiene raffreddando in modo opportuno il fluido. 69 Riassumendo: per funzionare, una macchina termica richiede che il fluido operatore descriva un ciclo termodinamico che lo riporti alternativamente in contatto con una sorgente calda, dove assorbe la quantità di calore Q1 (segmento A-B) e successivamente con una sorgente fredda, dove cede la quantità di calore Q2 (curva B-A). La differenza fra la quantità di calore Q1 assorbita dalla sorgente calda e la quantità di calore Q2 ceduta al refrigerante ci dà l’energia termica che la macchina ha trasformato in lavoro utile “Lu” . Lu = Q1 - Q2 Quanto adesso detto può essere sintetizzato nell’enunciato di Carnot che è anche l’espressione del secondo principio della termodinamica: non tutto il calore prelevato da una sorgente termica può essere trasformato in lavoro, ma una macchina termica che opera in modo continuo, deve necessariamente restituire parte del calore ricevuto ad una sorgente a temperatura inferiore. Visto che nella realizzazione di un ciclo termodinamico seguito da una macchina termica si fornisce al fluido operatore una quantità di calore Q1 e la macchina ne trasforma in lavoro utile solamente una parte Q1 – Q2 ( Q2 calore ceduto alla sorgente fredda per chiudere il ciclo) ne deriva che il rendimento di tale ciclo vale: Q1 - Q2 Lu η = -------------- = ------Q1 Q1 70 U.D. 29 - CONCETTO FISICO DI ENTROPIA – L’entropia può essere considerata un indice qualitativo del calore in quanto il suo valore fornisce indicazioni sui limiti naturali esistenti nella conversione in lavoro meccanico. Se somministriamo calore all’unità di massa ( 1Kg) di un fluido, portandolo da uno stato iniziale A ad uno stato finale B , la sua temperatura aumenta (calore sensibile): temp. ( °C) B T A Q (joule) dQ considerando un tratto infinitesimo della trasformazione, possiamo supporre che la relativa somministrazione di calore dQ avvenga pressoché a temperatura T costante. Il rapporto tra questa infinitesima quantità di calore e la temperatura a cui è stato somministrato definisce l’entropia S del sistema in quel particolare stato: S = dQ / T [ Kj / Kg °K] La sommatoria di tutti i rapporti tra le infinitesime quantità di calore somministrate nella intera trasformazione A – B e le rispettive temperature, fornisce la variazione di entropia subita dal fluido passando dallo stato A allo stato B : ΔS = ΣAB ( dQ / T ) E’ impossibile sapere il valore assoluto di entropia di quel Kg di fluido, ma come abbiamo fatto per l’entalpia, possiamo convenzionalmente assumere un valore “ zero” : convenzionalmente l’entropia è zero alla temperatura di 0°C . Per meglio capire il concetto di entropia, possiamo riferirci al paragone con l’energia potenziale: come l’utilizzabilità dell’energia potenziale aumenta al crescere del dislivello (distanza dal centro della terra), nonostante che il peso vada diminuendo, anche l’utilizzabilità dell’energia termica (calore) aumenta all’aumentare della temperatura nonostante diminuisca il valore di entropia. 71 In una espansione adiabatica, non essendoci scambio di calore con l’esterno ( dQ=0) la variazione di entropia ΔS è nulla (entropia costante) ma la utilizzabilità del calore che contiene il fluido, alla fine dell’espansione è nettamente inferiore a quella iniziale. Nel paragone fatto tra energia potenziale ed energia termica, si possono chiaramente individuare i limiti naturali che ci sono allo sfruttamento di ambedue queste forme di energia: la superficie terrestre per la prima, la temperatura ambiente per la seconda. In definitiva utilizzando energia termica (calore) non facciamo altro che degradarla da temperature elevate fino alla temperatura ambiente e le quantità di calore che di volta in volta vengono cedute alle sorgenti fredde dell’universo ne elevano sempre di più il valore di entropia: l’entropia dell’universo (sistema chiuso) tende ad un massimo (aumenta all’infinito). Ep = M g · Δh Et = ΔS · ΔT M Q Δh superficie terrestre ΔT LIMITI NATURALI centro della terra temperatura ambiente zero assoluto (0°K) 72 U.D. 30 - CICLO DIRETTO E CICLO INVERSO- Il ciclo di Carnot Tracciando sul piano p – v un ciclo termodinamico generico ed una famiglia di isoterme, vediamo come il fluido operatore percorra il ciclo assumendo temperature diverse, nel punto A la massima temperatura T1 e nel punto B la minima temperatura T2 ; a conferma della necessità di disporre di due sorgenti di calore, una calda per portarlo alla temperatura T1 ed una fredda per sottrargli calore e riportarlo alla temperatura T2; il fluido assorbendo calore dalla fonte calda, oltre che scaldarsi produce, espandendosi, lavoro contro le forze esterne (espansione), mentre cedendo calore alla fonte fredda (refrigerante) oltre che diminuire di temperatura assorbe lavoro dall’esterno (compressione). La differenza tra la quantità di calore assorbita dalla fonte calda e quella ceduta alla fonte fredda rappresenta il calore che la macchina termica ha trasformato in lavoro utile sul suo asse. Se il fluido operatore percorre il ciclo termodinamico in senso orario si ha trasformazione di calore in lavoro meccanico e tale ciclo si dice “diretto”. Su tali cicli è basato il funzionamento delle macchine termiche: motori a combustione interna (motori a benzina, motori diesel); motori a combustione esterna (turbine a vapore). Quando invece il fluido operatore percorre il ciclo in senso antiorario, assorbe calore da una sorgente a bassa temperatura e lo cede ad una sorgente a temperatura più elevata, il ciclo si dice “inverso”; naturalmente in questo caso è necessario fornire dall’esterno lavoro meccanico al fluido. Classici esempi di macchine termiche il cui funzionamento si basa su cicli inversi sono: pompe di calore; macchine frigorifere. p T1 A T2 max temperatura B isoterme min temperatura v 73 Fra le due isoterme T1 e T2 si possono ipotizzare infiniti cicli diretti, ma quello di massimo rendimento risulta essere formato quattro trasformazioni reversibili: due isoterme e due adiabatiche, esso è conosciuto come ciclo ideale di Carnot : p T1 A-B isoterma a T1 B-C adiabatica di espansione C-D isoterma a T2 D-A adiabatica di compressione Q1 T2 A B Lavoro D C v Q2 Il fluido riceve Q1 a temperatura costante T1 e cede calore minore costante T2 . Possiamo tracciare il ciclo di Carnot anche sul piano entropia): T Q2 a temperatura T – S (temperatura – Q1 A B A-B e C-D isoterme reversibili T1 B-C e D-A adiabatiche reversibili T2 D C S S1 S2 Q2 Ricordando l’espressione del rendimento ed adattandola alle grandezze del nuovo piano T-S si ha : Q1 – Q2 (S2-S1)·T1 – (S2-S1) ·T2 T1-T2 T2 ηc = ------------- = --------------------------------- = ---------- = 1 – --Q1 (S2-S1) · T1 T1 T1 E’ questo il massimo rendimento (ideale), che potrebbe essere realizzato solo da una macchina termica perfetta: rendimento di Carnot. 74 Durante la trasformazione A – B (isoterma) il fluido assorbe la quantità di calore Q1 dalla sorgente calda che si trova alla sua stessa temperatura; nella trasformazione B – C (adiabatica) si ha una espansione del fluido che avviene a scapito della sua energia interna, la temperatura diminuisce raggiungendo quella del refrigerante T2 ; nella trasformazione successiva C – D la temperatura tenderebbe ad aumentare, ma il refrigerane, sottraendogli la quantità di calore Q2 lo mantiene a temperatura costante; infine nella D – A (adiabatica) il fluido viene compresso a spese del lavoro esterno ed aumenta sia la sua temperatura che la sua pressione ritornando ai valori di partenza. Sul piano T – S (temperatura – entropia) il ciclo di Carnot è rappresentato da un rettangolo da cui si vede facilmente che il rendimento di questo ciclo ideale non dipende dalla natura del fluido operatore, ma unicamente dai valori delle temperature T1 della sorgente calda e T2 della sorgente fredda: più alto sarà il valore di T1 e più basso quello di T2, maggiore risulterà il rendimento del ciclo di Carnot . In pratica tale ciclo non è realizzabile (per avere le trasformazioni isoterme la macchina dovrebbe dare il tempo al calore di abbandonare il fluido man mano che la trasformazione stessa procede, con tempi molto alti e quindi potenze sviluppate bassissime), ma il ciclo di Carnot costituisce l’esempio a cui far tendere tutti i cicli termodinamici reali, su cui si basa il funzionamento di macchine e impianti termici utilizzati nella pratica. 75 MODULO 7 MACCHINE TERMICHE A COMBUSTIONE ESTERNA U.D. 31 - TURBINE A VAPORE – (macchine esotermiche) Si definiscono macchine esotermiche o a combustione esterna, quelle macchine nelle quali il calore necessario ad ottenere il lavoro meccanico si sviluppa all’esterno della macchina stessa. Le turbine a vapore sono macchine motrici che utilizzano l’energia cinetica del vapore d’acqua. Quando il vapore espandendosi (completamente o parzialmente) nell’attraversamento di condotti fissi palettati (distributore) ed in seguito in condotti mobili che costituiscono la girante trasforma l’energia di pressione in energia cinetica, la macchina la converte in lavoro meccanico sul suo asse. Il vapore entra nella turbina a pressione e temperatura elevati (alto valore di entalpia) ed esce a pressione molto bassa e temperatura di condensazione (basso valore di entalpia): le turbine a vapore utilizzano quindi un salto di entalpia così come quelle idrauliche utilizzano un salto geodetico. Possiamo suddividerle in due categorie: • turbine ad azione dove l’intero salto di entalpia disponibile è trasformato interamente in energia cinetica nei condotti fissi del distributore; • turbine a reazione nelle quali solo una parte del salto di entalpia disponibile viene trasformato in energia cinetica nell’attraversamento del diffusore ed il resto nella girante, dove l’espansione prosegue fino a raggiungere i valori di pressione esistenti allo scarico. All’uscita della turbina si trova il condensatore. Questo apparecchio è uno scambiatore di calore che, tramite un refrigerante, sottrae calore al vapore condensandolo. Il condensatore lavora a pressioni molto basse (0,2 …0,05 bar) così da aumentare il salto di entalpia (ΔI) e quindi anche il lavoro utile erogato dalla turbina. TURBINE AD AZIONE Ricordando che l’entalpia è l’energia posseduta dall’unità di massa (1Kg) di fluido si ha : ΔI = (Ii – Iu) = energia di 1Kg di vapore disponibile all’ingresso macchina Dove Ii =entalpia vapore in ingresso Iu entalpia vapore in uscita 76 L’energia posseduta da una massa ( m ) di vapore, nel distributore si trasforma in energia cinetica: m · ΔI = Ec = ½ m V2 da cui si ha V= 2 ΔI tenendo conto delle inevitabili perdite di carico che per attrito il vapore incontra attraversando il distributore, indichiamo con φ un opportuno coefficiente di riduzione, la velocità reale assoluta di ingresso nella girante sarà quindi : C1 = φ · 2 ΔI Con la stessa simbologia e significato fisico di quanto abbiamo fatto per le pompe centrifughe, dovendo anche qui soddisfare i due aforismi idraulici, andiamo a disegnare i triangoli delle velocità per la girante di una turbina a vapore ad azione: distributore C1 V1 U1 -U1 girante C2 V2 = V1 U2=U1 Per rendere minimo il vettore “C2” (2° aforisma idraulico) esso deve essere diretto perpendicolarmente al piano della girante, cioè parallelo all’asse della turbina. α1 C1 V1 - U1 C2 V2 = V1 U2 = U1 essendo V2 = V1 (se trascuriamo l’attrito tra vapore e pala) ed U2 = U1 dai triangoli delle velocità, disegnati col vertice in comune, vediamo che rispettando i due aforismi idraulici deve essere : 77 C1 · cos α1 = 2 U1 e ricavando da questa U1 = C1 · cos α1 / 2 la velocità periferica che assicura il massimo rendimento della turbina deve soddisfare la relazione: U1 = C1 · cos α1 / 2 Ribaltando il triangolo di velocità in uscita, rispetto alla direzione di C2 si ottiene: α1 C1 V1 = V2 C2 90° - U1 - U2 Una turbina ad una sola girante, come quella sopra descritta, ha limitate possibilità di impiego in quanto può sfruttare salti di entalpia piccoli. Se ipotizziamo un salto entalpico di 700 Kj/Kg (valore peraltro ancora piuttosto basso) si avrebbe una velocità di efflusso dal distributore di: C1 = 0,97 · 2 · 700000 = 1148 m/s con φ = 0,97 da cui , supponendo cos α1 = 0,9 la velocità periferica della girante risulta: U1 = 1148 · 0,9 / 2 = 516 m / s valore eccessivo per un accoppiamento diretto con qualunque macchina operatrice; da qui la necessità di abbassare la velocità periferica della girante pur con salti di entalpia ancora più elevati di quello ipotizzato. L’abbassamento della velocità di rotazione della turbina viene ottenuto tramite l’adozione di turbine a salti di velocità; a salti di pressione; o miste. TURBINE AD AZIONE A SALTI DI VELOCITA’ Curvando meno le pale della prima girante, il vapore esce avendo ancora una velocità piuttosto elevata e se, tramite una corona di pale fisse alla cassa della turbina, viene ridato al getto di vapore la solita direzione e verso che aveva all’inizio, esso può essere riversato in una seconda girante calettata sullo stesso albero motore della turbina e così via. 78 Per una turbina a due giranti, i triangoli di velocità, dopo il solito ribaltamento, risultano: α1 C1 C2 quindi -U1 -U2 -U1 -U2 4U C1 · cos α1 U1 = --------------e in generale se la macchina ha “n” giranti : 4 C1 · cos α1 U1 = --------------2n procedendo però dalla prima alla seconda e poi alla terza girante, il vapore diminuisce sempre la sua velocità ed anche il lavoro che le rispettive giranti erogano si abbassa sempre più; per questo non conviene costruire turbine a più di tre o al massimo quattro giranti. TURBINE AD AZIONE A SALTI DI PRESSIONE Nelle turbine a salti di pressione, il salto entalpico disponibile viene suddiviso tra i distributori che alimentano le rispettive giranti; ad esempio nel caso di turbina a due salti di pressione, metà del ΔI disponibile viene trasformato in energia cinetica nel primo distributore e poi in lavoro meccanico nella prima girante e metà nel passaggio successivo dal secondo distributore e relativa girante, allora la velocità di efflusso dai due distributori diviene: C1 = φ · 2 ΔI / 2 e più in generale per una turbina ad azione a “n” salti di pressione : C1 = φ · 2 ΔI / n C1 e di conseguenza U1 = U2 =……= Un , può essere ridotta a valori anche molto bassi. 79 Il problema di questa soluzione a salti di pressione è che ogni girante lavora a pressione diversa dalle altre per cui, devono essere installati sulla cassa dei diaframmi di separazione che, pur permettendo la rotazione dell’albero, impediscano al vapore di passare da una camera all’altra per effetto della diversa pressione; sono necessari quindi speciali organi di tenuta. TURBINE A REAZIONE Nelle turbine a reazione una parte del salto entalpico ΔI disponibile viene trasformata in energia cinetica nel distributore ed una parte nella girante, normalmente metà nel distributore e metà nella girante (grado di reazione 0,5); quindi anche le pale della girante devono formare, tra l’una e l’altra, canali divergenti per permettere l’ulteriore espansione del vapore fino alla pressione di scarico. Il lavoro sviluppato per azione La = (C12 – C22) / 2 deve essere uguale al lavoro sviluppato per reazione Lr = (V22 – V12) / 2 ovvero: C12 – C22 = V22 – V12 relazione che viene soddisfatta se i condotti vengono sagomati in maniera che sia ׀C1׀ = ׀V2׀ e ׀C2׀ = ׀V1׀ I triangoli delle velocità, in questo caso, divengono (in condizione di massimo rendimento) : α2 α1 C1 V1 C2=V1 - U1 V2 = C1 U2 = U1 I triangoli delle velocità in entrata ed in uscita risultano uguali e se consideriamo che dobbiamo soddisfare anche il 2° aforisma idraulico ( C2 minimo) essi divengono rettangoli, e ribaltando: α1 C1 C2 90° - U1 = - U2 80 possiamo da qui ricavare la velocità periferica che consente il rendimento massimo: U1 = C1 · cos α1 Il valore di U è naturalmente troppo elevato per cui la turbina a reazione costituita da una sola coppia distributore – girante trova scarse applicazioni pratiche; in realtà queste turbine hanno numerose coppie distributore – girante, sono frazionate cioè in numerosi salti di pressione fino ad ottenere velocità periferiche intorno anche ai 30 m/s . Avendo così un gran numero di coppie distributore – girante, che lavorano a diverse pressioni (come nel caso delle turbine a salti di pressione) sono necessari tanti diaframmi di separazione tra le varie camere; è risultato più semplice sostituire le giranti con un unico tamburo cilindrico dove sono fissate le varie corone di pale e fra una corona e l’altra si affacciano i distributori fissi (turbine Parsons) e considerando che mano a mano che la pressione diminuisce, il vapore si espande ed ha bisogno di canali di passaggio più ampi, il tamburo è stato poi realizzato nella classica forma a gradini di diametro crescente. Uno degli inconvenienti di queste turbine sta nel fatto che la differenza di pressione fra una testata e l’altra del tamburo crea una spinta assiale diretta da monte a valle. Il problema è stato parzialmente risolto introducendo un cilindro equilibratore, cioè il rotore viene prolungato anteriormente e dotato di un cilindro che posto in una camera stagna della cassa riceve la spinta equilibratrice dallo stesso vapore di alimentazione prima che questo passi nei distributori. distributori cilindro equilibratore tamburo a gradini ingresso vapore 81 corona pale TURBINE MISTE Le turbine ad azione convertono tutta la pressione del vapore in velocità all’interno del distributore e questo porta dei notevoli vantaggi in quanto all’interno della cassa avremo la bassa pressione del condensatore: • la cassa può essere leggera, di spessore modesto, e quindi di peso limitato; • non si creano spinte assiali; • la turbina risulta compatta e di modesto ingombro. Esse presentano però anche lo svantaggio della impossibilità di basse velocità di rotazione: i salti di velocità non possono essere più di tre o quattro e con i salti di pressione si hanno troppi diaframmi separatori che costituiscono una complicazione nella costruzione ed un aggravio di costo. Le turbine a reazione permettono di ottenere velocità di rotazione molto basse utilizzando tante coppie rotore – girante e distribuendo così in piccolissimi salti di entalpia il salto entalpico totale, ma risultano pesanti e ingombranti in quanto la cassa è sottoposta ad alte pressioni ed inoltre deve essere compensata la spinta assiale con opportuni accorgimenti; in più il distributore è realizzato sull’intera circonferenza con problemi di regolazione che essendo fatta per strozzatura comporta notevoli perdite di rendimento. La turbina ad azione risulta conveniente per vapori ad alta pressione, mentre quella a reazione è più adatta nel campo delle basse pressioni. Da queste considerazioni hanno avuto origine le turbine miste, impiegate in impianti di grande potenza, sono costituite da un rotore avente la prima parte ad azione, con salti di velocità e salti di pressione, seguita da un tamburo a reazione là dove la pressione del vapore è scesa a valori più bassi; si hanno in questo modo i vantaggi di ambedue le categorie. POTENZA E RENDIMENTO DELLE TURBINE A VAPORE La potenza teorica può essere calcolata conoscendo la portata massica di vapore che attraversa la macchina (Qm) ed il salto di entalpia del vapore stesso tra ingresso e scarico ( Ii – Iu) : P teorica = Qm · ( Ii – Iu ) se Qm è dato in Kg / s e ΔI = (Ii – Iu) in Kj / Kg la potenza calcolata risulta in Kw . 82 Naturalmente la potenza reale, effettivamente erogata dalla turbina sarà minore a causa delle inevitabili perdite che, analogamente a quanto visto per le macchine idrauliche, possono riassumersi in tre rendimenti: volumetrico ηV , idraulico ηi , meccanico ηm ; il rendimento totale è dato dal prodotto dei tre rendimenti ηtot = ηV · ηi · ηm La potenza reale erogata sarà quindi: Pr = P teorica · ηtot AVVIAMENTO E REGOLAZIONE L’avviamento della turbina a vapore non presenta particolari problemi se la macchina è ferma da poco tempo e quindi è ancora calda. Nelle partenze da freddo invece si deve fare in modo che il riscaldamento e la conseguente dilatazione termica di tutti i componenti della macchina sia molto graduale, per questo motivo si inietta vapore in quantità limitate con le valvole di spurgo del condensato, poste sulla parte inferiore della cassa, aperte; in questa prima fase il rotore è fermo. Tale operazione può durare da 1 a 2 ore nelle moderne turbine miste fino a circa 5 o 6 ore nelle vecchie turbine a tamburo. Nella fase successiva si fa ruotare la turbina con l’ausilio di un motore indipendente, collegato all’albero della macchina tramite ingranaggi, per uniformare la temperatura all’interno della cassa; a riscaldamento ultimato si esclude il motore di lancio e si prosegue la rotazione della turbina aprendo gradualmente la valvola principale di immissione vapore. Per regolare la potenza erogata dalla turbina si agisce sulla portata di vapore immesso: - regolazione portata vapore attuata tramite strozzatura della valvola principale di mandata, poco conveniente, specialmente per impianti di grande potenza, in quanto comporta notevoli diminuzioni di rendimento; - regolazione per parzializzazione, che consiste nel chiudere alcuni ugelli del distributore (ogni ugello è infatti dotato di valvola di intercettazione), in questo modo la portata di vapore in turbina viene ridotta senza variare il suo stato fisico e non c’è diminuzione di rendimento; questo sistema richiede però che la turbina sia munita di distributore parzializzato. 83 MODULO 8 COMBUSTIBILI E COMBUSTIONE U.D. 32 - COMBUSTIBILI E COMBURENTE Un combustibile è una sostanza, solida, liquida o gassosa, contenete almeno uno dei tre elementi “attivi”: C carbonio - H idrogeno - S zolfo , che combinata con l’ossigeno dà origine ad una reazione chimica esotermica (con sviluppo di calore). Gli elementi inerti presenti sia nel combustibile che nel comburente non partecipano alla reazione chimica e si ritrovano nei residui della combustione (ceneri) o nei prodotti della combustione (fumi). 84 Possiamo classificare i combustibili in base al loro stato fisico ed alla loro provenienza: naturali legna, carboni fossili artificiali carbone di legna, coke naturali petrolio, olii grassi artificiali benzina, gasolio, nafta, benzolo, alcoli naturali metano artificiali G.P.L. (gas di petrolio liquefatto), idrogeno, acetilene solidi liquidi gassosi Ogni combustibile può quindi, unito all’ossigeno, bruciare; ma questa reazione chimica deve essere innescata o tramite accensione (scintilla) o tramite un aumento di pressione della miscela. Le condizioni di accensione variano molto in funzione sia del tipo di combustibile che della sua miscelazione con il comburente. IL POTERE CALORIFICO Il carbonio “C” combinandosi con l’ossigeno può dare luogo a due diverse reazioni a seconda della quantità di ossigeno che riesce a legare: C2 + 2O2 2 C O2 C2 + O2 2CO (con sviluppo di 33900 Kj/Kg di calore) (con sviluppo di solo 10190 Kj/Kg di calore) La C O2 (biossido di carbonio o anidride carbonica) è un gas inerte; il C O (monossido di carbonio) è invece a sua volta un combustibile che potrebbe ancora essere “bruciato” : 2 C O2 2 C O + O2 con lo sviluppo di ulteriore calore (10170 Kj/Kg). Bruciando carbonio puro in presenza di abbondante ossigeno avremo una combustione completa con produzione di CO2 , se invece l’ossigeno scarseggia 85 avremo produzione di CO e perderemo circa i 2/3 dell’energia calore che quel combustibile poteva fornire. Definiamo “potere calorifico” di un combustibile la quantità di calore sviluppata dalla combustione completa di 1 Kg di esso e lo esprimiamo in Kj / Kg. Per il carbonio risulta pertanto Pc (potere calorifico) = 33900 Kj / Kg Ma nel caso dell’idrogeno avremo: vapor d’acqua 2 H2 + O2 2 H2O (con sviluppo di 141900 Kj /Kg di calore) il vapore d’acqua prodotto contiene una certa quantità di calore (calore latente) che può essere valutato o meno nel calcolo del potere calorifico a seconda che esso sia fatto ricondensare o no. Distingueremo quindi per l’idrogeno e per tutti i combustibili che lo contengono, due diversi poteri calorifici: • il potere calorifico inferiore ( Pci ) se supponiamo di disperdere il vapore prodotto non tenendo conto quindi dei 2500 Kj / Kg da esso recuperabili; • il potere calorifico superiore (Pcs ) se il vapore prodotto verrà ricondensato recuperando il suo calore latente (ad esempio nelle caldaie a condensazione). Si ha pertanto: Pcs = Pci + 2500 · 9 H dove H è la percentuale in peso dell’idrogeno contenuto nel combustibile e sapendo che ogni Kg di idrogeno produce nella reazione con l’ossigeno 9 Kg di vapore d’acqua. I combustibili sono principalmente costituiti da carbonio e idrogeno, dovremo quindi distinguere per essi tra potere calorifico superiore e potere calorifico inferiore. Quest’ultimo assume poi grande importanza nei calcoli relativi alle macchine termiche, dove, nella quasi totalità dei casi, i prodotti della combustione (fumi) vengono espulsi in atmosfera a temperature tra i 140°C ed i 350°C, nettamente al di sopra della temperatura di condensazione del vapore d’acqua, in essi contenuto, alla pressione atmosferica. Il vapore prodotto viene perciò disperso coi fumi e non possiamo recuperare il calore di condensazione che esso contiene, nei calcoli dovremo considerare quindi il Pci (potere calorifico inferiore) del combustibile impiegato. Il Pci e il Pcs dei vari combustibili è disponibile in apposite tabelle sui manuali tecnici, ma conoscendo la composizione chimica possiamo anche calcolarli: Pcs = 33900 C + 141900 ( H – O/8) + 9330 S 86 [Kj / Kg] dove C, H, O, S sono rispettivamente la massa di Carbonio, Idrogeno, Ossigeno e Zolfo presenti in 1 Kg di quel combustibile (H – O/8) deriva dal fatto di considerare una percentuale di idrogeno minore di quella effettiva H in quanto si ritiene che una parte di esso, pari circa ad 1/8 della massa di ossigeno già presente nel combustibile, sia combinata sotto forma di acqua. Il Pci possiamo poi calcolarlo sottraendo dal Pcs il calore di condensazione contenuto nel vapore sia dalla combustione dell’idrogeno, sia dalla evaporazione della umidità U presente nel Kg di combustibile in esame: Pci = Pcs – 2500 (U+9H) [Kj / Kg] U.D. 33 - CALCOLO DELL’ARIA NECESSARIA ALLA COMBUSTIONE – La combustione può avvenire solo facendo reagire gli elementi chimici che compongono il combustibile con una adeguata quantità di ossigeno: il carbonio C potrà “bruciare completamente” solo se 12 parti di esso si combinano con 32 parti di ossigeno, in quanto la massa atomica del C è 12 e quella dell’O è 16 quindi: 12+2 · 16 = 44 C + O2 = CO2 12 + 32 ne deriva che per ogni Kg di carbonio sono necessari 32/12 = 8/3 = 2,67 Kg di ossigeno In modo analogo, per l’idrogeno H otterremo che avendo massa atomica 1 potrà bruciare completamente se combinato ad 8 parti di ossigeno e per lo zolfo di massa atomica 32 se combinato ad una uguale parte di ossigeno, quindi in conclusione per un Kg di un generico combustibile dove indichiamo con C, H e S le parti dei tre elementi costituenti, si ottiene: quantità di ossigeno già presente nel combustibile Ot = 8/3 C + 8 H + S – O [Kg/ Kg] (Kg di Ossigeno teoricamente necessario per Kg di combustibile bruciato) 87 Ma poiché l’ossigeno è presente nell’aria mediamente per il 23% (il restante 77% è costituito da azoto e altri gas inerti), per bruciare completamente 1 Kg di combustibile sono teoricamente necessari: At = Ot 100 / 23 = 100/23 · ( 8/3C+8H+S-O) [Kg / Kg] Nella pratica, quando si realizza la combustione, soltanto una parte dell’aria inviata al focolare partecipa alla reazione chimica, sia per effetto di dispersioni sia perché (specialmente nel caso di combustibili solidi) il contatto con l’ossigeno avviene solo sulla superficie del solido e male all’interno: occorre quindi aumentare, a volte anche in modo considerevole, la quantità di aria teorica necessaria alla combustione aggiungendo un eccesso d’aria “e” per cui l’aria effettivamente necessaria, detta aria pratica, si può calcolare con: Ap = At + e · At = At (1+e) [Kg/ Kg] “e “ può assumere valori che vanno da un minimo di 0,1 ad un massimo di 1 a seconda del tipo di combustibile e del sistema di iniezione utilizzato: combustibili gassosi o liquidi volatilizzati combustibili liquidi leggeri nebulizzati combustibili liquidi pesanti nebulizzati polverino di carbone (in base alla granulazione) legna secca in piccoli pezzi carbone sminuzzato carbone pezzatura media e = 0,1 e = 0,2 e = 0,3 e = 0,1 e = 0,5 e = 0,5 e = 0,7 - 0,2 0,3 0,5 0,2 0,6 0,6 1 Se l’eccesso d’aria assunto è troppo elevato rispetto al fabbisogno reale di quel combustibile, aumenterà la massa dei fumi prodotta dalla combustione e di conseguenza il calore perduto. U.D. 34 I PRODOTTI DELLA COMBUSTIONE ED IL LORO IMPATTO SUGLI IMPIANTI E SULL’AMBIENTE Bruciando un generico combustibile composto da C , H e S potremo trovare nei fumi i seguenti composti chimici: • CO monossido di carbonio, gas derivante da una combustione incompleta di parte del carbonio, dovuta a carenza di ossigeno o cattiva miscelazione combustibile – comburente. Il CO è un gas molto pericoloso perché se respirato, attraverso i polmoni, entra nel circolo sanguigno e sottrae ossigeno al 88 sangue per completare la molecola e trasformarsi in CO2, agisce come un veleno portando stordimento, nausea, mal di testa e se inalato in grandi quantità può essere mortale. La sua pericolosità è accentuata dal fatto di essere inodore e incolore, quindi difficilmente percepibile dai nostri sensi. Secondariamente la presenza di CO nei fumi significa anche che il combustibile è bruciato solo parzialmente e quindi il calore ricavato è minore, si abbassa il rendimento. • CO2 biossido di carbonio (anidride carbonica), gas derivante da una combustione completa del carbonio. La CO2 è un gas neutro e quindi non è dannoso né per l’impianto né per l’uomo, almeno direttamente, ma può esserlo per l’ambiente se prodotta in dosi massicce: la CO2 crea nell’atmosfera terrestre strati che impediscono il naturale raffreddamento della terra determinando un innalzamento della temperatura media con tutte le conseguenze climatiche che ne conseguono, questo fenomeno è conosciuto come “effetto serra” in analogia a ciò che in modo più sensibile e immediato percepiamo se entriamo in una serra durante una giornata assolata. Per questo guaio non ci sono rimedi se non diminuire l’utilizzo di combustibili tradizionali a favore di forme di energia alternative. • H2O vapore d’acqua, derivante dalla combustione dell’idrogeno e anche dalla vaporizzazione dell’umidità eventualmente contenuta nel combustibile. Il vapore non è nocivo se non per il fatto che si porta via il calore latente che contiene diminuendo la prestazione energetica del combustibile, così come abbiamo già visto nella precedente trattazione del potere calorifico. • SO, SO2, SO3 ossidi di zolfo, anidridi solforose o solforiche, derivano dalla combustione dello zolfo presente nel combustibile. Lo zolfo è uno dei tre elementi che danno origine con l’ossigeno a reazioni esotermiche e quindi producono energia calore, ma la presenza di zolfo nel combustibile non è gradita, anzi è dannosa per l’impianto e per l’ambiente, vediamo perché: gli ossidi di zolfo, venendo a contatto con l’eventuale condensa che negli impianti di scarico si può formare se in taluni punti i fumi scendono a temperature sotto i 100°C (il vapore d’acqua sotto i 100°C si condensa in gocce di liquido), formano un acido, l’acido solforico H2SO4, responsabile della corrosione di canne fumarie metalliche, scambiatori di calore delle caldaie, condotti di scarico e marmitte di autoveicoli, ecc. Per evitare queste corrosioni o quanto meno per ridurle il più possibile, il contenuto di zolfo dei combustibili deve essere molto basso (maggiore raffinazione e quindi maggiori costi), i fumi devono essere evacuati a temperature sempre maggiori dei fatidici 100°C (temperatura di condensazione del vapore alla pressione atmosferica) con conseguente perdita di calore sensibile al camino. Con questi accorgimenti si evita in gran parte la corrosione all’interno dell’impianto, ma se gli ossidi di zolfo vanno in atmosfera, vengono spinti dai venti anche in luoghi molto lontani dal punto 89 di produzione e quando incontrano la pioggia, ciò che non si è verificato nell’impianto si verifica nell’atmosfera, pioggie acide responsabili della morte di alberi e vegetazione in genere, corrosione di monumenti, grondaie, e materiali metallici in genere esposti alla pioggia stessa. Il problema della presenza di zolfo nei combustibili verrà ripreso e analizzato in modo più approfondito in seguito, nella trattazione degli impianti di riscaldamento e delle caldaie speciali a condensazione. Un cenno a parte meritano gli NOx (NO , NO2 , NO3 …….ecc.) ossidi di azoto. Come abbiamo già evidenziato nell’aria comburente l’ossigeno “O” è presente per circa il 23% , il resto è in gran parte azoto “N” , questo è un gas inerte e quindi innocuo che non partecipa alla reazione chimica di combustione, ma alle alte temperature conseguenti la combustione stessa, si unisce con l’ossigeno creando gli NOx che assieme ai fumi vengono espulsi in ambiente. Gli ossidi di azoto se presenti nell’aria che respiriamo in alte percentuali, sono nocivi alla salute. Per questo in impianti di grandi dimensioni vengono installati sistemi di controllo e abbattimento dei valori di NOx nei fumi di scarico. Ed ancora per ridurre gli NOx vengono utilizzate caldaie speciali dove la combustione può avvenire a temperature più basse (come ad esempio nelle caldaie a letto fluido). 90 PARTE II MODULO 9 MACCHINE TERMICHE A COMBUSTIONE INTERNA U.D. 35 - MOTORI ENDOTERMICI ALTERNATIVI – Si definiscono macchine endotermiche o a combustione interna, quelle macchine in cui il calore necessario ad ottenere il lavoro meccanico si sviluppa all’interno della macchina stessa. A questa categoria appartengono i motori alternativi ad accensione per scintilla (comunemente definiti a scoppio), i motori alternativi a combustione graduale (motori diesel) e le turbine a gas. Vediamo prima le caratteristiche principali ed il principio di funzionamento dei motori alternativi. L’energia termochimica di un combustibile, combinandolo con l’ossigeno dell’aria (bruciando) si trasforma in energia meccanica tramite la spinta che i prodotti della combustione esercitano su un pistone che si muove, di moto alternativo, ed a tenuta, all’interno di un cilindro. Il movimento alternativo del pistone viene convertito in moto rotatorio e trasmesso all’albero motore tramite una biella ed una manovella. Normalmente questi motori vengono classificati secondo: - il sistema di accensione del combustibile (per scintilla – per compressione o diesel); - il metodo di immissione del combustibile (a carburazione – a iniezione); - il ciclo termodinamico seguito (motori a 2 tempi – motori a 4 tempi); - il tipo di combustibile usato ( benzina – gasolio). ELEMENTI CARATTERISTICI Corsa C : distanza fra la posizione assunta dal pistone più vicina alla testa del cilindro P.M.S. (punto morto superiore) e quella più lontana P.M.I: (punto morto inferiore). Alesaggio d : diametro interno del cilindro. Cilindrata V : volume percorso dallo stantuffo durante la sua corsa π · d2 · C V = --------------4 si usa esprimerla in cm3 o litri se il motore ha N cilindri la cilindrata totale sarà Vt = V · N 1 Rapporto di compressione ρ : rapporto fra volume totale del cilindro e volume della camera di combustione V+v ρ = ---------dove V è la cilindrata e v il volume della v camera di combustione per camera di combustione si intende il volume compreso fra la testata (parte superiore del cilindro) e il pistone quando questo si trova al P.M.S. Numero di giri n : numero di rotazioni che l’albero motore compie nel tempo di 1 minuto primo. Consumo specifico cs : consumo orario di combustibile per unità di potenza erogata. Cicli termodinamici operativi Si intende per ciclo operativo la serie di trasformazioni termodinamiche che compie il fluido operante nel cilindro e che si ripete sempre uguale. Il motore si dice a 2 tempi se tale ciclo si ripete ogni due corse del pistone che corrispondono ad un giro dell’albero motore. Si dice invece che il motore è a 4 tempi se il ciclo si compie durante quattro corse del pistone che corrispondono a due giri dell’albero motore. FUNZIONAMENTO DEI MOTORI ALTERNATIVI A SCOPPIO Motori a 4 tempi Prevalentemente impiegato per autovetture ed autocarri leggeri, segue il ciclo termodinamico OTTO , formato da due adiabatiche e due isovolumiche: p 1 – 2 adiabatica di compressione 2 – 3 isovolumica (scoppio) 3 – 4 adiabatica di espansione 4 – 1 isovolumica (scarico) 3 patm 2 4 0 1 v il ciclo reale vede i passaggi da una trasformazione termodinamica all’altra più graduale (tra le due non esiste un punto netto di separazione) e viene inoltre completato da : 1–0 lavaggio del cilindro a pressione leggermente superiore a quella atmosferica 2 0–1 aspirazione con pressione interna al cilindro leggermente minore alla pressione atmosferica. candela valvola valvola scarico aspirazione testata v camera scoppio P.M.S. alesaggio d corsa C cilindro V cilindrata P.M.I. tenute pistone biella Aspirazione : il pistone si sposta dal P.M.S. al P.M.I. con la valvola di aspirazione aperta, crea una leggera depressione “aspirando” la miscela aria – benzina (oppure G.P.L. o metano) che riempie il cilindro. Fase 0 – 1 . Compressione : il pistone si muove dal P.M.I. al P.M.S. assorbendo lavoro meccanico dall’albero motore, aumenta la pressione della miscela. Fase 1 – 2 . Scoppio ed espansione : poco prima che il pistone giunga al P.M.S. scocca la scintilla della candela che fa esplodere la miscela creando pressoché istantaneamente un forte aumento di pressione (fase 2 – 3) che spinge il pistone verso il P.M.I. mentre i gas combusti si espandono (fase 3 – 4); in questa ultima fase il pistone, tramite la biella – manovella cede lavoro meccanico all’albero motore (fase attiva) . Scarico : quando il pistone ha eseguito la sua corsa di lavoro ed è giunto al P.M.I. si apre la valvola di scarico e i gas combusti escono con un abbassamento improvviso di pressione. Fase 3 – 4 . Il pistone torna poi al P.M.S. e con la valvola di scarico ancora aperta esegue il lavaggio del cilindro. Fase 4 – 0 . A questo punto può iniziare un secondo ciclo………. Alcune precisazioni : L’energia necessaria al movimento del pistone nelle fasi passive (aspirazione, compressione e lavaggio) viene fornita dal “volano motore” che immagazzina in energia cinetica parte del lavoro prodotto nella fase attiva (espansione) e la restituisce durante le altre fasi. 3 L’apertura e la chiusura delle valvole, al momento opportuno, è comandata da appositi organi della distribuzione (albero a camme, bilancieri, ecc.). La miscela di aria e combustibile aspirata nel cilindro era formata, nella giusta proporzione dal carburatore, nei motori moderni (iniezione elettronica) il combustibile viene iniettato nel cilindro oppure nel condotto di aspirazione, immediatamente prima della valvola di aspirazione, mediante iniezioni intermittenti di benzina. Motori a due tempi In questi motori, generalmente di piccola cilindrata, usati molto nei ciclomotori, il ciclo operativo si compie in due tempi : candela testata v camera scoppio cilindro P.M.S. alesaggio d corsa C scarico gas combusti V cilindrata P.M.I. Immissione miscela pistone biella basamento primo tempo: esplodendo la miscela precedentemente compressa, il pistone spinto dall’improvviso aumento di pressione ritorna verso il P.M.I. fornendo lavoro all’albero motore tramite la biella e manovella; ad un certo punto della sua corsa attiva scopre la luce di scarico ed i gas combusti vengono espulsi all’esterno, poi si scopre la luce di alimentazione della miscela fresca contenuta nel basamento, che essendo il leggera pressione completa l’operazione di lavaggio del cilindro. Fase attiva. secondo tempo: dal P.M.I. il pistone si muove verso i P.M.S. (assorbendo lavoro all’albero motore) ed una volta che nel suo movimento ha chiuso le luci di alimento e di scarico, inizia la compressione ( in questa fase si scopre anche la luce di 4 immissione dalla quale giunge nuova miscela a riempire il basamento ); a compressione ultimata la candela innesca lo scoppio della miscela. Fase passiva. MOTORI DIESEL A 4 TEMPI I motori diesel si possono distinguere in funzione del numero di giri / minuto che sviluppano : diesel lenti (meno di 500 giri / min) ; diesel medi (da 500 a 1200 giri /min) ; diesel veloci ( più di 1200 giri / min). Per l’autotrazione su strada si usano i diesel veloci. L’iniezione del gasolio si può avere diretta ed indiretta . Diretta quando il combustibile viene iniettato direttamente nella camera di combustione; indiretta quando viene iniettato in una precamera ricavata nella testata: qui si ha una precombustione,di una parte di combustibile, che provoca un forte aumento di pressione tale da proiettare il combustibile rimanente nella camera di combustione. Nella precamera è installata una candeletta ad incandescenza che consente di preriscaldare l’interno della precamera stessa per facilitare l’avviamento a freddo. Per il resto, il ciclo di funzionamento dei motori diesel ad iniezione indiretta è uguale a quello dei motori ad iniezione diretta: ciclo Diesel . p 2 3 1 – 2 adiabatica di compressione 2 – 3 isobara (scoppio) 3 – 4 adiabatica di espansione 4 – 1 isovolumica (scarico) 4 patm 0 1 v il ciclo reale viene completato da: 1–0 lavaggio del cilindro a pressione leggermente superiore a quella atmosferica 0–1 aspirazione con pressione interna al cilindro leggermente minore alla pressione atmosferica Anche in questo caso, ricordiamo che, nel ciclo reale i passaggi tra una trasformazione termodinamica e l’altra non è netta ma graduale. 5 CONFRONTO FRA I VARI TIPI DI MOTORI Motori a benzina (ciclo Otto) e motori a gasolio (ciclo Diesel) Nei cilindri del Diesel viene compressa solo aria e il rapporto di compressione può essere molto elevato (da 14 a 22). Nei motori a benzina, per evitare una pre accensione della miscela gassosa, si devono avere rapporti di compressione più bassi (da 6 a 10). Di conseguenza il rendimento termico è maggiore nei Diesel e questo comporta anche un minore consumo specifico. Il motore a benzina è però meno sollecitato, più leggero, più brillante e veloce del motore Diesel di pari cilindrata. Motori a 2 e a 4 tempi I motori a 2 tempi sono più semplici costruttivamente e quindi più economici rispetto ai motori a 4 tempi ed a parità di potenza sviluppata sono anche più leggeri e meno ingombranti. Ma i motori a 2 tempi sono più sollecitati sia meccanicamente che termicamente, sono più irregolari nel funzionamento ai bassi regimi di rotazione ed hanno più alti consumi specifici. Motori Diesel ad iniezione diretta e ad iniezione indiretta Usando l’iniezione indiretta il combustibile può essere iniettato a pressioni relativamente basse (da 80 a 100 bar) mentre con la iniezione diretta deve essere elevata fino a valori intorno a 250 bar . I motori ad iniezione indiretta sono perciò meno sollecitati e caratterizzati da un funzionamento più regolare e silenzioso. Ma i Diesel ad iniezione diretta sono costruttivamente più semplici, si avviano più facilmente e presentano consumi specifici più bassi. RENDIMENTI Il rendimento ideale (rendimento di Carnot), si può esprimere nel ciclo Otto: (Q1 – Q2) Cv (T3 – T2) – Cv (T4 – T1) (T3 – T2) – (T4 – T1) ηc = ------------- = ----------------------------------- = ------------------------- = Q1 Cv (T3 – T2) (T3 – T2) T4 – T1 1 - -----------T3 – T2 T1 ( T4/T1 – 1) = --------------------- = 1 - ------------------1 T2 ( T3/T2 – 1) per le trasformazioni adiabatiche 1-2 e 3-4 possiamo scrivere V1 / V2 = T2 / T1 e V3 / V4 = T4 / T3 6 Essendo V3 = V2 e V4 = V1 si ha : V1 / V2 = T2 / T1 ; V2 / V1 = T4 / T3 T2 / T1 = T3 / T4 T4 / T1 = T3 / T2 per cui il ηi diviene : T1 ( T4/T1 – 1) T1 ηi = 1 - ----------------------- = 1 - ----- = 1 - ( 1/ρ)K – 1 T2 ( T3/T2 – 1) T2 Quindi il rendimento termico ideale del motore a scoppio che segue il ciclo Otto è : ηc = 1 - ( 1/ρ)K – 1 dove K = Cp / Cv è il rapporto tra il calore specifico del gas a pressione costante e quello a volume costante; ρ = rapporto di compressione. Operando in modo analogo, per il ciclo Diesel , si ottiene: R K–1 ηc = 1 - ( 1/ρ)K – 1 · -----------K (R - 1) con R = rapporto di combustione a pressione costante ( rapporto fra il volume occupato dal fluido al termine della fase di combustione a pressione costante e quello occupato all’inizio della stessa fase). ηc aumenta all’aumentare del rapporto di compressione ρ e, per i motori Diesel, del rapporto di combustione R . Il valore di K, e quindi del rendimento termico ideale, risulta maggiore per miscele carburanti povere di combustibile. 7 C’è poi da considerare il rendimento indicato ηI dovuto allo scostamento tra ciclo ideale e ciclo reale: è il rapporto fra lavoro utile reale e lavoro teorico (area del ciclo reale e area del ciclo teorico sul piano p – v). Infine il rendimento meccanico ηm , in quanto non tutto il lavoro erogato dal ciclo risulta poi disponibile sull’albero motore, una parte notevole di questo lavoro viene infatti assorbito dagli attriti, dagli organi ausiliari del motore, dal lavoro di pompaggio, ecc. Il rendimento totale del motore ηT è dato dal prodotto dei tre rendimenti : ηT = ηc · ηI · ηm Il valore del rendimento totale di un motore alternativo si aggira sul 25 …30% per i motori a benzina e intorno al 35% per i Diesel. Il basso valore del rendimento totale è dovuto in gran parte a ηc . POTENZA INDICATA E POTENZA EFFETTIVA Prendono il nome di grandezze indicate quelle grandezze fisiche misurate attraverso trasduttori di pressione e di volume, istantanei, direttamente affacciati all’interno della camera di combustione (indicato deriva il suo nome da tali strumenti detti indicatori) . La potenza sviluppata nei cilindri di un motore 4 tempi (potenza indicata) può essere calcolata con: Л d2 n Ni = pmi · -------- · C · ------------ · Z 4 2 · 60 dove pmi = pressione media indicata (quella pressione che supposta costante, per tutta la corsa del pistone, produrrebbe un lavoro uguale a quello del ciclo indicato) in pascal; d = alesaggio cilindro (in metri); C = corsa pistone (dal P.M.I. al P.M.S.) in metri; n = numero di giri al minuto del motore; Z = numero di cilindri. 8 Mentre per un motore a due tempi si ha: Л d2 n Ni = pmi · -------- · C · ------ · Z 4 60 2 Лd Ricordando che -------- · C · Z = V (cilindrata in m3) si può scrivere: 4 Ni = pmi · V · n / 120 potenza indicata motore 4 tempi Ni = pmi · V · n / 60 potenza indicata motore 2 tempi Ma essendo il rendimento meccanico il rapporto tra la potenza effettiva Ne (sull’albero motore) e quella indicata (erogata dai cilindri), ηm = Ne / Ni si ottiene : Ne = ηm · Ni Ponendo pme = pmi · ηm (pressione media effettiva) si può calcolare direttamente la potenza effettiva erogata sull’albero del motore: Ne = pme · V · n / 120 potenza effettiva motore 4 tempi Ne = pme · V · n / 60 potenza effettiva motore 2 tempi La potenza ottenibile dal motore per unità di cilindrata Ne / V è detta potenza specifica. CURVE CARATTERISTICHE DI UN MOTORE ALTERNATIVO Vengono denominate curve caratteristiche i diagrammi che rappresentano l’andamento della potenza, della coppia motrice e del consumo specifico in funzione del numero di giri dell’albero motore. La coppia motrice (detta anche momento motore) Mt , corrisponde allo sforzo istantaneo che l’albero motore può compiere, si misura in N · m . 9 Cs Pe Cs g/Kwh Kw Pe Mt Mt N·m 1000 2000 3000 4000 5000 6000 giri/min La potenza aumenta all’aumentare del numero di giri fino ad un valore massimo oltre il quale si ha una brusca caduta dovuta alla forte diminuzione del rendimento . La coppia massima si ha a numeri di giri basso per i Diesel, medio per i motori a benzina; inoltre per i Diesel risulta maggiormente piatta (più costante al variare del regime di marcia). Il consumo specifico di carburante ( grammi / Kw ora erogati) è maggiore sia a numero di giri molto basso che a regimi molto alti. spaccato di motore alternativo 10 U.D. 36 - COMBUSTIBILI PER MOTORI – ESIGENZE DEI MOTORI A COMBUSTIONE INTERNA • • • • • • • • La reazione di ossidazione con l’ossigeno dell’aria deve essere veloce; liberando la maggior quantità di energia termica possibile; senza lasciare eccessivi residui e produrre sostanze tossiche; se la miscelazione avviene prima di entrare nel cilindro, il combustibile deve evaporare il più rapidamente possibile formando miscele omogenee; se la miscelazione avviene dentro il cilindro bisogna che il combustibile sia di facile evaporazione e miscelamento con l’aria compressa; devono essere di facile reperibilità, stoccaggio e trasporto; devono essere disponibili i abbondanza; devono avere basso costo. COMBUSTIBILI ATTUALMENTE UTILIZZATI Circa il 98% sono combustibili liquidi distillati del petrolio. Tra quelli gassosi i più importanti sono il metano (gas naturale) ed il GPL (gas di petrolio liquefatto, propano + butano). Benzina il più leggero (distilla tra i 20 °C e i 200°C) Cherosene leggero (distilla tra i 170°C e i 200°C –usato nei turbo reattori) Combust. Liquidi Gasolio media massa volumica (distilla tra i 180°C e i 360°C) Olio combustibile pesante (distilla tra 200°C e 390°C –usato nei grandi Diesel e negli impianti industriali) Detonazione nei motori a benzina La capacità di un combustibile di resistere alla detonazione (preaccensione dovuta alla pressione) è uno degli aspetti più importanti al livello motoristico. Combustibili di riferimento iso-ottano molto resistente alla detonazione (valore attribuito 100) normal-eptano poco resistente alla detonazione (valore attribuito 0 ) Resistenza alla detonazione di un combustibile: si misura con il numero di ottano (NO) , definito come il numero intero più vicino alla percentuale in volume di una miscela di iso-ottano e normal-eptano con equivalenti caratteristiche antidetonanti (il confronto viene effettuato su un motore secondo una metodologia normalizzata). 11 Per migliorare le caratteristiche antidetonanti: • scelta di opportuni idrocarburi • miscelazione con prodotti ad elevato NO • aggiunta di additivi antidetonanti (come il piombo ormai eliminato per i suoi prodotti tossici) Detonazione nei motori Diesel Nei motori ad accensione per compressione, dovendo garantire tempi di ritardo all’accensione brevissimi, bisogna operare in maniera opposta rispetto ai benzina, garantendo una elevata “accendibilità”. Cetano (valore accendibilità 1 ) Idrocarburi di riferimento Isocetano (valore accendibilità 15 ) Numero di cetano (NC) : indice del grado di accendibilità, è definito in base alla composizione in % della miscela di cetano – isocetano provata sul motore normalizzato (Diesel) con medesimo tempo di ritardo all’accensione. NC = Cetano % + 0,15 isocetano % I gasoli utilizzati nei Diesel devono avere : • buona volatilità, che condiziona l’evaporazione in C.d.C. (camera di combustione) e quindi la miscelazione con l’aria; • viscosità limitata, per garantire la necessaria nebulizzazione in C.d.C. ma tale da garantire anche una buona lubrificazione; • buona filtrabilità, onde evitare che alle basse temperature si otturi il filtro del combustibile, necessario per separare i cristalli di paraffina. Il petrolio greggio, da cui si ricavano benzine e gasoli, contiene anche zolfo che deve essere molto contenuto se non eliminato del tutto, perché favorisce i depositi in C.d.C: e forma anidride solforosa che aumenta l’acidità dei gas di scarico favorendo la corrosione e l’usura oltre che inquinamento. 12 CARBURATORE ELEMENTARE Organo con il compito di: • dosare la quantità di combustibile per ottenere il migliore rapporto di miscela per ogni situazione; • favorire la miscelazione e l’evaporazione che si completerà poi nel condotto a monte della C.d.C. per soddisfare tutte le esigenze il carburatore è diventato un organo sempre più complesso, ma il funzionamento di base è il medesimo, cioè sfrutta la pressione dell’aria richiamata dal pistone per pressurizzare la vaschetta a livello costante contenente il carburante e depressurizzare la sezione ristretta del condotto di passaggio così da richiamare il carburante. Organi essenziali: - diffusore: ugello convergente – divergente che crei la depressione giusta e che non provochi eccessive perdite di carico a piena potenza; - polverizzatore: condotto che porta il carburante dalla vaschetta alla sezione ristretta del diffusore; - vaschetta: dove il livello del carburante è mantenuto costante da un galleggiante che chiude una valvola conica mantenendo costante il carico idrostatico sul getto; - valvola a farfalla: non fa proprio parte del carburatore ma posta a valle del diffusore strozza il condotto di aspirazione regolando il carico al motore aria carburante vaschetta presa di pressione galleggiante diffusore valvola a farfalla nebulizzatore miscela 13 I problemi del carburatore elementare sono principalmente tre: - col motore al minimo, quindi con valvola a farfalla quasi chiusa, si ha una differenza di pressione insufficiente per richiamare il combustibile e per ovviare a questo si utilizza il cosiddetto “circuito del minimo” che garantisce un apporto di combustibile anche a basso numero di giri; - la miscela tende ad arricchirsi proporzionalmente al grado di apertura della valvola a farfalla, tendendo a valori eccessivi a valvola completamente aperta, per questo si possono utilizzare due sistemi correttivi: ad aria antagonista (il dispositivo premiscela con l’aria il getto di carburante abbassandone così il rapporto), getto compensatore (parte del getto di carburante viene raccolto in una seconda vaschetta e perciò non va ad arricchire troppo la miscela) - difficoltà a seguire i bruschi cambiamenti di regime in quanto l’inerzia del combustibile liquido è maggiore di quella dell’aria; per ovviare a questo problema viene utilizzata la cosiddetta “pompa di ripresa” (polpetta ad ingranaggi che azionata automaticamente a seguito di brusche aperture della valvola a farfalla, fornisce un getto aggiuntivo di carburante). Se un unico carburatore alimenta più cilindri si verifica che le particelle spray, di maggiore dimensione, del combustibile nebulizzato, tendono a prendere la via più dritta e vanno ad arricchire la miscela dei cilindri frontali lasciando gli altri con miscela povera. Per ovviare a questo problema si utilizzano più carburatori monocordo oppure un solo carburatore pluricorpo (più semplice dato che l’alimentazione viene fornita da una sola vaschetta a tutti i corpi del carburatore). Nel caso di carburatore pluricorpo si usano più farfalle sincrone (si aprono simultaneamente ed ognuna alimenta più gruppi di cilindri) oppure farfalle differenziate (si aprono in momenti diversi ed ognuna alimenta un solo gruppo di cilindri). carburatore a doppio corpo 14 IMPIANTI INIEZIONE BENZINA Nonostante il carburatore si sia molto evoluto, presenta limiti evidenti: - eccessive perdite di carico in aspirazione - eccessive inerzie del carburante nei suoi circuiti - incapacità a seguire istante per istante tutte le variazioni di funzionamento fornendo sempre la miscelazione ottimale. Il sistema ad iniezione: • migliora la potenza specifica del motore • segue costantemente la dinamica di tutti i transitori potendo agire su piccole quantità di carburante • fornisce sempre la dosatura ottimale grazie alla valutazione di tutti i parametri in gioco • garantisce migliore qualità dei gas di scarico (brucia meglio il combustibile) e perciò riduce anche i consumi • possibilità di impiego di combustibili con minore NO perché si riducono i tempi a disposizione per le rezioni di contro • minore omogeneizzazione della carica • maggiori costi d’impianto • maggiori complessità e quindi più problemi di assistenza e messa a punto. I sistemi di iniezione possono classificarsi in base a: iniezione diretta (nella camera di combustione) POSIZIONE Iniezione indiretta (nel collettore di aspirazione) NATURA Iniezione meccanica (una pompa azionata dal motore mette in pressione il carburante e lo dosa spruzzandolo attraverso un iniettore ad apertura automatica) Iniezione elettronica (il tutto gestito da un controllore elettronico) Iniezione multipoint (ogni condotto è alimentato da un singolo iniettore) DISTRIBUZIONE Iniezione monopoint (un solo iniettore agisce sul condotto principale prima delle diramazioni ai cilindri) 15 Iniezione continua ( l’iniettore inietta sempre, per ¾ del tempo il carburante viene accumulato e per ¼ entra direttamente) FASATURA Iniezione intermittente Simultanea (tutti gli iniettori funzionano insieme e richiede un solo controllore) Sequenziale (iniettori azionati in successione con ordine prefissato) Ad anello aperto (dosature basate solo sulla misura della portata di Aria e sui parametri motoristici, senza retroazione) REGOLAZIONE Ad anello chiuso (controllo in retroazione valutando continuamente (con sonda lambda) il rapporto di miscela ottenuto dall’analisi dei gas di scarico) SONDA LAMBDA Costituita da due elettrodi di platino spugnoso separati da un elettrolito solido, quello esterno è protetto da uno strato di ceramica porosa per proteggerlo dalla aggressività dei gas di scarico. La sonda è inserita nel condotto di scarico del motore. L’iniezione indiretta è la migliore perché omogeneizza meglio la carica di miscela e sottopone l’iniettore a minore stress termico oltre a necessitare di pressioni di iniezione minori. schema centralina elettronica 16 U.D. 37 - TURBINE A GAS La turbina a gas è una macchina motrice endotermica a combustione graduale che possiamo schematizzare nel modo seguente: combustibile 2 camera di combustione 3 motore di lancio turbina compressore 1 aspirazione aria 4 scarico gas combusti essa è costituita da un compressore, mosso dall’albero della turbina stessa ed alla quale sottrae un 30 – 40% del lavoro utile, il quale comprime aria da inviare alle camere di combustione poste circolarmente attorno all’asse (nello schema ne è rappresentata solo una) dove viene iniettato in modo continuativo la giusta portata di combustibile. I gas derivati dalla combustione, ad alta pressione e temperatura, attraversano le giranti della turbina espandendosi e cedendo la loro energia che viene trasformata in lavoro utile sull’asse. Il ciclo termodinamico teorico seguito è il ciclo Brayton : Q1 p 2 3 1-2 adiabatica di compressione (solo aria) 2-3 isobara (combustione graduale) 3-4 adiabatica di espansione (i gas combusti attraversano la turbina) 4-1 isobara (scarico gas) a pressione atmosferica 1 4 Q2 v Il ciclo termodinamico è molto simile a quello seguito dai motori Diesel : anche qui si ha alte compressioni di sola aria, combustione graduale (teoricamente a pressione 17 costante), ma mentre nel Diesel la combustione è a fasi alternate, nel Brayton è invece continuativa. Questa differenza di funzionamento porta a livelli di temperature molto più elevati nelle camere di combustione della turbina a gas che non nei cilindri del motore alternativo. Affinché la temperatura non raggiunga valori tali da compromettere la stabilità meccanica dei materiali metallici delle camere di combustione, e successivamente anche delle palettature della turbina, si aumenta notevolmente la quantità di aria iniettata in modo da “raffreddare” la combustione stessa. TURBINE A RIGENERAZIONE Osservando il ciclo Brayton teorico, vediamo che il calore speso Q1 viene fornito lungo la linea a pressione costante 2-3 mentre lungo la 4-1 si cede all’ambiente esterno la quantità di calore Q2 che è da considerare perduta. Per migliorare il rendimento ideale si utilizza il calore residuo dei gas spillati dalla turbina a temperature di 450 – 500°C per preriscaldare l’aria all’uscita del compressore, prima che essa giunga nelle camere di combustione. In questo modo si può diminuire il lavoro assorbito dal compressore ed aumentare il lavoro utile sviluppato dalla turbina. combustibile 4’ scarico gas camera di combustione 2 2’ 3 motore di lancio turbina compr. 1 aspirazione 4 aria gas combusti scambiatore Il ciclo termodinamico a recupero di calore detto anche a rigenerazione, rappresentato nel piano T – S (temperatura – entropia) diviene: T Q1 3 2’ 4 2 4’ 1 Q2 S 18 CARATTERISTICHE COSTRUTTIVE La turbina a gas, concettualmente, non differisce molto dalla turbina a vapore, ma la diversità del fluido operante porta ad una maggiore semplicità costruttiva e compattezza della macchina a gas. La turbina a gas presenta: • una maggiore portata volumetrica di gas, a parità di potenza, che consente di eliminare i salti di velocità caratteristici delle turbine a vapore; • minore salto di entalpia e quindi non è necessario ricorrere a troppe corone di palettature; • minore variazione del volume specifico del gas rispetto al vapore; la turbina a gas risulta perciò costruttivamente meno complessa ed in genere è del tipo a reazione in quanto il salto entalpico è relativamente modesto. L’avviamento avviene tramite un motore di lancio che azionando il compressore, a turbina inattiva, fornisce il comburente alla giusta pressione nelle camere di combustione, a regime il motore viene disattivato. Il modo più semplice per regolare la potenza erogata dalla turbina è quello di agire sulla quantità di combustibile inviato alle camere di combustione ma, se a questo non si aggiunge anche una regolazione della quantità d’aria inviata dal compressore si altera il rapporto aria/combustibile a scapito del rendimento. Per quanto riguarda sia l’espressione del rendimento sia il calcolo della potenza, valgono tutte le considerazioni già fatte per le turbine a gas. 19 MODULO 10 IMPIANTI A VAPORE D’ACQUA U.D. 38 - IL VAPORE D’ACQUA – p A A’ A’’ po v vo v’’ Il punto A rappresenti nel piano p-v (pressione – volume specifico) lo stato fisico di 1 Kg di acqua alla pressione atmosferica ed alla temperatura di 0°C ; si supponga di somministrare ad esso, in modo graduale, del calore, mantenendo sempre costante la pressione. L’ascissa del punto A rappresenta in questo caso il volume del Kg di acqua nelle condizioni di partenza vo (circa 0,001 m3/Kg) molto piccolo ed ancora più piccola è la sua variazione dovuta alla dilatazione del Kg di acqua durante il riscaldamento da 0°C alla temperatura di 100°C (temperatura di ebollizione alla pressione atmosferica normale). Continuando a somministrare calore, inizia la vaporizzazione, durante la quale il liquido si trasforma gradualmente in vapore, assorbendo calore latente mentre la sua pressione e la sua temperatura restano costanti finchè tutta l’acqua non si è trasformata in vapore saturo secco, punto A’’. Al punto A’’ tutto il Kg di acqua è divenuto vapore alla stessa pressione po = 1 bar ed alla stessa temperatura di inizio ebollizione Te = 100 °C ma il suo volume è aumentato moltissimo ( v’’) . Per chiarezza di rappresentazione non si sono rispettate le proporzioni della rappresentazione grafica, in quanto v’’ è circa 1600 volte vo . Ogni punto interno al segmento A’ – A’’ rappresenta una miscela di acqua e vapore, miscela che viene definita vapore umido, la sua temperatura e la sua pressione sono sempre le stesse ma la quantità di vapore presente in questa miscela varia da 0 punto A’ a 1 punto A’’ : la quantità di vapore presente nel Kg di miscela prende il nome di titolo di vapore e lo indichiamo con X , ad esempio : X=0,5 metà è vapore e metà acqua; X=0,8 l’80% è vapore ed il 20% acqua 20 naturalmente X=0 corrisponde a tutta acqua (inizio ebollizione) e X=1 tutto vapore (fine ebollizione) corrispondente al vapor saturo secco. Se continuiamo a somministrare calore oltre il punto A’’ il volume del vapore continua ad aumentare anche se in misura molto inferiore a quanto è avvenuto durante l’ebollizione e cosa più importante riprende ad aumentare la temperatura. Oltre il punto A’’ l’aeriforme viene definito vapore surriscaldato e tenderà alle caratteristiche di un gas perfetto quanto più ci si allontanerà dalla temperatura di ebollizione Te. Ripetendo il processo di somministrazione di calore al Kg di acqua a pressioni diverse si ottengono gli stessi fenomeni fisici ma con alcune variazioni: • il segmento A – A’ andrà aumentando leggermente – il Kg di acqua si dilata di più durante il riscaldamento perché si dovrà scaldare fino a temperature maggiori (la Te sale all’aumentare della pressione); • il segmento A’ – A’’ diminuisce – conseguenza del fatto che il vapore che si forma durante l’ebollizione se è sottoposto a pressione maggiore, essendo comprimibile, occupa meno spazio; • esiste un valore di pressione, detto pressione critica, in corrispondenza del quale il passaggio dallo stato liquido allo stato di vapore avviene in modo istantaneo, senza passaggio graduale (senza ebollizione), come una specie di “esplosione” – per questo le caldaie dove avviene l’ebollizione dovranno lavorare sempre a pressioni inferiori a quella critica - . La pressione critica per l’acqua è di 221,20 bar a cui corrisponderebbe una temperatura critica di 374,15 °C . Se nel grafico p – v rappresentativo delle trasformazioni termodinamiche del Kg di acqua, uniamo i punti corrispondenti dello stato fisico del fluido alle diverse pressioni, otteniamo il diagramma completo del vapor d’acqua: p • Pcr. E E’ D D’ C C’ B B’ A A’ E’’ D’’ C’’ B’’ A’’ po x=0 x=0,4 x=0,6 x=0,8 x=1 v vo v’’ 21 Le due curve limite inferiore X=0 e limite superiore X=1 che si uniscono nel punto critico Pcr suddividono nel piano p – v gli stati fisici del fluido: curva limite inferiore p • Pcr. curva limite superiore vapore surriscaldato acqua acqua + vapore (vapore umido) vapore saturo secco po x=0 x=0,4 x=0,6 x=0,8 x=1 v isotitolo (titolo costante) Se lo stesso procedimento, con i medesimi significati fisici, lo rappresentiamo nel piano T – S (temperatura – entropia) otteniamo: T (°K) Pcr Tcr. P=cost P=cost T=cost T=cost 273°K x = cost S (Kj/Kg°K) Ma anche nel diagramma entropico non è possibile rilevare direttamente la quantità di calore posseduta dal Kg di fluido nei vari stadi della trasformazione, che per l’acqua coincide praticamente con il valore di entalpia, per questo nasce la necessità di rappresentare le curve nel piano I – S (entalpia – entropia) conosciuto con il nome di Diagramma di Mollier per il vapore d’acqua. 22 Diagramma di Mollier per il vapor d’acqua Se, ad esempio, un vapore surriscaldato, si trova nelle condizioni di 1bar di pressione e 220°C di temperatura (punto A) la sua entalpia vale circa 2900 Kj / Kg e se esso viene fatto espandere adiabaticamente (quindi ad entropia costante) fino alla pressione di 0,1 bar (punto B) a cui corrisponde un valore di entalpia di circa 2375 Kj / Kg , ogni Kg di vapore ha lasciato nella macchina dove è avvenuta l’espansione (ad esempio una turbina) una energia pari a 525 Kj . Se la macchina viene attraversata da una portata massica di 10 Kg / s di vapore riceve 525 ٠ 10 = 5250 Kw di potenza che, a meno del rendimento, essa trasformerà in potenza meccanica sul suo asse. Dal diagramma di Mollier possiamo anche vedere che: - la temperatura di ebollizione dell’acqua ad 1 bar di pressione assoluta è 100°C - la temperatura di ebollizione a 6 bar è invece circa 160 °C - la temperatura di ebollizione a 20 bar risulta circa 215°C e così via………. (i valori di temperatura si leggono dove le rispettive isobare incrociano la curva limite superiore). Il diagramma di Mollier risulta molto utile nel calcolo e nel controllo di impianti a vapore. 23 U.D. 39 - GENERATORI DI VAPORE – Si definisce generatore di vapore un insieme di organi che servono a produrre calore e a trasferirlo al fluido che deve essere riscaldato e vaporizzato. Il vapore d’acqua fu utilizzato inizialmente soprattutto per il funzionamento delle motrici a vapore. Fu in pratica l’uso del vapore che rese possibile la trasformazione dell’energia termica in energia meccanica, avviando così il moderno processo di trasformazione industriale. Negli impianti di notevole potenza, il vapore serve ancora per ottenere energia meccanica, soprattutto per la ulteriore generazione di energia elettrica. Negli impianti di piccole e medie dimensioni è però soltanto un valido veicolo del calore (termovettore) necessario nei processi industriali (cilindri essiccatori delle cartiere, radiatori per riscaldamento di grandi ambienti, apparecchi di cottura e sterilizzazione di industrie conserviere, ecc.). Gli elementi che caratterizzano un generatore di vapore sono: • Potenza - quantità di vapore prodotto in un’ora, in Kg / h oppure ton / h • Potenza specifica - rapporto tra la potenza e la superficie di riscaldamento, in Kg / m2 h • Pressione di bollo - pressione massima effettiva di funzionamento regolare del generatore, in bar (tale valore è rilevabile sia sul libretto matricolare dell’apparecchio, sia sulla targa di cui è dotato) • Pressione di esercizio – è la pressione, sempre inferiore o al limite uguale a quella di bollo, alla quale in pratica viene fatto funzionare il generatore • Superficie di riscaldamento - è la superficie in m2 dello scambiatore lambita da un lato dai fumi e dall’altro dall’acqua (viene misurata dalla parte esposta ai fumi) • Carico termico superficiale e volumetrico della camera di combustione - è il rapporto tra la quantità di calore sviluppata nella camera di combustione nell’unità di tempo e rispettivamente la superficie o il volume della stessa, si misura in W / m2 e W / 3 • Rendimento – è il rapporto tra il calore trasmesso al fluido e il calore sviluppato dalla combustione • Indice di vaporizzazione - è il rapporto tra la massa di vapore prodotto e la massa di combustibile bruciato nello stesso tempo; rappresenta i Kg di vapore che si ottengono dalla combustione di un Kg di combustibile. 24 CLASSIFICAZIONE DEI GENERATORI DI VAPORE Si usa distinguere i generatori in base alle caratteristiche essenziali che si intendono, di volta in volta, mettere in evidenza: fissi – non possono essere spostati modo di installazione semifissi - monoblocco eventualmente spostabili mobili – locomotive, propulsori delle navi bassa pressione - fino ad 1 bar media pressione – da 1 a 15 bar pressione di bollo alta pressione – da 15 a 100 bar altissima pressione – oltre 100 bar combustibile usato solido - in pezzatura o polverizzato liquido gassoso volume acqua contenuto grande – da 130 a 250 litri d’acqua per m2 di superficie riscaldata medio - da 70 a 130 litri d’acqua per m2 di superficie riscaldata piccolo - meno di 70 litri di acqua per m2 di superficie riscaldata a tubi di fumo – l’acqua bagna l’esterno dei tubi, dentro i fumi percorso dei fumi a tubi d’acqua – l’acqua passa all’interno dei tubi, fuori i fumi c.comb. in depressione – tiraggio naturale o forzato pressione camera di combustione c.comb. in pressione – alimento con aria compressa movimentazione dell’acqua circolazione naturale – dovuta alla variazione densità con la temperatura circolazione assistita – aiutata con pompe per compensare le perdite idrauliche nei tubi circolazione forzata – acqua pompata nel generatore 25 PARTI COSTITUENTI UN MODERNO GENERATORE DI VAPORE Sono molte le soluzioni adottate nella realizzazione dei generatori di vapore, ognuna di queste presenta caratteristiche tecniche diverse, diversa disposizione degli elementi costitutivi, peculiarità riconducibili allo specifico utilizzo a cui la macchina è destinata. Non si intende riportare qui un elenco di nomi, schemi vari e caratteristiche di impianto, consultabili peraltro sulla vasta letteratura tecnica facilmente reperibile, ma cercare di sintetizzare in un esempio più possibile semplice e di facile assimilazione, come è fatto un generatore di vapore. camino vapore surriscaldato P acqua di alimento dal gruppo pompe S surriscaldatore S fumi filtro B fumi P preriscaldatore acqua (economizzatore) B bollitore aria Pa camera comb. Pa preriscaldatore aria comburente combustibile I componenti principali sono quindi i quattro scambiatori di calore: • Il preriscaldatore d’acqua che porta l’acqua di alimento ad una temperatura di poco inferiore a quella di ebollizione • Il bollitore dove avviene il passaggio di stato ed esce vapore saturo secco • Il surriscaldatore dove il vapore viene portato ad una temperatura superiore a quella di ebollizione ed esce quindi vapore surriscaldato • Il preriscaldatore d’aria dove l’aria comburente viene preriscaldata prima di essere inviata in camera di combustione, ciò migliora la combustione. Questi apparecchi, oltre naturalmente alla camera di combustione stessa, sono racchiusi in un involucro (mantello) coibentato. I moderni generatori, a piccolo e piccolissimo volume d’acqua, lavorano a pressioni molto elevate (100 – 150 bar) in quanto l’aumento di pressione in caldaia porta ad un 26 incremento del lavoro utile uttenuto dal ciclo termodinamico e quindi ad un maggior rendimento. In questi casi il contenuto di acqua all’interno della caldaia è veramente poco e se improvvisamente, per un fermo improvviso della pompa di alimento, venisse a mancare il flusso continuo di liquido, le conseguenze sarebbero disastrose: in pochi secondi le tubazioni degli scambiatori si arroventerebbero fino a perdere le loro caratteristiche di tenuta alle alte pressioni interne ed il generatore esploderebbe con effetti devastanti sia sul sito che soprattutto sugli operatori presenti. Per evitare che questo possa accadere, l’alimentazione deve essere garantita da almeno tre pompe indipendenti installate in parallelo ed azionate da motori che sfruttano fonti di energia diverse, in modo che se una (o al limite due) di queste si fermano per guasto o mancata alimentazione, c’è l’altra che può comunque garantire un sufficiente flusso di liquido e permettere uno spegnimento in sicurezza del generatore. Particola cura deve essere inoltre riservata alla depurazione dell’acqua, in quanto l’alta pressione favorisce la formazione di incrostazioni calcaree e corrosioni che danneggerebbero gli scambiatori. RENDIMENTO DEL GENERATORE Il rendimento ηg può essere calcolato in due modi: con la variazione di entalpia Iv = entalpia del vapore prodotto (ricavabile dal diagramma di Mollier in funzione del valore di pressione e temperatura del vapore in uscita dal generatore) [ in Kj / Kg ] Ia = entalpia acqua di alimento (calcolabile in funzione della temperatura Ta dell’acqua mandata dal gruppo pompe Ia = Ta · 4,186 [Kj / Kg] ) Gv = portata massica vapore prodotto [ in Kg /s o ton / h ] Gc = portata massica combustibile bruciato [ in Kg /s o ton / h ] Pci = potere calorifico inferiore del combustibile [ in Kj / Kg ] ηg = Gv ( Iv – Ia ) / Gc · Pci 27 con il conteggio delle singole perdite di energia n = perdite al mantello (perdite di calore attraverso l’involucro esterno) valore mediamente compreso tra l’1 e il 2% quindi n=0,01 fino a n=0,02 ε = perdite per carbonio incombusto (dovute alla mai perfetta combustione) varia molto in funzione del tipo di combustibile bruciato ε = 0,85 …0,98 Pci = potere calorifico inferiore del combustibile bruciato Mf = massa dei fumi sviluppati dalla combustione di 1 Kg di combustibile Mf = 1 + Ap dove Ap sono i Kg di aria pratica necessaria alla combustione del Kg di combustibile Cf = calore specifico medio dei fumi alla temperatura di uscita dal camino circa 1,05 Kj / Kg °C ( circa ¼ di quello dell’acqua) Tf = temperatura media fumi in uscita dal camino Taria = temperatura dell’aria comburente (temperatura media ambiente esterno) (1-n) · [ ε ·Pci - Mf · Cf (Tf – Taria) ] ηg = ---------------------------------------------------Pci 1 – n tiene conto della parte di energia sviluppata dalla combustione di 1 Kg di combustibile che viene perduta per trasmissione attraverso il mantello ε · Pci tiene conto dell’energia persa per cattiva combustione di quel Kg di combustibile Mf · Cf (Tf – Taria) chiamata perdita per calore sensibile al camino tiene conto del calore perduto in quanto i fumi vengono espulsi al camino a temperature sempre e comunque superiori a quella dell’aria esterna. Col tiraggio forzato questa perdita diminuisce perché i fumi possono essere espulsi a temperature inferiori, ma sempre sopra i 100 °C per non creare condensa acida e danneggiare la caldaia. 28 STRUMENTI ACCESSORI Ogni generatore, per legge, deve essere provvisto di strumenti di controllo e apparecchiature di sicurezza tali da assicurare un funzionamento regolare e per quanto più possibile sicuro: • due indicatori di livello che permettano all’operatore di tenere sotto costante controllo il livello di liquido all’interno del collettore di ingresso al bollitore; • due valvole di sicurezza, tarate a pressione di poco superiore a quella di bollo, in modo da scaricare in atmosfera il vapore se per qualche anomalia la pressione sale oltre il limite previsto; • due manometri indicanti la pressione di esercizio istante per istante e riportanti il valore di bollo da non superare mai; • uno o più rubinetti di spurgo per la pulizia periodica dei fanghi e l’estrazione dell’acqua per l’analisi chimica giornaliera. Oltre a questi apparecchi previsti per legge, sui generatori possiamo sempre trovare altri manometri per indicare la pressione del combustibile, dell’aria comburente e termometri che misurano le temperature di ebollizione, di surriscaldamento, di alimento, ecc. . Ci sono poi gli scambiatori di calore che abbiamo già evidenziato: l’economizzatore, il bollitore, il surriscaldatore e, nei generatori di vapore più importanti, il preriscaldatore d’aria. Questi apparecchi possono essere dimensionati con le relazioni matematiche che già abbiamo utilizzato nella trattazione degli scambiatori di calore equi e controcorrente: W = K · S (T1m – T2m) W = Pm· Cs · ( Ti – Tu) dove W potenza in watt dell’apparecchio K coefficiente globale di scambio in w/m2°K S superficie di scambio in m2 T1m temperatura media del fluido caldo T2m temperatura media del fluido freddo Pm portata massica di uno dei due fluidi in Kg/s Cs calore specifico del fluido in j / Kg°K Ti temperatura di ingresso del fluido Tu temperatura di uscita dello stesso fluido Ma se lo scambiatore che stiamo calcolando è il bollitore, così come avviene in qualsiasi altro caso in cui si ha un passaggio di fase (qui il liquido diventa vapore), la temperatura del fluido che riceve calore resta costante, quindi T2m = T2 = Te (temperatura di ebollizione alla pressione di esercizio del generatore). E la relazione W = Pm· Cs · ( Ti – Tu) non può essere usata per il fluido in passaggio di stato in quanto Ti – Tu è in questo caso = 0 . Il calore fornito è calore latente. 29 U.D. 40 - IL TIRAGGIO – Possiamo definire tiraggio il modo in cui vengono evacuati i prodotti della combustione permettendo così a nuova aria comburente di entrare nella camera dove continua a bruciare combustibile. Il tiraggio può essere naturale o artificiale: il tiraggio naturale avviene in quanto i prodotti della combustione, essendo a temperatura molto più alta dell’aria esterna, sono più leggeri e se la canna fumaria è abbastanza alta, si crea una differenza di pressione sufficiente a spingerli via verso l’alto richiamando nuova aria che entra naturalmente in camera di combustione p atm U pressione atmosferica alla sezione uscita camino H pi p atm U + γf · H pressioni alla sezione ingresso camino pi aria fumi Δp tiraggio = pi p atm U + γa · H - pi = p atm U + γa · H - p atm U – γf · H = H (γa – γf) Quindi la differenza di pressione che determina il tiraggio naturale è data da: H (γa – γf) altezza canna fumaria H per la differenza tra il peso specifico dell’aria γa e quello medio dei fumi γf. Il tiraggio aumenta se: • la canna fumaria ha altezza elevata H • peso specifico aria esterna alto (aria fredda) • peso specifico fumi basso (fumi in uscita molto caldi) per un buon tiraggio naturale i fumi devono avere temperature medie, alla canna fumaria, di almeno 230 ….240 °C. Questo comporta però una notevole perdita di calore sensibile al camino con conseguente abbassamento del rendimento, perciò si utilizza il tiraggio artificiale. 30 Il tiraggio artificiale si può realizzare sia soffiando aria dentro la camera di combustione mediante un ventilatore (tiraggio forzato) oppure aspirando i prodotti della combustione con il ventilatore collocato dentro la canna fumaria (tiraggio aspirato) . Nel caso del tiraggio forzato la camera di combustione si verrà a trovare a pressione superiore a quella atmosferica e questo può comportare pericoli di “ritorni di fiamma” verso l’esterno. In caso di apertura di sportelli di ispezione da parte dell’operatore , egli si ritroverebbe investito dalla fiamma. Il tiraggio aspirato dal punto di vista della sicurezza è senz’altro preferibile, in quanto la camera di combustione si trova a lavorare in depressione, l’aria entra appunto richiamata dalla depressione che si crea e la fiamma non uscirà mai verso l’esterno, anche nel caso di aperture per ispezioni durante il funzionamento. Ma il ventilatore è sottoposto a notevole usura a causa sia dell’alta temperatura dei fumi che lo attraversano che del polverino in essi contenuto. Si rimedia in buona parte a questi inconvenienti adottando il tiraggio indotto: il ventilatore è collocato esternamente al camino ed aspira solo una parte dei fumi che poi invia a pressione più elevata in una sezione ristretta posta a valle della stessa canna fumaria dove, per “effetto Venturi” , essi esercitano una azione di risucchio sulla massa totale dei fumi. sezione ristretta ventilatore fumi canna fumaria - tiraggio indotto - 31 U.D. 41 - IL CICLO RANKINE E’ il ciclo termodinamico teorico che caratterizza il funzionamento delle macchine a vapore, sia di tipo alternativo che rotativo (turbine): l’acqua viene vaporizzata, il vapore ottenuto è fatto espandere all’interno della macchina motrice e poi ricondensato per chiudere il ciclo e riportarlo allo stato liquido iniziale. Riferendoci come al solito ad 1 Kg di fluido: p • Pcr. 1’ p1 1 2 Q1 Lm 0 Q2 4 po x=0 x=0,4 x=0,6 x=0,8 x=1 v 0 – 1’ isovolumica (isocora) , l’acqua viene portata dalla pressione atmosferica alla pressione di esercizio p1 tramite una pompa; 1’– 2 isobara , l’acqua viene portata fino alla temperatura di ebollizione (il cui valore dipende dalla pressione p1 a cui si trova) tramite un preriscaldatore (economizzatore) tratto 1’ – 1 ; viene poi fatta vaporizzare, o parzialmente fino ad ottenere un vapore umido a titolo x < 1 oppure completamente fino ad ottenere vapore saturo secco x = 1 (punto 2), all’interno del bollitore ; 2 – 4 adiabatica , il vapore viene inviato alla motrice (turbina) dove si espande adiabaticamente cedendo la sua energia, che la macchina trasforma in lavoro meccanico, e tornando a pressione p0 iniziale, con un titolo intorno a 0,8….0,87 ; 4 – 0 isobara , il vapore leggermente umido che esce dalla turbina entra nel condensatore dove, tramite un circuito refrigerante, viene completamente condensato e raccolto nel “pozzo caldo” da dove pesca la pompa di alimento; ed il ciclo continua…… Si è indicato con: Q1 il calore fornito al Kg di fluido all’interno del generatore Q2 il calore ceduto al refrigerante nel condensatore Lm l’energia ceduta dal fluido alla macchina motrice e trasformata da questa in lavoro meccanico 32 Circuito e Ciclo elementare Hirn Il circuito elementare per il funzionamento di un impianto a vapore può essere disegnato nella maniera seguente: turbina alternatore energia elettrica 3 2 1 generatore 4 circuito di raffreddamento condensatore combustibile 0 1’ pozzo caldo pompa di alimento L'acqua viene estratta dal pozzo caldo del condensatore (Punto 0) e pressurizzata da una pompa fino alla pressione di ammissione nel generatore di vapore (Punto 1'). La trasformazione successiva è una cessione di calore per sistema aperto, ed è quindi isobara. Nel generatore di vapore il liquido viene prima portato in condizioni di saturazione (Punto 1) nel fascio economizzatore; quindi ha luogo nel fascio vaporizzatore la transizione di fase, con trasformazione isotermobarica (Punto 2); in seguito il vapore viene di norma surriscaldato (Ciclo Hirn) nel fascio surriscaldatore, fino al punto 3 (nel caso che il surriscaldamento sia assente si parla di Ciclo Rankine). Il vapore viene quindi immesso nella turbina, collegata ad un carico elettrico o meccanico, in cui espande fino alla pressione vigente nel condensatore (Punto 4). In tale componente, a seguito di raffreddamento a mezzo di un refrigerante esterno, il vapore viene condensato fino al punto 0 (inizio del ciclo). P T 1’ 0 1 3 2 3 1 1’ 0 4 v 2 4 S Ciclo Hirn nel piano p-v (pressione-volume specifico) e T-S (temp.-entropia) 33 Il piano p-v non risulta particolarmente interessante, in quanto comprime fortemente una zona di grande rilievo per lo scambio termico (economizzatore); unica indicazione di notevole interesse è l'entità della variazione di volume nel corso della transizione di fase, particolarmente alle pressioni più basse (trasf. 4-0 al condensatore). Il piano T-s evidenzia gli scambi termici sotto forma di aree ∫T ds sottese tra le trasformazioni (1'-1 nell'economizzatore; 1-2 nel vaporizzatore; 2-3 nel surriscaldatore; 4-0 nel condensatore). Inoltre, nella rappresentazione del ciclo reale consente di evidenziare semplicemente l'effetto dell'irreversibilità sulla trasformazione nella turbina (nella pompa tale effetto risulta trascurabile, poiché la trasformazione 0-1' è fortemente compressa). Molto importante per lo studio dei cicli a vapore è il piano I-S, che nel caso che si esaminino le trasformazioni di cambiamento di fase prende il nome di Piano di Mollier. L'aspetto del ciclo Hirn su tale piano è il seguente: I 3 Lt 2 Q1 1 Lp 4 1’ 0 Q2 S Il piano I-S consente di visualizzare tutte le trasformazioni energetiche (scambi di calore e lavoro) mediante segmenti di asse verticale; rende quindi possibile confrontare l'entità di Q1, Q2, Lt, Lp. Espressioni del rendimento e del lavoro specifico Nel seguito si trascura il lavoro – molto piccolo – della pompa, Lp = I1’ – I0 = 0; i punti 0 ed 1' risultano quindi coincidenti (come avviene in pratica sia sul piano T-S che nell'I-S), il che rende possibili diverse semplificazioni analitiche. Sotto tali ipotesi, il rendimento nel ciclo limite (macchina perfetta, fluido reale) risulta essere: η = 1- Q2/Q1 = 1- (I4 - I0)/(I3 - I0) Nel caso reale la trasformazione di espansione porta ad un punto 4’, sulla stessa isobara rispetto a 4, ma ad entropia superiore; il punto 4’ è calcolabile conoscendo il rendimento isentropico della turbina: Il lavoro specifico del ciclo risulta praticamente pari al lavoro della turbina, che vale Lt = I3 - I4 [KJ/kg] di conseguenza, indicando con Pm la portata massica di vapore, la potenza dell'impianto risulta essere: Wt = Lt ⋅ Pm [Kw] 34 Influenza dei parametri operativi sulle prestazioni degli impianti a vapore Con riferimento allo schema di impianto elementare ed al ciclo di Hirn, i parametri principali sono: 1) la pressione al condensatore 2) la pressione al generatore di vapore 3) la temperatura del vapore surriscaldato L'influenza della pressione al condensatore sul rendimento e potenza risulta essere molto rilevante. La possibilità di prolungare l'espansione in condizioni di vuoto (ovvero al di sotto della pressione atmosferica) aumenta considerevolmente il lavoro della turbina (aumento dell'area del ciclo nei piani p-v e T-S). La possibilità di sfruttare tali condizioni di vuoto, teoricamente mantenibili mediante il semplice raffreddamento, furono scoperte alla fine del 1700 da Watt, che introdusse il condensatore separato in luogo del raffreddamento diretto del cilindro, e portarono al grande sviluppo delle macchine alternative a vapore. Un problema connesso all'adozione di vuoti molto spinti al condensatore, senza fare ricorso ad altre misure progettuali, può essere una eccessiva diminuzione del titolo a fine espansione nella turbina a vapore che va a scapito del rendimento della turbina e dell'integrità fisica della stessa. L'innalzamento della pressione al generatore di vapore è sicuramente benefico per le prestazioni del ciclo, ma i suoi effetti sono sensibilmente inferiori (sia per il rendimento che per il lavoro specifico) a quelli ottenibili mediante l'abbassamento della pressione al condensatore. Infatti, avvicinandosi alle condizioni critiche a grandi aumenti di pressione seguono piccoli incrementi di temperatura (la variazione di volume nella transizione di fase si riduce rapidamente). Inoltre, l'innalzamento della pressione al generatore di vapore deve necessariamente essere accompagnato da un aumento della temperatura del vapore surriscaldato. In mancanza di tale misura, il titolo a fine espansione risulterebbe troppo basso. L’effetto dell'innalzamento di pressione e temperatura all’uscita del generatore di vapore, i limiti imposti dalla corrosione a caldo dei fasci tuberi vaporizzatori impongono peraltro di non superare temperature del surriscaldato di 540 - 550 °C (oltre tali valori l'affidabilità del generatore di vapore è estremamente ridotta); con tali valori, e con le pressurizzazioni elevate che vengono adottate (170 bar per impianti subcritici; 225 bar per impianti supercritici, privi di vaporizzatore, nei quali la transizione di fase da liquido a vapore avviene puntualmente), il titolo a fine espansione risulta comunque troppo basso, ed è necessario ricorrere a surriscaldamenti ripetuti. 35 SURRISCALDAMENTI RIPETUTI L'adozione del risurriscaldamento - o, in tempi molto recenti, anche di un doppio risurriscaldamento - modifica l'impianto ed il ciclo: 5 4 alternatore TAP TBP energia elettrica 3 2 1 generatore 6 circuito di raffreddamento condensatore combustibile 0 1’ pozzo caldo pompa di alimento T 3 1 5 2 1’ 4 0 6 Schema di impianto e ciclo termodinamico in presenza di risurriscaldamento. L'espansione in turbina viene interrotta prima dell'ingresso nella zona del vapore umido, ed il vapore parzialmente espanso (tipicamente a pressioni di 35 - 45 bar) viene ricondotto al generatore di vapore, dove nel fascio risurriscaldatore viene di nuovo surriscaldato fino alla temperatura massima del ciclo (500 - 540 °C). La complicazione impiantistica non è indifferente, in quanto alle pressioni a cui si effettua il risurriscaldamento il vapore presenta volume specifico già elevato, ed è quindi necessario adottare tubazioni di diametro rilevante; inoltre la distanza tra il generatore di vapore e la sala macchine può essere non indifferente (30 - 60 m). La presenza del risurriscaldamento comporta grandi complicazioni nell'esercizio ai carichi parziali (regolazione), dimodoché questa opzione (molto vantaggiosa per l'innalzamento del titolo a fine espansione) viene adottata soltanto nei grandi impianti per produzione di energia elettrica (taglia da 160 a 660 MWe), mentre negli impianti 36 industriali (anche di taglia elevata, ma comunque inferiore ingenere a 150 MWe) non si ricorre in genere ai surriscaldamenti ripetuti. L'estrazione del vapore dalla turbina viene in genere effettuata all'uscita dal corpo di alta pressione. Infatti, a causa del forte incremento di volume specifico nei grandi impianti a vapore si ricorre sempre a più corpi turbina sullo stesso asse (ad esempio: 1 corpo di Alta pressione (AP); 1 o 2 corpi di Media pressione (MP); 1 o 2 corpi di bassa pressione (BP), in genere di tipo a loro volta sdoppiato). U.D. 42 - LA RIGENERAZIONE NEGLI IMPIANTI A VAPORE La Rigenerazione consiste nella sostituzione di uno scambio termico superiore con l'esterno con uno scambio termico interno al sistema, possibilmente di tipo a recupero (calore di scarto). Tale pratica risulta particolarmente vantaggiosa se si sostituiscono gli scambi termici con l'esterno nella zona del ciclo dove il fluido operativo opera a basse temperature; infatti, il livello di temperatura sviluppato nei sistemi di combustione è elevato, e la degradazione del calore fino alle basse temperature del fluido operativo del ciclo comporta elevate irreversibilità nello scambio termico. Il ciclo Hirn può essere suddiviso in più cicli disposti termicamente in parallelo (ovvero che condividono la "sorgente"superiore: T I II III S Scomposizione del ciclo Hirn in cicli elementari Il ciclo ottenuto dalla combinazione dei tre cicli I, II e II é del tutto equivalente al ciclo originario in termini di calore (aree sottese dalle trasformazioni), lavoro (area del ciclo) e rendimento. L'espressione del rendimento per cicli termicamente in parallelo risulta dalla media pesata dei rendimenti, utilizzando come pesi i calori Q1 scambiati con la sorgente superiore: ηt = (ηI⋅Q1I+ηII⋅Q1II+ηIII⋅Q1III) / (Q1I+Q1II+Q1III) 37 Nell'espressione precedente, ηIII risulta elevato in considerazione dell'alto valore della temperatura equivalente (media entropica) dello scambio termico superiore; ηII è relativamente alto considerando che il ciclo II - seppure evolvente tra livelli di temperatura non molto distanziati tra di loro - è un ciclo di Carnot (trasformazioni isoterme di scambio termico); il ciclo I possiede invece un rendimento ηI molto basso, in quanto la temperatura equivalente (media entropica) dello scambio termico superiore. Considerando la formula, risulta conveniente ridurre al minimo possibile il calore Q1I che alimenta tale ciclo. Rigenerazione continua negli impianti a vapore Nel caso degli impianti a vapore, non esiste disponibilità di calore di scarto allo scarico. Infatti, il ciclo a vapore restituisce calore alla sorgente fredda a temperatura costante e molto bassa; é impossibile l'applicazione di recuperi termici a questo calore di scarto al condensatore. La pratica della rigenerazione risulta vantaggiosa anche a costo di una diminuzione del lavoro utile del ciclo (elevato nel caso di impianti a vapore, attorno a 1000 - 2000 kJ/kg). L'ipotetico processo di rigenerazione continua prevede la sottrazione del calore nel corso di un'espansione refrigerata, ad entropia decrescente; tale calore può essere ceduto rigenerativamente alla trasformazione di riscaldamento dell'acqua (0-1), al prezzo di una diminuzione di lavoro (area del ciclo). T Qr S Processo ideale di rigenerazione continua nel ciclo Hirn La rigenerazione continua non é peraltro applicabile agli impianti a vapore per due motivi: a) l'impossibilità di alloggiare all'interno della turbina superfici adeguate di scambio termico b) il valore troppo basso del titolo a fine espansione Il secondo motivo rende impraticabile anche la soluzione di raffreddare tra stadi successivi nel corso dell'espansione; in alternativa al raffreddamento (e condensazione) parziale dell'intera portata di vapore, si ricorre quindi alla pratica degli spillamenti di vapore, ovvero alla condensazione completa di piccole portate di vapore derivate tra due stadi della turbina a vapore. 38 RIGENERAZIONE CON SPILLAMENTI DI VAPORE Lo schema impiantistico più elementare per un impianto a vapore con uno spillamento é il seguente: turbina alternatore energia elettrica A 3 2 1 generatore 4 circuito di raffreddamento condensatore combustibile 1’ vapore acqua 0 pozzo caldo C Sr pompa di alimento Pompa Pc Il ciclo corrispondente risulta: I 3 A 2 Q1 1 Lp Lt 4 1’ 0 Q2 S La portata di vapore spillata in turbina nel corso dell' espansione (punto A) viene interamente condensata nello scambiatore rigenerativo Sr , e preriscalda l'acqua di alimento prima dell'ingresso nel generatore di vapore. Per semplicità si assume che la condensa non sia sottoraffreddata (punto C) e che la sua entalpia sia uguale a quella dell'acqua di alimento in uscita dallo scambiatore (per i liquidi l'entalpia dipende molto poco dalla pressione). La condensa viene reiniettata sulla linea dell'acqua di alimento mediante una apposita pompa Pc. 39