ANNO XII NUMERO 100 - PAG II
di
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 28 APRILE 2007
Carlo Panella
A
fronte del raccapriccio del dodicenne afghano che sgozza compiaciuto una “spia”, Pierluigi Battista sul
Corriere della Sera ha sostenuto di non
vedere novità rispetto agli orrori del
’900: “De nobis fabula narratur”. Tesi affascinante, ma inesatta, che offusca
quel che invece la messe di sgozzamenti – incluso questo Isacco afghano, che
vien da dire, sgozza Abramo – ci indica
con martellante chiarezza. Anche Khaled Fuad Allam, su Repubblica, perde
il senso della “malattia che trasforma la
morte della cultura nella cultura della
morte”, quando colloca quell’orrore tra
i “riti di passaggio”. E’ vero che è lungo
l’elenco dei bambini torturatori del secolo scorso, dalla Hitlerjugend, ai giovani stalinisti, a Pol Pot e tanti altri, inclusi i bambini soldato sudanesi del cristiano John Garang. Ma non abbiamo alle spalle e di fronte una notte nera del
totalitarismo in cui tutti gli sgozzatori
sono uguali. Quel piccolo boia afghano
dal volto bellissimo ci dice altro, basta
non fermarsi alla sociologia dei riti tribali come fa, denunciandone i limiti,
l’ottimo Fuad Allam, o non fermarsi alla pratica, anche europea, dell’omicidio
“come rito di iniziazione rivoluzionaria”, come fa l’ottimo Battista. Solo il discorso religioso ha gli strumenti per
comprendere lo sgozzamento dell’uomo
sull’uomo e appunto a quello bisogna
riandare, per capire i talebani e al Zarqawi, dalla Genesi sino all’Apocalisse.
Questa infinita serie di sgozzamenti,
di sacrifici umani non si svolge solo
dentro ambiti totalitari e concentrazionari, ma si espande anche nelle comunità islamiche delle democratiche Europa, Turchia, Israele. Nessun totalitarismo conosciuto sinora ha fatto dei propri massacri, del sangue versato, addirittura dello sgozzamento rituale, strumento di propaganda, di proselitismo,
di convinzione, di ricerca di consenso.
La Shoah, il gulag, tutti i massacri sono
sempre stati occultati da un muro di segreto: lavori sporchi, compiuti nel buio
più sporco. Da decenni, invece, videoclip con lo sgozzamento rituale di “impuri” sono diffusi nei mercatini arabi
del Londonistan, delle banlieue, come
in quelli iracheni. Da anni vi è una rincorsa tra Internet e al Jazeera nel proporre video di sgozzamenti: Daniel
Pearl, Jack Hensley, Eugene Armstrong,
Adjmal Nashkbandi. Poi i tre cristiani
sgozzati come montoni, incaprettati, la
testa rivolta alla Mecca, a Malatya. Ora,
il boia afghano di dodici anni. Il fatto
che quei gesti sacrificali siano pubblicizzati, ripresi e trasmessi al mondo con
rivendicato orgoglio dice tutto, marca
una differenza radicale da quanto già
accaduto: quella è una proposta, un modello di vita. Non sono esecuzioni, ma
riti. Questo è il punto. Non sono soppressioni di nemici, non sono il sottoprodotto orrido di utopie salvifiche laiche, alla Hitler, Stalin o Pol Pot, non sono neanche atrocità di guerra. No, que-
Uno scisma islamico ci propone
con orgoglio il modello del sacrificio
umano come pratica da seguire per
meritare il Paradiso
gli sgozzamenti ci dicono invece che oggi uno scisma islamico ci propone con
enfasi e orgoglio il modello del sacrificio umano come pratica da seguire per
meritare il Paradiso. Sempre, si noti, sacrificio del prigioniero di guerra, come
in tutta la storia dei sacrifici umani,
Maya inclusi. Sempre, sacrificio dell’apostata (la “spia”, il traditore della polis), spesso il bambino, come nella laicissima liturgia dei bimbi kamikaze per
anni spronati all’olocausto dalla televisione dell’Anp di Yasser Arafat.
Qui è la differenza, qui è la novità:
non più il massacro – celato, nascosto,
con i documenti bruciati o tenuti in archivi segretissimi – per ottenere, per via
breve, violenta, la vittoria dell’Uomo
Nuovo, delle laiche rivoluzioni naziste
e comuniste, ma la celebrazione rivendicata, oscenamente esposta, di gesti liturgici, di lento sgozzamento della vittima sacrificale, in nome di Dio, diffusa
per via televisiva per ottenere proseliti,
che per questa strada di sangue – altro
orrore – arrivano copiosi. Questo non è
un “déjà vu”. Mai nella modernità una
messa di morte è stata proposta come
modello. E ha fatto proseliti a migliaia.
Non è piccola la differenza tra l’esercizio segreto, coperto, della “violenza
rivoluzionaria” dei totalitarismi citati
da Battista e questa nuova liturgia basata sul sacrificio umano nata nel cuore dell’islam. La caratura rituale inse-
“Il sacrificio di Isacco” di Caravaggio
ABRAMO CAPOVOLTO
Da Daniel Pearl all’autista di Mastrogiacomo, ecco perché il coltello
del jihad che taglia la testa dell’infedele è ostentato e non nascosto
risce questi sgozzamenti dentro una
tradizione millenaria, dentro riti e gesta, che si rifanno a una tradizione che
data dal 622 dopo Cristo. No, la nostra
fabula, orrenda per tanti versi, di questo non narra. Qui è la differenza, la novità, il pericolo, il mai visto. Certo, questo non è islam. Ma questo nasce e cresce solo e unicamente dentro l’islam: è
uno scisma islamico. Il silenzio e l’imbarazzo della umma a fronte di questi eccidi dimostrano che il peso di questo radicamento religioso è immenso e che gli
sgozzatori navigano su onde che li favoriscono: l’allargarsi nella umma musulmana – anche questo estraneo alla nostra fabula – dell’esaltazione del “martirio”. Non i fanatici, non le avanguardie rivoluzionarie, ma milioni di musulmani da decenni guardano agli shahid,
ai kamikaze, come modello positivo.
Una sconvolgente novità mai vista in
Germania, Urss o Cambogia. Su questo
humus, sullo spessore millenario della
Tradizione, su cui gli assassini salafiti si
poggiano, si è radicato, espanso, incattivito, lo scisma del sacrificio umano. Né
abbiamo di fronte solo un modo barbaro di condurre il conflitto. Lo sgozzamento rituale del prigioniero di guerra,
così come le migliaia di shahid, il coltello, come il giubbotto esplosivo, non ripropongono Davide contro Golia, fionde
di plebi in rivolta contro la prepotenza
tecnologica di Usa, Israele o regimi islamici. Sono invece il portato di una nuova religione di morte. Una religione che
ha in Alì Shariati il suo teologo principe. Negli anni Settanta, a Teheran, Shariati prese un po’ di Jean Paul Sartre,
un po’ di Franz Fanon, molto di Louis
Massignon e addirittura un po’ di Concilio ed elaborò una sorta di “teologia
della liberazione” o meglio “teologia
del suicidio sacrificale” in formato sciita. Una proposta, qui e ora, di martirio,
concreto, immediato, ambizione massima di ogni fedele musulmano: “Il martirio è il cuore della storia; nello stesso
modo in cui il cuore irrora di sangue il
corpo, così il martire irrora la storia.
Ogni rivoluzione ha due volti: il primo è
il sangue, il secondo è il messaggio: il
martirio è testimone di ambedue. Chi
sceglie questa morte rossa mostra il
proprio amore per la verità. Una verità
conculcata, che è l’unica arma per il
jihad. Il martirio emana una solarità
unica, crea luce e calore nel mondo e
nel cuore freddo e buio, nei pensieri,
nei voleri paralizzati, immersi nella stagnazione e nell’oscurità immemore,
crea movimento, visione speranza e
crea volere, missione e dedizione. Il
pensiero ‘niente può essere fatto’ si
cambia in ‘qualcosa può essere fatto’ o
addirittura ‘qualcosa deve essere fatto’.
La morte del martire ha come conse-
guenza la morte del nemico perpetuata
da coloro che sono stati educati dal sangue di uno shahid. Versando il proprio
sangue egli non causa la morte del nemico. Vuole umiliare il nemico e ottiene la sua umiliazione (…). Il martirio è
l’unica ragione per esistere, l’unico segnale di presenzialità, l’unico mezzo di
attaccare e di difendere e l’unico modo
di resistere, così che la verità, il diritto e
la giustizia possano rimanere vivi in
un’epoca e sotto un regime in cui la nullità, la falsità e l’oppressione dominano”. Khomeini trasforma in politica viva
questa farneticazione blasfema, impasta
questa teologia con le sue strategie e
vince la sua rivoluzione solo attraverso
il martirio subìto, non violento, di decine di migliaia di iraniani. Poi lo trasforma nell’arma per esportare la rivoluzione al di fuori di un paese solo. Dal 1979
in poi, l’impianto dell’islam politico vincente si basa dunque sull’aspirazione
corale al martirio, anelito di morte. La
debole struttura ideologica dell’islam,
reduce da sette secoli di rifiuto della
modernità, non regge all’urto di uno scisma che ha una valenza preziosa. Nel
1982 Khomeini emana una legge che toglie la patria potestà sui bimbi e ne
manda 300 mila a farsi maciullare sui
campi minati iracheni, una chiave del
paradiso di plastica – made in Taiwan –
al collo. Per anni, la tv dell’Anp, quella
di Arafat, non quella di Hamas, inculca
martellante il modello del bambino
martire, il bambino col giubbotto esplosivo, esalta le eroine Wafa Idriss, prima
kamikaze donna (15 morti, nella pizzeria
Sbarro, tutti ebrei) e Ayyat al Akhras di
17 anni che fa una sola vittima, Rachel
Levy, 17 anni, ebrea.
L’islam classico, la sua pallida riproposizione odierna, quello di al Azhar, vivacchia all’ombra dei regimi, dentro
una teologia di poco spessore, sommersa da astruse discussioni giuridiche. L’islam in marcia, invece, quello di Khomeini, Hamas, Hezbollah, Moqtada al
Sadr, al Qaida, fa strage di “falsi musul-
Un ritratto di Ruhollah Khomeini, leader della rivoluzione islamica in Iran
mani”, di ebrei e di americani. Questa è
la forza intrinseca dello scisma. Da qui
il successo del suo proselitismo.
Il paragone con le stragi dei totalitarismi laici del ’900 non regge, dunque, e
il velo del laicismo impedisce di cogliere il legame tra teologia del martirio
islamico e sgozzamenti, sacrifici umani,
impedisce di rivedervi la radice antica,
primordiale, del sacrificio, dell’olocausto. Questo scisma islamico si fonda infatti su una divaricazione che separa ab
initio islam da ebraismo e cristianesimo
sul punto fondante: il rapporto tra l’uomo e la morte. Dalla cacciata dall’Eden
e dal peccato originale (per il cristianesimo) si dipana infatti nel Libro una
straordinaria ricerca dell’inconoscibile
umano. Anelito assente nel racconto coranico, teso a riprendere dalla trama biblica gli avvenimenti, non i significati,
per legittimare, a posteriori la dignità
dell’islam e screditare ebrei e cristiani.
Il discorso sull’uomo dell’ebraismo
inizia trascinandoci nel mistero cruciale: siamo figli di Caino, l’assassino del
fratello, non di Abele, come vorremmo.
Da lui, inizia la nostra genealogia. Caino uccide, quasi sacrifica l’uomo, il fratello, in un’infamia che giunge diritta
nei secoli dei secoli sino al mistero di
Auschwitz. Nel racconto biblico, poi, il
ritrovamento tra il Dio furente dell’Eden e la progenie di Caino, il patto, il
contratto tra l’uomo e Dio, evoca di nuovo il tema inquietante dell’uomo che uccide l’uomo, del padre che uccide il figlio, che lo sacrifica a Dio. Abramo è il
primo contraente dell’Alleanza tra Dio
e il suo popolo. E quel patto, che ha la
sua carnale evidenza nella circoncisione, passa per il superamento, definitivo,
ma evocato drammaticamente, sbalorditivo a leggere, del sacrificio di un bimbo. Dio chiede a Abramo di sacrificare
Isacco. Abramo va e fa. Costruita la pila
di legna sacrificale, sguainato il coltello, Abramo è fermato solo dalla voce
dell’angelo. Non da quella di un terrorizzato Isacco. L’Alleanza, dunque, nasce nel momento in cui l’uomo cessa di
sacrificare l’uomo, come sempre aveva
fatto. E’ Alleanza tra Dio e il suo popolo
nella storia. Alleanza alla pari, in cui
ognuno dei due contraenti dà e riceve.
Alleanza di ogni singolo ebreo col suo
Dio, e viceversa. Passati i secoli, la seconda Alleanza, non più sulla Storia,
ma sulla Legge, porta scritto con chiarezza netta sulle Tavole di Mosé: non uccidere. Punto. Cristo, infine, chiude definitivamente il tema del sacrificio umano, perché è egli stesso, è Dio, è sostanza, essenza, carne, persona, lacrima,
paura, Dio fatto uomo, a offrirsi come
vittima ultima, definitiva, all’olocausto,
sulla Croce. Dio da quel momento è
Amore. Nulla più. Ed è detto tutto. An-
cora oggi, i cristiani, ogni giorno, nelle
mille e mille messe celebrate, evocano
il sacrificio, della carne e del sangue,
dell’ostia e del vino, del Cristo che è
Dio che si fa uomo per dare in olocausto in eterno la propria infinita sofferenza e convincere l’uomo al rispetto
totale, assoluto, della vita, della persona. Nulla di tutto ciò nel Corano. Maometto non comprende neanche il tema
dell’olocausto, il mistero di Caino, di
Abramo, del quinto comandamento,
della Passione del Cristo. Condanna recisamente il sacrificio dei bimbi che i
suoi stessi contemporanei praticavano
ad abundantiam. Ma ne fa prescrizione,
legge, senza racconto, senza scavare
nell’intimo dell’anima del padre che
sacrifica il figlio. Il Corano dieci e dieci volte evoca Isacco, ma mai, mai, ricorda il sacrificio che di lui Abramo si
apprestava a fare. Sfugge alla Rivelazione maomettana il nesso misterioso
tra assassinio, fratricidio, olocausto
umano e Dio. Maometto nega addirittura che il Cristo sia morto in croce, perché Dio non può lasciare morire così
un suo Profeta. Il tema della morte, dell’uomo che dà la morte all’uomo, al fratello, al figlio, non è parte della ricerca
musulmana dell’inconoscibile di ogni
anima, della storia degli uomini. Il divieto coranico dell’assassinio è sola
prescrizione, non è parte dello scavo
impietoso dentro i meandri dell’anima
umana. A fronte del netto, sintetico
“non ucciderai” della Bibbia, il Corano
vieta, ma ammette: “Il Signore vi ha
prescritto di non uccidere il vostro
prossimo che Dio ha reso sacro, se non
per una giusta causa” (Corano, VI, 151).
Due i varchi di assassinio lecito per
musulmano: uccidere chi Dio non ha
reso sacro e per una giusta causa. La
politica, Maometto incluso, si incaricherà di riempire di significato, e di numeri, queste eccezioni. Della Bibbia
Maometto usa solo quanto gli può servire per sconfiggere i suoi nemici idolatri, infatti nega che Abramo sia “ebreo,
o cristiano” e fa di lui il primo hanif, il
primo musulmano. Sposta addirittura
le tende di Abramo di mille e mille chilometri, e le incardina alla Mecca invece che a Canaan, perché così legittima
sulla Pietra Nera, l’unico oggetto che
l’uomo può venerare, riconoscendo così l’unico Dio. Abramo è così ridotto a
“fondatore” dell’obbedienza a Dio –
islam, sottomissione – non stipula Alleanza, non è contraente alla pari del
patto, con l’angoscia della morte richiesta di Isacco nel cuore e nelle membra.
Trionfa e si impone poi il Maometto politico, generale, combattente e la Sunna
di questo è intrisa. La guerra condotta
e combattuta, spada alla mano, da Maometto è costante fissa del proselitismo
islamico contro il nemico esterno (gli
idolatri della Mecca) e quello interno
alla nascente pòlis della Mecca: i falsi
convertiti e gli ebrei che rifiutano la Rivelazione. Maometto introduce e rivendica nell’islam il modello positivo dello sgozzamento dei nemici della sua polis, per ragioni politiche. Per suo ordi-
Lo scisma sciita di Khomeini
trova il punto di contatto con quello
salafita-sunnita nel modello politico
che Maometto dà ai musulmani
ne, ma con responsabilità opportunamente scaricata all’arcangelo Gabriele,
650 ebrei banu Quraizah vengono sgozzati per aver complottato contro i musulmani, a favore degli idolatri. Non
elaborato nel Corano, l’olocausto, il sacrificio umano, viene così riproposto
nella sua pregnante valenza politica.
Gli ebrei che hanno “complottato” contro il governo musulmano della polis
vanno sgozzati. Estraneo alla elaborazione teologica musulmana, il tema del
sacrificio umano, fondante il discorso
sull’uomo dell’ebraismo e del cristianesimo, trova nel massacro degli ebrei
una sua esaltazione, una sua proposta
di modello di governo della polis islamica. Quello sgozzamento oggi viene riproposto dai salafiti, che si sforzano di
riproporre meccanicamente il “governo giusto” del Profeta e nel racconto coranico non trovano nessun freno a considerare il sacrificio umano, impedito,
haram, impuro. Anzi. Lo scisma sciita
di Khomeini trova il punto di contatto
con quello salafita-sunnita proprio nel
modello politico che Maometto consegna ai musulmani. E’ vero, questo non è
islam. E’ uno scisma che uccide e sacrifica soprattutto islamici. Ma nasce dentro i movimenti di faglia di una storia
musulmana basata sul modello jihadista: la lecita uccisione dell’infedele,
strumento di conversione religiosa a un
Dio che guarda da lontano.