Finestre sul mondo

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Finestre sul mondo
Teoria e pratica dell’arte-strumento
Paola Tinè
Elaborazione digitale da “Città di notte”, 2016.
1 Elaborazione digitale di “Città in giallo”, 2016.
Indice
Introduzione
1. Sul metodo dell’arte-strumento in Antropologia visiva
2. L’antropologia urbana-visiva e la città come oggetto di studio
3. L’uno e i molti, percezioni nella molteplicità
3.1 Le storie di ognuno
3.2 L’uomo elettrico e le relazioni invisibili
4. Il supermercato e il sistema ‘perfetto’ del consumo
5. L’uomo solo. La coscienza della vita e la percezione del tempo
6. Il testamento della terra
Gallery
Bibliografia
2 «Il testo non “commenta” le immagini. Le immagini non “illustrano” il testo: ognuna è
stata per me soltanto l’inizio di un vacillamento visivo, analogo probabilmente alla perdita
dei sensi che lo Zen chiama un satori; testo e immagini, nel loro intreccio, vogliono
assicurare la circolazione, lo scambio di questi significanti: il corpo, il viso, la scrittura e
leggervi il distacco dei segni.»
Roland Barthes, L’impero dei segni, Torino, Einaudi, 2002.
Elaborazione digitale di “Gente in fila”, 2016.
3 Introduzione
“Gli artisti selezionano dalle scene del mondo, dando alla visione un contesto e un limite.
Ritagliano dal mondo immagini per mostrarle ad altri occhi e aprendo a nuove connessioni.
Il mondo osservato e mostrato non è il mondo e non è una realtà, ma una porzione di
mondo e l’interpretazione di una realtà.
Questo succede quando dietro l’arte c’è anche una teoria, ed in effetti è difficile che non ci
sia.
Forse proprio oggi, oltre la foto e il video, un’arte figurativa manuale come la pittura, che
è sempre meno trattata come uno strumento per guardare la realtà, può divenire una via
per rimettere in gioco la nostra capacità di vedere, che non è un semplice atto fisico, ma un
atto di comprensione e azione, pensiero e speculazione, apprendimento e contemplazione.”
Apertura di “Finestre sul mondo: la città, la folla, l’uomo”, 2014.
4 I lavori visivi presentati in questa raccolta sono il risultato del lavoro di un anno svolto
durante i miei studi di Antropologia visiva a Siena e culminato in una piccola esposizione
che ho chiamato, per l’appunto, “Finestre sul mondo” (Chiostro di San Galgano, Facoltà di
Lettere e Filosofia, Siena, 2014).
Le “finestre sul mondo” sono le prospettive di osservazione proprie di una disciplina.
Quelle che l’antropologia visiva offre oggi sono rappresentate dal video documentario e
dalla fotografia.
In questo lavoro ho deciso di utilizzare la pittura come mezzo espressivo per un lavoro
di antropologia visiva in cui l’espressione teorica si presenti al lettore-osservatore senza la
mediazione della parola descrittiva o esplicativa. Il lavoro proposto si configura quindi
come teorico e pratico insieme. Le parole usate accanto alle immagini ne costituiscono un
completamento.
Questo testo si divide quindi in tre parti principali. Nel primo capitolo si analizza
l’importanza dell’arte-strumento nell’ambito di studi dell’antropologia visiva e si introduce
la proposta di un’antropologia visiva pittorica.
Nel secondo capitolo si evidenzia quindi il tema su cui ho svolto il lavoro visivo, ossia
la città, e si osserva, in particolare, l’importanza di un’ “antropologia urbana-visiva”.
Nei capitoli successivi si mette in pratica la tecnica dell’arte-strumento, legata
all’osservazione di temi come la percezione del sé e della collettività, della folla e della
solitudine nel contesto urbano, delle relazioni invisibili e delle relazioni virtuali, delle
attività di acquisto e consumo così come della percezione del futuro. Si giunge così alla
terra e al suo testamento finale. La terra piange l’abbandono e la nuova idolatria fatta di
artificialità e si apre a una lettera diretta all’uomo, il quale però non può più leggerla poiché
parla ormai tutta un’altra lingua.
1. Sul metodo dell’arte-strumento in Antropologia visiva
Come diceva Margaret Mead (1975), le prime impressioni che si hanno sul campo
sono eminentemente visive; questo perché all’inizio non si posseggono le competenze
linguistiche e culturali per potere comprendere gli aspetti di una società. Queste prime
impressioni non devono essere fondanti o limitanti, ma vanno accostate ad altre ricerche,
costituendo però importante parte del materiale etnografico.
Secondo la Mead, era proprio l’alto coefficiente di alterità che contraddistingueva le
“prime impressioni” a renderle così pregnanti per la mente. La conoscenza antropologica
deriverebbe dallo “shock culturale”, dallo spaesamento causato dal contatto con la diversità.
Negli oggetti materiali, quotidiani e artistici, nella struttura della città,
nell’abbigliamento, nella moda, nella gestualità, nella prossemica e in tutti quegli elementi
che in primis si osservano, possiamo ritrovare la particolare visione che li ha modellati,
visione che viene costruita dalla cultura e che plasma la cognizione del mondo.
Da questa osservazione ci si può quindi muovere alla scoperta del terreno politico,
sociale, religioso, esistenziale di una cultura, che ha per l’appunto riscontro nella
costruzione del mondo umano con i suoi oggetti, la sua arte, la sua concezione del corpo, e
in una parola sola nella visione che le persone hanno della vita.
5 Questa visione è un fatto culturale e corporeo, che trascende il semplice organo visivo
oculare. E’ un fatto corporeo in quanto è nel corpo che si ritagliano i limiti che la visione
impone.
La stessa concezione del corpo, proprio e altrui, è connessa alla visione.
Lo stesso essere-nel-mondo di un uomo è uno stato che parte dalla visione, dal vedere
ma anche dalla consapevolezza di essere visti, oltre che vedenti.
La vista è quindi il senso dell’interazione col mondo che va a collaborare con gli altri
sensi, per creare un essere nel mondo che è in primis corporeo.
Anche l’occhio dell’antropologo è culturalmente costruito. La sua visione è mediata, e
lo è anche quando entrano in gioco gli obiettivi apparentemente più asettici delle foto e
video camere.
A proposito di questo noi ci domandiamo: come possiamo vedere il nostro stesso
presente? Venuta meno la componente di shock da straniamento della Mead, e considerando
che i nostri occhi sono ciechi in quanto ebbri del materiale stesso che studiamo, come
possiamo “vedere”?
Per farlo dobbiamo uscire per un attimo dal nostro ruolo sociale, per vedere le cose
con più distacco. Dobbiamo altresì rinunciare alla pretesa di oggettività, sulla quale si è
fondato gran parte del dibattito antropologico e cine-antropologico. La parzialità di ogni
visione e teoria, la sua radice culturale d’origine, non può essere messa da parte.
Proviamo quindi anzi a renderla parte dello studio, ma provando a guardare le cose
con più distacco, se non con assoluta oggettività. Questo possiamo farlo. Ed è come
riacquistare la vista dopo una lunga cecità. Riguarderemo tutto con uno sguardo stupito e
curioso e ci accorgeremo di non avere mai visto come erano veramente le cose intorno a noi.
Una volta osservate le cose e costruita una teoria, l’antropologia visiva ha la possibilità
di sfruttare un altro strumento espressivo, ossia di divenire “pratica” e di mostrare quindi il
mondo osservato tramite la produzione di immagini. Anche le stesse fotografie rientrano
nell’atto di produzione in quanto costituiscono una selezione del reale diretta da un
pensiero.
Alla produzione visiva possiamo quindi accostare l’elaborazione teorica verbale.
A questo proposito chiariamo che, per quanto riguarda immagine e parola presenti nel
tipo di lavoro di “antropologia visiva pratica” che proponiamo, non dobbiamo cercare un
rapporto logico o gerarchico che le connetta.
L’antropologia visiva non solo si sofferma su tutti quegli elementi della società che
sono “non verbali”, ossia prettamente materiali, la cui “misura maggiore” sia la visibilità,
ma anche studia la società attraverso diversi possibili strumenti visivi: gli occhi
dell’antropologo (mediati da elementi culturali impiantati su una testa pensante plasmata per
una certa visione), la sua macchina fotografica, la sua videocamera (mediate dagli occhi e
dalla visione), le sue mani di artista (connesse a occhi, visione, corpo).
Con questi strumenti lo studioso può captare, secondo la sua ottica,
elementi visivi, per poterli mostrare. Infatti, egli già vede con i suoi occhi,
e
immortalare le cose per come le vede non è solo un modo per riempire la
casa di ricordi, ma ha lo scopo di mostrare agli altri una
teoria, un punto di vista.
L’atto della produzione di immagini dell’antropologo
visivo ha quindi una “funzione” pubblica (e non un “uso”
pubblico, come ormai tutte le forme di immagini prodotte che
girano inevitabilmente nel pubblico mondo del web).
6 In questa funzione il lavoro di fotografia e filmato dell’antropologo visivo si connette
al lavoro artistico, con il quale si mostra appunto un modo di vedere le cose, personale.
Bisogna rinunciare alla pretesa di oggettività delle immagini, poiché, estratte dallo spazio,
dal tempo e dalla relazionalità sociale, esse saranno sempre altre rispetto alla realtà dei
momenti immortalati.
2. L’antropologia urbana-visiva e la città come oggetto di studio
Nelle città i palazzi sono squadrati, le strade sono dei percorsi obbligati e chi si muove
nei mezzi pubblici è come una barchetta di carta chiusa in una bottiglia di vetro.
Il bus sembra una lattina con le ruote e gli alberi sono pochi.
Sembra che la città sia un nuovo paesaggio rispetto a quello che l’uomo trovò intorno
a sé quando comparve sulla terra. Un paesaggio “tutto culturale” in cui la natura è sepolta.
Le strade, i marciapiedi e le piazze fatti di cemento, asfalto, mattoni, hanno isolato i
piedi dalla terra.
E’
la
visione
occidentale a rendere di
per sé quasi sensata
l’opposizione “naturacultura” che non deve
essere considerata come
caratteristica propria dell’essere
umano.
Come mostra Philippe Descola
in Par-delà nature et culture, per i popoli
amazzonici la natura è quella parte della
vegetazione e del mondo fisico che è stata
riordinata dall’uomo e resa fruttuosa e compatibile
con le sue esigenze, opposta alla foresta inospitale.
Un mondo quindi culturale, in quanto
umanamente
mediato e costruito, che continua a essere considerato natura.
La cultura e la civilizzazione del mondo occidentale sono invece andate in una
direzione palesemente opposta a quella della natura, poiché l’uomo ha cercato di estrapolare
il massimo del profitto da essa, nel momento stesso in cui ne rinnegava i principi costitutivi,
non rispettandone ritmi e peculiarità. Nella mancata interazione razionale e ragionevole e
nell’atto di sfruttamento si trova la spiegazione degli esiti negativi e mortiferi presenti e
futuri.
L’uomo occidentale ha cercato, in linea con una forte tradizione umanistica, come
mostra bene Marchesini in Post-Human, di allontanarsi dal legame con la terra e quindi con
le origini animali, da quella terrestrità che lo faceva sentire tanto corporeo.
In questo mondo civile, l’uomo ha irreggimentato il suo corpo, attraverso gli abiti, gli
oggetti d’uso quotidiano, le case. Queste ultime sono aggregate su più livelli, strutturate in
palazzi. Le persone sono ammassate nella città, negli agglomerati urbani e nei mezzi
pubblici, si incrociano nella piazza, ma i loro beni privati garantiscono loro un’individualità.
7 Come ha evidenziato Le Breton in Antropologia del corpo e modernità, i vicini di casa
tra loro non si vedono, ma si sentono .
Nel sentire il vicino, i rumori della sua casa, si può giungere a percepire l’asfissia
dell’abitazione e l’incombenza delle vite degli altri. Ma si è abituati a reprimere le
impressioni derivanti da questi contatti, cercando di limitare la propria concentrazione sullo
spazio familiare.
Così si guarda il mondo dalla finestra, quando capita di affacciarsi, si cerca magari il
cielo.
Privato è l’abitacolo dell’auto, che distingue i singoli in una massa di identiche auto.
Ma chi guarda quelle identiche auto? Chi guida, non vede di essere chiuso in un
abitacolo, bensì guarda fuori dal suo specifico punto di vista, dalla sua finestra sul mondo.
L’illusione di singolarità e privacy del bene privato, decade di fronte alla realtà della
città, in cui si è per forza di cose involti in una folla, ma non coinvolti.
Ed è questo il paradosso della città, la presenza di una grande società, che quanto è più
grande tanto è meno sociale e in cui tanto maggiori sono le occasioni di scambio tanto meno
si comunica, e in cui tanto più si è infinitesimi, tanto più ci si sente infiniti.
Siamo in presenza di un mondo pieno di barriere fisiche tra i singoli, costruito secondo
la logica della massima privacy, in cui il bisogno fisiologico di comunità grida esasperato a
partire dai comportamenti dei bambini, e si espleta in un altro mondo sociale che però è
invisibile, quello virtuale, ma non per questo noi rinunciamo a vederlo e a cercare di
comprenderlo.
Nel 1914 nasceva negli Stati Uniti la prima scuola di sociologia urbana.
Era la Scuola di Chicago. Con essa si apriva la prospettiva di studio focalizzata
sull’analisi delle interazioni umane nel contesto metropolitano. In particolare, seguito poi da
Small, Burgen e McKenzie, è Park a osservare come alcuni fenomeni di conflittualità
familiare e di delinquenza, si verifichino con un’incidenza nettamente diversa nelle aree
cittadine rispetto a quelle rurali, giungendo così all’osservazione fondante che getterà le basi
della disciplina di studi: che i rapporti sociali e culturali siano strettamente condizionati
dall’ambiente di appartenenza.
A questi studi si aggiungono i contributi della Scuola di Manchester.
Determinante nel percorso di sviluppo delle analisi sulla società metropolitana
contemporanea, essa offriva agli studi antropologici e sociologici una nuova strada per
liberarsi dalle secche epistemologiche in cui il funzionalismo di Malinowski e RadcliffeBrown li aveva arenati. Grazie a tale nuovo approccio, che prendeva forma nel Dipartimento
di Antropologia Sociale di Manchester, fondato da Max Gluckman nel 1947, veniva rimesso
al centro il concetto di mobilità delle società studiate e riadottato un approccio diacronico
per l’analisi di realtà sociali non più studiate come complessi immutabili, ma come luoghi
del cambiamento.
In particolare, focus dell’interesse investigativo diveniva il conflitto, osservato come
motore principale del mutamento sociale, e analizzato nelle sue diverse possibili forme
attuative, talvolta latenti, talvolta manifeste.
Le principali tematiche sollevate dalla sociologia urbana mettono al centro l’analisi
delle periferie, dei bisogni abitativi, come la questione dell’integrazione degli immigrati, i
fenomeni di conflittualità, la delinquenza, la partecipazione sociale.
8 Se i contributi che abbiamo preso in esame finora sono fondamentali per osservare
come gli spazi incidano sulle relazioni sociali, d’altro canto la semiotica applicata alla
cultura ci mostra come gli spazi con le loro forme ci possano informare sullo stato delle
relazioni che in essi hanno luogo.
Alla struttura già solida ed in evoluzione dell’antropologia urbana, crediamo
importante aggiungere lo strumento dell’osservazione visiva, come avvio delle ricerche e
della comprensione dei fenomeni, e lo strumento della rappresentazione visiva (pittorica,
fotografica, digitale) per la esposizione delle ricerche effettuate e l’esposizione di un punto
di osservazione. Quello che infatti resta sempre problematico nella disciplina antropologica,
è la esplicitazione di quanto osservato in sede di ricerca. Se l’osservazione che ci
riproponiamo di fare di un contesto sociale è innanzitutto visiva, anche il risultato finale,
ovvero la produzione teorica che ne ricaviamo, dovrebbe essere visiva (oltre che verbale).
A proposito dell’importanza dell’osservazione visiva degli spazi sociali, in tempi
recenti si è costituito un nuovo specializzato ramo di studi in Italia, sulla scia del lavoro di
Algirdas Greimas svolto nel campo della semiotica strutturale: la scuola di etnosemiotica,
che ha come fulcri le Università di Bologna e Siena e che si ripropone di osservare le realtà
della vita quotidiana come oggetti della semiosi, ossia luoghi in cui si costruisce il senso, un
senso che può essere letto e tradotto attraverso la lettura delle specifiche forme dello spazio
e delle relazioni che hanno luogo in esso.
Muovendo da una modalità di osservazione propria dell’antropologia visiva e
dell’etnologia, in cui largo spazio è dato all’osservazione dell’aspetto visivo dei fenomeni,
grazie all’applicazione dei principi di analisi semiotica possiamo fare parlare il materiale
osservato. Infatti, grazie alla ricchezza di segni visibili configurantisi in forme oppositive
che fanno capo a colori, luci, distanze, gestualità, elevazione degli oggetti nello spazio,
prossemica degli attanti e colori, gli oggetti dei nostri studi possono essere letti come vere e
proprie immagini discorsive.
Noi vogliamo quindi muoverci verso l’utilizzo di strumenti metodologici propri di due
discipline che riteniamo possano portare un contributo fondamentale per questo campo di
studi.
L’antropologia visiva, in particolare, ci insegna a osservare e raccogliere le fonti
visive, mentre l’etnosemiotica ci insegna a leggere le immagini del reale come discorsive e a
tradurle per un’analisi del significante.
La semiotica della cultura ci offre numerosi studi sulle strade, sulla cognizione delle
autostrade come spazi fuori dallo spazio e tra gli spazi, sulle aree di sevizio, sulle sale
d’aspetto e le barriere poste sul visibile all’interno di contesti propri di diverse offerte
sanitarie e commerciali che vanno dalla sala d’aspetto del dentista a quella della sala
operatoria a quella dell’estetista (a proposito di queste analisi si veda Marsciani, Tracciati di
etnosemiotica, Franco Angeli, Milano 2007).
Per uno studio dei contesti urbani è utile quindi studiare la conformazione spaziale dei
luoghi, come anche il mutare dei gruppi sociali che vivono quegli spazi.
E’ quindi l’antropologia visiva in primis a guidare le nostre osservazioni, la semiotica
a supportare la nostra metodologia di analisi, l’antropologia urbana a suggerirci come unire
9 le nostre osservazioni ai dati della speculazione, la storia a fondare la nostra conoscenza dei
luoghi.
Vogliamo quindi applicare l’antropologia visiva “pratica”, caratterizzata
dall’arte strumento, all’antropologia urbana, mettendo al centro la città come oggetto
di studio.
L’antropologia –visiva- del mondo contemporaneo ha un compito vastissimo,
giustificato solo in un certo senso dagli incombenti processi globalizzanti, che riunirebbero,
mescolerebbero, confonderebbero i tratti delle diverse culture ora in stretto contatto tra loro.
Non possiamo annullare nei nostri studi le numerose differenze culturali ancora esistenti tra
paesi e all’interno dei paesi, dimenticare che le condizioni economiche delle persone sono
estremamente diversificate, per l’appunto tra paesi e all’interno dei paesi.
Non dobbiamo abbandonarci a uno spirito antropologico generalizzante che rinasca
finalmente giustificato dal fatto che oltre alla natura l’uomo abbia adesso anche un’unica
forma di cultura e di comportamento, né rifugiarci in un’ “antropologia di salvataggio” che
si limiti a osservare e recuperare i tratti culturali in via d’estinzione. Sarebbe certo errato
tralasciarli del tutto, poiché la dinamica diacronica è la salvezza da ogni oscurantismo.
Perciò possiamo osservare e raccogliere dati di quelle civiltà che oltre a presentare tratti che
si estinguono, si modificano, e così vederne gli elementi che si ibridano con altre forme
culturali, cercare di comprenderli e presagirne il futuro evolutivo.
Con la globalizzazione non ci sarebbe infatti la formazione di un’unica cultura globale,
ma un momento forte di rottura con i tanti passati e una spinta alla rielaborazione di quanto
viene messo in discussione dalle nuove dinamiche politico-economiche e dal contatto tra le
alterità.
Marc Augè, uno dei maggiori studiosi della contemporaneità, parla di “antropologia
dei mondi contemporanei” e “attraverso un confronto basato sulla percezione del tempo,
dello spazio e dell’identità che popoli colonizzati di ieri e popoli occidentali di oggi hanno
elaborato in due momenti diversi, ma caratterizzati da crisi di tipo analogo (fine del senso
della storia, impressione di un restringimento dello spazio planetario, sensazione di un
destino individuale svincolato da un progetto collettivo), Augè giunge a mettere in rilievo la
dimensione cosmopolita dell’antropologia nell’epoca attuale” (Ugo Fabietti, Storia
dell'Antropologia, II° ed. 2001).
Per la comprensione del sistema uomo-mondo all’interno di una comunità occidentale,
dobbiamo osservare la struttura della città e le connessioni tra questa e le componenti
proprie di quello che definisco “sistema uomo-mondo”
Chiamiamo sistema uomo-mondo il complesso di elementi determinanti una specifica
visione del mondo, come: il rapporto con la natura e con la tecnologia e quindi la
considerazione dei “rapporti ibridativi” (Marchesini), la costruzione degli spazi vitali, la
gestione quindi di sistemi urbani più o meno grandi e del territorio circostante, il modo in
cui questi luoghi costituiscano dei luoghi privati e come essi si connettano alla vita
pubblica; Il rapporto quindi tra singolo e società e tra gruppi interni a una società; I rapporti
familiari e le modalità di comunicazione che l’uomo impara a fare proprie, nelle comunità
familiari, di addestramento, politiche; Il rapporto con la trascendenza, la religiosità e
l’interazione tra i corpi e tra un singolo corpo e lo spirito mistico; Le relazioni sociali,
fisiche e virtuali. I modi di mangiare, di vestire e di amare e la connessione di questi con
l’idea vigente sul tema dei rapporti sociali tra le persone, del divino talvolta, della natura. E
10 infine la sfera esistenziale, in stretta correlazione con tutto quanto già citato: la visione del
mondo, il tentativo di dargli un senso, di dare un senso al sé e di riconnetterlo al tutto. Il
rapporto tra corpo e anima, e tra corpo, spazio e tempo e quindi la concezione di sé come
singolo rispetto a una collettività o all’universo e il rapporto con la vita e la morte.
Il sistema uomo-mondo si basa sulla forma specifica del rapporto dell’uomo con lo
spazio fisico in cui vive e con le “relazioni” che intrattiene con esso. Solo dalla
comprensione di questo rapporto si possono chiarire gli aspetti fondanti una visione del
mondo.
In particolare, nel caso delle odierne società occidentali è attraverso la città e le sue
forme che l’uomo costruisce e percepisce la sua esistenza. In conseguenza di questo,
l’osservazione della città, in primis visiva, costituisce una tappa fondamentale nella nostra
comprensione dell’uomo contemporaneo e della sua visione del mondo.
3. L’uno e i molti, percezioni nella molteplicità
3.1. Le storie di ognuno
Un bambino cresce nella folla. La folla dei suoi amici non gli fa
paura, e nemici ne ha pochi. Ma la folla è fatta di presenze e
assenze, di sconosciuti e di problemi.
Loro nella folla sono in bianco e nero, e il bambino è piccolo e
colorato.
Crescere nella folla comporta la conoscenza della precarietà del
tuo posto nel mondo. Questa l’evoluzione della serena vita di
villaggio, dove tutto ha un nome, una collocazione e una
soluzione.
Il bambino nella folla, stella in un cielo al rovescio, sipario sicuro
di pensieri da fare. Si confonde nel tutto, sembra quasi un
nulla, piccola fucina di segreti, di drammi futuri o di liberazione.
11 12 La farfalla e le briciole sul mare di marmo. Fotografia 2015.
Come la farfalla sul mare di marmo si risveglia dal silenzio la storia
di ognuno.
Estratto da “Volti.
13 3.2. L’uomo elettrico e le relazioni invisibili
Uomo elettrico, olio su carta, 2014.
Porta un fascio di fili senza nome,
L’uomo elettrico e i suoi cavi.
14 I fili connettono le energie e caricano le luci, come arterie di un
organismo senza volto. Di fili neri è fatto l’uomo invisibile che segue e
conforta l’uomo elettrico. L’uomo invisibile giace sempre vicino agli
occhi, ma poco alla memoria e dalla memoria ruba ogni volta un po’ di
coscienza.
Ha un suo cuore e sue idee da divulgare all’uomo, informazioni che
zampillano dagli interfaccia, dai mille schermi dalle capricciose diverse
dimensioni.
L’uomo elettrico viaggia connesso alla rete virtuale. La sua mente cerca
talvolta di liberarsi dal giogo del cavo ma poi scopre che la società ha
basato su di esso le sue radici comunicative, e non può uscirne se vuole
morire animale sociale.
Si sente tutto e si sente niente, il traffico gli spiega dove andare.
Eppure tutto in lui anela alla liberazione.
15 Relazioni invisibili, in corso d’opera.
Relazioni invisibili, Febbraio 2014. Olio e spirito su tela. 50x60 cm
16 4. Il supermercato e il sistema ‘perfetto’ del consumo
In fila verso la cassa, per fare nostro ciò che abbiamo preso da
uno scaffale. Gli abbiamo dato un nome già, in realtà lo
possediamo da sempre.
Ce ne erano mille tutti
uguali nella loro anonimità.
d’altro, non delle nostre
nostro sudore, non del
insieme, tutti
Oggetti fatti
mani, non del
nostro sapere.
17 La carne, dopo gli animali, i vestiti, dopo lo sfruttamento, i
carrelli, dopo le macchine. Il sistema perfetto del consumo
ignora la sua imperfezione.
Fin troppo lontani dal nostro sapere, gli scarti dimenticati.
E dietro ai rifiuti il mare.
18 5. L’uomo solo. La coscienza della vita e la percezione del tempo
E adesso ci siamo
noi. Con il passato
che ci ha fatti
grandi e il cielo
davanti a noi. La
coscienza della vita
l’avevamo solo
dimenticata, ma
non rinnegata.
19 Alla finestra. Fotografia 2015.
Il tempo sembra svanire, dietro ai passi della città.
20 6. Il testamento della terra
-Dove andate?
-Non lo sappiamo. Il mondo è impazzito e lo abbiamo ucciso
noi.
-Ma
no,
restate,
vi
prego,
cercate
soltanto
Toglietevi le scarpe e ascoltate le mie preghiere.
di
capire.
Silenzio.
21 Il sacrificio della terra porta alla caduta dell’uomo.
L’enorme sacrificio ha svuotato la piccola risorsa. Fuori
dall’acqua,
un
pesce
troppo
grande
ha
ribaltato
i
cacciatori nel suo stagno. Ma il sacrifico continua, e la
terra annuncia la sua maledizione.
22 Gallery Foto dall’ esposizione “Finestre sul mondo” all’Università di Siena. Marzo 2014 In piazza. Febbraio 2014. Olio e spirito su tela 50x60 23 Da “Volti” Via dal mondo. Gennaio 2014, olio su tela 50x60 cm 24 Città in fiamme. 2014, olio e smalto su cartoncino 30x50 cm 25 Crescere nella folla. Gennaio 2014. Olio su legno. 50x140 cm 26 Nella rete. Ottobre 2015Acquerelli su carta. 30x20 cm 27 Città di notte: gente, case e cielo Dicembre 2013, olio su tela 50x60 cm 28 La pesca grossa. Olio e smalto su tela. 2014 Allestimento dell’esposizione 29 Città in giallo 2014. Olio e inchiostro su tela 50x60 cm 30 Usi e consumi Febbraio 2014. Olio e inchiostro su tela 50x 60 cm L’uomo solo. 2014. Olio su tela, 20x10 cm 31 Bibliografia Agustoni A., Sociologia dei luoghi ed esperienza urbana, Franco Angeli, 2000.
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