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Laboratorio interdisciplinare sul diritto d’asilo
Laboratorio Interdisciplinare
sul Diritto d'Asilo
che si è tenuto a Torino dal 25 settembre al
18 dicembre 2012
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Corsi di Laurea Magistrale in Antropologia culturale ed etnologia e in Sociologia
Associazioni e Cooperative del Coordinamento “Nonsoloasilo”
Laboratorio interdisciplinare sul diritto d’asilo
Programma e presentazione del laboratorio
DATA
LUOGO
Mar
Centro Interculturale, C.so
25-09
Taranto 160
TITOLO RELAZIONE
RELATORI
Presentazione del laboratorio e
Cristina Molfetta
introduzione al tema della
Michele Manocchi
progettazione e degli stages
Simona Sordo
La casa e l'abitare: una
Mer
Dip. Scienze Sociali. Via S.
03-10
Ottavio 50
introduzione da un punto di vista
sociologico e antropologico con
Giovanni Semi
excursus sul sistema casa in
Italia
Chi sono i rifugiati e come si
Mer
Centro Interculturale, C.so
10-10
Taranto 160
producono: status giuridico,
processi di etichetta mento e
rifugiati come 'prodotto' storico-
Mauro Van Akeen
Cristina Molfetta
politico
Mar
Aula informatica
16-10
Scienze Politiche, Via Plana 10
Lun
Centro Interculturale, C.so
22-10
Taranto 160
Mar
Centro Interculturale, C.so
30-10
Taranto 160
Mar
Centro Interculturale, C.so
06-11
Taranto 160
Le azioni dell'occidente e le sue
Maurizio Veglio
retoriche: il diritto
Ulrich Stage
dell'immigrazione italiano alle
Silvia Pescivolo
prove delle direttive comunitarie
Mirtha Sozzi
Il sistema di accoglienza in Italia:
pre-sprar, sprar, emergenza,
limiti e possibili evoluzioni
Europa e altrove, il campo
profughi nella cooperazione
La situazione piemontese: verso
la creazione di un modello
alternativo di intervento
Mar
Centro Interculturale, C.so
sociali: residenza,
13-11
Taranto 160
ricongiungimenti, approccio di
genere
Centro Interculturale, C.so
Zahra Osman Ali
Il sistema d'accoglienza in
Tra esigibilità dei diritti e pratiche
Mar
Gianfranco Shiavone
Sanità: leggi, protocolli,
Chiara Marchetti
Cristina Molfetta
Michele Manocchi
Joli Ghibaudi
Yagoub Kibeida
Simona Talliani
Salvatore Geraci
2
Corsi di Laurea Magistrale in Antropologia culturale ed etnologia e in Sociologia
Associazioni e Cooperative del Coordinamento “Nonsoloasilo”
Laboratorio interdisciplinare sul diritto d’asilo
20-11
Taranto 160
Mar
Centro Interculturale, C.so
27-11
Taranto 160
Mar
Centro Interculturale, C.so
04-12
Taranto 160
Mar
ostracismo istituzionale
Lavoro e sfruttamento lavorativo
Lorenzo Trucco
Progettazione: leggere il
Cristina Molfetta
territorio, scegliere gli obiettivi,
Michele Manocchi
rispondere ai vincoli
Simona Sordo
Centro Interculturale, C.so
Valutazione del laboratorio e
Cristina Molfetta
11-12
Taranto 160
confronto conclusivo
Michele Manocchi
Mar
Centro Interculturale, C.so
Come gestire il distacco: la
Paola Sacchi
18-12
Taranto 160
giusta distanza e il momento del
Antonella Meo
congedo
Silvia Torresin
Il Laboratorio sul diritto d’asilo si propone di avvicinare in modo concreto il mondo universitario e
della ricerca scientifica a quello del terzo settore impegnato sul tema e, più in generale, agli
interventi di accoglienza, supporto, accompagnamento di titolari di protezione internazionale. A
tal fine vengono coinvolti, da una parte, ricercatori che affrontano il tema dell’asilo partendo da
punti di vista differenti, in un’ottica interdisciplinare; e, dall’altra, realtà istituzionali, del privato
sociale, dell’associazionismo, ma anche della cooperazione internazionale, che presentano le
proprie esperienze di intervento. Il tema del diritto d’asilo, e delle azioni ad esso collegate, viene
affrontato a partire da tre punti di osservazione: quello storico-giuridico, quello socio-antropologico
e quello degli interventi sociali. Inoltre, la prospettiva adottata è comparata, confrontando tra loro
progetti locali (istituzionali e non), nazionali ed europei, con uno sguardo a quanto sta accadendo
anche oltre i confini dell’Europa.
Il Laboratorio si rivolge a due figure specifiche: gli studenti universitari interessati ad approfondire la
tematica della protezione internazionale, con l'eventuale obiettivo di comporre una tesi di laurea
sul tema; gli operatori istituzionali, del privato sociale e delle associazioni che operano, a vario
titolo, in questo settore.
Il Coordinamento Non Solo Asilo mette a disposizione la sua rete di enti per consentire agli studenti
di seguire tirocini formativi, finalizzati all’apprendimento delle competenze ma anche alla
elaborazione della tesi di laurea.
All’interno di questo annualità e a seguito della parte laboratoriale sono stati attivati 14 stages di
150 ore ciascuno cercando di far incrociare i desideri e le aspettative degli studenti che hanno
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partecipato alle progettualità concrete diverse messe in atto dai diversi enti del cordinamento Non
solo asilo.
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Laboratorio interdisciplinare sul diritto d’asilo
Primo
25 settembre 2012
Incontro
Titolo
Presentazione laboratorio e introduzione temi progettazione
Relatori
Michele Manocchi, Cristina Molfetta, Simona Sordo
Viene presentato il laboratorio (come è nato che obbiettivi si pone e come e con quali criteri si
sono selezionati i partecipanti)
Si affrontano due punti specifici:
La presentazione delle 3 tracce progettuali su cui i partecipanti divisi in tre gruppi dovranno
lavorare tra settembre e dicembre per arrivare nell’incontro del 4 dicembre a presentare le
idee sviluppate in ogni ambito che sono state le seguenti:
Traccia 1 - Gruppo di lavoro per l’organizzazione della giornata mondiale sui rifugiati (Michele)
Avete 2.000,00 euro di budget.
La Giornata cade il 20 giugno di ogni anno.
Noi non vogliamo che sia un momento sterile e limitato ad una giornata ma vorremmo che fosse
un’occasione per:
1. ripercorrere il cammino dell’ultimo anno che i vari soggetti coinvolti nella nostra rete hanno
intrapreso;
2. individuare i punti di forza e di debolezza delle attività svolte o più in generale del sistema di
intervento adottato;
3. individuare gli attuali bisogni di richiedenti asilo e rifugiati, ma anche del sistema di
accoglienza adottato, e proporre eventuali strategie, suggerimenti, sviluppi.
Il target a cui vogliamo rivolgerci discutendo di questi temi è composto dai decision makers (politici
e tecnici), dagli stakeholders (locali e nazionali) e naturalmente dai protagonisti delle attività svolte
nell’ultimo anno.
Vogliamo, inoltre, che la Giornata sia un momento per le comunità di rifugiati (intendendo con
questo coinvolgere le comunità dei loro connazionali), ma avendo pochi soldi dobbiamo contare
sulle loro risorse e capacità organizzative interne. Noi possiamo gestire spazi e momenti e lavorare
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Laboratorio interdisciplinare sul diritto d’asilo
con esse per rendere i temi trattati e le modalità di esposizione uniformi e armoniche tra loro.
Nel vostro progetto dovete indicare:
A. decision makers da coinvolgere, e come;
B. stakeholders da coinvolgere, e come;
C. le varie attività che proponete per la giornata, e per ciascuna di esse:
a. persone/enti coinvolti;
b. target di riferimento e strategie per raggiungerlo;
c. budget;
d. luoghi.
Inoltre, dovete porre molta cura agli aspetti amministrativi e logistici, in termini di:
-
eventuali permessi per il suolo pubblico o per la musica;
-
prenotazione per tempo degli spazi;
-
eventuale richiesta per tempo di patrocini o partecipazione da parte di enti speciali o di
personalità;
-
e in generale, stabilire i ruoli all’interno del gruppo di organizzatori dell’evento, indicando
chi, fa cosa, quando e come.
Traccia 2-
Formazione linguistica
ed acquisizione di strumenti di conoscenza del contesto
(Simona)
Ad un gruppo di operatori appartenenti ad una cooperativa sociale e ad un’associazione locale
viene chiesto di progettare e programmare un percorso sulla formazione linguistica e sulla
conoscenza del contesto (inteso anche nelle sue componenti sociali e culturali), dei suoi servizi,
delle sue risorse e delle sue reti per 7 destinatari. Si tratta di persone con storie e profili differenti:
-
giovane donna somala analfabeta con protezione sussidiaria, con un minore a carico.
Seppure in Italia da due anni e a Torino da 6 mesi, mostra grosse difficoltà nella
comprensione e nell’utilizzo della lingua italiana, fatica ad orientarsi e muoversi in
autonomia sul territorio;
-
uomo eritreo di circa 45 anni, con protezione sussidiaria, da 6 mesi in Italia, ex autista in
patria, disponibile alla relazione e alla formazione, ma scarsamente reattivo;
-
giovane congolese laureato in psicologia nel proprio paese, arrivato in Italia un anno fa e a
Torino da un solo mese, carico di aspettative rispetto a quello che potrebbe offrirgli Torino
dopo una deludente esperienza a Roma;
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-
famiglia composta da madre, padre e due bambini, tutti richiedenti, in attesa di risposta da
parte della commissione, arrivano dal Bangladesh, sono a Torino da 3 mesi, dopo essere
stati nel nord-est ed essersi appoggiati per 6 mesi a connazionali presenti in Veneto;
-
giovane somalo alfabetizzato, ma senza formazione tecnica, con protezione sussidiaria, da
tre anni in Italia; pur avendo svolto diversi tirocini, le sue competenze linguistiche appaiono
però appena sufficienti a risolvere questioni di prima necessità;
-
due giovani somale con protezione sussidiaria, cugine, alfabetizzate, entrambe con
diploma in patria; ricevono forti pressioni dalle loro famiglie, sono a Torino da 8 mesi e si
presentano particolarmente ostili e diffidenti.
Il gruppo di operatori dispone di un periodo di 9 mesi in cui progettare, svolgere, monitorare e
valutare le attività realizzate. Dispone di un budget di 1000 euro a persona (che diventa di 2000
euro nel caso della coppia).
Nella progettazione delle attività si invita il gruppo a porre estrema attenzione alle modalità di
apprendimento delle persone, alle resistenze che i soggetti possono mettere in campo e a come
fronteggiarle, al ruolo che possono giocare le comunità di appartenenza presenti a livello locale
nelle scelte e negli agiti delle persone.
Traccia 3- Progettare percorsi di sensibilizzazione, informazione e formazione in tre territori del
Piemonte
Unire la rete delle persone (operatori richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale), a
quella delle risorse, e del territorio. (Cristina)
Hai circa 5.000 Euro a disposizione da usare nell’arco di 9 mesi e i territori in cui devi immaginare le
azioni sopraccitate sono tre:
la città di Torino (dove lavorano 3 operatori e ci sono 7 studenti universitari con protezione
internazionale seguiti dal progetto) ,
Biella dove ci sono tre operatori(due del posto e uno di Torino) e 10 persone con protezione
internazionale seguite dal progetto che stanno facendo un percorso per aprire delle attività in
proprio (siano esse partite IVA, piccole imprese o cooperative)
Ivrea sempre con tre operatori (due del posto e uno di Torino) e 10 persone con protezione
internazionale seguite dal progetto che prova ad aiutarle nella fase del ricongiungimento familiare
o per cercare lavoro o per mettersi in proprio.
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Associazioni e Cooperative del Coordinamento “Nonsoloasilo”
Laboratorio interdisciplinare sul diritto d’asilo
Gli studenti universitari con protezione internazionale sono a Torino da qualche anno e parlano già
abbastanza bene l’italiano, le 10 persone a Biella sono sul territorio provinciale da circa un anno e
parlano abbastanza l’italiano e lo stesso le 10 persone con protezione internazionale ad Ivrea
Che azioni/iniziative pensate che sia importante fare in ogni territorio per informare i territori del
percorso che si sta provando a fare ma anche più in generale su chi sono i richiedenti asilo, rifugiati
e titolari i protezione internazionale? Che ruolo possono giocare gli operatori e le persone con la
protezione internazionale?
Che azioni/iniziative pensate che sia importante fare per provare non solo ad informare
genericamente il territorio ma più specificatamente le realtà che potrebbero contribuire alla
riuscita del percorso di autonomia in cui sono coinvolti le persone con la protezione internazionali?
(quali sono queste realtà in ogni territorio che ti vengono in mente?)
Che ruolo possono giocare rispetto a queste azioni gli operatori e le persone con la protezione
internazionale?
Esiste un sito un cui è possibile inserire sia le informazioni sugli eventi azioni che state pensando che i
risultati del progetto in ogni territorio come lo usereste?
Sul sito e anche attraverso gli operatori del singoli territori arrivano segnalazioni rispetto a persone
volontari più o meno giovani che da una parte richiedono informazioni sulle persone presenti sul
territorio dall’altro offrono una disponibilità di tempo per aiutare le persone e il progetto, come
potete al meglio rispondere alle loro richieste e utilizzarli come risorsa?
Provate a pensare non ogni singolo territorio come una realtà a se stante , ma i tre territori come un
unico sistema in cui se si pensa un’azione o un’iniziativa si prova a trovare la maniera migliore di
ottenere il massimo dei risultati nei tre territori ottimizzando i costi, e limitando gli spostamenti
E’ segue la consegna e la presentazione di uno schema base di ideazione di progetto e budget
che ogni gruppo può decidere o meno di seguire nel percorso di sviluppo e di
presentazione della propria idea progettuale.
Si è concluso con la spiegazione della modalità che si userà nel corso del laboratorio per decidere
gli abbinamenti tra gli studenti che devono/si danno disponibili a fare uno stage e i progetti
e le realtà del Cordinamento Non solo asilo che potranno accoglierli.
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Secondo
03 ottobre 2012
Incontro
Titolo
La casa e l’abitare: una introduzione dal punto di vista sociologico e
antropologico con excursus sul sistema casa
Relatori
Giovanni
Giovanni Semi, Cristina Molfetta
Semi : Mi occupo di casa e ceto medio perché i rapporti tra classe sociale e
abitazione sono dei rapporti strettissimi, e uno dei modi che i sociologi utilizzano per studiare il
ruolo della casa è proprio quello di incrociarlo con il ruolo delle classi sociali, e il gioco tra le
classi e il bene abitazione. e ciò è vero anche per il richiedente asilo perché una volta che
otterrà un qualche permesso di soggiorno, ma anche nel caso del diniego, egli prima o poi si
confronterà con la questione dell’abitazione. Si trova dunque a interagire con una condizione
strutturale relativamente alla quale tutti coloro che si trovano sul territorio italiano hanno a che
fare, e che è una situazione molto problematica, declinata in una maniera tutta italiana, quasi
incomparabile rispetto ad altre esperienze europee.
Che cos’è la casa? È un esperienza quotidiana per ciascuno di noi. Se c'è una realtà che
conosciamo molto bene è quella domestica, per definizione. Sociologi, economisti, demografi,
antropologi, geografi, lavorano sul bene casa, ma in modi molto diversi tra loro. Dunque, in
base a come studiamo il fenomeno, a quale punto di osservazione utilizziamo, vediamo delle
cose molto diverse delle nostre società.
Innanzitutto la casa è un bene, un bene che viene scambiato, che viene comprato, per il
quale si fanno progetti, si sogna, che è centrale per famiglie e classi sociali. L'Italia vanta
assieme ad altri paesi europei una sorta di primato, in quanto nazione di proprietari di case.
Vedremo oggi che soprattutto relativamente al caso italiano, quando si parla di casa, di
accesso alla casa, per la maggior parte di noi si sta parlando di accesso alla proprietà della
casa. Questo è un aspetto molto particolare dell'Italia, e anche di altri paesi mediterranei e
anche di altri paesi del nord d'Europa. C'è una situazione a macchia di leopardo per quanto
riguarda la proprietà della casa. Se il 70-75% degli italiani è proprietario di casa, vuol dire che
quelli che non sono proprietari di casa sono pochi, o meglio che i mercati che non sono della
proprietà sono molto residuali e ristretti. Quindi c'è stata una sorta di obbligo nascosto, e molto
forte, a correre all'acquisto della casa, o a proteggersi attraverso l'acquisto della casa. Quindi
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siamo una nazione di proprietari, e questo, per chi è in una condizione di estreme marginalità,
come può essere un richiedente asilo, è un ulteriore problema che si somma a tutti gli altri che
egli incontra. Ci sono alcuni paesi europei in cui il rapporto proprietà/affitto è rovesciato. Ad
esempio in Olanda i proprietari di casa si aggirano attorno al 20-25%. Se si guarda alla
distribuzione della proprietà in rapporto alla classe sociale di appartenenza si notano delle
interessanti specificità: mentre c'è grosso modo un 70% di accesso alla proprietà per le classi
sociali alte, gli operai hanno un tasso di accesso molto più basso, portandoli ad essere molto più
presenti tra coloro che sono in affitto.
L'altro aspetto fondamentale è che quando si forma una nuova famiglia una delle prime
cose che si fa è cercare una casa, e quindi, di nuovo, la casa è importante perché ci racconta
di percorsi di emancipazione, percorsi attraversi i quali si diventa persone adulte, “metter su
casa” è una locuzione che conosciamo bene, che vuol dire farsi una famiglia, e queste due
sono strettamente intricate.
La casa è un investimento economico, ma non solo per le famiglie. In realtà la casa è un
investimento economico anche per attori che non necessariamente ci vanno a vivere. Il
mercato delle abitazioni racconta di storie di persone che poi andranno a vivere, a fare i
residenti in quelle case, ma anche di persone che comprano delle case sul mercato che sono
degli attori economici veri e propri e quindi creano degli squilibri anche molto forti. Uesto
aspetto è rilevante perché è certamente parte integrante di quelle tre grosse crisi economiche
(2005-2008-2010) che stanno squassando il sistema capitalistico.
La casa è anche rifugio psicologico, casa come contesto affettivo, che ha un significato
che trascende l'investimento di tipo economico, o le questioni di riproduzione sociale, e quindi
avere la casa vuol dire acquisire un certo grado di tranquillità personale, vuol dire cominciare a
progettare, cominciare a stabilizzarsi su un territorio. Non averla, e spesso averla già persa una
volta, nel proprio paese d’origine, è esattamente la condizione nella quale si trovano i
richiedenti asilo, e ciò implica una serie di questioni e meccanismi psicologici di instabilità.
E poi la casa è un modo in cui si esprimono le classi sociali e le famiglie, mostrano a loro
stesse e alle altre persone chi sono, la casa è anche un modo in cui ci si esprime, non è solo un
mondo in cui ci si rifugia, poi a seconda delle epoche, delle culture, delle classi sociali, delle
disponibilità, si mostra di meno, si mostra di più, si mostrano delle parti se ne nascondono delle
altre. Però la casa è anche un luogo pubblico paradossalmente: lo si pensa sempre come un
ambito del privato, o dove ci si nasconde rispetto al pubblico, però la casa ha moltissime
dimensioni pubbliche che val la pena studiare, e su cui per esempio c'è un po' di riflessione
sociologica, molta riflessione antropologica, e c'è della riflessione architettonica, che però
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spesso non è in sincrono con le due precedenti, poiché è veramente cruciale il modo in cui
vengono pensate, disegnate, studiate, le case anche nei loro interni, per quale tipo di famiglia,
con quali concezioni della famiglia, con quale cultura familiare in mente e quali sono gli usi veri
e propri delle case. Molto spesso c'è uno iato fortissimo tra come sono state disegnate le case e
che idea ci sta dietro, e poi le reali forme dell’abitarle messe in campo dalle famiglie che le
hanno abitate. Un utile ambito di osservazione riguarda il ruolo degli oggetti esibiti e usati
all’interno delle case, la distribuzione degli spazi, gli arredamenti. Sono tutti elementi in grado di
raccontarci le famiglie, le loro aspirazioni sociali, i loro intenti comunicativi, ma anche l’uso degli
spazi, e in chiave storica, questi oggetti ci danno la possibilità di cogliere le differenze tra le
generazioni.
Userò in particolare tre fonti: la prima è un volume di due sociologi italiani che sono M.
Barbagli e M. Pisati che sta per uscire, quindi ne abbiamo un'anteprima, che sarà un lavoro
colossale sulle polarizzazioni sociali nelle città italiane e che ha molta parte di queste analisi
legate alla casa, ed è un lavoro che racconta i diversi tipi di segregazione che ci sono nelle
principali città italiane a seconda delle classi sociali.
Una piccola precisazione: l'Italia meriterebbe una lezione proprio di tipo geografico, o di
geografia sociale dell'Italia, perché in realtà, le città e le grandi città sono una cosa, e l'ossatura
urbana italiana non è fatta di grandi città, ma di piccole e medie città, questo per dire che gli
italiani stanno molto nelle grandi città, ma la maggior parte sta nelle piccole e medie città (tra
50000 e 200000 abitanti), e l'Italia è famosa in Europa per essere una società di città, a
differenza di altri stati come la Francia che ha ad esempio pochi centri urbani, ne ha uno
gigantesco ed altre tre - quattro città importanti, ma per il resto è una regione ancora
fortemente rurale. Dunque, guardare solo alle grandi città porta a vedere solo una parte della
nostra società. Per esempio a Torino negli anni Trenta, chi aveva case di proprietà era
solamente l'11% della popolazione torinese, ed è una percentuale che in tutte le città, in
maniera molto diversa, cresce costantemente, fino ad arrivare al 62% attuale di Torino, a
Genova che ha una struttura ancora più fortemente proprietaria col 70% di abitanti che sono
proprietari di casa e poi invece Napoli che è sempre stato un caso molto difforme, ancora
adesso ha un numero sorprendentemente “basso” rispetto all'Italia, di proprietari di case. Però è
una storia di costante e fortissima crescita. Addirittura Milano nel Trentuno aveva solamente il
4,5-5% di proprietari di case e che poi è arrivata a un 60% nel 2001. È una storia di crescita
urbana, è una storia di ricchezza, di accesso alla proprietà e anche una storia di società italiana
che cambia e che spinge sempre di più gli italiani a comprare casa. I dati sono dati di
censimento.
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Inoltre, contrariamente a quanto avremmo potuto pensare, la proprietà delle case è
diffusa molto di più fuori dalle grandi città che nelle grandi città, sia in ragione del capillare
tessuto di piccole e medie città, in cui risiede la magior parte degli italiani, realtà stabili e meno
sconvolte dalle turbolenze degli ultimi 50 anni, sia per il fatto che qui l’accesso alla proprietà è
sempre stato molto più disponibile che in città, ovvero meno affitti. E occorre aggiungere la
presenza di specifiche politiche pubbliche che notoriamente appartengono alle grandi città, e
che tolgono dal mercato una fetta di patrimonio immobiliare per destinarlo al sociale, e
dunque all’affitto, come nel caso dell'edilizia popolare e delle case in locazione a fasce
specifiche.
Vediamo come sono distribuiti i proprietari di case per classe sociale. Come ci si poteva
aspettare, la borghesia ha una maggiore forza contrattuale e che questa si esprime in termini di
maggior accesso alla proprietà. Ciò è vero, ma nel nostro paese il ceto medio, la classe media
impiegatizia e la piccola borghesia, non hanno comportamenti molto diversi rispetto alla
borghesia più forte, in termini di proprietà della casa. Nelle città anche le classi operaie non
sono tanto diverse dalle altre classi, la distanza c'è, e si vede, c'è un 55% tra gli operai e un 64%
nella borghesia, ma ci sono degli avvicinamenti, anche se gli operai dei servizi stanno
sicuramente peggio degli operai dell'industria e quindi hanno dei livelli più bassi di accesso alla
proprietà. Diventa più utile osservare i cambiamenti dal punto di vista storico, perché si
registrano grandi cambiamenti. Ad esempio, il maggior salto lo si vede dagli anni Ottanta in poi,
guardando ad esempio agli operai dell'industria: nell'81 tra essi i proprietari di case erano il 30%,
mentre nel '91 la quota arriva quasi al 48%. Sono successe tante cose: maggiore ricchezza,
verosimilmente, deregolamentazione dei mercati, cessazione a partire dagli anni 90 e anche un
po' prima delle politiche per la casa, alla fine non si sono più costruite case nuove per ceti
popolari, quindi di fatto si è ristretto quel tipo di mercato e si è dovuti passare necessariamente
all'acquisto. Altri mutamenti classici sono la trasformazione del sistema creditizio italiano, per cui
le banche hanno cominciato a concedere molti più mutui; e il ricorso alla casa come bene
rifugio, per proteggere i soldi messi da parte, il TFR, dei lasciti, perché il mattone ha quasi sempre
reso più degli investimenti finanziari.
Grazie ad un recente lavoro di Marianna Filandri possiamo anche vedere il rapporto tra
classi sociali e caratteristiche dell’abitazione, in termini di numero di locali per titolo di
godimento dell'abitazione. Come ci aspettavamo, chi sta in affitto è molto più orientato su
mono- e bi-locali. L'affitto di cinque locali o più è ridotto all’8% , e riguarda prevalentemente la
borghesia.
I dati 2008 davano in media gli italiani proprietari al 75%, che è un dato in ulteriore
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crescita, trend costante fino a due anni fa, quando come potete immaginarvi si è bloccato
tutto il meccanismo a causa dell’ultima forte crisi economica.
Come entrano in possesso della proprietà della casa gli italiani? Questo è molto
importante perché mette in connessione non solo la casa come investimento, ma anche come
bene che riflette i rapporti intergenerazionali. Sappiamo quale importanza abbiano le famiglie
d’origine al momento dell’uscita da esse da parte dei membri più giovani, che in Italia, molto
più che all’estero, coincide con la costituzione di nuovi nuclei familiari, bisognosi quindi di
appartamenti di un certo tipo. Per esempio chi appartiene alla borghesia italiana avrà la
possibilità di ricevere la casa come dono dalla generazione precedente, genitori o altri parenti
della famiglia, e quindi userà meno i risparmi. E anche se l’accesso al mutuo è presente, si tratta
di mutui differenti da quelli accesi dalla classe operaia – che tendenzialmente chiede la cifra
totale – e per abitazioni molto diverse.
Un altro aspetto molto studiato nell'accesso alla casa, e una delle variabili che rendono
complicato l'accesso all'abitazione e alla proprietà, è il fatto che per accedere al mutuo
vengano richieste delle garanzie. Le garanzie sono stratificate, diverse secondo la classe
sociale: chi ha genitori con un reddito fisso elevato e/o con delle proprietà, avrà più facilità
d’accesso al mutuo; ma per le classi sociali inferiori tali garanzie sono minori, ad esempio due
genitori che lavorano ma hanno reddito basso, nessuna proprietà e magari vivono in affitto, e
quindi l’accesso al mutuo è molto più difficile, e magari può prevedere un patchwork di
garanzie che coinvolge 3-4 parenti, indebitando diversi nuclei familiari. Pensate, dunque, quali
garanzie potrebbe mai avere un richiedene asilo la cui rete familiare non potrà essere utilizzata
per andare in banca e richiedere un finanziamento. Ora è saltata anche la garanzia della
famiglia per buona parte degli italiani, con la crisi economica che stiamo vivendo. Inoltre, a
partire dagli anni '80, sono stati scardinati una serie di meccanismi legislativi che bloccavano la
crescita del prezzo degli affitti, e questo è stato un primo colpo molto importante al mercato
dell'affitto, che ha spinto all’acquisto, complice un sistema creditizio che aveva molta liquidità
da allocare in quegli anni, e quindi era molto contento di dare i mutui, fatte salve le differenze
nell'accedere al credito.
Ma essere proprietari o in affitto comporta differenze anche sotto molti altri importanti
aspetti. Ad esempio, se guardiamo alla distribuzione geografica delle proprietà, alla
collocazione delle proprietà tra piani alti e bassi, all’età, se così possiamo dire, degli immobili in
cui proprietari e affittuari si distribuiscono, alle condizioni di salubrità generali che conseguono
da tutto ciò, ma anche alle percezioni di degrado, pericolo sociale, ecc., vediamo che la
proprietà in Italia è sinonimo di una generica condizione migliore rispetto all’affitto, ovvero che
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Laboratorio interdisciplinare sul diritto d’asilo
quest’ultimo non è sono disincentivato dalla storia del nostro paese ma anche dall’attuale
situazione che coinvolge e descrive gli appartamenti in affitto, oltreché dalla legislazione, come
abbiamo visto poco sopra.
Se confrontiamo l’Italia con gli altri paesi europei, tali caratteristiche assumono contorni
ben definiti. Ad esempio, nel 2001 a Vienna solamente il 21% dei residenti è proprietario di casa.
In Svizzera, Zurigo ha il 7%, Losanna il 6%, Ginevra il 5%. Guardando invece la Spagna, che per
molti aspetti ci assomiglia, Madrid è all'80%, Barcellona quasi al 70%, Malaga all'82%, Siviglia
all'83%. La Germania ha tassi molto più bassi, con Bonn al 28% che costituisce la più alta delle
città tedesche, Berlino che è famosa come caso internazionale che ha sempre avuto un
mercato dell'affitto straordinario e moltissime case popolari, ha solamente un 11% di proprietà.
La situazione recente ha degli sviluppi in realtà per l'Italia veramente significativi, sono
successe alcune cose che ovviamente i demografi hanno notato, alcuni sociologi e non tutti gli
economisti: la ripresa demografica italiana. L'ultimo censimento, ma anche le analisi che erano
state fatte negli ultimi dieci anni, lo avevano già raccontato, gli italiani erano tornati a crescere
fortemente. In realtà non sono gli italiani che sono tornati a crescere, ma le progressive e
costanti sanatorie italiane, e le ondate migratorie internazionali, ma in pratica ormai stabilizzate,
attraverso il meccanismo delle sanatorie hanno fatto emergere nel nostro paese quei 4.200.000,
a seconda dei dati, di immigrati nel nostro paese, che hanno completamente ribaltato, o che
hanno dato un impulso fortissimo alla nostra popolazione, per cui rispetto al 2001, in dieci anni
abbiamo un 6,4% in più di popolazione nel nostro paese, che è una crescita molto importante,
soprattutto nel caso italiano dove negli ultimi venti anni la popolazione non era cresciuta
praticamente affatto. Fino agli anni Settanta era cresciuta, poi a partire da allora ha avuto dei
blocchi molto importanti. Su una popolazione italiana che ha dei saldi in certi casi addirittura
negativi, cioè di decrescita in certe zone, in particolare nel sud Italia, questa geografia di nuova
popolazione che è arrivata, o è comparsa statisticamente, è una geografia che parla molto. Il
tipo di distribuzione di proprietà e affitto ci dice non solo come stanno le cose, ma anche a
quali soluzioni potranno accedere i nuovi arrivati. Gli stranieri, dunque, nell’impossibilità in molti
casi di accedere alla proprietà, si concentreranno sugli affitti, che però in Italia costituiscono
una risorsa scarsa, e quindi assistiamo ad un aumento dei canoni d’affitto con un
abbassamento della qualità degli appartamenti, ma contemporaneamente anche ad un
ulteriore restringimento del mercato, causato dalla scelta di molti proprietari di non affittare a
stranieri, per non abbassare il valore dell’immobile. Dunque, chi tra gli stranieri riusciva, nel
tempo comprava casa. Ma oggi ci troviamo con gravi problemi, per loro e per il sistema, di
insolvenza dei mutui, che per altro erano concessi sempre più allegramente dalle banche.
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Dunque fragilizzazione, indebolimento, aumento della vulnerabilità per la popolazione straniera,
che si è indebitata molto rapidamente, spesso per case di poco pregio, quindi poco rivendibili,
che hanno ottenuto dei prestiti troppo facili da banche che concedevano l'80% , o addirittura il
100% dell'immobile e che adesso stanno riempiendo quelle liste che vedete sulla stampa, nelle
offerte di vendite di immobili, di atti giudiziari del tribunale di Torino. Adesso una parte di quella
crescita che era stata importante dal puno di vista del bilancio complessivo dello stato, ad
esempio in termini di sostenibilità della grossa coorte di anziani italiani, è crollata o in grossissima
difficoltà. Un'altra trasformazione demografica di cui si parla ancora poco, ma che forse è
ancora più significativa, riguarda l’aumento delle famiglie, che è dovuto ad un insieme
composito di fattori: l’arrivo di famiglie straniere e l’effetto dei ricongiungimenti, ma anche gli
italiani figli del “baby-boom” che sono usciti da famiglie numerose per creare, ciascuno, un
proprio nucleo familiare, e anche il fatto che oggi si esce di casa un po’ prima rispetto a quanto
avveniva dieci anni fa. Si tratta di famiglie molto meno numerose, spesso composte da una sola
persona, che chiedono casa, a cui si è adeguato subito il sistema creditizio che non vedeva
l'ora di concedere altri mutui per indebitare ancora più gente. Quindi questo fenomeno ha
coinvolto un boom di richieste di case, di nuovo localizzate nel centro-nord, composte
soprattutto da immigrati e con famiglie mediamente ridotte di taglia, adesso sono 2,4 membri in
media, e quindi case più piccole.
In tutto questo, il mercato non è stato a guardare, quelli sì che studiavano bene la
demografia italiana, quelli sì che guardavano quello che stava succedendo e non sono stati ad
aspettare tantissimo, in particolare tutti quelli che avevano investimenti da fare in Italia tra gli
anni novanta e gli anni 2000 hanno spostato le loro risorse nel mondo del mattone o
dell'abitazione. Non stiamo parlando delle famiglie che mettevano su casa e quindi si
compravano la casa, ma di banche, assicurazioni, industrie, che invece che mettere su start up
e investire in innovazione, invece che investire in lavoro e creare altre strutture produttive,
invece che qualsiasi altra cosa, formazione, o mille altri tipi di investimento possibile, compreso il
mercato azionario, su cui dopo le bolle degli anni novanta, si sono spaventati tutti, e i grossi
capitali si sono molto ritirati, hanno investito in case. Nell'acquisto di proprietà immobiliari, nella
costruzione di proprietà immobiliari, e chi ha letto il giornale negli ultimi dieci anni avrà visto
emergere la figura dell'immobiliarista. Il numero di persone del grande capitale che ha
cominciato ad investire in questo settore è cresciuto moltissimo, è stata una manna per quel
tipo di investimento, i rendimenti per chi investiva in case sono stati sicuri, negli ultimi vent'anni.
Dal 30% al 300% in media, a seconda di area, tipologia di case.
E dunque sono emerse molte figure di acquirenti, prima assenti, come ad esempio i
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pendolari che lavorano per 4 o 5 giorni a settimana in una grande città e decidono di
acquistare un appartamentino lì, sia per comodità loro sia per futuro investimento, certi di
guadagnare di più così che in qualsiasi altra maniera. E poi le case per domande speculative,
son stati costruiti grandi immobili, gradi investimenti che in certi casi sono adesso quelli che
rimangono vuoti. E creano anche i maggiori scandali economico-finanziari. Questo fenomeno
ha riguardato poco Torino, ma per chi si occupa di Milano, la situazione è palese e
drammatica. Un libro che consiglio è Milano downtown, scritto da un paio di colleghi urbanisti,
che racconta la storia di almeno uno di questi quartieri che è quello di Santa Giulia che è stato
costruito da uno di questi immobiliaristi: Corrado Zunino che poi è finito anche in carcere, e che
appunto è un gigantesco investimento finito molto male.
Perché è stato possibile investire molto nel mattone, costruire molte case? Intanto per
l’enorme quantità di credito che è stato elargito dalle banche, con accordi molto forti tra
capitale finanziario e questo tipo di attività, e con conseguenti speculazioni. E poi per la
situazione strutturale ed economica di molti Comuni italiani, strozzati dai tagli statali e dalla
mancanza di risorse, e spinti alla concessione di terreni non edificabili a questi speculatori,
capaci di far entrare svariati milioni di euro nelle vuote casse comunali. Altro fattore importante
è che la principale agenzia creditizia italiana che ha delle liquidità colossali è la mafia, o le
mafie. Gigantesche quantità di denaro da immettere e l'edilizia è sempre stato il settore
preferito, non solo perché molto redditizio, ma anche perché utile al riciclo di denaro, quindi i
surplus economici delle mafie sono andati in buona misura nel mondo delle case.
Il tema del diritto d’asilo ha come protagonisti degli individui che arrivano in un Paese
come rifugiati e che molte volte stanno un po’ scomodi nel loro status; essi devono affrontare
una serie di problemi, i quali toccano una serie di ambiti che non sono pensati necessariamente
in maniera specifica per loro: il diritto e l’accesso alla casa ne sono un esempio.
Molti richiedenti diritto d’asilo per prima cosa fanno domanda per una casa e per un
lavoro. Per capire come è la situazione della casa bisogna fare alcune riflessioni. Questa
relazione è stata fatta da una serie di persone che studiano il fenomeno dal punto di vista
sociale, culturale.
I rapporti tra classe sociale e abitazione sono comunque strettissimi: la casa rappresenta
un bene per tutti i soggetti sociali.
Una volta che il richiedente asilo otterrà il “foglio”, si confronterà inevitabilmente con il
problema dell’ottenere una casa e di fatto si troverà a interagire con una condizione strutturale,
un insieme di rapporti e un mondo esterno cui qualsiasi cittadino italiano si deve rapportare.
Il modo in cui sociologi, antropologi, geografi, demografi ed economisti studiano e si
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rapportano al problema della casa è sicuramente differente. Per i sociologi la casa rappresenta
un bene scambiato con una somma di denaro, centrale per ogni famiglia e classe sociale.
L’Italia detiene il primato della proprietà dell’abitazione e per gli italiani è molto
importante il suo possesso. Diversamente da altri Paesi europei come Olanda,
il 70% degli
italiani è proprietario di casa e ciò significa che il restante 30% è composto da chi non vuole – e
soprattutto non può - averne accesso. Tutto ciò è dovuto a una sorta di necessità e obbligo di
proteggersi tramite l’acquisto di uno spazio in cui vivere, soprattutto quando si forma una nuova
famiglia (sorta di emancipazione); chi è ai margini di una società naturalmente non può
accedervi.( gli operai sono naturalmente gli ultimi a possedere una casa).
Casa come investimento economico
Casa come rifugio psicologico
Casa come contesto affettivo
Casa come strumento di stabilizzazione sul territorio: il rifugiato la casa l’ha lasciata o la
persa
Casa è un modo in cui classi sociali e famiglie mostrano alla società chi sono e come
vivono. E’ paradossalmente un luogo pubblico, che porta ad una riflessione sociologica e
antropologica nonché architettonica. È cruciale vedere come vengono disegnate le abitazioni
a seconda della destinazione del tipo di famiglia e delle esigenze che comporta.
Per i nostri studi utilizziamo alcune fonti:
Barbagli-Pisati, un lavoro che racconta i tipi di segregazione che ci sono nelle varie città
italiane e presenta un primo quadro sul modo in cui le classi italiane hanno distribuito la propria
presenza sulla città, tenendo conto che l’Italia non è formata da metropoli. Diversamente dalla
Francia, che è ancora società rurale, la crescita urbana ha consentito un accesso alla proprietà
da parte degli italiani sempre in aumento dal 1930 al 2000. Per esempio Torino cresce dal 11 al
62%,e così la maggior parte delle grandi città eccetto Napoli che ha sempre costituito un caso
anomalo: ancora adesso ha gli affitti rappresentano una fetta consistente di sistemazioni.
I tassi di proprietà nelle zone rurali sono più alti rispetto a quelle urbane, mentre l’edilizia
popolare è ovviamente più forte nelle città industrializzate.
Per quanto riguarda la distribuzione delle classi sociali in città, prendendo ad esempio
Torino, Milano e Genova notiamo chiaramente chela borghesia ha maggiore forza contrattuale
in termini di accesso, ma il ceto medio non ha comportamenti tanto diversi e anche per le classi
operaie diventava fondamentale diventare proprietari di abitazioni. Il grosso salto avviene dagli
anni 80 in poi: maggior ricchezza, deregolamentazione di mercati, cessazione delle politiche
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per la casa (si è ristretto il mercato), trasformazione del sistema creditizio con la maggior
concessione di mutui a tassi agevolati, difesa dall’inflazione galoppante e desiderio di mettere
al sicuro risparmi e tfr.
Marianna Filandri racconta invece come sono fatte queste case e che qual è la
differenza nell’arredamento se si è proprietari o affittuari; il secondo ha meno stanze e abitazioni
generalmente più piccole, soprattutto se si tratta di famiglie operaie. La borghesia è
fondamentalmente proprietaria (dati del 2005), affitta solamente il 13%, seguita dal ceto medio
e dal mondo operaio.
La piccola borghesia agricola è massicciamente proprietaria.
Come entrano in possesso della proprietà gli italiani? Le famiglie italiane hanno legami
intergenerazionali che si riflettono sull’acquisto della casa, come la successione della proprietà,
il risparmio dei genitori investito per l’abitazione del figlio, l’accesso al mutuo con garanzia di
familiare con reddito solido.
Tra gli anni ‘80 e ‘90 un meccanismo governativo ha sbloccato gli affitti e dato inizio a un
maggior accesso e a differenti soluzioni abitative: edifici nuovi, incentivi alla ristrutturazione degli
ambienti, maggior localizzazione e salubrità.
Totalmente differente risulta il quadro nel resto dell’Europa: Paesi come Austria e Svizzera
sono quasi totalmente composti da affittuari, mentre la Spagna vanta un gran numero di
proprietari, specialmente se confrontiamo le grandi città; la Germania rappresenta un caso con
molti più affitti e politiche attive più forti. Risulta chiaro come il richiedente asilo trovi più
opportunità a Belino che a Madrid.
Recentemente, in Italia la ripresa demografica,dovuta in realtà alle migrazioni, ha fatto
emergere l’impulso che gli immigrati hanno dato alla nuova generazione in un Paese dove
l’aumento demografico era pari allo zero e ha disegnato una nuova geografia del Paese che
concentra i nuovi arrivati nelle grandi città del Centro-Nord e va ad a incrementare il mercato
degli affitti. Essi risultano subito molto alti con qualità abitative molto basse, così le popolazioni
straniere si sono affrettate a seguire l’esempio degli italiani e a comprare, dando inizio a una
spirale di problemi tra cui l’ insolvenza mutui dovuti alla disoccupazione, ecc...
Negli ultimi vent’anni chi aveva investimenti da fare ha spostato le risorse nel mattone
(banche, assicurazioni, industrie), generando un mercato che ha creato parecchi problemi,
anche ambientali in interi quartieri, costruiti selvaggiamente dagli immobiliaristi e rimasti vuoti
per mancanza di acquirenti. Gli enti pubblici non hanno fermato, ma hanno caldeggiato
questa crescita e le mafie, da canto loro hanno riversato sul mercato edilizio gigantesche
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quantità di denaro.
Il grafico illustra la vendita delle case dal 1975 in poi; la flessione del 2010 è notevole e le
transazioni sono state effettuate a prezzi altissimi, con famiglie che si indebitano, credirti erogati
senza criterio, genitori che fanno da garanti mettendo anche a repentaglio le proprie case per
acquistare quelle dei
figli; chi ha comprato casa negli anni ‘80 ha fatto un investimento
notevole.
RUOLO DEGLI OGGETTI NEL RACCONTARE GLI INDIVIDUI E LE RELAZIONI SOCIALI a partire
dall’arredamento e dal possesso degli oggetti che differenzia le classi e le inserisce in un
contesto. Le case delle generazioni che si susseguono sono diverse e raccontano di vissuti in
contrasto tra loro.
Gli arredamenti raccontano di progetti, di costruzione di qualcosa, di cosa si vuole
diventare; gli oggetti si impongono alle famiglie, se si pensa al televisore: prima è entrato in
casa, poi ne ha preso il sopravvento (effetto retroattivo).
I sociologi hanno intervistato 150 famiglie di quartieri bolognesi e sono entrati in casa loro
per capire cosa vuol dire essere classe media ed essere cresciuti nella scala sociale attraverso
gli oggetti, tramite foto e racconti, come ad esempio le librerie e il loro contenuto, tramite un
tavolo ingombro di carte e libri di un certo livello intellettuale (v. Gramsci), o il modo in cui
vengono esibiti oggetti di varia natura. Il televisore non è più al centro della scena come nelle
famiglie madie di qualche decennio fa. Il disporre oggetti racconta molto di ciò che un
individuo è e vuole apparire al mondo. Alcuni salotti invece sono molto ordinati anche gli
oggetti sono esposti in pareti con razionalità.
Anche la scelta dell’acquisto della casa è importante:mentre all’estero la classe media si
spostava verso le aree meno urbanizzate, in Italia la tendenza era possedere un’abitazione nelle
zone esclusive del centro città.
Inoltre è cambiato nel corso del tempo la composizione del nucleo familiare e quindi le
sue esigenze; mentre la famiglia anni 50 era improntata sulla divisione dei ruoli maschiofemmina, in l’Italia, anche se molto tardivamente, è iniziato un processo di femminilizzazione del
lavoro. I ruoli sono diventati meno distinti e hanno apportato cambiamenti nelle case, che
svolgono funzioni molto diverse: sono più piccole e ci si lavora in due, spesso si lavora da casa
trasformando gli spazi una volta privati e di rappresentanza in spazi pubblici; spadroneggiano gli
strumenti informatici, che hanno soppiantato il televisore e rappresentano anche strumenti di
lavoro L’abitazione non è più solo il regno delle donne.
Se ci si confronta con l’estero, Il mercato dell’affitto è residuale rispetto al mercato del
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privato; sovraffollamento, condizioni disagiate, contratti irregolari sono i problemi con cui si
scontrano i richiedenti asilo, anche se quel tipo di mercato che dominava gli anni 60 è
pressoché scomparso.
Bisogna anche tenere presente che all’interno del gruppo migratorio ci sono soggetti
diversi: alcuni provengono da aree urbane anche molto affollate, altri avevano già iniziato un
processo di urbanizzazione nel loro Paese d’origine, altri ancora provengono da aree
prettamente rurali; inoltre non tutte le società hanno raggiuntolo stesso livello di sviluppo urbano
e di reazione ai cambiamenti sociali; inoltre le differenze culturali tra i richiedenti asilo sono
notevoli e il peggior errore consiste nel considerare la massa migratoria come un tutt’uno e
trattarla di conseguenza.
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Terzo
10 ottobre 2012
Incontro
Titolo
Chi sono i rifugiati e come si producono: status giuridico, processi di
etichettamento e rifugiati come “prodotto” storico-politico
Relatori
Mauro Van Akeen, Cristina Molfetta
Cristina Molfetta: Prima di lasciare la parola a Mauro mi sembra importante darvi qualche
definizioni base su procedura d’asilo – sistema d’accoglienza – tipologie di permessi di soggiorno
Le tappe per presentare ed ottenere la domanda di asilo cominciano in Questura, dove al
richiedente asilo è chiesta la compilazione del modulo c3, che contiene domande sulle sue
generalità e sul motivo per cui è uscito dal proprio paese. Questo modulo viene trasmesso alla
Commissione Territoriale, che, una volta riunita, può accogliere altre informazioni aggiuntive sulla
storia del richiedente, fornite da quest’ultimo. Oltre a ciò in Questura viene effettuato il foto
segnalamento e vengono rilevate le impronte digitali, questo perché il richiedente asilo è di
competenza del primo Stato europeo in cui “ha messo piede” (Accordo Dublino), quindi, nel caso
in cui si spostasse in un altro paese europeo e venisse fermato dalla polizia locale questa
provvederebbe a “rispedirlo” nel primo paese europeo in cui il soggetto è migrato, o meglio, il
primo paese in cui sono state rilevate le sue impronte digitali. Alcune persone possono essere
fermate e se sono prive di documenti, essere portate in un CIE (CENTRO DI IDENTIFICAZIONE ED
ESPULSIONE). Pertanto un richiedente asilo politico può compilare il modulo c3 anche all’interno di
un CIE rimanendo dentro i tempi necessari perché la sua richiesta venga valutata dalla
Commissione Territoriale. La procedura di compilazione del c3 e esamina da parte della
Commissione Territoriale, se si è dentro un CARA (centro accoglienza richiedenti asilo) o un CIE, è
più veloce. Solo dopo la compilazione del C3 il richiedente asilo può entrare in contatto con le
strutture deputate all’elargizione delle misure di accoglienza cui un richiedente asilo può accedere
o proposte a verificare se ci siano posti per lui all’interno dello Sprar. Attraverso l’Ufficio Stranieri, la
Prefettura e gli altri organi deputati alla compilazione del modulo c3 il richiedente asilo segnala la
sua “presenza” ad una delle strutture deputate all’accoglienza di individui come lui. Lo SPRAR
(sistema per richiedenti asilo e rifugiati) accoglie tali richieste di accoglienza; a livello centrale
vengono dichiarati i posti disponibili per quanto concerne le misure di accoglienza da parte dello
SPRAR in tutta Italia. A questo punto si aprono due canali: accoglienza in SPRAR (accoglienza
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decentrata) o in un CARA (Centro di Accoglienza Richiedenti Asilo); quest’ultimo è un luogo non
chiuso come il CIE, ma comunque con delle regole piuttosto rigide di entrata e uscita. Il sistema
centrale potrebbe anche dire che non c’è posto per l’accoglienza di chi ne fa richiesta (sono
infatti disponibili solo 3000 posti in tutta Italia per 6 mesi nello Sprar e 5000 posti teoricamente per 35
giorni nei CARA): in tal caso l’Ufficio Stranieri locale indaga sulla presenza di strutture di
accoglienza diverse rispetto a quelle sopra definite (progetti Sprar o CARA), come, ad esempio,
dormitori, centri di accoglienza temporanei, case
ecc... Nel caso in cui non ci siano posti
disponibili anche in queste strutture, il richiedente incorre nel pericolo di rimanere senza un tetto
sopra la testa. In Questura, dopo aver compilato il modulo c3, viene altresì fissata la data
dell’incontro con la commissione territoriale, deputata alla valutazione dell’accoglienza o del
rifiuto della domanda d’asilo del richiedente. La domanda di richiesta d’asilo politico viene
vagliata da una delle 10 commissioni territoriali presenti in Italia (al momento 13-14 in tutt’Italia, in
seguito all’Emergenza Nord Africa). Dal 2008 ce n’è una anche a Torino. Quando la Commissione
Territoriale si riunisce, al richiedente asilo viene fatto un colloquio nella sua lingua (c’è un mediatore
linguistico), è possibile anche richiedere un colloquio solo con membri del proprio genere, specie
se si è donna e si ha subito violenza precedentemente. Alla persona può essere riconosciuto lo
status di rifugiato politico, si riconosce un effettivo pericolo di persecuzione personale nel paese di
provenienza, quindi gli viene consegnato un permesso di soggiorno della durata di 5 anni: in
questo caso il soggetto ha diritto al ricongiungimento famigliare indipendentemente dal suo
reddito e dalla sua situazione abitativa (almeno teoricamente).
Oppure il richiedente può ottenere la protezione sussidiaria; in questo caso la Commissione
riconosce che il paese di provenienza è in una situazione di instabilità tale da impedire al soggetto
di ritornarvi senza essere sottoposto a una situazione di forte instabilità generale che può arrivare a
mettere in pericolo la sua vita. in questo caso è consentito al richiedente un permesso di soggiorno
della durata di 3 anni, rinnovabile, a patto che dopo i 3 anni permangano le situazioni di instabilità
del paese di provenienza. In questo caso non è riconosciuta una persecuzione personale, quindi
non è consentito automaticamente il ricongiungimento famigliare, non si può dare un nullaosta a
riguardo fino a quando non sono stati raggiunti alcuni livelli economici ed una certa situazione
stabile a livello abitativo. (Stessi criteri dei migranti economici)
Un’altra soluzione è l’ottenimento della protezione umanitaria, prima non concessa direttamente
dalla Commissione ma dalla Questura; a partire dall’ultimo anno essa può essere riconosciuta
dalla Commissione. La Questura può fornire tale tipo di protezione indipendentemente dalla
procedura di acquisizione del diritto d’asilo. E’possibile che al richiedente asilo non venga
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concesso nulla; in questo caso si parla di diniego della richiesta. E’ possibile, allora, un ricorso di
primo grado, di secondo o terzo grado. Nel periodo del ricorso di primo grado, in cui si ha diritto
anche al gratuito patrocinio, (circa 3 mesi) ai richiedenti è concessa la permanenza sul territorio
italiano. Molto frequente è il ricorso di primo grado, meno gli altri due gradi di giudizio a causa
dell’elevato costo da pagare all’avvocato che dovrebbe presentare e difendere il caso. A livello
europeo si intende con il termine protezioni internazionali lo status di rifugiato e la protezione
sussidiari (che in alcuni paesi però contrariamente all’Italia può anche avere la durata di un solo
anno) mentre la protezione umanitaria o temporanea sono procedure nazionali che non
rimandano a normative europee o internazionali
Mauro Van Akeen: Mi presento, sono un antropologo dell’Università di Milano e ho lavorato molto
con rifugiati palestinesi. Vorrei soffermarmi soprattutto sulla riflessione per cui esistono una serie di
“umanità in eccesso”; interessante è leggere la categoria del rifugiato come qualcosa di
artificiale, che concretamente non esistente. Il caso dei rifugiati palestinesi presenta una situazione
in cui lo status del rifugiato si protrae così a lungo, da diventare una vera e propria condizione
politica permanente. In questo caso la situazione che si presenta per i rifugiati palestinesi è di
“liminarità”; essa è relativa soprattutto alla ricerca di un rifugio, ciò significa rimanere in
sospensione, in un vuoto giuridico e storico. Il lavoro da me curato è stato ambientato in Giordania
e in Italia e verte sul tema dell’abitare. Esso è stato condotto con giovani antropologi nel contesto
milanese. Chi è rifugiato in Italia comincia a cercare una collocazione nel luogo ove si è rifugiato. Il
ruolo dell’assistenza può rappresentare un aiuto, un sostegno, ma è spesso anche fonte di
alienazione. Perché ci si può sentire alienati dall’assistenza ricevuta? Perché si diventa da essa
dipendenti e sovente essa opera con un obiettivo di infantilizzazione dell’altro. Guardando alla
radice culturale di questo fenomeno, si osservi il paradosso in cui il rifugiato sente talvolta la
necessità di voler sfuggire dall’assistenza, a causa di un mancato riconoscimento culturale e
sociale e di una non comprensione dell’altro da parte delle agenzie deputate all’assistenza. Nel
caso palestinese, la dipendenza si esplicita nel rimanere una vita in un campo profughi : 4
generazioni di rifugiati palestinesi hanno molto da raccontare circa l’abitare in un campo profughi
e lo sviluppo di fenomeni di dipendenza in esso; tutte circostanze sintetizzabili nell’idea di una vita
di attesa. Per analizzare ciò si deve partire da lontano (Giordania), per poi arrivare ad indagare la
vita in un campo profughi a Milano, a Roma o in un’altra realtà italiana. Nel rapporto delle Nazioni
Unite quando si parla di aiuto nei confronti dei rifugiati palestinese in campi profughi si fa
riferimento all’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency). Da sempre l’uomo fugge,ma da
poco si parla di rifugiati. La costruzione storico-politica dei rifugiati viene analizzata in un bel libro di
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Saskia Sassen, Migranti coloni e rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza Europa. Tutta la
costruzione giuridica europea e l’assistenza relativa a tale umanità in eccesso senza frontiera né
passaporto, nel caso palestinese si esplicita come un’assistenza a “primitivi”, ove l’obiettivo è
sempre stato un intento pedagogico, cioè il tentativo di costruire l’uomo e la famiglia moderna in
una società considerata primitiva. Tale intento era, del resto, reso esplicito dalla Croce rossa
internazionale, che portava avanti l’idea di una “modernizzazione” culturale nel luogo in cui i
rifugiati erano presenti. Le parole chiave dell’UNRWA sono, pertanto, “assistenza” (relief), ma
anche” lavoro” (works),nel senso di affermare un intento modernizzatore a livello culturale e
sociale. E’ intuibile il riferimento a qualcosa da manipolare, non v’è, cioè, la volontà di un aiuto
vero e proprio. Dalla Giordania scappano, a partire dagli anni 70, milioni di persone; tra i profughi
incontrati ricorreva spesso il termine DIWAN, importante istituzione palestinese, vagamente
traducibile con “ospitalità”. Il concetto dell’idea di DIWAN, viene gelosamente custodito nel
tempo dai profughi anche senza un supporto materiale al quale poter appoggiarsi. Tale istituzione
è fatta di ruoli, saperi, relazioni, genealogie politiche ed organizzazioni, cioè di tutto ciò che in 50
anni è stato trascurato dalle Nazioni Unite. Essa può essere vista come un’antica dinamica
presente nel sud del mondo che le istituzioni dell’aiuto europee non riescono a cogliere; insieme al
DIWAN non vengono considerati d’essere “salvati” neppure elementi come i saperi tradizionali
relativi alla coltivazioni della terra,le conoscenze medicali, quelle sociali relative al saper costruire
casa e le istituzioni politiche locali. Si verifica da parte delle organizzazioni deputate all’assistenza e
all’aiuto un mancato riconoscimento più ampio di tutto ciò. Se l’istituzione europea vuole aiutare
occorrerebbe prima conoscere come “gli altri” hanno elaborato delle forme di mutuo aiuto;
occorrerebbe conoscere quali e quanti tipi di famiglia esistono; quali sono le istituzioni sociali
vigenti e cosa è, ad esempio, un Diwan. Esso è un “modo di sedersi”, un modo di stare insieme,
una cultura complessa di forme organizzate dell’aiutarsi o del cooperare, quindi di istituzioni
cooperative.
Come avviene la costruzione della figura del rifugiato? Bisognerebbe capire come ciò avvenga
nelle pratiche burocratiche e giuridiche, ma soprattutto come ci si avvicina alla realtà giuridica del
rifugiato e alle sue pratiche di assistenza. E’ importante sottolineare che si possa acquisire lo status
di rifugiato politico aldilà del fatto che si fugga o meno. Esistono molte persone che sono fuggite in
Italia ma che non cercano lo statuto della protezione, ma si “accontentano” di essere solo
migranti economici. Occorre analizzare, quindi, i canali attraverso cui si costruisce la mobilità;
come il rifugiato venga “riconosciuto” dal punto di vista del vivere quotidiano, e procedere
all’analisi della dipendenza che l’aiuto provoca. L’aiuto/assistenza al rifugiato si basa quindi sul:
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non far leva sulle capacità altrui; sulla necessità dell’essere localizzati e localizzabili sempre e
comunque, in una situazione ove la mobilità è la caratteristica fondamentale del rifugiato, e
rappresenta una risorsa importante per la ricerca di casa, lavoro, etc,. Infine l’aiuto si basa
sull’esigenza di categorizzazioni aldilà delle proprie caratteristiche personali e delle proprie
percezioni di appartenenza; l’attribuzione di tali categorie finisce per astrarre da se stessi. Tutti
siamo categorizzati e categorizzabili. Questo è necessario per esercitare potere sui rifugiati, che
così vengono meglio “controllati”. Il caso palestinese racconta della maggiore e più lunga
assistenza di un gruppo di persone specifico da parte della comunità internazionale. In Egitto si è
creata una condizione di vita tale per cui sembra che i rifugiati abitino in uno stato, pur non
vivendo in uno stato vero e proprio. Ciò si concretizza attraverso la creazione di scuole, case etc in
cui i rifugiati vivono, lavorano e studiano in Siria Libano, Territori occupati e Gaza.
L. Malkki parla di decostruzione dell’idea di rifugiato in Europa. Nei suoi scritti sottolinea l’idea che
l’altro debba essere soggetto ad una qualche modalità di inclusione nel contesto in cui decide di
scappare: chi fugge viene visto ed è letto come una vittima. Per capire la realtà dei rifugiati questo
assunto non ha molto senso: chi scappa non è obbligatoriamente un disperato. Dovremmo
valutare l’eterogeneità dei casi: ci sono casi di fuga dalla comunità, o nella comunità, casi di
donne sole, o di intere famiglie che decidono di intraprendere il percorso migratorio. Si ritiene che
l”altro” che scappa abbia perso cultura, abbia perso tutto, e sia una vittima universale: alla base di
ciò v’è una “metafisica sedentaria”. Fino alla fine dell’800 grandi masse di persone si muovevano in
tutto il mondo, e ciò veniva ritenuto “normale”; oggi, al contrario siamo portati a pensare come
“normale” uno situazione di sedentarietà, quindi il muoversi conferisce un forte senso di “disordine”,
è un fatto illogico, è tendenzialmente un’invasione. Ciò comporta il dimenticarsi del fatto che il
muoversi è sempre stata una caratteristica umana (siamo tutti provenienti da famiglie di migranti).
Il conflitto politico con i nostri stati, per cui i rifugiati vengono letti come degli “imbroglioni”, che
manipolano l’Occidente che li aiuta, è affrontato attraverso l’imposizione, ritenuta legittima dagli
stati europei, di modelli precisi di umanità, di ciò che l’uomo dovrebbe essere secondo un’idea
europea di questo. Ciò comporta la negazione della possibilità di cooperazione con le istituzioni
locali di aiuto, e l’accettazione dei modelli di umanità presenti. L’aiuto umanitario è diventato
spesso un modo per disciplinare i soggetti nella quotidianità ed anche un modo di pensare un
intervento sull’“altro”. Il rifugiato diventa una vittima universale ma anche particolare, senza cultura
e senza risorse utilizzabili e senza possibilità di riconoscimento, se non quello giuridico. Quando si
parla di rifugiati si parla di noi, della nostra capacità di categorizzare e di pensare all’altro, più che
dell’altro nello specifico, e della possibilità di un confronto culturale. Se scappare è patologico,
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diventa un nodo in cui si perde tutto, è evidente che si ha la presunzione di sapere di cosa l’altro
ha bisogno e di educarlo, una volta arrivato qui. Vi è un’inesistente “relazione”, se si considera che
essa debba darsi a partire da una molteplicità di linguaggi culturali. Il rifugiato non è un bambino
da educare e accompagnare, invece vediamo che questa imposizione prevale in maniera
pesante nei centri di accoglienza. La grossa agenzia che si occupa dell’assistenza dei palestinesi
(l’UNWRA) ha avuto un ruolo fondamentale a tale proposito. Vi sono alcuni esempi di costruzione
conflittuale dell’altro. Spesso non si viene riconosciuti come rifugiati veri e propri, alcuni palestinesi
sono ricchi e si muovono liberamente per il Medio oriente. Lo status del rifugiato, nel caso
palestinese, è ereditario, se l’uomo sposa una donna che non ha lo status, i figli lo erediteranno,
quindi lo status ha una discendenza patrilineare. Se, al contrario, una donna rifugiata sposa un non
rifugiato il figlio non lo sarà. La cosa assurda è che tale sistema di discendenza patrilineare è stato
deciso non dai palestinesi, bensì dalle Nazioni Unite che, importando una regola tipicamente
occidentale, impongono, a partire dagli anni ’50, che i figli dei rifugiati palestinesi dovessero
acquisire l’eredità genealogica dal padre e non dalla madre. Ciò ha avuto notevoli influenze sulle
politiche matrimoniali e sulla costruzione, quindi, delle politiche famigliari. Diveniva centrale
assicurarsi che il partner scelto godesse dello status di rifugiato. Si trattava di un’impostazione del
tutto etnocentrica, una proiezione della nostra idea di uomo, donna e
famiglia, un modello culturale coloniale di famiglia a scapito di quello locale del rifugiato
palestinese. Il modello di famiglia imposto era di tipo coniugale, imponeva modelli di gestione di
abitazioni, ad esempio le unità abitative realizzate nei campi profughi negli anni ‘60 e sono
costituite da 2 stanze, cucina e sala da letto. Trovandosi ad abitare simili case, i rifugiati
abbattevano il muro divisorio tra le due stanze, al fine della realizzazione del succitato DIWAN,
luogo dell’accoglienza, non contemplato dal nostro modello abitativo, ma fondamentale per i
palestinesi. Il loro modello di famiglia, infatti, non è affatto coniugale, bensì costituito da persone
che entrano e escono da una casa, di cui si fa fatica ad individuare il proprietario, i cui legami di
parentela non si capiscono bene…Il modello di aiuto istituzionale era giocato sul fatto che i rifugiati
palestinesi cui si concedeva l’aiuto avrebbero dovuto costituirsi in famiglie coniugali, ma di fatto
tale modello non poteva affatto essere rispettato perché non introiettato nei soggetti cui era
concesso l’aiuto in questione. Viene fuori il mancato riconoscimento dell’altro e dei suoi modelli
culturali e delle sue istituzioni sociali e famigliari. Negli anni ’70 l’idea è quella di effettuare
un’operazione di assimilazione lavorativa del rifugiato palestinese che doveva essere trasformato in
agricoltore, pertanto non si parla più di rifugiati, ma di agricoltori. Questo è un altro modo di non
riconoscere e di categorizzare il rifugiato, questa volta dal punto di vista lavorativo. Si tratta ancora
una volta di processi di etichettamento dell’altro attraverso le categorie di una generale
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omologazione, con l’obiettivo finale di imporre i propri modelli di sviluppo e di umanità.
Cos’è un Diwan?La modalità più intensiva è quella di sedersi. E’ un modo molto difficile di sedersi,
diffuso in molti paesi del Medio Oriente, è la stanza degli ospiti, è un investimento economico,
politico e di tempo nelle relazioni definite famigliari attraverso il dedicare agli altri il ”salam”, il
saluto.
Il sedersi in questo contesto è giocato sulle gerarchie, sui posti, sul riconoscimento dell’altro e del
suo status. Il sedersi perciò non è fine a se stesso ma significa prendere posizione nei confronti
dell’altro. Possiamo riconoscere tre fasi principali, inizialmente ci si dedica al “salam” (saluto), in
questo modo si saluta tutto il lignaggio a cui appartiene l’altro.
Successivamente troviamo l’offerta, dipende dall’ora della giornata in cui ci si trova, è un offerta
senza invito, riprende la concezione qui fondamentale del ‘si abita perché si ospita’. Il Diwan
nasce anche come istituzione per riconoscere chi era fuggitivo, chi andava via. Era una forma di
aiuto e di controllo per capire se le persone in fuga potevano essere amici o meno.
Dopo l’offerta si ha la fase della parola: qui entrano in merito aspetti politici, si parla di matrimoni,
dei bisogni in un contesto di non protezione, di rifugio. Il Diwan lo ritroviamo anche in contesti non
di origine. In questo contesto un altro elemento importante è costituito dalla vicinanza di sangue, si
tratta di un linguaggio parentale, di un implicito potersi fidare in situazione di bisogno, è reciprocità
e necessità di scambio reciproco. Si ha perciò una rete di solidarietà ampia. In un contesto di
bisogno è fondamentale ricreare questa rete di aiuto reciproco, di fiducia nel prossimo, di
relazione, è perciò fondamentale la presenza del Diwan e di cosa ad esso sta intorno.
All’interno di questa istituzione le persone non si sentono infantilizzate come avviene invece nei
centri di accoglienza. I centri di accoglienza sono caratterizzati da una forte pretesa di
localizzazione delle persone in questione, è un sistema che si basa sull’ipercontrollo che a volte
causa l’effetto contrario e porta le persone a manifestare il bisogno e la volontà di avere spazi e
momenti propri. Questa naturale necessità si concretizza nel rifiuto di alcune norme da parte dei
rifugiati che a loro volta intrappolati in questo circolo vizioso vengono categorizzati come
imbroglioni o come persone che rifiutano regole e aiuti. Molti centri di accoglienza vengono
organizzati sulla base di una divisione di genere: centri dediti all’accoglienza di soli uomini e centri
dediti all’accoglienza di donne, e di donne con bambini. Questa artificiosa suddivisione viene
giustamente vista e vissuta come un’assurdità da parte delle persone in stato di bisogno.
Vi voglio fare un esempio di una cosa successa all’interno di un centro di accoglienza femminile,
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banale ma significativa. Viene acquistato un divano nuovo per l’ingresso di una struttura dedita
all’accoglienza ma le donne che vi abitano vengono dopo poco accusate di averlo rovinato per
la mancanza di conoscenza di regole ( sul come sedersi) comportamentali e per l’incuranza di tale
arredo nuovo. Le donne in questione, di origine somala e eritrea sono state accusate di non sapersi
sedere. L’elemento sottovalutato ma centrale in questo caso è di nuovo il sedersi. Il sedersi come
aspetto culturale. Il fattore che viene sottovalutato è che l’accoglienza per le persone non è
affatto data da un divano nuovo, ma bensì da altri aspetti meno materiali.
In questi centri di accoglienza c’è un’infantilizzazione delle donne, dei loro modi di vivere, di agire.
Non hanno la libertà di sentire proprio il luogo in cui si trovano, non possono ospitare nessuno e
tanto meno non hanno il diritto di personalizzare la stanza in cui dormono. Sono assoggettate a
regole a cui non sono mai state abituate a sottostare. Le persone vengono così spersonalizzate,
sottomesse ad un processo di alienazione, alienazione che riguarda la propria intimità e la propria
sicurezza personale. Bisogna inoltre tenere conto che queste regole che non permettono la
mobilità delle persone che vivono nei centri di accoglienza sono in contrasto con la naturale
necessità dell’uomo di doversi muovere anche solo per raggiungere il posto di lavoro. Alla base di
tutto ciò c’è una logica che non permette nessun tipo di autonomia e mobilità, si tratta di un
processo che con il passare del tempo rischia di danneggiare le persone rendendole dipendenti
dal sistema stesso. E’un conflitto tra mobilità e immobilità. Si sente la necessità di fuggire alla ricerca
di autonomia, si ricerca la visibilità, si fugge anche dall’assistenza. La ricerca
dell’autonomia è centrale. C’è anche una forte costruzione di genere alla base del pensiero dei
progetti di accoglienza, nello specifico caso di donne con a carico dei bambini, si scorge l’idea e
la volontà di ricreare un modello di madre moderno e tipicamente occidentale, idea che richiama
la concezione dominante durante il periodo coloniale e che presuppone l’inadeguatezza
dell’essere madre delle donne in questione. E’ facile scorgere che purtroppo così facendo si
mettono in atto molteplici stereotipi.
Dibattito successivo all’intervento di Van Akeen: La prima questione posta riguarda il concetto
di”etichetta” e l’uso che se ne fa in antropologia, etichetta vista in maniera negativa perché a
tratti carica di stereotipi, però a volte in ambito antropologico utile per l’analisi di alcune
categorie. Ci si chiede se l’analisi di ogni singolo caso senza l’uso di generalizzazioni possa essere
una soluzione. Van Akeen: A partire dall’insegnamento di una storia di 50 anni di aiuto nel sud del
mondo e attualmente di aiuto diretto a persone provenienti dalle medesime zone ma attuato sul
nostro territorio, è importante capire e vedere la continuità delle relazioni istituzionali e tenere
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conto che queste spesso si traducono nell’opposto,ossia in relazioni di violenza. Non succede
sempre e ovunque, ma è da tenere in considerazione. Bisogna partire da ciò che noi stessi
mettiamo come nostra cultura, tenere in considerazione che siamo davanti ad eterogeneità e che
certe categorie sono più potenti di altre.
L’asimmetria tra alcune categorie a volte si può tradurre in un rapporto di potere.
La seconda questione posta è una riflessione e un parallelismo tra contesti diversi:
Se si pensa alla nostra società degli anni ‘50 e agli annessi modi di vivere si possono trovare
similitudini con il funzionamento e la struttura presente nel Diwan, e allora ci si chiede come
possiamo far così fatica a comprendere l’alterità che a tratti non si discosta così tanto dalla nostra
cultura. Si deve riflettere sulle varie difficoltà che stanno alla base del comprendere le diversità
culturali. Questa difficoltà nasce spesso dalla prevalenza da un lato o dall’altro di rapporti di
potere. Inoltre c’è da tenere in considerazione l’importanza che ha assunto il Diwan nel contesto di
fuga, nel contesto di profondo cambiamento e di bisogno. La non accettazione dell’altro è
dovuto alla chiusura, al fatto che la mobilità venga vista da una popolazione che risulta essere
sedentaria e poco cosmopolita come elemento da esaltare o come qualcosa di patologico.
Mobilità che per altro caratterizza ogni singola persona che si viene a trovare nella condizione di
rifugiato.
La questione successiva è incentrata sulla condizione del rifugiato palestinese e su come vive la
condizione di rifugiato in quanto la sua situazione risulta aggravata dal fatto che non abbia uno
stato alle spalle. Per rispondere a tale problematica l’attenzione viene posta non sul rifugiato
palestinese in particolare ma sulla condizione generale del rifugiato. L’accento viene posto sul
fatto che quando le persone scappano rispetto ad una crisi lunga quel paese non ha una
capacità contrattuale rispetto a come vengono inserite le persone nella comunità internazionale e
non è neppure prevista una contrattazione. Il potere contrattuale e di intervento dello stato di
appartenenza è quasi nullo, c’è una maggiore contrattazione con lo stato che ospita. Entrando
nel particolare caso dei palestinesi si può dire che l’aiuto umanitario è diventato una leva politica
per non risolvere le questioni.
Durante questo intervento viene messo in luce un altro aspetto molto importante che riguarda
un’altra mancanza da parte dei vari centri di accoglienza, ossia la principale e quasi assoluta
preoccupazione di prendersi cura del rifugiato non tanto come persona quanto come ’corpo’
dimenticandosi di tutti gli altri bisogni che fanno parte di un individuo.
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Quarto
16 ottobre 2012
Incontro
Titolo
Le azioni dell’occidente e le sue retoriche: convenzioni internazionali ed
europee, regolamento Dublino, agenzia Frontex e respingimenti in mare
Relatori
Maurizio Veglio, Urlich Stage, Silvia Pescivolo, Mirtha Sozzi
Maurizio Veglio: Essere avvocati e lavorare in materia di immigrazione e in particolare con la
materia dell’asilo politico è una posizione che da obiettivamente una serie di privilegi . Perché
significa poter stare nel chiuso della stanza in cui le persone, che sono portatrici di storie di una
particolare rilevanza, si espongono, le mettono sul tavolo, le condividono. Questa è un’esperienza
assolutamente entusiasmante dal punto di vista degli operatori e che credo molti di voi abbiano
già avuto modo di sperimentare. Abbiamo parecchie cose che vogliamo dirvi ma non abbiamo
moltissimo tempo, quindi cercheremo di essere estremamente sintetici. Abbiamo pensato che una
prima parte potrebbe essere opportunamente dedicata alla prospettiva internazionale del diritto
di
asilo, perché
tendenzialmente
abbiamo riscontrato una inclinazione
eccessivamente
ombelicale, se mi passate l’espressione, in Italia a essere poco inclini a considerarci parte di un
sistema normativo comunitario. Come sapete l’Italia è stato membro della Comunità Europea,
questo significa che una serie di materie sono devolute per competenza agli organismi comunitari.
L’immigrazione e in particolare anche la materia del diritto d’asilo è una di queste materie. Quindi
non c’è un’autonomia legislativa nazionale ma c’è una gerarchia delle istituzioni comunitarie che
legiferano attraverso strumenti specifici che sono regolamenti e direttive in particolare, nella prassi
direi quasi sempre direttive, che sono strumenti normativi che vincolano gli stati membri. Nel
momento in cui il legislatore nazionale decide di legiferare sulla specifica materia di immigrazione
e in particolare sulla materia dell’asilo non ha una facoltà di movimento totale perché è vincolato
quantomeno dal raggiungimento degli obiettivi che le direttive comunitarie fissano. In questo
momento (come diceva precedentemente Cristina), la disciplina dell’asilo a livello nazionale è
sostanzialmente frutto del recepimento di due direttive comunitarie che dopo vedremo nel
dettaglio. Per cui ricordatevi sempre che qualunque decisione di tipo amministrativo e giudiziario
deve sempre rispettare, non solo la normativa nazionale per come è scritta e come è recepita,
ma anche e soprattutto la normativa sovranazionale, in particolare quella comunitaria.
Prima di lasciare la parola a Ulrich per la presentazione sull’ambito internazionale, solo due
informazioni per dare idea della materia di cui stiamo parlando. Tanto per avere un riferimento
numerico e capire la portata del fenomeno. Definire numericamente l’universo dei rifugiati è un
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tentativo destinato al fallimento. Il rifugio, cioè
la richiesta o la ricerca di protezione, è un
meccanismo, una dinamica in continua evoluzione. È un vulcano che continuamente erutta
nuova sostanza. Fare una fotografia di questo fenomeno è pressoché impossibile e è destinata a
essere superata nell’istante immediatamente successivo a quello nel quale la fotografia viene
fatta. Ovviamente esistono dati convenzionali, si misurano le domande di asilo che vengono
presentate nel corso di un anno solare e si dice: quest’anno le domande di asilo sono state 10, 15,
20, 25. Naturalmente questo non significa che i richiedenti asilo siano 10, 15,20, 25. Significa che il
sistema amministrativo burocratico istituzionale ha recepito quel dato numero. Non significa che a
quel dato numero corrisponde un identico numero di persone che sono nella condizione di poter
ottenere il riconoscimento di questa forma di protezione. Utilizzando il 2011 come punto di
riferimento vediamo che l’Italia si colloca alla terza posizione nei Paesi Comunitari con numeri non
così distanti da quelli dei primi due Paesi: Francia e Germania. Non lasciatevi trarre in inganno
perché il 2011 non è un anno ordinario, il 2011 è l’anno dell’emergenza nord-africa, credo che tutti
sappiate cosa è successo l’anno scorso, 25000 circa persone sono arrivate dalla Tunisia,
leggermente meno dalla Libia. Nel primo caso quasi tutti cittadini tunisini, nel secondo caso
praticamente nessun cittadino libico ma quasi tutti cittadini centro africani o asiatici, parte dei
quali ha presentato la domanda di asilo politico. Il dato è agevolmente riscontrabile se guardiamo
il trend dei 10 anni in Italia. La cifra raramente supera le 25.000 richieste, eccezione fatta per il 2008,
nel 2009/2010 il dato è all’apparenza sorprendentemente contenuto. Non è irrilevante ricordare
che il 2008 e 2009 sono gli anni della politica dei respingimenti in mare. Politica di particolare
restrizione che le autorità italiane hanno attuato nel corso del biennio e per la quale peraltro vi
sono diverse condanne, che sono state emesse da organismi internazionali nei confronti del
governo italiano. Preciso che questi sono dati del ministero dell’interno che si riferiscono alle
decisioni delle commissioni territoriali nazionali. Velocissima premessa, l’organismo amministrativo
che in prima istanza è competente sulla decisione di richiesta di protezione è appunto la
commissione territoriale. In Italia ce ne sono dieci, più una centrale nazionale a Roma. Il dato è
interessante perché, al di là dell’aspetto freddamente numerico, si può notare come nel corso
degli anni si sia invertito il dato relativo ai riconoscimenti delle protezioni sussidiarie e umanitarie.
Come vedete, nel 2008 e 2009 la preferenza veniva accordata ai riconoscimenti delle protezioni
sussidiarie, forma di protezione intermedia più qualificata rispetto a quella umanitaria. Nel 2010 si
verifica un’inversione, le ragioni dietro questa scelta non sono di agevole lettura ma credo che al
termine di questo incontro forse qualche spunto sarà possibile averlo. Ultimo dato, nel dettaglio: il
2011, è un anno particolare, moltissime domande sono presentate da cittadini che sono arrivati in
Italia dalla Libia, moltissimi di Paesi africani ,in particolare Nigeria Tunisia e Ghana. Il dato relativo ai
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respingimenti, cioè ai dinieghi, è un dato molto importante si arriva a dirittura al 70%. 7 domande su
10 vengono respinte. In sette casi su dieci le commissioni ritengono che i casi presentati non
soddisfino i requisiti di legge per ottenere alcuna forma di protezione. Il perché di questo dato e la
lettura di questo dato credo sarà più agevole alla fine di questa chiacchierata.
Ulrich Stege: Vorrei fare un intervento più tecnico sul diritto internazionale europeo, perché penso
sia importante capirne bene il funzionamento, così come averne tutti i riferimenti a portata di
mano da utilizzare nei vostri vari contesti lavorativi. Parlerò dei diversi contesti che abbiamo nel
diritto di asilo, il quale ha forzatamente una dimensione internazionale poiché il richiedente asilo
proviene appunto dall’esterno del Paese in cui fa la domanda d’asilo. Nel diritto nazionale vi è
un’influenza molto importante del diritto internazionale europeo. Abbiamo delle convenzioni
internazionali che si applicano su questi casi. Vorrei iniziare con la Convenzione di Ginevra relativa
allo status del rifugiato. Questa è proprio la base per tutti i lavori sul contesto del diritto di asilo.
Abbiamo anche una convenzione internazionale, tuttavia non molto utilizzata, contro la tortura.
Nella convenzione di Ginevra troviamo la definizione fondamentale di rifugiato. Ne vorrei qui
evidenziare alcuni punti cruciali, abbiamo: “(1) giustificato timore di essere perseguitato (2) per la
sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo
sociale o le sue opinioni politiche , (3) si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e (4)
non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato…”. Questo per
dimostrarvi che è proprio la base e potete trovare diversi libri solo su questa definizione, che
confrontano ogni parte della definizioni con la giurisprudenza di ogni Paese. Questo per voi deve
essere un punto di partenza. Questa convenzione di Ginevra è una convenzione internazionale,
questo significa che c’è ed è stata firmata da diversi Paesi e poi vi è stata la ratificazione di altri
singoli Paesi. Solo nel momento in cui un tot di Paesi la firmano questa entra in vigore. Quindi ogni
convenzione che trovate dovete sempre verificare che sia stata ratificata dall’Italia, poiché ce ne
sono diverse sui diritti umani che non sono state ratificate, dunque non applicabili direttamente nel
contesto nazionale. Qui troviamo un altro provvedimento internazionale, ma non al 100%, perché
riguarda il consiglio d’Europa. Il consiglio d’Europa, che non va confuso con il Consiglio dell’Unione
Europea è un’istituzione con 47 Paesi membri (tra cui Russia e Turchia), che ha sede a Strasburgo e
non ha legami con l’Unione Europea, nonostante il nome. Questo è importante da sapere perché,
proprio per tale motivo, questa convenzione ha bisogno di una ratificazione da parte dei vari Stati
che sono 47 e non i 28 dell’Unione Europea. Entriamo nel contesto dell’Unione Europea, che è più il
nostro contesto quotidiano. Qui abbiamo diversi strumenti giuridici fondamentali come il trattato sul
funzionamento dell’Unione Europea e dei protocolli sul diritto d’asilo specificamente e la carta dei
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diritti fondamentali dell’Unione Europea che è stata ratificata a Nizza 12 anni fa e che è stata
incorporata dal trattato di Lisbona e ora è anche in vigore giuridicamente. Questi testi sono il
riferimento e danno la competenza all’Unione Europea per legiferare attraverso le direttive o
regolamenti nell’ambito del diritto d’asilo. Abbiamo anche la Corte della Comunità Europea a
Lussemburgo che è molto importante, per noi giuristi è importante per poter attaccare alcune
decisioni non in linea con i diversi contesti internazionali.
Adesso entriamo proprio nel contesto giuridico, qual è la differenza tra direttiva e regolamento a
livello europeo? Un regolamento è un testo giuridico che è adottato nel contesto europeo dal
parlamento europeo e dal consiglio dell’Unione Europea. È un testo che vale immediatamente in
tutti i contesti nazionali, una direttiva invece è sempre da incorporare nel contesto nazionale, deve
essere trasformata in una legge nazionale. Di solito c’è un certo lasso di tempo in cui questa può
essere incorporata. Ma non è automaticamente applicabile, a differenza del regolamento.
Abbiamo una direttiva per esempio che ha una proiezione temporale. Quando c’è stata
l’emergenza nord-Africa relativa alla Tunisia, Maroni ha fatto appello a questa direttiva,
dichiarando che l’Italia era al massimo della possibilità di accoglienza di rifugiati dal nord Africa, e
ha chiamato gli altri Paesi europei alla solidarietà. La Francia e la Germania
che stavano
accogliendo numeri molto più alti di rifugiati, come i dati hanno dimostrato, non hanno ritenuto il
caso di chiamare la solidarietà di altri Paesi. Personalmente penso che sarebbe molto più efficace
ma in realtà non è stata accolta e mai utilizzata questa direttiva. Questa è una direttiva sulle
norme minime relative all’accoglienza. L’idea dell’Unione Europea è quella di fare un continente
con un sistema di asilo comune, affinché non ci siano alcuni Paesi dove il diritto di asilo è
riconosciuto quasi nel 100% dei casi e in altri quasi mai. Quindi questo per far si che tutti non si
dirigano verso i Paesi dove è più facile ottenere il riconoscimento.
Un provvedimento molto importante per noi giuridici, la direttiva sulla protezione internazionale
che da per la prima volta in alcuni Paesi, come è stato per l’ Italia, la possibilità di dare una
protezione sussidiaria. L’anno scorso è stata adottata un’altra direttiva che dovrà essere ratificata
a livello nazionale entro il 2013. A partire dall’anno prossimo avremo una nuova direttiva su questo
punto.
Un altro elemento importante è il regolamento Dublino che prevede che il rifugiato sia di
competenza del primo Stato dove ha lasciato le impronte e non dei Paesi in cui le persone si
recano successivamente e dove fanno richiesta di asilo. Questo è stato molto criticato e poi anche
modificato dalla giurisprudenza dalla Corte dei Diritti dell’Uomo e della corte dell’Unione Europea.
Perché per esempio abbiamo casi in Germania dove i tribunali hanno dichiarato che un
respingimento all’Italia non è più possibile perché i centri di accoglienza per i richiedenti asilo
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rappresentano casi di trattamenti inumani e quindi non è più possibile rimandarli. Mentre prima non
c’era un controllo sulle effettive condizioni.
Frontex è un’agenzia europea, è un aiuto per l’Unione Europea. È un’agenzia che deve aiutare la
cooperazione operativa alle frontiere esterne. In realtà fa molte cose, ha sede a Varsavia, fa
cooperazione tra diversi Paesi alla frontiera (ad esempio a Lampedusa). Fa formazione, fa ricerca
sui diversi rischi alla frontiera, aiuta i diversi Paesi, adesso anche tristemente in Grecia, per la
costruzione dei muri. Da assistenza tecnica operativa e infine, molto criticata da ong e
associazioni, aiutano per fare operazioni di rimpatrio affittando aerei.
Maurizio Veglio
Cercherò di sintetizzare al massimo una vicenda che ho avuto modo di seguire come avvocato
due anni fa e che vorrei utilizzare come vicenda paradigmatica perché, sfortunatamente per la
protagonista, in sé è riuscita a riassumere tutti gli sviluppi di una vicenda legata all’asilo politico in
Italia. Sinteticamente il fatto. Stiamo parlando di una giovane ragazza congolese che, all’esito di
una vicenda poco chiara nel suo Paese (Repubblica del Congo), parte dal suo Paese in aereo
con un visto, fa uno scalo a Casablanca, arriva a Fiumicino dove viene accolta da un
connazionale, con il quale si reca in macchina fino a Milano, dormono una notte in hotel e il giorno
prendono un treno diretto in Francia.
Alla frontiera, credo a Mentone, vengono fermati, la persona che accompagna la ragazza ha un
permesso di soggiorno che ha il nome della ragazza ma non la sua foto. La polizia chiede di
replicare la firma in calce al documento. Comparando le due firme gli operanti si rendono conto
che non sono firme effettuate dalla stessa persona. A quel punto la ragazza viene portata per
accertamenti presso la questura di Torino e viene adottato un provvedimento di espulsione. È il 20
maggio 2010. Insieme all’espulsione, la questura dispone anche il trattenimento della ragazza.
Come forse sapete, un provvedimento di espulsione viene ordinariamente adottato dal prefetto e
eseguito dal questore. Tra le modalità esecutive di un decreto di espulsione, il questore ha una
gamma di scelte, all’epoca dei fatti le scelte andavano dall’accompagnamento immediato, che
era una modalità esecutiva praticamente mai verificatasi nella realtà, il trattenimento presso il cie
o, in via residuale, l’ordine di allontanamento.
Nel nostro caso la questura di Torino dispone il trattenimento, evidentemente ai fini dell’esecuzione
dell’espulsione. Ogni trattenimento, per essere validamente disposto e mantenuto, deve essere
convalidato dall’autorità giudiziaria. Come forse sapete, il trattenimento è una misura che,
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secondo la giurisprudenza della corte costituzionale, incide sulla libertà personale, limita il bene
primario dell’essere umano. Tale tipo di limitazione non può essere validamente disposto senza il
vaglio dell’autorità giudiziaria. Vaglio che deve intervenire in modo estremamente rapido: 48 ore
per la comunicazione dell’ adozione del provvedimento da parte della questura e 48 ore da parte
dell’autorità giudiziaria per convalidare il provvedimento stesso. Decorso il termine di 4 giorno
senza che l’autorità giudiziaria abbia convalidato, lo stesso decade e quindi la persona deve
essere rimessa in libertà.
Nel nostro caso il giudice di pace, che è l’autorità giudiziaria competente alla convalida,
convalida il trattenimento. Nel corso dell’udienza la ragazza fa presente che il suo percorso di
migrazione non è di tipo economico ma è un percorso di richiesta di protezione, in quanto alla
base della sua partenza vi sarebbero ragioni legate a una serie di vessazioni e violenze subite dalla
famiglia e in particolare dalla ragazza stessa. A fronte di queste dichiarazione il giudice di pace
convalida comunque il trattenimento ma viene verbalizzato, nel verbale di udienza, che la
ragazza intende chiedere
asilo politico, protezione internazionale alle autorità italiane.
Riagganciandomi alla questione di Dublino che veniva precedentemente menzionata, emergerà
poi successivamente che la ragazza intendeva recarsi in Francia e infatti veniva fermata alla
frontiera. Questo perché oltre che a parlare francese la ragazza aveva dei parenti in Francia e la
Francia era il Paese nella quale la ragazza avrebbe voluto presentare domanda di protezione
internazionale. La scelta del Paese in cui presentare domanda di protezione internazionale non è
rimessa ai singoli. La Convenzione Dublino di cui veniva precedentemente illustrata la natura e le
criticità, prevede una lista di criteri gerarchici che determinano qual è il Paese competente a
decidere su una domanda di protezione internazionale. Stringendo all’osso, il primo Paese nel
quale vi sono impronte, fotosegnalazione e quindi traccia del passaggio di una persona, è il Paese
nel quale la domanda deve essere trattata. Una volta ristretta al CIE la ragazza finalmente
presenta la domanda di protezione internazionale e viene istruita una pratica trasmessa per
competenza alla commissione territoriale di Torino. La commissione, come prima accennavo, è
l’organismo di prima istanza di natura amministrativa, insito all’interno del ministero dell’interno, che
ha competenza per le domande di protezione internazionale. Viene fissata l’audizione, la ragazza
viene sentita e a seguito dell’audizione, la domanda di protezione viene respinta. Il rifiuto della
domanda di protezione ha una conseguenza molto importante: la legge prevede infatti che ogni
richiedente asilo che avanza la propria domanda ha diritto di soggiornare nel Paese fino all’esito
della stessa. Si tratta di una garanzia fondamentale volta a tutelare le persone che chiedono la
protezione, prima della decisione dell’organo amministrativo sulla stessa. La legge di recepimento
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della direttiva europea prevede un ulteriore garanzia, a seguito della notifica del provvedimento
con cui la commissione rifiuta la domanda di protezione, la persona viene invitata ad allontanarsi
dal territorio nazionale. Contestualmente però alla stessa vengono concessi 30 giorni per proporre
ricorso contro il provvedimento negativo. La legge prevede che fino al decorso di questi 30 giorni
la persona non può essere allontanata, questo significa che la persona per questo periodo ha
ancora diritto di soggiornare regolarmente. Se immaginiamo di tirare una riga tra regolarità e
irregolarità del soggiorno, vedremo come è assolutamente veloce, facile e a volte anche
impreventivabile scivolare dall’una all’altra posizione in seguito a meccanismi di tipo normativo. Al
momento della presentazione in Italia la ragazza è irregolare e quindi quando viene fermata
sprovvista di documenti viene emesso nei suoi confronti un decreto di espulsione. A seguito della
presentazione della domanda di protezione internazionale la ragazza ha diritto di soggiornare in
Italia fino all’esito della stessa e rientra quindi nell’ambito della regolarità del soggiorno
quantomeno fino alla decisione. Abbiamo però visto che la decisione è negativa, ordinariamente
il termine per proporre ricorso è di 30 giorni e in questo mese la persona non può essere espulsa.
Però siamo in una condizione di trattenimento, la persona ha a proprio carico un decreto di
espulsione e il conseguente decreto di trattenimento presso il CIE. La legge prevede che se la
persona è trattenuta presso il CIE il termine non è di 30 giorni ma di soli 15 giorni e soprattutto che in
questi 15 giorni la persona può essere allontanata. Quindi a seguito della notifica del
provvedimento negativo, la ragazza è nuovamente irregolare e la stessa può essere regolarmente
espulsa. Inoltre, poter “essere allontanati” in termini generali ha un peso diverso rispetto all’ipotesi di
poter essere allontanati mentre si è trattenuti presso un CIE, il quale è un istituto unicamente
finalizzato alla identificazione e espulsione degli stranieri. È evidente che, nel momento in cui la
persona è trattenuta presso il CIE, le possibilità di essere espulsa sono molto più alte rispetto a una
persona in condizioni di libertà. A questo punto, cosa bisogna fare contro il provvedimento
negativo della commissione? Ricorso presso il tribunale ordinario, e non amministrativo, perché il
giudice ordinario è il giudice dei diritti soggettivi. Lo stato di rifugiato, la protezione sussidiaria, la
protezione umanitaria sono forme associate al diritto soggettivo, cioè a diritti che sono immanenti
nella persona. Tenete presente che quando un giudice riconosce che sussistono i presupposti per
una forma di protezione, non concede la protezione, ma riconosce l’esistenza di uno stato
soggettivo, cioè accerta e dichiara che la protezione è un rifugiato. Non lo trasforma in rifugiato
ma lo riconosce. Ora, il ricorso è pendente ma la persona è ancora irregolare. Cosa posso fare per
tutelare la persona dal rischio di essere espulsa? Il ricorso è stato presentato, ma in questo caso
essendo trattenuta presso il CIE, il ricorso non ha un effetto immediatamente sospensivo del
decreto di espulsione. Quindi è ancora valido e operativo e può essere portato a compimento. La
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legge mi riconosce la possibilità di richiedere al tribunale di sospendere temporaneamente
l’esecuzione del decreto di espulsione, quantomeno fino alla fine del primo grado, ovvero alla
decisione del tribunale stesso. Nel nostro caso il tribunale accetta e accoglie l’istanza di
sospensione. Al fine di evitare un provvedimento che può essere irreversibile il tribunale sospende il
decreto di espulsione, a questo punto la ragazza non potendo essere espulsa viene rilasciata dal
CIE.
Si svolgono due udienze, vengono prodotti molti documenti. Alla fine il tribunale rigetta e la
ragazza torna in condizione di irregolarità, perché nel momento in cui il tribunale rigetta, la
sospensione perde efficacia. Perché la sospensione è un provvedimento intermedio, cautelare,
non definitivo. La sentenza con cui il tribunale di primo grado decide è un provvedimento che
definisce il grado di giudizio, e quindi tutti i provvedimenti intermedi decadono. A questo punto
possiamo fare un reclamo in corte di appello, sollevando le medesime eccezioni sollevate in primo
grado ma aggiungendo tutte le eccezioni relative alle ritenute erroneità delle sentenze del
tribunale. Il reclamo non ha effetto sospensivo, quindi siamo ancora nell’ambito della irregolarità.
Per ulteriormente tutelare la ragazza possiamo anche in questo caso proporre un’istanza di
protezione. Chiedendo alla corte d’appello in deroga rispetto alla previsione normativa, di
nuovamente sospendere l’esecuzione dell’espulsione.
La ragazza ha ancora un decreto di espulsione valido a carico, ma nel frattempo è stato fatto
anche un ricorso contro di questo. E il giudice di pace ha a sua volta accolto l’istanza di
sospensione, quindi anche durante la fase di irregolarità questa sospensiva ha un effetto tutelante
massimo perché riguarda esplicitamente l’espulsione.
La corte di appello come il tribunale, come il giudice di pace, accetta l’istanza di sospensione.
Sospende l’esecutività della decisione del tribunale, che a sua volta, determina la nuova
sospensione del decreto di espulsione. E questo punto la ragazza è ancora in condizione di
regolarità.
Oggi in realtà non è più cosi perché la giurisprudenza esclude che la corte d’appello possa
sospendere questo provvedimento. Teniamo presente che non sempre c’è un decreto di
espulsione precedentemente alla richiesta di protezione internazionale.
Siamo in corte d’appello che sospende e la ragazza è di nuovo regolare. La ragazza non ha un
permesso di soggiorno però. Si svolge un’udienza di merito. Alla fine la corte d’appello rigetta,
nuovamente la ragazza cade nella irregolarità perché nuovamente la sentenza della corte
d’appello è sentenza che definisce il grado di giudizio, e tutti i provvedimenti intermedi decadono.
Cosa resta da fare? Un ricorso alla corte di cassazione. Non c’è possibilità però di richiedere
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nuovamente la sospensione. Per cui si è in condizione di irregolarità e attendiamo la decisione
della corte di cassazione. Con un provvedimento dell’11 ottobre 2012, accoglie il ricorso. Cassa la
sentenza e rinvia alla corte di appello di Torino in diversa composizione. Questo significa che,
ovviamente non tutti i casi seguono una scansione così complessa, ma potenzialmente una
richiesta di asilo può occupare 4 gradi di giudizio, 5 in questo caso perché ritorniamo alla corte di
appello di Torino. 5 gradi di giudizio, realisticamente direi 3 anni di attesa e continui movimenti tra
regolarità e irregolarità. Diciamo pure che il legislatore nazionale ci ha messo del suo perché pur
recependo le direttive europee non si è negato il piacere di modificare alcuni aspetti della norma
in modo discutibile. Nel frattempo quello che consente alla ragazza di soggiornare regolarmente in
Italia è sempre il decreto di sospensione dell’espulsione adottato dal giudice di pace poche
settimane dopo il trattenimento della ragazza, con prossima udienza fissata al 30 ottobre. Al 30 di
ottobre il giudice prenderà atto che la corte di cassazione ha accolto il ricorso e quindi con un
sesto rinvio attende la decisione della corte di Torino per sapere se la ragazza è una rifugiata o
meno e se il decreto di espulsione può essere attuato o no.
Dal punto di vista del giudice di pace, il ricorso contro il decreto di espulsione si fonda sull’articolo
19 del Testo Unico dell’immigrazione. È l’articolo che prevede le cause di inespellibilità dei cittadini
extracomunitari. Il primo comma prevede che l’espulsione delle persone che sono a fondato
rischio di subire persecuzione nel Paese di provenienza o nel Paese di origine (per motivi razza
religione etc) non possono essere espulsi in nessun caso. Quindi divieto assoluto. Mentre le altre
ipotesi sono di inespellibilità relative, passibili cioè di eccezioni. Il giudice di pace che fa sette rinvii
in attesa che la domanda di asilo venga decisa, è evidentemente un giudice di pace che non sa
se il caso in esame rientra nell’articolo 19 oppure no. E quindi, fuori dal verbale, preferisce che
qualcun altro decida e poi aderire all’orientamento dell’altro giudice e quindi sulla base di quello
decidere se convalidare o annullare il decreto di espulsione.
Cristina: Mirtha e Silvia ci parleranno, in questa seconda parte più laboratoriale degli strumenti che
può avere un operatore per dare informazioni a un richiedente asilo; richiedente non sono seguito
dallo SPRAR o dai progetti cittadini e quindi privo di strumenti specifici per prepararsi al colloquio
con la Commissione Territoriale.
Mirtha Sozzi e Silvia Peschivolo: Siamo operatrici del servizio dell’Ufficio Pastorale Migranti che si
chiama “Il Punto di domanda”; Il punto di domanda nasce a Torino all’interno dei servizi offerti
dall’Ufficio Pastorale Migranti nel 2009, dopo che a Torino apre una delle Commissione Territoriali.
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Le commissioni territoriali sono 13 e sono dislocate in varie città d’Italia, quella di Torino è nata nel
2008. Anche nella nostra città si è posto il problema di dare un minimo di supporto ai richiedenti
asilo che dovevano passare attraverso la commissione di Torino per l’esame della propria
domanda e che non erano inseriti nei progetti di accoglienza istituzionali, come lo SPRAR. Tali
progetti di accoglienza prevedono una parte di supporto legale per i richiedenti asilo, mentre,
per tutte le persone che rimangono fuori da questo tipo di progettualità, non è previsto alcun tipo
di supporto.
Alcune informazioni rispetto alla domanda di asilo dovrebbero essere date dalla questura, primo
organismo istituzionale con cui i richiedenti asilo vengono in contatto; infatti sul sito del Ministero
degli Interni esiste un vademecum della domanda di asilo, tradotto in molte lingue, che dovrebbe
essere distribuito ai richiedenti. Spesso però questo non avviene, inoltre il vademecum è molto
tecnico e molto specifico e non sempre di facile comprensione da parte di tutti i richiedenti, che
hanno livelli di scolarizzazione molto diversi e non sempre sono in grado di interpretare testi di una
certa complessità dal punto di vista giuridico e linguistico.
Il lavoro che facciamo noi è innanzitutto di informazione, di spiegazione rispetto a come funziona
l’iter, di quali sono i diversi passaggi che un richiedente asilo dovrà fare. Il primo passaggio, in
questura, è un’identificazione dove vengono prese le impronte digitali e le fotografie; il secondo
passaggio, sempre in questura, è una verbalizzazione con la compilazione di un modulo che
richiede una serie di dati anagrafici, la narrazione della storia personale e delle ragioni per cui si è
lasciato il proprio paese. Il terzo passaggio è il passaggio chiave, quello della Commissione
Territoriale, poichè sarà quest’ultima a prendere la decisione rispetto alla domanda di asilo.
E’ particolarmente importante che le persone arrivino all’incontro con la Commissione bene
informate rispetto a come si svolgerà il colloquio, chi sono le persone che si troveranno davanti,
che tipo di domande verranno fatte,perché vengono fatte alcune domande e quali sono i propri
diritti.
Diamo anche informazioni su quali siano le possibili risposte che la commissione può dare; ci sono
diverse risposte, ci sono diversi tipi di protezione internazionale come lo status di rifugiato, la
protezione sussidiaria; in secondo ordine la protezione umanitaria oppure il diniego. È importante
dunque che le persone abbiano questo quadro di che cosa gli sta capitando e di quali passaggi si
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troveranno ad affrontare e a che punto si trovano in questa procedura.
Il lavoro più specifico che facciamo è quindi quello di preparare chi viene da noi per il colloquio
con la Commissione Territoriale: attraverso una serie di incontri con il richiedente asilo ricostruiamo,
insieme all’utente,
la storia personale, cercando di tirare fuori quelli che sappiamo essere gli
elementi importanti perché la commissione possa giudicare in maniera equa la storia di una
persona.
La prima fase è la spiegazione della procedura, la seconda fase è la scrittura della storia insieme
alla persona; solo quando la storia è completata incominciamo la terza fase che è quella delle
ricerche sul paese d’origine dell’utente: quando noi arriviamo ad una versione definitiva della
storia
si comincia la fase delle ricerche. Queste ultime servono a supportare la storia, per
dimostrare, attraverso documenti ufficiali, che quello che il richiedente asilo sta raccontando sia
accaduto realmente. Le persone arrivano da noi e ci raccontano la loro storia e noi pian piano la
rivediamo con loro nel complesso.
L’esercizio che vi proponiamo è il seguente: noi vi daremo 4 storie che abbiamo estrapolato da 4
storie vere e che abbiamo un po’ cambiato per la privacy della persona; partono dalla realtà, ma
sono assolutamente fittizie e riguardano 4 richiedenti asilo che provengono da 4 paesi diversi. Vi
chiediamo di leggere queste storie e di individuare quali siano per voi i punti su cui si possano fare
delle ricerche: quali sono quei fatti, quegli eventi che la persona racconta che sono documentabili
attraverso delle fonti internazionali, cronache giornalistiche, inchieste, report.
Dovete valutare voi quali siano questi fatti e pensare voi a quali strumenti mettereste in atto per
capire se la storia raccontata sia vera o no. Ricordiamo che i membri della Commissione si trovano
davanti queste storie e devono valutare se la persona che si trovano davanti stia raccontando un
fatto attendibile o meno.
Questo è quello che facciamo nel nostro sportello e che poi i membri della Commissione si trovano
a fare dal vero con i richiedenti asilo. Esistono altre realtà simili in Italia, ad esempio il Ciack di
Parma e il Naga di Milano, inoltre, nella rete Sprar, gli operatori dovrebbero offrire ai richiedenti
asilo questo tipo di supporto.
ALCUNE DOMANDE PRIMA DI PASSARE AL LAVORO DI GRUPPO
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DOMANDA 1 : se voi stesse vi rendete conto che non è possibile fare la domanda d’asilo?
RISPOSTA 1: noi interagiamo sempre con le persone in maniera diretta, per cui ci troviamo anche di
fronte a dei casi che non seguono il profilo del rifugiato: la nostra prima attività è informativa, in
particolar modo verso le persone che fanno domanda d’asilo senza sapere in realtà che cos’è. Ci
sono delle situazioni in cui la persona fa domanda d’asilo perché ha capito che può essere un
mezzo di legalità, però poi non ha i requisiti; in questo caso lo si spiega. Inoltre, se si riesce a capire
qualche elemento in più sulla storia della persona, la si può provare ad indirizzare verso altre forme
di regolarizzazione. Spesso le persone arrivano da noi già sapendo che possono fare domanda di
asilo o magari l’hanno già incominciata. Ci è capitato, però, in passato di lavorare con persone,
soprattutto ragazze che in realtà erano vittime di tratta e che quindi non avrebbero ottenuto una
risposta positiva dalla Commissione seguendo la via dell’asilo e le abbiamo indirizzate altrimenti.
DOMANDA 2: avete difficoltà con le lingue, avete bisogno di mediatori?
RISPOSTA 2: diciamo che con l’inglese, il francese e lo spagnolo riusciamo a interagire con buona
parte delle persone che vengono da noi (circa l’80%); ci sono anche degli utenti sudamericani,
ma la maggior parte sono anglofoni o francofoni. I mediatori sarebbero utilissimi per alcuni casi e
alcune lingue e quando c’è la necessità di metterli in campo li utilizziamo. Bisogna considerare,
però, che la questione è un po’ delicata perché non sempre gli utenti raccontano la propria storia
davanti ad una terza persona sconosciuta che proviene dal proprio stesso paese. Non per forza è
d’aiuto la mediazione: ogni volta si deve capire qual è la situazione e vedere se attivarla o meno.
Il problema della mediazione che ha sollevato la mia collega, riguarda ad esempio, casi di
persone che scappano da violenze di tipo etnico: magari la persona che si trovano davanti viene
dallo stesso paese ma è di un’etnia diversa e quindi chiaramente si crea un problema.
Per quanto riguarda il cinese, pur essendoci tantissimi cinesi, quasi nessuno fa domanda di asilo; di
arabi qualcuno ha fatto riferimento allo sportello, ma non moltissimi.
DOMANDA 3: la raccolta della storia e anche quella della documentazione sul paese la trascrivete
e la consegnate alla Commissione?
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RISPOSTA 3: la consegniamo alla persona, ed è la persona che può decidere, in ultima istanza se
darla alla Commissione: noi abbiamo questa relazione solo con la persona e mai direttamente con
la Commissione perché è una scelta. Dal momento che sono al di fuori di ogni struttura di
accoglienza e non seguono un percorso istituzionale, la diamo direttamente a loro spiegandogli
che è un loro diritto fare questo tipo di percorso con noi e che sta a loro alla fine decidere se darla
o meno. Ci è capitato di qualcuno che lavorasse
con noi, si fidasse di noi, facesse tutto il percorso con noi e poi non consegnasse la storia magari a
volte per motivi privati molto delicati.
La documentazione che consegniamo alla fine alla persona, è un dossier di 4-5 pagine che
contiene la storia persona con delle note a piè di pagina sui punti su cui si può fare ricerca e
talvolta altra documentazione allagata che la persona ha a disposizione come una tessera del
partito di cui faceva parte, certificati medici che possa attestare le torture subite.
DOMANDA 4: chi è che ha la competenza per accertare che le torture siano vere? C’è un medico
che si occupa di questo?
RISPOSTA: No, non c’è un medico che si occupa di certificare le torture; noi abbiamo avuto un
caso di un ragazzo che era andato da un medico perché aveva delle ferite sul corpo e il medico
gli ha scritto un certificato che escludeva che le ferite fossero in seguito ad un’operazione e che
per il tipo di abrasione e sutura potessero essere ferite che si erano auto-emarginate; i medici
possono scrivere questo genere di certificati, spetta poi a loro esporsi o no. Molto spesso i medici
rimangono molto sul vago, senza prendersi grosse responsabilità. il medico in questione ha scritto
che le ferite che lui aveva visto non sembravano essere ferite in seguito ad un’operazione e che
da come la ferita si era rimarginata poteva ipotizzare che fosse stata fatta con un oggetto da
taglio. E’ molto difficile trovare un medico che si esponga. Ci è capitato, nel caso di una donna
che aveva subito mutilazioni genitali, di trovare una dottoressa ginecologa del Sant’Anna che ha
certificato la tortura.
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Lavori di gruppo | Quarto incontro
LAVORO DI GRUPPO
Abbiamo 4 storie diverse ; 2 gruppi su ogni storia; gruppi da 3 o da 4. Sono storie vere a cui
abbiamo tolto i riferimenti reali
STORIA PERSONALE DI A.: ragazzo senegalese
Mi chiamo A., sono nato a Ziguinchor, nella regione di Casamance in Senegal l’1/3/1984 e sono di
etnia Wolof.
Nella regione di Casamance da trent’anni è in atto un conflitto per l’indipendenza tra i ribelli del
Movimento delle Forze Democratiche della Casamance (MFDC) e l’esercito regolare senegalese.
A Ziguinchor, dove abitavo, e in tutta la Casamance si verificano spesso episodi di violenza da
parte dei ribelli contro le persone di etnia Wolof.
Nel 2006 sono entrato a far parte dell’Association Jeunes Casamance, un’associazione locale
creata due anni prima da un gruppo di giovani Wolof allo scopo di difendere se stessi e le proprie
famiglie dalle violenze. Il mio ruolo era quello di portavoce. Io con altri ragazzi dell’associazione
parlavamo con i giornalisti sia televisivi che radiofonici per denunciare le violenze e informare sia la
popolazione che l’esercito sugli spostamenti e le attività dei ribelli e sulla presenza di campi minati
allestiti dai ribelli. Sui mezzi di informazione (come in una trasmissione radio di Casamanche FM, su
L’Observateur e su Le Quotidien) comparivano spesso il mio nome e la mia foto. Era un ruolo
pericoloso, perché ogni volta che un giornale, una radio o una televisione riportavano gli episodi di
violenza in Casamance, i ribelli reagivano uccidendo o rapendo i membri più attivi
dell’associazione, sperando così di spaventare gli altri e di far cessare il lavoro di denuncia e
informazione.
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Più volte ci era capitato di ricevere, presso la sede dell’associazione, delle lettere di minacce
rivolte ai tre membri più attivi, compreso me.
Alla fine del 2008, durante una riunione pubblica organizzata dall’associazione, ho tenuto un
discorso molto duro contro i ribelli. Probabilmente tra le persone che vi avevano preso parte c’era
qualcuno che ha riferito le mie parole ai ribelli stessi. Da quel giorno, i ribelli hanno cominciato a
cercarmi e presso la sede dell’associazione sono arrivate due lettere di minacce dirette a me.
Una mattina, sempre nel 2008, i ribelli sono venuti a casa mia, dove hanno trovato solo mio fratello
minore. Quel giorno, rientrando a casa, ho trovato la porta aperta con la forza e mio fratello
ucciso. Ho subito chiamato la polizia che però mi ha detto che erano stati i ribelli e che, quindi, loro
non potevano fare nulla.
A quel punto, ho deciso di andarmene immediatamente da casa e mi sono diretto a Dakar.
Di lì, dopo due giorni di corriera sono arrivato a Bamako, Mali, dove mi sono fermato per qualche
giorno. Ho poi proseguito in bus per Niamey, Niger, dove mi sono fermato per due o tre giorni, per
poi ripartire verso la Libia.
Sono arrivato a Tripoli a febbraio 2010 e sono rimasto lì fino a settembre dello stesso anno.
A settembre ho pagato 500€ e mi sono imbarcato per Lampedusa, dove sono arrivato dopo due
giorni.
Commento operatrici dopo esposizione dei gruppi di lavoro che avevano questa storia: avete
individuato tutti i punti tranne uno che noi abbiamo approfondito, che è quello sulla situazione dei
campi minati: è uno dei problemi più gravi che la gente del territorio si trova ad affrontare. Anche
oggi il territorio è minato e questi ribelli che fanno parte del gruppo indipendentista continuano a
operare sul territorio rendendolo pericoloso per gli stessi abitanti che vivono questa regione, per cui
ci sono tanti rapporti che testimoniano la situazione dei campi minati, dei morti e di tutte le strutture
ospedaliere che sono nate proprio per chi ha perso arti in seguito allo scoppio di una mina.
È giusta la linea di pensiero di provare a reperire documenti dal paese di origine, come la tessera
del partito, come il certificato di morte del fratello o le lettere di minacce. E’ molto giusto in linea
teorica anche se nella pratica molto difficile perché non è detto che esistano i certificati di morte,
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perché l’associazione era attiva a livello locale quindi in piccola scala quindi probabilmente non
aveva una tessera; inoltre, non avevano la possibilità di andare in internet e crearsi un blog o un
sito web. Bisogna considerare che questi paesi dell’Africa sono poveri e non hanno la possibilità di
accesso a internet, molto spesso queste associazioni sono costituite da gruppi di coetanei giovani
che non hanno un vero e proprio tesseramento. Il rischio di essere perseguitati per queste
associazioni è alto perché a livello locale tutti si conoscono e si è molto esposti, purtroppo però è
difficile trovare una fonte e prove dei fatti accaduti.
Inoltre molto buono è fare ricerche sulla polizia, perché uno dei punti per cui le persone possono
richiedere protezione internazionale è il fatto che il loro stato non garantisca la sicurezza dei
cittadini: è importante quindi dimostrare che la polizia non è in grado di agire contro i ribelli e di
proteggere le persone che costituiscono associazioni nelle quali gruppi di attivisti si attivano contro
i ribelli.
STORIA PERSONALE DI B.: ragazzo pakistano
Mi chiamo B. e sono nato a Rawalakot, distretto di Poonch Kashmir, nel Kashmir Pakistano.
Nel 2007 ho terminato la scuola superiore e mi sono iscritto al College. All’interno del college ho
iniziato a conoscere meglio la storia e la situazione politica del mio Paese e mi sono iscritto al
JKNSF.
Il 24 dicembre 2009 ho partecipato alla “lunga marcia”, organizzata a Rawalakot per protestare
contro il governo pakistano per l’annessione della regione del Gilgit Baltistan al Pakistan. Durante il
corteo, la polizia pakistana, per bloccare i manifestanti ha sparato loro addosso e ha usato i gas
lacrimogeni. Molti studenti sono stati arrestati o feriti. Anche io sono stato picchiato con dei bastoni
su piedi, gambe e schiena, infine sono stato arrestato. Sono stato portato alla caserma della polizia
insieme ad altre 5 persone. Sono rimasto in quella condizione per 6 giorni finché sono arrivati i miei
genitori che sono riusciti a farmi liberare.
Nel periodo successivo alla manifestazione, le agenzie segrete e la polizia hanno più volte
minacciato di morte me e la mia famiglia.
Io non ho accettato le intimidazioni e ho continuato il mio impegno nel partito.
Il 15 novembre 2010 sono diventato “senior student organizer” del JKNSF, cioè responsabile del
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movimento nel mio college.
Il 28 aprile 2011 era l’anniversario della firma dell’accordo, avvenuta il 28 aprile 1949 a Karachi, che
ha sancito l’annessione del Gilgit Biltistan al Pakistan. Come ogni anno, i rappresentanti del JKNSF
hanno organizzato diverse manifestazioni, ciascuno nella sua zona. Anche io, insieme ad altri
leader, ho organizzato una manifestazione, durante la quale la polizia è intervenuta con i gas
lacrimogeni e picchiando e sparando sui manifestanti. Anche io sono rimasto ferito, ma sono
riuscito a scappare.
Dopo la manifestazione, mentre stavo tornando a casa, sono venuto a sapere da un mio amico,
membro anche lui del JKNSF, di essere stato denunciato per aver compiuto azioni contro lo Stato.
Sono quindi scappato e mi sono nascosto presso dei parenti che abitano nel villaggio di ZZ, a due
ore e mezza a piedi da casa mia.
Il 2 maggio 2011 la polizia ha emesso un First Information Report, F.I.R, contro di me, mentre il 15
maggio 2011 ha emesso un mandato di cattura nei miei confronti. La polizia è venuta a casa mia
per arrestarmi e ha mostrato il F.I.R. e il mandato di cattura ai miei famigliari. Non avendomi, però,
trovato, ha arrestato mio fratello e mio padre. Li hanno rilasciati dopo un giorno dicendo loro che
avrebbero dovuto consegnarmi alla polizia.
Io mi sono rivolto al mio avvocato, il quale mi ha detto che il mandato di cattura non era
annullabile e che se mi avessero arrestato lui non avrebbe potuto fare nulla. Mi ha quindi
consigliato di lasciare il Paese al più presto. Mi sono quindi messo in contatto con un trafficante.
Il 26 maggio sono partito per Rawalpindi, dove sono rimasto qualche giorno a casa di uno zio, poi
ho proseguito per Lahore e per Quetta. Da qui sono andato in Iran e poi in Turchia, in parte a piedi
e in parte in camion. Il 20 luglio sono arrivato in Italia, a Torino.
Commento Operatrici dopo esposizione dei gruppi che avevano questa storia su cui lavorare: le
ricerche vanno sempre contestualizzate alla lingua inglese: quando inserite i termini nel motore di
ricerca è rarissimo che in italiano ci siano inchieste o documentazioni su questi paesi; spesso si
traducono pezzi di articoli in lingua originale;
Le ONG come Amnesty International o Human Rights Watch che pubblicano dei rapporti sono
attendibili, soprattutto ECOI.NET è uno degli strumenti più utilizzati per fare ricerca sui paesi di
origine dei richiedenti asilo: si è creato negli anni un database e hanno cercato di individuare le
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fonti attendibili e ne hanno fatto un elenco sul loro sito. In ogni caso saranno poi i membri della
commissione a valutare se una fonte sia attendibile o meno.
Per quanto riguarda la storia è importante effettuare un inquadramento generale della storia del
Kashmir. Le ricerche rispetto alle singole date sono utili ma complicate perché la storia del Kashmir
è punteggiata da lunghe marce e black day.
Il sito del partito può servire a voi per capire di cosa si tratta ma non lo citerei come fonte, perché
sarebbe una di parte; sarebbe più opportuno una fonte più neutrale e ufficiale come può essere
una grande associazione.
Va bene appurare l’esistenza del partito ma non lo citerei per
dimostrare la violazione dei diritti che vengono fatti nei confronti degli appartenenti ad esso.
Giocano un ruolo importantissimo le agenzie segrete pakistane che sono le protagoniste assolute
della repressione nei confronti degli indipendentisti del Kashmir: compiono soprusi e violazioni dei
diritti umani quotidianamente.
Importante verificare e controllare date e anniversari perché per loro è importantissimo: fa parte
della loro storia. Molti di loro lottano da quando sono piccoli per cui per loro è fondamentale che si
abbiano chiare le tappe e il percorso della propria storia.
Molto importante anche l’utilizzo del FIRST INFORMATION REPORT, documento utilizzato non solo in
Kashmir ma anche in Pakistan, Giappone: questo documento viene utilizzato dalla polizia per
portare avanti delle denunce e quindi degli arresti
STORIA PERSONALE DI C.: ragazzo ugandese
Mi chiamo C., sono nato a Masindi, in Uganda, il 01-01-1983 e lavoravo a Kampala.
Dal 2008 sono membro del partito FDC (Forum for Democratic Change), il più grande partito di
opposizione ugandese, dove avevo il ruolo di segretario della sezione giovanile e il compito di
reclutare nuovi giovani come membri del partito.
Il 13 gennaio 2010 ho mobilitato il gruppo giovanile femminile del partito in vista della
manifestazione pacifica, prevista per il 18 gennaio, organizzata prima delle nuove elezioni
presidenziali previste per il 2011, per le quali si chiedeva di cambiare la commissione elettorale. La
manifestazione femminile era organizzata da tutti i partiti dell’opposizione per dimostrare contro i
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ricatti subiti dal Chairman Electoral Commission (Presidente della Commissione Elettorale) e
dall’intera Electoral Commissioner Board (Commissione Elettorale) che erano stati coinvolti nei
massicci brogli elettorali durante le elezioni presidenziali del 2006.
Il 20 gennaio 2010 sono stato arrestato dagli agenti di sicurezza del CMI (Chieftaincy of Military
Intelligence) con l’accusa
di aver reclutato giovani per un gruppo ribelle, il PRA (People’s
Redemption Army), che voleva rovesciare il governo in carica.
Gli uomini del CMI mi hanno portato, bendato, in una safehouse dove sono rimasto per una
settimana e dove mi hanno accusato di aver organizzato una manifestazione non autorizzata.
Sono stato sottoposto a torture per estorcermi informazioni e costringermi a confessare cose che
non avevo fatto, ovvero reclutare giovani per il gruppo ribelle PRA.
Nonostante le torture, non hanno ottenuto da me quello che volevano. Dopo sono stato portato
alla stazione centrale della Polizia (CPS, Central Police Station), dove sono rimasto per altri quattro
giorni senza che i miei diritti venissero rispettati. Secondo la legge ugandese, infatti, una persona
arrestata deve comparire dinanzi alla Court of Law entro 48 ore dall’arresto. Mentre ero nella cella
della stazione di Polizia, i poliziotti mi hanno torturato, picchiato, minacciato di morte se non avessi
lasciato il mio partito per unirmi al partito al governo, il NRM (National Resistance Movement). Io
però ho continuato a rifiutare. Dalla stazione di Polizia ho potuto finalmente contattare la mia
famiglia che non aveva mie notizie da una settimana e mi aveva cercato negli ospedali e nelle
stazioni di Polizia.
Il 1 febbraio 2010 sono stato rilasciato dietro una obbligazione di pagamento di 500.000 scellini
ugandesi che le persone che hanno garantito per me avrebbero dovuto pagare se non mi fossi
presentato il giorno 24 febbraio presso la CPS. Questa convocazione era motivata dal fatto che
volevano interrogarmi ancora presso il CID (Criminal Investigation Department), un dipartimento
interno della polizia ugandese.
Il 2 febbraio ho denunciato all’UNHRC (Uganda Human Rights Commission) le violazioni subite
durante la mia detenzione. Dopo qualche giorno ho iniziato a ricevere telefonate anonime di
persone che mi minacciavano di morte e uomini del CMI mi seguivano ovunque andassi.
Il 24 febbraio, per paura di essere arrestato e torturato, non mi sono presentato alla CPS.
Poiché continuavo a ricevere telefonate di minacce, sono tornato all’UHRC, che, questa volta, mi
ha consigliato di scappare dal Paese per salvarmi la vita.
Sono quindi andato da un amico a Busia che mi ha aiutato ad attraversare il confine con il Kenya
l’8 marzo 2010. Un conoscente del mio amico mi ha procurato un passaporto falso con un visto
italiano e si è imbarcato con me su un aereo della KLM diretto in Italia, dopo uno scalo ad
Amsterdam. Non so in quale aeroporto italiano siamo atterrati, ma da lì abbiamo preso un pullman
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che ci ha portato a Torino, alla stazione di Porta Susa dopo 2 o 3 ore di viaggio. Lì l’uomo mi ha
lasciato, riprendendosi il passaporto falso che mi aveva dato. Tutto il viaggio mi è costato 7 milioni
di scellini (circa 2500 €).
Commento operatrici dopo esposizione die gruppi che avevano questa storia su cui lavorare: Nel
quadro generale e sulle elezioni del 2006 pare vi siano stati brogli elettorali e contestazioni che
sono stati denunciati dall’opposizione e sul web si trova tutto questo.
Per quanto riguarda la persecuzione individuale ci sono state torture parecchio gravi; in questo
caso sarebbe stato possibile produrre un certificato medico perché le torture erano stato pesanti e
palesi.
Fondamentale concentrarsi anche sul ruolo della polizia che non protegge, anzi supporta la
persecuzione.
C’è da fare anche una ricerca sulla legge ugandese, dal momento che il richiedente asilo aveva
buone conoscenze in merito e ha fornito riferimenti puntuali sulle violazioni che ha subito.
I report che utilizziamo di più, come vi abbiamo detto prima, sono Human Right Watch, Amnesty
International, o quelli del dipartimento di stato americano che ogni anno fa rapporti sui diritti umani
nei vari paesi, ricerca in loco e poi riporta le situazioni dei paesi.
Spesso sono le persone stesse che ci danno degli imput: non raccontano solo la loro storia ma ci
danno anche indicazioni sulla situazione del loro paese e aiuti per la ricerca, soprattutto se si parla
di attivisti politici con una certa consapevolezza di quello che stavano facendo e dei rischi a cui
andavano incontro. Per cui anche il lavoro delle ricerche, non solo quello della scrittura della storia
viene fatto insieme.
STORIA PERSONALE DI D.: ragazzo ivoriano
Mi chiamo D. e sono nato ad Abidjan, in Costa d’Avorio, il 01-01-1992.
Durante il periodo precedente le elezioni presidenziali del novembre 2010 la situazione ad Abidjan
era molto tesa e ci sono stati molti episodi di violenza e omicidi.
La maggioranza delle persone di etnia Dioula sostenevano il candidato presidente Alassane
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Ouattara. La mia famiglia è di etnia Dioula e mio padre era un guaritore tradizionale. A causa del
suo ruolo, era una persona di rilievo e conosciuta nel quartiere in cui vivevamo, Abobo, per questo
motivo era sospettato di fare propaganda a favore di Ouattara. In realtà, mio padre non si era mai
occupato di politica.
La notte del 24 ottobre 2010, verso le tre del mattino circa, tre uomini sono venuti a casa della mia
famiglia con delle armi da fuoco e hanno ucciso mio padre. Io stavo dormendo nella stanza
accanto. Mi sono svegliato a causa del rumore e, quando ho aperto un po’ la porta della stanza
per vedere cosa stesse succedendo, ho visto che mio padre era stato ucciso. Allora, spaventato,
ho preso in fretta dei soldi e alcuni oggetti e sono scappato, uscendo dalla finestra. Temevo, infatti
che gli uomini armati volessero uccidere anche me.
Mi sono nascosto in casa di alcuni vicini e solo più tardi sono tornato a casa mia, insieme ad altre
persone del quartiere, per vedere cosa fosse successo esattamente. Alcuni abitanti del quartiere
mi hanno detto che i tre uomini erano dei mercenari pagati dall’altro candidato Presidente,
Laurent Gbagbo, e mi hanno consigliato di lasciare immediatamente il Paese, perché avrei potuto
essere ucciso anch’io.
Sono partito da Abidjan quella notte stessa, a bordo di un autobus diretto a Yamoussoukro. Da lì
ho trovato un passaggio su un camion che trasportava merci fino a Bamako, Mali. Da Bamako ho
ripreso il viaggio verso Gao, su un altro autobus. A Gao sono entrato in contatto con dei trafficanti
che mi hanno portato, su un grosso pick-up fino in Algeria ad Adrar, dove mi sono fermato perché
avevo finito i soldi con i quali ero partito da casa, circa 100.000 franchi CFA. Dopo una ventina di
giorni, durante i quali ho lavorato e ho guadagnato circa 18.000 dinari algerini, ho ripreso il viaggio,
di nuovo su un pick-up, verso Ouargla, poi verso il confine con la Libia che abbiamo attraversato a
piedi. Abbiamo proseguito a piedi fino a Gadames, in Libia, dove sono arrivato il 24 novembre
2010. Sono rimasto a Gadames per circa un mese, poi ho ripreso il viaggio, sempre su un pick-up,
fino a Tripoli. Il viaggio da Gadames a Tripoli mi è costato 150 Dinari libici. Per circa tre mesi sono
rimasto a Tripoli, dove ho trovato lavoro come apprendista elettricista. Poiché con l’inizio della
guerra Tripoli era diventata molto pericolosa, ho proseguito il mio viaggio su di un barcone diretto
a Lampedusa. Sono partito da Tripoli durante la notte del 4 aprile e sono sbarcato a Lampedusa il
5 aprile 2011. Il viaggio via mare mi è costato 500 Dinari libici.
Commento operatrici dopo esposizione dei gruppi che avevano questa storia su cui lavorare:
Quando si fanno le ricerche per l’attendibilità delle storie, un dettaglio importante è considerare in
quale quartiere si sviluppano le vicende. Ad esempio nelle vicende politiche africane il quartiere
ha una certa importanza: spesso nelle grandi città o nelle capitali, i quartieri hanno un colore
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politico , molti sono le roccaforti della maggioranza, altri le roccaforti dell’opposizione .
Abbiamo fatto anche una ricerca sulla questione dei mercenari, che hanno avuto un ruolo
importantissimo nel creare violenza diffusa durante il periodo di passaggio da un presidente
uscente e uno entrante.
Anche il viaggio è qualcosa che cerchiamo sempre di verificare, i posti citati, le tappe, il tempo
trascorso.
Link utile per avere la lista delle fonti importanti per le ricerca paese
http://www.ecoi.net/5.our-sources.htm
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Quinto
22 ottobre 2012
Incontro
Titolo
Il sistema di accoglienza in Italia: pre-sprar, prar, emergenza; limiti e
possibili evoluzioni
Relatori
Gianfranco Schiavone, Zahra Osman
Gianfranco Schiavone: Salve sono Gianfranco Schiamone dell’ Asgi Associazione per gli Studi
Giuridici dell’Immigrazione, so che altri dell’Asgi sono già venuti a farvi degli altri incontri e io mi
occupo molto nell’Asgi di asilo e sono anche responsabile di uno SPRAR, quello di Trieste.
Penso di essere molto dentro questo tema e anche dentro a quello che oggi vi racconterò: il tema
dell’accoglienza dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione internazionale e umanitaria, che è
un tema che affronterò dal punto di vista giuridico naturalmente però nella maniera più chiara
possibile, spero, e soprattutto come capirete bene è uno dei temi fortemente a cavallo fra gli
aspetti giuridici e sociali, anzi direi quasi che gli aspetti sociali sono prevalenti e i più interessanti
quindi, visto anche il taglio prevalente dei vostri interessi direi che la lezione di oggi vi potrà
interessare molto.
Potrei già finire dopo cinque minuti dandovi le indicazioni bibliografiche fondamentali, da leggere
per chi vuole capire qualcosa su cosa succede veramente in Italia sull’accoglienza dei richiedenti
asilo e questo mondo misterioso di cui ognuno parla senza sapere di cosa sta parlando davvero e
dando non si sa quali cifre o proponendo valutazioni più o meno bizzarre.
Le pubblicazioni che vi consiglio sono due fondamentalmente sul tema e poi tre in generale, tutte
scaricabili on line, o dal sito dell’Asgi, con un po’ di pazienza perché bisogna andare a cercare in
“materiali”, o nel sito del Servizio Centrale del Sistema di Protezione, e tutte gratuite.
Tutte le pubblicazioni sono agevolmente scaricabili dal Servizio Centrale perché collegati a
progetti del Fer o progetti che hanno poi visto un inserimento nel servizio
La prima è un libro dalla copertina suggestiva e da un titolo piuttosto lungo e non facilmente
comunicabile che ha un taglio prevalentemente sociale e si intitola Per un’accoglienza e una
relazione d’aiuto transculturali. Linee guida per un’accoglienza integrata, pensato per affrontare le
situazioni particolarmente vulnerabili e che si è trasformato poi in un libro complessivo
sull’accoglienza, la presa in carico dei richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale. Che
ne volesse avere una copia può chiederla al coordinamento della pubblicazione cioè CIAC di
Parma, il Centro Immigrazione Asilo e Cooperazione di cui trovate nel libro l’indicazione della mail.
Il libro è frutto di vari autori che sono indicati tra cui il sottoscritto, e ci sono competenze giuridiche,
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sociali e mediche di varia estrazione e ha come indice un’introduzione giuridica generale alla
procedura d’asilo, i diritti sociali e poi l’accoglienza e la presa in carico, la metodologia di lavoro, il
lavoro dell’equipe, l’approccio di genere, l’accoglienza delle persone con disagio mentale o
vittime di tortura, i minori stranieri non accompagnati, le disabilità e le discriminazioni.
In ultimo riflessioni per un cambiamento per un totale di non più di 200 pagine, quindi è un libro
anche abbastanza agevole con un taglio prevalente di carattere sociologico e antropologico,
con quel tanto di diritto che serve e nulla di più per evitare poi inutili sovrapposizioni.
Una seconda pubblicazione che useremo molto oggi è questo librone più ingombrante di 500
pagine di cui lascio due copie una in biblioteca e una qui per voi, anche questo liberamente
scaricabile e frutto di una ricerca fatta l’anno scorso dal titolo Studio sullo stato sul sistema asilo in
Italia, ricerca che io ho curato e poi il libro è frutto di sette ricercatori di cui tre avvocati e quattro
sociologi che si sono scapicollati in giro per l’Italia a cercare di capire come stavano
effettivamente le cose tra cui anche Torino e la sua area metropolitana, inserita in una descrizione
generale del sistema asilo in Italia: ingressi, accoglienza, accesso alla procedura,
tutela
giurisdizionale ecc.
Questo libro ha cercato di dare un taglio più giuridico e meno sociale però non è un taglio
accademico perché è una ricerca sul campo.
È un’analisi si quello che dice la normativa, sulla sua corretta interpretazione ma anche di analisi
dei dati e della realtà e del confronto tra il de iure e il de facto.
Nonostante la sua mole un po’ corposa e scoraggiante penso si legga molto bene anche per chi
ha passione per queste cose.
Infine raccomando un Manuale giuridico per l’operatore, che dovrebbe essere uscito a Maggio,.
Questo è un prodotto del Servizio Centrale e redatto dall’ Acnur e dall’Asgi ed è un libro sulla
procedura giuridica divisa in: procedura, qualifica, accoglienza e i vari capitoli sono divisi a
seconda del tema che però è esclusivamente normativo. Il primo capitolo è stato del rifugiato, il
secondo protezione umanitaria, protezione dal respingimento, Dublino, protezione internazionale,
accesso alla procedura e il sesto capitolo è la tutela giurisdizionale, aggiornata con il nuovo rito
perché è uscito da pochissimo, e il settimo e ultimo capitolo, quello che vedremo oggi
l’accoglienza.
Questo libro è poi più facilmente recuperabile cartaceo anche perché nella copertina è inserito
un CD, e questo libro dovrebbe essere stato inviato a tutti i programmi SPRAR e ce ne sono più di
mille coppie all’Acnur di Roma quindi basterebbe ordinarle e farvele inviare.
Questi tre libri hanno tre tagli diversi ma è possibile incrociare le parti sull’accoglienza o anche in
generale per farsi un’idea piuttosto dettagliata di quella che è la situazione italiana.
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Il primo libro, quello della provincia di Parma, è quello che non utilizzeremo oggi, mentre useremo
gli altri come traccia.
Prima di tutto per capire dove siamo dobbiamo capire la nostra storia sull’asilo e dobbiamo avere
ben presente che la situazione italiana sull’asilo è una situazione molto molto recente, nel senso
che il nostro paese arriva a gestire la complessa situazione dell’asilo con un ritardo storico
clamoroso. Questo deriva dal fatto che il diritto d’asilo è un diritto costituzionalmente garantito
dall’ art. 10 , comma 3 della Costituzione e da questo punto di vista anzi l’Italia si situa tra i paesi più
avanzati teoricamente del mondo perché ha inserito l’asilo quale diritto fondamentale della
propria carta costituzionale e quindi tra gli articoli non modificabili concependolo come uno degli
articoli soggettivi perfetto dello straniero. Questa è considerata una pietra miliare che ci garantisce
di evitare, almeno su un piano teorico, qualsiasi possibile arretramento della normativa
internazionale su questi temi.
Tuttavia nel concreto è successo che per oltre cinquant’anni non è stato fatto assolutamente nulla,
un po’ perché l’Italia non era luogo di destinazione dei rifugiati, un po’ perché non era terra
d’immigrazione e un po’ per una straordinaria e cocciuta disattenzione su questi temi, dobbiamo
attendere il 1990 per avere la prima legge sull’asilo in Italia.
O meglio il primo articolo di legge sull’asilo in Italia, perché non abbiamo nient’altro che un articolo
nell’abrogata legge Martelli.
E arriviamo appunto al 1990, e prima c’era il nulla. C’era solo la ratifica della Convenzione di
Ginevra del 1951, ratificata nel ’54. Non ci si era neanche preoccupati di disciplinare una
procedura per disciplinare le domande d’asilo in Italia. Non solo, ma l’Italia era tra i pochissimi
paesi occidentali ad aver introdotto una “limitazione geografica” nel 1954 e cioè una clausola che
fu ammessa all’inizio dalle Convenzione di Ginevra e poi fu stracciata da un successivo protocollo
di New York per cui fu abrogata.
Questa limitazione significava che la Convenzione di Ginevra si applicava solamente a coloro che
venivano dall’area dell’ex Unione Sovietica e dei paesi satellite in un’evidente divisione ideologica
del mondo già precostituita che prevedeva da dove sarebbero potuti venire i rifugiati.
Una situazione grottesca, poiché già allora non era così ma che passò sotto silenzio
completamente nell’Italia degli anni Cinquanta- Sessanta- Settanta- Ottanta.
E nel 1990 venne tolta la limitazione geografica.
I motivi per cui siamo arrivati praticamente all’altro ieri senza una normativa del diritto d’asilo sono
molti: perché non solo abbiamo la prima legge nel ’90, ma abbiamo solo un articolo e per di più
anche mal congeniato, molto farraginoso e incitato dentro alla legge sull’immigrazione, e questo
sarà un vizio che continuerà per tutti questi anni, cioè la confusione tra asilo e immigrazione, e
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infine abbiamo una modifica dell’art. 1 della legge Martelli con la legge 189/2002, la cosiddetta
legge Bossi-Fini.
Anche questa non è una nuova norma ma solo una modifica di questo art. 1.
Infine arriviamo appena al 2008, e chi non segue queste vicende rimarrà sorpreso, per avere la
prima vera normativa in Italia sul diritto d’asilo, prima nel 2005 e poi nel 2008.
Normative che non sono nient’altro che decreti normativi di recepimento delle 3 principali direttive
europee che sono ACCOGLIENZA, PROCEDURA E QUALIFICHE.
Poi abbiamo il regolamento Dublino, che però è un regolamento che non incide sulla procedura
d’asilo ma non sulla competenza, o meglio incide si sul contenuto dell’asilo in modo anche molto
forte per molti aspetti, però ad eccezione del Regolamento di Dublino, la normativa italiana è
norma di recepimento comunitaria, tutto qui.
Obbligatoria, vincolante, cioè praticamente quando non potevamo non farlo, lo abbiamo fatto!
Ma prima non abbiamo fatto nulla.
Arriviamo al 19 Gennaio 2008, data in cui entra in vigore il decreto QUALIFICHE, il 3 Marzo 2008 il
decreto PROCEDURE e siamo a ieri, nel senso letterale del termine.
Di quest’ultimo, il decreto procedure, noi non abbiamo neppure il regolamento di attuazione
ancora, da emanarsi entro 6 mesi dal decreto, ma sono passati 4 anni e non abbiamo ancora
nulla.
Quindi non ci dobbiamo stupire che la situazione dei richiedenti asilo e la sua gestione in Italia è
ancora caotica, con un livello scarsissimo di competenza sui territori, con una confusione nella
Pubblica Amministrazione, con una giurisprudenza che a volte da segno di non capire bene di
cosa sta parlando, anche se ha fatto enormi passi avanti, perché come tutte le grandi questioni, il
diritto avanza quando c’è un’evoluzione culturale e sociale, quando si comincia a radicare una
consapevolezza, una conoscenza.
E quindi è ancora una situazione ancora molto fluida.
Le direttive europee erano direttive dia armonizzazione delle norme minime, quindi non erano
finalizzate ad imporre nuove norme agli stati ma ad armonizzare secondo principi minimi, a
standardizzare quelle che erano le legislazioni dei vari stati!
Noi non avevamo nulla da armonizzare e quindi abbiamo preso sostanzialmente
trasfuso le
direttive, il che per certi versi è stato un aspetto molto positivo perché con parecchie
problematiche, la norma italiana presenta oggi anche alcune luci, alcuni aspetti positivi.
A volte l’Italia ha scelto la disposizione più favorevole allo standard minimo comunitario, o meglio
del diritto dell’unione, e quindi abbiamo sulla carta, effettivamente fatto una sorta di rivoluzione
culturale nel 2008, durante il breve governo Prodi.
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E quindi oggi possiamo dire che il corpus normativo è di un certo rilievo, ancorché profondamente
disorganico.
E soprattutto, venendo al tema che ci interesserà oggi, venendo alla direttiva ACCOGLIENZA n° 9
del 2003, che è stata recepita con il decreto 140/2005 è sicuramente il punto più delicato, perché
l’accoglienza è dal punto di vista normativo, e poi vedremo le enormi ricadute pratiche sulla vita
delle persone, è il punto più confuso della nostra norma.
È il punto più carente in assoluto anche se vi sono molti problemi sulla PROCEDURA, molti problemi
sui profili di competenza nell’analisi delle domande, sull’accesso giurisdizionale sulla messa in
produzione del nuovo rito che ha sostituito l’art. 35 del decreto PROCEDURE.
Insomma
vi sono moltissimi problemi aperti, vi è Dublino, però devo dire che nulla è così
destrutturato che il sistema d’ACCOGLIENZA.
È destrutturato per due ragioni fondamentali:
-la prima è perché il decreto 140, che tecnicamente parlando ha avuto un recepimento proprio
sul piano della tecnica legislativa molto molto scadente, era inserito e faceva riferimento ad una
procedura di esame delle domande che è stata completamente abrogata nel 2008 con il nuovo
decreto procedure.
La relazione è evidente: nel momento in cui io penso ad un sistema di accoglienza tutto
improntato sul sistema precedente al 2008 cioè sui centri di identificazione dei richiedenti asilo e
soltanto in parte poi sul sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati, faccio riferimento ad
una procedura che non c’è più e quindi mi immagino un’accoglienza tutta pensata sui centri e
permanenza nei centri e anche sulla permanenza coattiva nei centri, perché nella legge 189 e
quindi anche nel decreto accoglienza, l’invio e l’accoglienza dei richiedenti asilo come ipotesi
prevalente nei centri di identificazione di configurava come una sorta di trattenimento.
Nonostante una teorica libertà di uscita, i centri erano di fatto chiusi, cosa che non è più avvenuta.
Si è molto dibattuto infatti su questa forma di trattenimento, bisognava chiedere l’uscita diurna e
quindi era di fatto una limitazione della libertà personale mascherata, procedura che è durata per
un paio di anni.
Il decreto PROCEDURE ha previsto i CARA con una procedura più liberale e maggiori diritti per i
richiedenti asilo.
Noi abbiamo un decreto ACCOGLIENZA che comunque è inserito e fa riferimento ad una
procedura che non c’è più.
-secondo problema è che l’accoglienza nel nostro sistema è duale, in realtà è plurima. Fioriscono i
centri di ogni genere e tipo e l’emergenza Nord Africa lo ha evidenziato.
Ma anche il Sistema Torino che è tutto speciale, così come il sistema Milano, Roma, sistemi per
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modo di dire perché i limiti sono evidentissimi, perché trovano anche sperimentazioni interessanti
che però non trovano un riscontro né nel decreto 140 né nell’art. 1 della legge Martelli che
disciplina ancora il sistema di protezione, cioè lo SPRAR.
L’art. 1 infatti è stato abrogato tranne due commi, superstiti, orfani, che rimangono ancora li,
completamente slegati da qualunque altra normativa che disciplinano il sistema di protezione dei
richiedenti asilo e rifugiati che esiste come le due strade possibile dell’accoglienza garantita al
sistema pubblico ad un richiedente asilo.
Quindi capite che parlare di un sistema disorganico è un eufemismo, è davvero un sistema a
“macchia di leopardo”.
Il sistema di protezione è sicuramente un sistema molto più tutelante ed avanzato rispetto al
sistema dei Cara, però ha anche le sue gravissime lacune, di cui oggi parleremo brevemente, la
cui principale è legata alla stessa normativa, e se leggerete questo brevissimo comma capirete
che non c’è scritto niente.
Tutto quello che è stato costruito è frutto della buona volontà, sicuramente di alcune disposizioni
amministrative, a volte anche lungimiranti, ma andando a vedere alla fonte la normativa primaria
il quadro è piuttosto sconsolante.
Possiamo porci però varie domande.
Innanzitutto se il sistema risponde effettivamente ai requisiti della direttiva 9 del 2003 ossia di
garantire ai richiedenti asilo un livello di vita dignitoso e condizioni di vita analoghe in tutti gli stati
membri.
Condizioni di vita che sono indicate nella direttiva stessa e cioè condizioni che devono essere
garantite al richiedente privo di mezzi sufficienti a garantire una vita adeguata per la salute e il
sostentamento proprio e dei proprio familiari. Per e da quanto tempo sono questioni che trovano
una risposta nella normativa e non sempre nel nostro decreto perché la direttiva ci dice:
“Gli stati membri provvedono affinché, entro tre giorni dalla presentazione della domanda di asilo
all’autorità competente, ai richiedenti asilo sia rilasciato un documento nominativo che certifichi lo
status del richiedente o che attesti che il richiedente è autorizzato a soggiornare sul territorio dello
stato membro nel periodo in cui la domanda è pendente o in esame”.
Subito dopo:
“gli stati membri provvedono che i richiedenti asilo abbiano accesso alle condizioni materiali di
accoglienza nel momento in cui presentano la domanda e per tutto il tempo in cui la domanda è
pendente o in esame”.
La normativa europea quindi prevede una quasi con testualità tara la presentazione della
domanda di asilo che è una manifestazione di volontà del richiedente e non già il momento in cui
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l’amministrazione si degna di raccogliere la sua volontà su un formulario ma i due momenti
dovrebbero coincidere o differire per ragioni organizzative di un lasso di tempo minimo, da questo
momento e per tutto il tempo che dura la procedura, i richiedenti asilo hanno diritto alla
collocazione in un sistema di accoglienza.
Questa procedura comprende la fase Dublino, sia per quanto la fase che precede l’eventuale
accertamento della competenza e l’eventuale trasferimento del richiedente in un paese terzo,
poiché la competenza è del paese terzo.
Se questo periodo è coperto o meno è stato oggetto di un’importantissima sentenza della Corte di
Giustizia dell’ Unione Europea di non più di qualche settimana fa che ha chiarito questo dubbio,
perché la Corte di Giustizia è chiamata anche a fornire interpretazioni conformi al diritto europeo
di questioni che gli vengono sollevate.
Sicuramente questo periodo comprende tutta la procedura Dublino in andata per così dire ( e qui
si ferma la Corte perché risponde solo al quesito e non altro) ma se leggerete con attenzione
questa sentenza di fatto già risponde ad un quesito che non le è stato per correttezza sottoposto e
cioè che Dublino e l’accoglienza si applica anche ai Dublino di ritorno, cioè gli stati verso i quali il
richiedente asilo al quale viene applicato Dublino viene rinviato, devono riprendere in carico il
richiedente asilo.
E sia nella presa, che nella ripresa in carico, vanno garantite tutte le misure previste dalle direttive e
quindi anche l’accoglienza.
Quelle prassi che tendono a non ripristinare le misure di accoglienza perché magari già godute in
passato al richiedente asilo rinviato in Italia per Dublino si configurano come probabilmente in
contrasto con la direttiva e questa interpretazione non sembra conforme alla direttiva e dovrebbe
essere a mio avviso oggetto di una azione giurisdizionale anche per accertare prima di tutto cosa
ne pensano i tribunali interni e poi eventualmente la Corte di Lussemburgo, se proprio dovesse
essere necessario.
Non è mai stato chiarito, o meglio è oggetto di possibile diversa interpretazione, se la tutela
dell’accoglienza copre anche la fase della tutela giurisdizionale, cioè la fase del ricorso e se tutta
la fase o solo una parte di essa.
La nostra normativa, il decreto 140, tende a limitare questo diritto e anche su questa conformità
alla normativa europea avrei dei dubbi.
Immaginando di essere un richiedente asilo che va a fare domanda cosa deve fare la pubblica
amministrazione?
Deve comunque garantire un’accoglienza. Questo è un dovere e non ci possono essere
discussione, a meno che non sia il richiedente asilo a non chiederla, dichiarando che alloggi presso
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un parente, un amico o comunque situazioni proprie.
Diversamente deve garantire una protezione, un invio presso una struttura di accoglienza il più
tempestivamente possibile.
Quali sono queste misure? E questo è uno dei problemi della normativa italiana.
Secondo la disposizione di legge sono solo due le possibilità.
L’ipotesi di invio ai CARA o l’ipotesi di invio ad un progetto del sistema di protezione.
In teoria tertium non datur, ma in teoria di sono anche quarta, quinta ipotesi cioè le varie possibilità
di accoglienza nei sistemi ad hoc, l’accoglienza presso centri ecclesiastici e strutture alberghiere di
vario tipo e così via.
La norma parla soltanto di due ipotesi: presso i CARA e i sistemi di protezione.
Nei CARA è disciplinata dal decreto procedure e non dal decreto accoglienza,e qui vedete
quanto i decreti si intrecciano e quindi non è separata dall’accoglienza e dalla procedura.
Questo decreto è però cambiato nel 2008, si è sovrapposto, comprimendolo al decreto 140.
Secondo esso è previsto l’invio al CARA più vicino, che nel caso di Torino poi è lontanissimo perché
non c’è in tutto il Piemonte né in Lombardia, ma è a Gradisca d’Isonzo, cioè in provincia di Gorizia
altrimenti si parla di Roma.
Già da qui si capisce che il sistema non può funzionare e da qui sorgono anche i cosiddetti tertium
che a volte anche con grande buon senso sostituiscono le strutture istituzionali per venire incontro
ad una situazione paradossale, quella dell’impossibilità dell’invio al più vicino CARA.
Però la norma parla di invio al più vicino CARA, quindi magari si fa domanda di asilo a Torino e si
finisce a Crotone e in tre diverse ipotesi: la prima disciplinata dall’art. 20 comma 2 lettera A e le
altre due art. 20 comma 2 lettere B e C del decreto PROCEDURE.
La lettera A del decreto dice che vanno inviate ai CARA le persone che non dispongono di un
documento di identificazione e che l’invio al CARA è da considerarsi come l’invio ad una struttura
di accoglienza totalmente aperta e molto assimilabile,almeno sulla carta, all’invio ad uno SPRAR,
poiché l’invio è finalizzato al riconoscimento del richiedente e la procedura è ordinaria, e l’esame
delle domande avverrà in via ordinaria e non straordinaria e questo ha una ricaduta sia sui tempi
del ricorso, sia sul fatto che l’azione in sede giurisdizionale ha un effetto sospensivo automatico, ex
lege.
Questa è la misura più favorevole di invio ad un CARA. Le altre due misure invece, sono più
restrittive e partono implicitamente dal fatto che ci può essere dietro una qualche domanda un
po’ abusiva, perché è stata fatta da uno straniero che è stato fermato per aver eluso o ha tentato
di eludere i controlli di frontiera.
La persona quindi non si è presentata a fare una domanda di asilo ma è stata intercettata durante
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delle operazioni di polizia e quindi potrebbe essere una persona che sta raccontando di essere un
richiedente asilo ma forse non lo è, e quindi si applica una misura di maggiore controllo.
Questa consiste sempre in un invio al CARA ma con una sorta di aureola sfavorevole data dal fatto
che la persona deve rimanere al CARA per tutto il tempo in cui la domanda è pendente e se si
allontana perde il diritto all’accoglienza, mentre nell’ipotesi A si dovrebbe essere poi trasferiti dal
CARA ad un sistema di accoglienza ordinario decorsi i primi venti giorni, anche se non avviene mai.
E questo perché l’accoglienza al cara non dovrebbe durare per tutto il tempo della domanda ma
soltanto durante il tempo dell’identificazione che potrebbe anche teoricamente durare poche
ore, o alcuni giorni, anche se di fatto questa barocca normativa non viene applicata e la realtà è
molto più “sportiva”, passatemi questo termine poco giuridico.
Quando la norma non è chiara la sua interpretazione è molto “rustica”, tant’è che il richiedente
asilo
Seconda il comma 2 lettera B rimane al CARA per tutto il tempo in cui la domanda deve essere
esaminata e in caso di esito negativo la norma prevede un termine più breve per proporre azioni
giurisdizionali, di 15 giorni e non prevede una sospensione automatica del provvedimento di
allontanamento, ma questo deve essere dato dal giudice con l’istanza di sospensione.
Quindi abbiamo due richiedenti asilo in condizioni giuridiche uguali ma appunto come vedete c'è
una presunzione o maggiore propensione ad un trattamento sfavorevole nell'ipotesi B cosi come
nell'ipotesi C, in queste sono analoghe, cioè straniero fermato in condizioni di soggiorno irregolare.
Quindi prima ipotesi fermato alla frontiera o subito dopo oppure fermato in condizioni di soggiorno
irregolare.
Queste sono le ipotesi di invio al CARA che si distinguono nettamente, in ogni caso finché non è
stata presa una decisione negativa le condizioni di accoglienza non possono essere revocate,
dall'invio al CIE, al Centro di Identificazione ed Espulsione, quindi al trattenimento vero e proprio
come limitazione della libertà personale.
Esso avviene che solo in ipotesi che sono fortunatamente molto residuali, e da questo punto di
vista la normativa italiana è più aperta di quella di altri paesi dell'Unione Europea dove devo dire
c'è un utilizzo a volte molto ampio della detenzione amministrativa nei confronti dei richiedenti asilo
in Italia la detenzione dei richiedenti asilo avviene solente in queste ipotesi.
Nelle prime tre si tratta di situazioni di vari reati, e la quarta ipotesi è che lo straniero sia già stato in
precedenza destinatario di un provvedimento di espulsione o di respingimento, ovviamente
provvedimenti non eseguiti ma che successivamente faccia una domanda d'asilo.
Il titolo giuridico del trattenimento è l'esistenza di un decreto di espulsione o di respingimento.
In questo caso il decreto non può essere eseguito se no sarebbe una diretta violazione dell'art. “
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della Convenzione di Ginevra, la domanda deve essere esaminata ma lo straniero deve essere
trattenuto al CIE.
Anche questa fattispecie che è l'art. 21 del decreto sulle procedure va interpretato correttamente
alla luce della direttiva europea sugli allontanamenti, sulle espulsioni, la direttiva 115 del 2008 che
prevede come sua ratio fondamentale la gradualità delle misure e prevede il trattenimento in un
centro e l'applicazione delle cosiddette forme di detenzione amministrativa solo laddove tutte le
altre misure sono state in concreto non possibili e quindi non come misura prioritaria, ma come
misura residuale.
L'Italia poi sta cercando di trovare tutti i sistemi per eludere l’applicazione di questa direttiva, infatti
la direttiva italiana è già stata modificata perché ritenuta non conforme alla direttiva 115, e
abbiamo un nuovo testo da un anno e mezzo su cui ci sono moltissimi profili di dubbi sulla sua
conformità.
Comunque è utile specificare che nessun automatismo è giustificato nella direttiva europea ma
soltanto una valutazione caso per caso.
Quando si va allora al sistema di protezione? La legge non lo dice, lo deduciamo per differenza
cioè laddove non c'è l'ipotesi di invio al CARA, né nell'ipotesi A, né nell'ipotesi B, né nell'ipotesi C,
poiché c'è un obbligo dello stato di fornire assistenza, ci deve essere un invio al sistema di
protezione.
Il “non c'è posto” nella direttiva europea non è contemplato, quindi questa giustificazione italiana
molto ruspante non fa parte del diritto europeo e l'obbligo è quello di attrezzarti perché i posti ci
siano.
Quindi non esiste il caso, salvo non sia il richiedente stesso a non volerlo e a disporre di mezzi propri
manifestamente occultati, caso in cui può essere negata l'assistenza, nelle altre ipotesi è un
obbligo giuridico dello stato quello di provvedere ala sua collocazione.
Dublino abbiamo detto si applica anche durante il periodo dell'accoglienza e la questione di
quando hanno termine le misure di accoglienza, la normativa italiana si dispone che hanno
termine al momento della comunicazione della decisione sulla domanda d'asilo, dice il decreto
140.
Attenzione che non è così perché è intervenuto poi il decreto procedure sulla stessa materia,
sovrapponendosi e disciplinando la possibilità anche dell'accoglienza per i ricorrenti, quindi in fase
giurisdizionale.
Per la questione di quando hanno termine le misure di accoglienza, nella normativa italiana si
dispone che abbiano termine al momento della comunicazione della decisione di sospensione
della domanda d’asilo, dice il decreto 140. Attenzione che non è così, perché naturalmente poi è
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intervenuto il decreto procedure sulla stessa materia sovrapponendosi e disciplinando in realtà la
possibilità anche dell’accoglienza per i ricorrenti, quindi in fase giurisdizionale. Purché però, e qui
c’è un problema di interpretazione della norma, se si deve intendere che comunque dev’essere
inteso nel periodo in cui comunque il richiedente asilo non ha diritto di lavorare, oppure anche in
un periodo successivo, e cioè se l’accoglienza, posto che durante la procedura essa è un diritto
qualunque sia il termine della procedura, se si impiegano quattro anni per convocarmi in
commissione, per quattro anni mi devono sistemare, è un problema dell’amministrazione, non è un
problema del richiedente.
Invece durante la fase giurisdizionale lo stesso diritto all’accoglienza cessa secondo il decreto 140,
ma è uno degli aspetti di dubbia interpretazione, nel momento in cui subentra il periodo successivo
ai sei mesi dalla presentazione della domanda, in cui il richiedente asilo può lavorare. É di
interpretazione dubbia perché la direttiva parla di accoglienza per tutto il tempo della procedura,
e nel nostro decreto procedure in realtà come sapete la fase giurisdizionale è una fase di
accertamento dell’istanza di asilo, tanto che in effetti la condizione giuridica del richiedente asilo
che abbia presentato ricorso è sempre quella di richiedente asilo. Parliamo di ricorrente, però
comunque è richiedente asilo. Quindi l’obbligo di garantire accoglienza per tutto il tempo di
esame della domanda vale comunque anche fino al termine della procedura di accertamento
giurisdizionale oppure in realtà vale soltanto in sede amministrativa e poi in sede giurisdizionale,
vale fino a quando non puoi sulla carta accedere al mercato del lavoro.
Su questo devo dirvi che non c’è giurisprudenza e devo dire che le interpretazioni effettivamente
sono due, cioè che è legittimo interrompere l’accoglienza del ricorrente soltanto nel momento in
cui è concesso un permesso che abilita all’abilità lavorativa oppure l’interpretazione più
estensiva,cioè che l’accoglienza deve durare più a lungo, sono due interpretazioni aperte, in
verità. É pacifico che nei CARA l’accoglienza cessa ma quasi sempre, anche se anche qui
diciamo segnalano prassi più aperte in cui le persone rimangono più tempo, nello SPRAR la
situazione è variegata, cioè abbiamo situazioni in cui di fatto l’accoglienza perdura anche per più
tempo durante l’esame della domanda in sede giurisdizionale.
Certamente l’unica cosa che possiamo dire senza dubbi interpretativi è che permane per più
tempo anche nella fase di ricorsi in sede giurisdizionale se si tratta di situazioni vulnerabili, cioè se il
richiedente rientra fra le categorie dell’art. 8 del decreto 140. Parliamo cioè di situazioni di
particolare vulnerabilità, persone che non possono lavorare per motivi di età, per motivi legati alla
situazione psicofisica, oppure di donne con bambini, e così avanti. Da questo punto di vista è tutto
abbastanza chiaro. Per tutto il resto invece il termine non è purtroppo chiarissimo.
Lasciamo per un momento le parti relative alla revoca delle misure di accoglienza e andiamo a
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vedere qual è il problema che si è verificato nella situazione italiana in concreto, e perché ci
troviamo nella situazione di attuale caos. Il motivo è fondamentalmente illustrato in maniera penso
abbastanza chiara nei vari capitoli del libro “Il diritto alla protezione”, in particolar modo il capitolo
3 ed il capitolo 10, ma è un po’ un tema che attraversa tutto il libro. Il problema fondamentale è
legato a questa confusione normativa, che ha dentro di sé un ulteriore problema, che in qualche
modo è un po’ causa o un po’ conseguenza, o un po’ l’una e un po’ l’altra, e cioè l’assoluta
mancanza di qualsiasi forma di programmazione. Se vi siete mai chiesti se esiste un documento
dello Stato, o delle regioni o della conferenza, di programmazione del sistema asilo in Italia, la
risposta è no. Non è che voi non l’abbiate trovato, non c’è. Cioè il sistema italiano
dell’accoglienza non è strutturato come dovrebbe essere ai sensi della direttiva europea sulla base
del numero delle domande d’asilo presentate, e quindi sul bisogno dell’accoglienza, ma è
strutturato sulla base di decreti del ministero dell’interno sull’organizzazione dei CARA, o anche
sull’organizzazione dei CIE e sull’organizzazione dello SPRAR, che però non è che abbiano una
relazione di diretta risposta al numero delle domande di asilo. Quando voi andate a vedere in
effetti quanti sono i posti di accoglienza e perché sono questi e non altri, il castello casca giù.
Perché, soprassediamo al sistema dei centri di prima accoglienza che sono un altro un po’ dei
buchi neri del sistema italiano, se per esempio andate a vedere quanti sono i posti di accoglienza
nel sistema (vedi cap. 3), che andiamo a vedere che cosa sono i CARA e l’elenco dei CARA
ovvero dei Centri di Accoglienza, che in Italia sono CDA più CARA, con questa terminologia un po’
curiosa, noterete che abbiamo i dati, forniti per esempio dal ministero e da noi rielaborati per la
ricerca, prendiamo i dati 2008, 2009 e 2010 (oggi si potrebbero fare quelli del 2011, ma il libro non li
riportava), e abbiamo i dati della capienza dei centri e il numero degli ospiti accolti. Se noi
andiamo a confrontare, CDA più CARA e solo CARA, se si prova a sommare queste due tipologie,
anche immaginando, che non è un’operazione corretta, che tutti i posti dei CDA siano comunque
dedicati ai richiedenti asilo, che però non è un’operazione corretta perché sono dedicati alle
persone che sono arrivate, che magari non fanno la domanda d’asilo e scompaiono, quindi in
realtà dovremmo calcolare solo le domande dei CARA, però a questo punto l’analisi sarebbe
chiaramente impietosa, quindi possiamo benevolmente immaginare una sovrapposizione
numerica fra le due ipotesi, ebbene se andiamo a vedere la capienza dei centri CDA più CARA
più CARA, vedete che il sistema italiano nell’anno 2008 aveva 5700 posti, nel 2009 5800 E nell’anno
2010 ne aveva addirittura 3850.
Questa è l’accumulazione degli ospiti accolti che non ha nulla a che fare con il numero della
domande d’asilo presentate nel corso dell’anno. Dove sono tutti gli altri? Una parte sono nello
SPRAR, però attenzione perché dovete immaginare che nello SPRAR abbiamo una media di circa
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1500 richiedenti asilo, quindi la metà dei posti disponibili, nel corso degli ultimi anni circa il 50% dei
richiedenti asilo è ospitato negli SPRAR. Quindi, immaginando un sistema a somma con i CARA e
con lo SPRAR, il sistema d’accoglienza per i richiedenti asilo in Italia passava (in realtà il 2911 ha
modificato il quadro) la ratio giuridica che sta dietro passava fra i 5000 ed i 6000 posti. Sono
sufficienti o non sono sufficienti? Naturalmente dipende dal turnover. Il turnover nei centri è di 8/10
mesi (abbiamo avuto modo di verificarlo con la ricerca e poi anche un’altra pubblicazione curata
dall’Università di Roma ha confermato questi dati), quello nello SPRAR è superiore ad un anno solo
per i richiedenti asilo, che poi magari non escono ma cambia la condizione giuridica e poi
rimangono come titolari, ma insomma, quindi complessivamente con quattro calcoli si scopre che
abbiamo più domande d’asilo di quanti siano i posti a disposizione del sistema pubblico. Ed ecco
che capite, intervengono i sistemi paralleli, cioè i sistemi delle aree metropolitane che non sono ne
CARA ne SPRAR, quando va bene, ma non sono monitorati, nel senso che sono stati monitorati per
questo studio, ma non entrano a far parte della programmazione statale, che deve rispondere alla
direttiva comunitaria di tot. posti di accoglienza per tot. richiedenti asilo, quindi quando va bene ci
sono, quando va male non ci sono. Sicuramente nelle quattro aree metropolitane che abbiamo
preso in considerazione nello studio fra Torino Milano Bologna e Roma in realtà meno a Torino che
va meglio, peggio a Milano e soprattutto peggissimo a Roma, il sistema di accoglienza non è
assolutamente adeguato al numero di domande dei richiedenti asilo presenti sul territorio. E quindi
questa è una sostanziale elusione degli obblighi derivanti dalla direttiva accoglienza, ed è la
ragione per cui si trovano ancora richiedenti asilo che dormono per strada in Italia, cosa che non è
prevista nel diritto dell’Unione Europea.
E questo anche vi fa capire perché nel 2011 la cosiddetta “Emergenza Nord Africa” in realtà si è
posta in tutta la sua fisicità, mi verrebbe da dire, con la ricerca di posti di accoglienza ovunque,
dall’ultimo albergatore o l’ultimo convitto, non perché l’Italia sia stata invasa da un numero
smodato di richiedenti asilo, questa è una percezione tutta falsa, perché noi abbiamo avuto, se
togliete il caso dei tunisini che sono venuti per altre ragioni e dileguati rapidamente, in realtà le
domande d’asilo dei richiedenti asilo, non titolari di protezione temporanea e rientranti nella
normativa comunitaria, sono poco più di 25000, ed oggi sono 20000 quelli che sono a carico del
sistema. Si capisce che parlare di emergenza fa un po’ sorridere … infatti quando l’Italia ha detto
di essere in emergenza in sede europea gli hanno risposto “Ah sì? Non ce n’eravamo accorti” …
Italia interpellata, disposizioni comunitarie, addirittura proponendo piani di ripartizione dei
richiedenti asilo, chiedendo fondi aggiuntivi, … però i dati sono quelli, la famosa invasione avrebbe
forse potuto esserci, forse, ma non c’è stata, e le domande di asilo in realtà sono in numero
assolutamente ordinario ma non gestibili da un sistema che è strutturalmente inadeguato per
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affrontare 25000 domande di asilo, tanto che se fate il calcolo e andate a vedere quali sono le
disponibilità di tutti i centri d’Italia di quelli gestiti dallo stato, intendo dire, senza quelli gestiti in
autonomia, come i centri polifunzionali, e se andate a sommare i centri di accoglienza così detti
come i CARA con i centri più o meno normati, al 31/12/10 avevamo 5000 posti di accoglienza, di
cui in realtà come posti disponibili, cioè liberi, 1886 posti. Quindi sono arrivate 25000 domande di
asilo, l’Italia aveva 1886 posti. Ecco l’“Emergenza Nord Africa”: i posti non c’erano. É vero che,
rispetto all’“Emergenza Nord Africa”, un aspetto emergenziale c’era, ed era legato agli arrivi in un
brevissimo arco di tempo con una concentrazione molto forte, arrivi ad imbuto naturalmente
come nella vicenda Lampedusa eccetera eccetera, situazioni che avrebbero messo in difficoltà
qualunque Paese e che avrebbero giustificato sicuramente il reperimento di strutture di
accoglienza emergenziali, sicuramente. Sarebbe ingiusto dire che non sia stato così. Quello che
però fa la differenza è che l’emergenza avrebbe dovuto essere riassorbita nel giro di qualche
mese in un sistema ordinario di posti, e si doveva immaginare che 20-25000 domande di asilo non
erano un’invasione, non era un fenomeno straordinario, un qualunque documento di
programmazione pluriennale l’avrebbe dovuto prevedere, ma questa programmazione non c’é.
Quindi ecco l’“Emergenza Nord Africa”.
Ci sono anche tante esperienze positive, che per fortuna sono nate, perché l’Italia è un Paese di
molte ombre ma anche di qualche luce, però fondamentalmente c’è stata la dissipazione
incredibile di risorse pubbliche per non ottenere nessun sistema, perché quando finirà l’“Emergenza
Nord Africa” la situazione rifluirà a quella precedente, cioè ad un sistema non in grado di
rispondere strutturalmente alla domanda, fino a quando non avremo una riforma normativa sul
sistema di accoglienza. E qui trovate delle proposte nel libro che sono proposte di superamento
del sistema dei CARA e anche di superamento del sistema SPRAR, per un nuovo sistema di
accoglienza sì incentrato secondo il principio del decentramento, e quindi dell’accoglienza
territoriale, ma dentro una cornice normativa riformata profondamente. Oggi i due sistemi non
sono in grado anche se sommati di rispondere alle esigenze delle domande di asilo.
Vi segnalo per il taglio prevalentemente sociale quello che è, mi passerete il termine, veramente il
più drammatico problema italiano che non è neanche tanto quello dei richiedenti asilo che pure si
trovano in condizioni di difficoltà estrema di accesso al sistema di accoglienza, ma la peggiore e
più grave ricaduta di questa confusione normativa e di assenza di gestione pubblica nel senso
forte del termine del sistema Italia ricade sui titolari di protezione, o meglio sul momento di
passaggio dai richiedenti asilo ai titolari di protezione. Mi spiego (vedi cap. 10): voi tutti avete
l’esperienza concreta dei rifugiati che si trovano in condizioni di abbandono, questo è un dato che
caratterizza tutte le città italiane, anche Torino, l’occupazione di stabili o comunque
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semplicemente che quando non si vedono è perché si trovano in situazione di difficoltà. Questo
da che cosa è dato? É dato dal fatto che, allora, qui non parliamo più di direttive europee, la
prima cosa su cui voglio essere molto chiaro è questa, le direttive europee si limitano a disciplinare
l’accoglienza dei richiedenti, possiamo dire che l’accoglienza dei richiedenti fino al termine ultimo
del riconoscimento nell’ipotesi dell’interpretazione estensiva più ampia, però di richiedenti
parliamo. Nel momento in cui lo straniero riceve il riconoscimento della protezione, dico il
riconoscimento attenzione perché quello non è una concessione, ma il riconoscimento di una
condizione politica preesistente che viene appunto riconosciuta, e quindi è titolare di una
protezione internazionale o nel caso italiano anche di una protezione umanitaria, visto che è uno
status interno, la legge sull’asilo tace. Tace perché cosa dice la normativa? All’art. 22 o 27 del
decreto 251, il Decreto Qualifiche, ci dice che il titolare della protezione internazionale ha gli stessi
diritti in campo sociale del cittadino italiano. E quindi la competenza è quella della gestione dei
servizi del territorio in cui si trova ed in cui è residente.
Primo grande problema: il sistema italiano prevalente è quello del CARA (lasciamo perdere per un
momento il sistema SPRAR, che tra i tanti pregi ha evitato questa situazione pirandelliana), quindi
del centro di accoglienza in Italia per i richiedenti asilo, centri che sono tutti grandi centri collettivi,
situati in genere in aree periferiche, periferiche anche proprio geograficamente nel Paese, quasi
tutte nel sud, e sono strutture di grandissime dimensioni spesso anche degradate (ma questo è uno
dei tanti aspetti) e ricavate ancora da strutture che nulla avevano a che fare con l’accoglienza
dei richiedenti asilo. Diciamo che la struttura prevalente è quella degli aeroporti militari dismessi.
L’esecutivo italiano ha avuto una passione per gli aeroporti militari dismessi, perché tali sono il
campo di Crotone, il campo di Foggia, quello di Caltanissetta era una caserma. Le situazioni sono
essenzialmente queste. Se prendiamo ad esempio uno di questi campi (di Crotone, ma anche di
Bari, o di Foggia, è indifferente), io sono richiedente asilo in questo centro, divento un rifugiato
perché mi viene riconosciuta la condizione di protezione, finalmente c’è un riconoscimento, e
quindi secondo la legge godo dello stesso trattamento in termini di accesso ai servizi sociali e
sanitari del cittadino italiano. Ma io mi trovo al campo di Foggia borgo Mezzanone. Comune di
competenza: Manfredonia.
A questo punto, cosa succede? Cosa sarebbe dovuto succedere? Io sono al campo di Foggia
borgo Mezzanone, comune di Manfredonia, da sei mesi, otto mesi, dieci mesi, è indifferente, sono
al campo da più di tre mesi. Cosa sarebbe dovuto succedere? Applicazione dell’art. 6 comma 5
del testo unico sull’immigrazione, e cioè deve considerarsi dimora abituale dello straniero ai fini
della residenza, la permanenza in un centro di accoglienza da più di tre mesi. No, perché io
altrimenti eleggo residenza nel campo di borgo Mezzanone comune di Manfredonia, che diventa
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immediatamente responsabile del mio teorico percorso di inserimento, ma non è così. Per evidenti
e se volete anche logici motivi per il povero comune di Manfredonia, che avrebbe accumulato
nel corso degli ultimi dieci anni più profughi che abitanti. E che cosa avviene nel concreto? Nel
concreto avviene che mi viene rilasciato un permesso di soggiorno per, per esempio, status di
rifugiato, con sopra un indirizzo, che è borgo Mezzanone. Mentre mi viene rilasciato il permesso di
soggiorno con status di rifugiato residente in borgo Mezzanone, io devo anche lasciare perché
quello è un centro per richiedenti asilo.
Alla domanda dove posso andare, la risposta della pubblica amministrazione italiana è: dove vuoi,
non c’è nessun problema. Anzi, ti pago pure il biglietto per andare via, perché guarda caso
l’amministrazione ha trovato molte volte anche i soldi per i treni, per esempio, vuoi andare a
Torino? Ecco il biglietto. Persone che sono arrivate tramite convenzioni con le Ferrovie dello Stato.
L’amministrazione italiana in questo senso è particolare nel contesto europeo. Il senso dello Stato è
molto attenuato a volte proprio all’interno delle istituzioni. Quindi non c’è problema, io faccio il
biglietto, vai dove vuoi, basta che non stai qui. Io quindi arrivo a Torino, a Milano, a Roma,
tendenzialmente non arriverò a Isernia che non so neanche dov’è, però in teoria andrò in uno
qualsiasi dei cinquemila comuni italiani con un indirizzo nel mio permesso di soggiorno che indica
l’unico luogo in tutta Italia in cui non posso stare. Neanche Pirandello sarebbe riuscito ad
immaginarsi una situazione di questo tipo. Io sono in teoria residente ma non lo sono nell’unico
posto in cui non posso stare. Quindi dove sono residente? Chi è responsabile del mio percorso di
integrazione? Come avrebbe detto Pirandello, tutti e nessuno. Tutti che è, quindi, nessuno. Se non
ho la fortuna di incrociare un servizio che comunque mi inserisce in un percorso di inserimento, se
non sono inviato in progetto SPRAR successivo al riconoscimento, se non ho un amico, un parente,
un conoscente, un santo in paradiso o qualcun altro, il mio posto è la strada, eppure io sono
teoricamente titolare di un diritto di accesso ai servizi sociali come gli italiani, e sono tra l’altro
nullatenente, privo di lavoro, nel centro non ho imparato l’italiano (perché nei centri spesso sono in
gran parte depositi per lunghissimi periodi di tempo, per cui è normale che le persone ne escano
senza sapere nulla), e comincia un gioco al massacro della persona e della dignità umana, in cui
chiaramente l’ente locale a cui mi rivolgo mi vede come uno dei tanti e non vuole riconoscermi la
residenza (“Oh mio dio no no, un altro? Ma tu non sei residente qui. Perché non hai scelto uno
degli altri cinquemila comuni, scusami?”), perché avrei dovuto essere residente a Manfredonia,
cosa palesemente assurda a meno che non vi sia un sistema nazionale che prevede un fondo
(capite però che è un meccanismo assurdo?) per l’integrazione a Manfredonia, che non può
avvenire per migliaia di persone, oppure che non preveda un sistema, ma non c’è, che garantisce
ad ogni rifugiato una sorta di dotazione che può essere “spesa” in qualunque altro comune
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italiano, magari organizzando il trasferimento o anche per volontà della persona ma per cui in
qualche modo la persona sia titolare di un pacchetto di integrazione.
Siccome questo non è previsto se non nella residuale misura dello SPRAR, il meccanismo è un
meccanismo di avvitamento perché produce senza fissa dimora sostanzialmente. E li produce in
una maniera elevatissima, sempre coi numeri dell’asilo naturalmente, perché se voi vedete i grafici
(vedi cap. 9), se confrontate gli ultimi quattro anni, dal 2007 al 2010, di titolari di protezione
umanitaria riconosciuti, guardate gli ingressi dai CARA allo SPRAR che sono l’unico sistema previsto
per l’inserimento dei rifugiati (vi sono anche dei sistemi paralleli, però non sono quantificabili, e non
sappiamo i sistemi dell’arrangiamento privato quali possano essere), incrociate questi dati con i
richiedenti asilo accolti nello SPRAR fin dall’inizio. Arrivate alla conclusione che i titolari di protezione
già richiedenti asilo nello SPRAR, cioè coloro che diventano titolari di protezione (i fortunati, perché
in Italia esistono dei fortunati da questo punto di vista, cioè tutti i richiedenti asilo che entrano in un
progetto SPRAR, si fanno tutto il periodo di attesa nelle SPRAR, vengono riconosciuti, rimangono
dove sono o vengono spostati in altri centri ma non subiscono nessuna perdita dell’accoglienza e
hanno un percorso di inserimento sociale, questa quota di situazione, sono quote tutelate), se
incrociate questi dati in un grafico complessivo si scopre (vedi grafico) che i titolari di protezione
nel quadriennio (la colonna A) ed i titolari di ingressi nello SPRAR dai CARA (colonna B), cioè quelli
che ce l’hanno fatta a trovare un posto dopo il CARA, gli altri erano già nello SPRAR (colonna
B+C), e sono l’ipotesi di coloro che hanno trovato un posto. La differenza (fra la colonna A e la
colonna B+C) è di coloro che non hanno trovato nessun posto. Nella percentuale, coloro che
hanno trovato un posto nel quadriennio 2007/2010 sono il 32% dei casi, e coloro che non l’hanno
trovata il 67,6%. Quindi l’Italia abbandona sulla strada tendenzialmente intorno al 60/70% dei titolari
di protezione. Questo è il sistema Italia.
C’è poco da discutere poi sulle occupazioni, sulle stazioni, o su altre situazioni di questo tipo. Ora,
così come è chiaro che qui (“Si potrebbe dire sì, ma ci sono quelli che vanno comunque in
accoglienza in altre forme, ma ci sono quelli con reti parentali, amicali eccetera eccetera”) si
potrebbero trovare persone che abbiano usufruito di aiuti in altre forme o di reti parentali, però lo
scarto rimane evidente. Nessuno saprà se sono il 67,6% o meno, però una cosa è chiara da questi
dati, che non sono finora stati contestati da nessuno e sarebbe piacevole se qualcuno lo facesse,
sono disponibile al confronto, ma fino a adesso nessuno si è fatto avanti (“a dire no, non è vero, noi
li assistiamo tutti oppure no, rimane fuori un 10%, non vi preoccupate, no no non è così, non pare
che sia così”) per mettere in dubbio o negare la veridicità di questi dati. Il sistema non guarda in
faccia nessuno, esci dal CARA, se poi magari eri vittima di tortura, non ce ne siamo accorti.
Chiudo con una nota anche qui che illumina molto bene la problematica Dublino e che ha a che
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fare con i dati che vi ho appena dato. Sono allarmanti i dati Dublino sull’Italia. Il Sistema Dublino è
totalmente inefficace e produttore di grandissimo disagio, tanto da essere riconosciuto in sede
internazionale, tra l’altro dovremmo essere alla vigilia di una modesta variazione del Sistema
Dublino che forse verrà varata dal parlamento europeo entro la fine dell’anno. Comunque, non
c’è nulla di strano a immaginare che l’Italia ha un così detto saldo positivo in Dublino, cioè che
ovviamente ci vengono restituiti i richiedenti asilo che transitano dall’Italia, vanno altrove e poi
tornano. Forse vi stupirà però quest’ultima tabella, questa centrale, che somma i dati derivanti dai
due principali punti di restituzione Dublino in Italia, che comprendono il 90% dei casi. C’è qualcuno
che viene rinviato a Torino Caselle, c’è qualcuno che vien rinviato anche a Bologna, ma sono
situazioni del tutto residuali, diciamo che oltre il 90% dei casi vengono restituiti via aereo a Fiumicino
e, in misura minore, a Malpensa. Abbiamo analizzato i dati di entrambi gli aeroporti, e abbiamo
scoperto che nell’anno 2009/2010 i richiedenti asilo restituiti all’Italia per Dublino sono 300, 368,
eccetera.
Poi
noterete
dalla
parte
opposta
una
strana
tabella
“Altro”,
che
sono
fondamentalmente situazioni riconducibili alla protezione umanitaria o a procedure di asilo non
ancora terminate e quindi situazioni in qualche modo pendenti, e poi la fanno da padrone i due
istogrammi centrali di beneficiari di protezione internazionale. Cioè: i casi Dublino prevalenti in Italia
non sono i veri casi Dublino, cioè di richiedenti asilo che vengono istituiti in applicazione delle
norma secondo il regolamento, ma sono titolari di protezione internazionale, che fuggono in un
altro Paese dove fingono di non aver mai avuto una protezione in Italia, rifanno la domanda
d’asilo. Vengono rinviati in Italia per Dublino ma è una restituzione finta perché in realtà sono titolari
di protezione, ed in effetti non ricevono nessuna misura di accoglienza al loro rientro, ritornano
all’aeroporto di Fiumicino e finiscono di nuovo in strada come prima.
Ora, certo, questo fenomeno è in parte spiegabile con la tendenza ad andare in altri Paesi per
trovare maggiori e migliori occasioni di lavoro, ricongiungersi a situazioni di comunità allargate e,
perché no, per trovare situazioni di assistenza tendenzialmente migliori di quelle italiane, ma è
difficile non notare in questo fenomeno anche la fuga di coloro che sono stati lasciati a loro stessi,
e che ad un certo punto si dicono “qui non c’è più niente da fare, provo a resettare tutto e a rifare
la domanda in un altro Paese”.
DOMANDE [D: domanda, R: risposta]
-
D: In caso di protezione internazionale ottenuta la protezione in Italia, andando in Europa, in
Francia, ha possibilità di lavorare regolarmente?
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-
R: Tendenzialmente no, a meno che non faccia una domanda e non ottenga
l’autorizzazione dal Paese interessato a trasferirsi in quel Paese perché c’è una possibilità di
ingresso specifico. Altrimenti, il permesso di soggiorno gli permette di viver, soggiornare e
viaggiare liberamente in tutti i Paesi dell’Unione ma non di esercitare attività lavorative.
Dico tendenzialmente perché è già stata approvata ed è in fase di implementazione una
direttiva europea che equipara il titolare di protezione internazionale al titolare di carta di
soggiorno decorso lo stesso periodo di anni, per cui serve una permanenza di almeno
cinque anni all’interno di quello Stato membro. A quel punto, siccome, anche perché si era
creata un’irragionevole disparità di trattamento nei confronti dei rifugiati, che erano
sfavoriti rispetto ai titolari di carta di soggiorno. A quel punto, l’accesso al mercato del
lavoro è uguale. La direttiva deve essere recepita entro il 2013 da tutti gli Stati, per cui
diciamo che la situazione andrà modificandosi a partire da metà anno, però lentamente,
perché comunque nel primo periodo non è possibile, salvo situazioni particolari che
dipendono dall’assurda discrezionalità dei meccanismi di ingresso da Paese a Paese.
Proprio oggi al telefono mentre venivo qui un rifugiato che conosco bene che era stato
assunto come marinaio da una compagnia tedesca; la compagnia tedesca ha bloccato
la sua assunzione perché han detto che non si poteva fare, deve fare una domanda
tramite il consolato e vedere se viene autorizzato il suo ingresso per lavoro in Germania
anche se lui è un rifugiato e ha naturalmente la patente internazionale, però meccanismi di
questo tipo ancora limitano il libero accesso al mercato del lavoro dei rifugiati che in effetti
sono legati da una normativa molto arretrata al Paese di riconoscimento presupponendo
che sia anche il Paese di integrazione sociale, o perlomeno il primo Paese di integrazione
sociale. Essendo questa prassi assente in Italia, fa uscire tutti questi rifugiati che poi si
trovano in questa situazione.
-
D: Per un titolare di protezione internazionale, qualora fosse situato in altro Paese europeo e
stia svolgendo attività di lavoro non legali, potrebbe avere delle ricadute sul suo permesso
di soggiorno?
-
R: Ovviamente no, sono ricadute legate alle sanzioni, alle eventuali sanzioni adesso legate
anche alla normativa europea sullo sfruttamento del lavoro nero, ma non certo che
pregiudichino la sua posizione di titolare di protezione che non può essere tolta per questa
ragione. Le conseguenze sono sul datore di lavoro, perché ha dato lavoro nero a questa
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persona, oppure in questo caso più che lavoro nero sarebbe … sì, ci sono anche delle
situazioni di lavoro nero per i rifugiati, è vero.
-
D: Una persona che intenda fare richiesta all’estero per avere diritto di asilo nonostante
abbia già fatto richiesta in Italia, viene subito riconosciuta attraverso le impronte digitali?
Quanto tempo ci possono mettere per capire che ha già la protezione in Italia?
-
R: Su come funziona il Sistema Dublino ci sono state varie ricerche a dire la verità. Una cosa
che possiamo dire con certezza è che non è affatto vero che il sistema individua tutti, non è
vero. Il sistema non individua tutti, tanto che in effetti i trasferimenti da un paese all’altro dei
così detti casi Dublino sono molto inferiori a quelli che sono in transito. Certo nel caso dei
titolari di protezione noi abbiamo una possibilità molto molto elevata perché si tratta di una
persona che ha quei documenti, quelle impronte digitali, quel nome, e quindi la persona è
registrata nel sistema informativo Schengen, e anche se si fa passare con un nome finto nel
Paese terzo, il confronto delle impronte digitali tendenzialmente li individua come già titolari
della protezione in Italia. Anche in questi casi succedono situazioni in cui in realtà non c’è
rinvio, però secondo me prevalentemente non c’è rinvio perché in realtà il titolare di
permesso internazionale è una persona già titolare di permesso di soggiorno dell’Unione
Europea, quindi non può essere facilmente restituito coattivamente per esempio all’Italia,
quindi molte volte il titolare di protezione una volta scoperto, semplicemente si sposta. E
continua la sua peregrinazione.
-
D: Ma quanto possono stare all’estero, novanta giorni?
-
R: Sì, il periodo del turismo ripetibile attualmente, difficilmente quantificabile perché non ci
sono timbri, non ci sono registri, no? Quindi in teoria sono persone che possono vivere anni
all’estero. Una buona parte dei rifugiati italiani vivono all’estero così, magari usufruendo di
reti familiari o parentali allargate. Io spesso conosco per esempio tantissime persone che
vivono da anni altrove e che non sono restituite all’Italia, e se qualcuno li vede e chiede
loro qualcosa, come quando sei arrivato, loro rispondono che sono arrivati ieri. Quindi una
vita diciamo non proprio clandestina però non di accesso ai diritti che consentirebbe la
propria posizione del proprio status all’interno dell’Unione Europea.
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-
D: Esistono casi in cui la normativa di qualche altro Stato nazionale ha riconosciuto il diritto
di un rifugiato che si è spostato a restare?
-
R: Qui non dipende dalla legge sull’asilo, ma dalla ripeto assolutamente discrezionale delle
quote di ingresso se ci sono o comunque delle modalità con le quali viene concesso ad
uno straniero di trasferirsi in quel Paese per lavoro. Quindi l’esistenza di legami familiari, o
parentali, l’eventuale chiamata per lavori nei quali c’è una mancanza nel mercato del
lavoro in quel momento, l’accordo con Paesi terzi (per esempio in questo caso anche il
rifugiato comunque ne è parte), però è molto molto limitata, e sicuramente l’Europa è
interessata da un grande fenomeno di esistenza di un sommerso proprio di rifugiati che
vivono sul proprio territorio e che vanno ad occupare nicchie del mercato del lavoro in
maniera non regolare, e di questo si parla pochissimo. É un fenomeno sommerso, di cui
sicuramente non c’è consapevolezza e non c’è capacità di agire ancora nell’Unione
Europa, perché l’Unione teme sostanzialmente il disimpegno dei Paesi membri, perché se
autorizzo immediatamente ed automaticamente il rifugiato a venire da me a lavorare, non
rimarrà un minuto di più in Italia. O in Spagna, o in Grecia, ormai anche la Grecia è
dichiarata Paese non sicuro per i richiedenti asilo quindi sostanzialmente è una situazione ai
limiti di quello che era previsto dal diritto europeo. Però nel caso italiano sicuramente non
rimarrebbe quasi nessuno, oppure i pochi che abbiano avuto quel percorso di inserimento
sociale, per cui a livello comunitario sono estremamente restii ad un’apertura immediata
dell’accesso al mercato del lavoro dei titolari di protezione per queste ragioni. E
spingerebbero non adeguatamente i Paesi membri a fare un programma di integrazione
dei rifugiati titolari sul territorio, cosa che detto francamente l’Italia non fa, e che pur con
tutte le difficoltà legate all’accesso al mercato del lavoro, alla crisi eccetera, in realtà
parliamo di poche decine di migliaia di persone. Quindi in realtà questo fenomeno è
sicuramente creato colpevolmente dall’Italia, che neanche quei pochi che riconosce
riesce poi ad integrare, perché noi parliamo comunque di qualche migliaio di persone
all’anno. Quindi certo che abbiamo difficoltà a trovare inserimento sul mercato del lavoro,
ma possiamo dire pacificamente che la maggior parte dei rifugiati potrebbe inserirsi in
Italia, e se non si inserisce è perché il meccanismo è un meccanismo di espulsione dal
nostro sistema, sostanzialmente.
-
D: Rispetto alla direttiva che deve essere recepita nel 2013, quindi entro il 2013?
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-
R: Non ne sono sicuro, entro dicembre o sì, comunque 2013.
-
D: Sarà sicuro quindi che dopo cinque anni possono poi andare a lavorare all’estero?
-
R: No, non sarà sicuro perché ci possono anche essere ritardi nel recepimento.
-
D: E non vengono sanzionati in nessun modo?
-
R: In teoria sì, però … potremmo anche avere ritardi nel recepimento e slittare al 2014,
bisogna vedere quale sarà la situazione del prossimo anno, la calendarizzazione dei lavori.
Per il momento non c’è una data se non il termine del diritto europeo, che molte volte
viene violato nel senso che gli Stati, non solo l’Italia, vanno oltre. La direttiva procedura è
stata recepita uno, due, anni dopo, da molti Stati, l’Italia da questo punto di vista ha
percepito un ritardo, ma neanche tanto, con il recepimento nel 2008. Quindi non si sa.
Zahra Osman Ali: Sono Zahra a sono in Italia da ormai tredici anni. Lavoro sempre nell'ambito degli
immigrati, prima immigrati economici e ultimamente con i rifugiati, precisamente dal 2008 lavoro
con i rifugiati.
Essere mediatrice è una figura molto complessa e non ben definita. Mi occupo di decodificare i
bisogni e le esigenze delle persone immigrate e dall'altra parte spiegare loro cosa vuol dire viver in
Italia, cosa comporta.
Spesso le persone immigrate che accogliamo non sanno a che cosa vanno incontro. Ad esempio
io sono della Somalia e vorrei parlarvi sopratutto di questo: in Somalia c'é la guerra da 22 anni, e
vuol dire che da 22 anni non esistono scuole, uffici e documenti e dopo 10 anni che è caduto un
governo i documenti non sono neanche più riconosciuti e neanche i documenti che sono stati
emessi dopo quella data.
Le persone arrivano qua non per scelta, non per amore, non per studio ma per scappare da una
situazione molto pesante in cui è stato impossibile continuare a vivere.
D' altra parte sono persone che non hanno avuto la fortuna di vedere una vita tranquilla e serena;
io ho una figlia di 22 anni che in quel momento era in pancia e perciò non sa nulla delle Somalia e
quando una persona le chiede delle informazioni sulla Somalia è come se le chiedesse dell'
Australia.
Io vorrei raccontarvi nel mio piccolo, le mie esperienze sul mondo dell'accoglienza.
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Per me accogliere vuol dire “fare entrare”, “ricevere” e questo vuol dire essere un po' sensibile e
vedere di cosa ha bisogno questa persona,perché ti sta chiedendo accoglienza, vuol dire che
non ha niente, che non ha il posto dove andare, perché se no non si va a bussare alla porta di
un'altra persona.
Quando arrivano le persone spesso vengono da molti paesi e ultimamente dal Nord Africa e
dall'Africa dell' Est, ma ci sono pochi interpreti.
Non parliamo adesso di mediatori perché, secondo l'emergenza Nord Africa i mediatori che sono
presenti nei centri di prima accoglienza non sono sufficienti per soddisfare o comunque per fare
un momento di riflessione con i rifugiati, secondo i loro bisogni.
I richiedenti asilo: ma le persone sanno che sono richiedenti asilo? Sanno che cosa devono
chiedere?
La tragedia della guerra in Libia, perché l'emergenza Nord Africa ci arriva dalla Libia, dove
comunque queste persone si sono create un contesto di vita, si sono create un lavoro,una forma di
sopravvivenza, perché c'è stato un momento in cui sono stati bloccati gli arrivi dei gommoni e da
quel momento visto che non avevano possibilità di arrivare in Italia e in Europa , si sono creati una
vita.
Una vita in un paese straniero a loro; che usava dei sistemi di integrazione o di ricerca del lavoro
molto diversi dall'Italia. Sono scappati dalla guerra, e fra questi c'erano anche dei somali che
erano scappati dalla guerra del loro paese sono scappati anche dalla guerra in Libia. Arrivano qui
e qual' è il loro bisogno?
È trovare un posto che sia possibilmente lontano dalla guerra.
Arrivano persone che hanno sempre paura, diffidenti e non hanno fiducia perché sono passati
ultimamente in Libia, un paese che usa dei sistemi poco lodevoli , da schiavisti.
Dalle interviste con queste persone emerge che erano considerati come schiavi; non
potevano prendere i mezzi pubblici che spesso venivano fatti scendere, oppure una qualunque
persona di nazionalità libica poteva picchiare uno straniero perché non aveva il permesso di
soggiorno ed era illegali e in quanto illegali.
Erano vittime di qualunque forma di abuso; di violenza e tortura e utilizzo della legge nei confronti
di questa persone perché potevano essere portati in carcere o picchiati o si poteva anche
prendere i soldi o il cellulare e loro non potevano ribellarsi.
Da quel contesto quando arrivano qua e vedono una luce, la speranza, persone che li accolgono,
gli danno dei vestiti li soccorrono e li portano un posto senza dover pagare, anche questo per
chi scappa da una situazione peggiore, già è tanto.
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Ma con il tempo di sono trovati che hanno firmato dei documenti che non tutti sapevano che
cosa firmavano perché non c'erano interpreti sufficienti o in grado, che hanno tempo o voglia di
spiegare i loro diritti.
Diciamo questo perché dopo abbiamo sentito delle persone che dicevano che non volevano
neanche chiedere l'asilo politico in Italia perché sapevano che non sarebbero mai stati accolti
come rifugiati in Italia.
Perciò è questo fa capire che le persone non erano consapevoli, non sapevano a che cosa li
portava firmare quei documenti.
Io sono andata a lavorare nel 2008 al CARA di Bari.
È una struttura molto lontano, che era la zona aeroportuale degli hangar non usati e queste
persone vivevano là.
Sono stati creati dei prefabbricati e come mensa c'era un tendone .
Io lavoravo con la questura come interprete e non come mediatrice, e ogni volta che
rappresentiamo un'istituzione o con una cooperativa o dobbiamo comunque rappresentare
qualcuno, veniamo visti come quelle persone con le quali lavoriamo.
Queste persone erano duemila persone e l'ufficio della questura si trovava di fronte al posto della
distribuzione dei cibi. Spesso mi faceva ricordare il lager della Germania.
Le persone in fila fuori, a qualunque tempo, fuori da questo capannone di tela con i numerini e
venivano identificati attraverso nomi, non numeri.
Potevano prendere una busta di plastica in cui c'era dentro del cibo; preparato fuori e portato da
una cooperativa che forniva il cibo e dovevano portarselo ovunque.
I sistemi di igiene erano non a norma e la situazione era di disagio totale.
All'interno c'era una cooperativa che gestiva l'accoglienza ma non aveva mediatori su almeno
quattro o cinque lingue maggioritarie, perché le persone venivano dalla Nigeria, Somalia, Etiopia,
Gambia, Ghana, Marocco, Tunisia e altro.
Il disagio era enorme.
Passavano otto o nove mesi tra l'arrivo e il periodo in cui venivano notificati e veniva dato il
permesso di soggiorno, con l'obbligo di lasciare il luogo.
C'è stato un periodo in cui non si riconosceva neanche il biglietto dell'autobus e se non si lasciava,
il permesso di soggiorno veniva ritirato dietro una minaccia, che in realtà era falsa perché una
persona a cui viene rilasciato il permesso di soggiorno ha diritto a questo permesso.
Come si distribuivano? Se c'erano comunità nel loro paese si riversavano in quel paese come è
successo nel 2009, abbiamo avuto molti somali perché in quel campo le persone che
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venivano riconosciute erano principalmente somali, eritrei altrimenti i nuclei familiari con
riconoscimento di protezione umanitaria.
Ci siamo trovati ad un certo periodo Torino piena di somali da tutte le parti dell'Italia, perché c'era
una struttura in Corso Peschiera, l'ex clinica San Paolo che era chiusa da dieci anni e hanno
occupato quella struttura.
Vivevano in situazioni di disagio non erano sostenuti da nessuna istituzione, né erano su una strada
principale ma creavano solo disagio.
Ma cosa significa essere accolti e avere gli stessi diritti di tutte le persone che richiedono asilo
politico e sono ospitati negli altri paesi europei, visto che non c'è un trattamento speciale solo per l'
Italia.
Le persone ci chiedevano perché avevano questo trattamento e da li si scatenavano una serie di
rabbie, di sconforto e molte persone hanno avuto dei problemi psichiatrici, di depressione, di
alcolismo che non avevano quando erano arrivati.
Però quando uno si trova in un contesto, e molte di queste persone hanno tentato di andare in un
altro paese e sono state rimandate indietro, si sentivano in una gabbia, costretti a vivere questa
vita disumana, senza possibilità.
Spesso queste persone sono carenti di alcune formazioni ma sono molto preparate rispetto a
quanto riguarda l'ambito sull'immigrazione europea, sanno il diritto e la legge cosa prevede ne
riguardi dei rifugiati.
E quindi sono stati necessari gli interventi delle chiese e delle associazioni per aiutare queste
persone, le istituzioni si sono un po' mosse per suddividere in due contesti diversi: uno per le
persone più vulnerabili e l'altro per le persone più sane che potevano comunque partecipare alla
formazione attraverso dei progetti che avevano una durata di sei mesi.
Ma vulnerabili, cosa mi viene in mente?
Quando uno è vulnerabile che ha bisogno di un aiuto più lungo nel tempo, da questo io non mi
aspetto che nel giro di un anno possa reggersi con le proprie gambe e si possa inserire anche
perché molto sono analfabeti, malati, hanno problemi psicologici e di depressione.
Hanno paura perché sono nati con la paura, nella diffidenza.
In Somalia era un conflitto interno tra somali, non erano diversi.
Quindi loro avevano paura, se degli operatori andavano da loro, loro avevano paura, che
potessero denunciarli, che potessero essere della polizia, dei carabinieri.
Perciò c’è sempre stata questa paura e ci vuole un lungo periodo per conquistare la loro fiducia,
per fargli capire che non sono della polizia, che non vogliono condannarli che non vogliono fare
delle azioni contro di loro ma per loro, per aiutarli.
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Il progetto è finito dopo un anno ma le persone erano ancora deboli e cento persone sono state
accompagnate in una struttura di tamponamento, di emergenza per cercare delle case dove
potessero vivere in nuclei da loro scelti, sul territorio del Piemonte.
Qui è stato fatto un lavoro immane, molto pesante ma perché non si poteva fare prima?
Quello che i rifugiati chiedono è: “Se noi siamo arrivati, abbiamo chiesto asilo politico, qual è stato
il piano, il programma di accoglienza preparato per noi?”
Perché non si fa come altri paesi in cui c’è un periodo di un anno, due anni o tre in cui si dia un
minimo di sostegno e di aiuto a seconda della loro scolarizzazione.
Quando pensavamo che si poteva trovare un piano di lavoro ecco che l’Italia e Torino viene
sommersa dall’emergenza Nord Africa.
L’avvocato prima diceva che a Torino non c’è un CARA. Io dico che c’è un CARA, perché per me
significa Centro Accoglienza Richiedenti Asilo è un centro dove si trovano più persone che
vengono da diversi paesi che sono in questo status di attesa perché devono ancora passare e
vengono sostenuti dal Fondo Europeo per l’accoglienza.
I tempi: tre mesi ha detto l’avvocato, invece siamo arrivati ai tempi di un anno e tre mesi adesso,
durante i quali le persone si trovano comunque impossibilitati di muoversi, di crearsi un futuro, un
programma, se tornare nel paese, proseguire.
Non sanno sono in stand by.
Gli esiti della commissione non sono ancora arrivati, abbiamo tantissime persone.
Io vi parlo solo di un CARA di Torino di 230 persone ma ci sono anche altre realtà di un numero
abbastanza grosso, di altre strutture che ospitano persone di questo genere.
Quello che chiediamo noi è che vadano a scuola, che vengano iscritti ai corsi d’italiano per
stranieri, ai CTB, ma se queste persone vengono diniegate, sapendo in primis che vengono da
questo paese canaglia che l’Italia non accetta devono essere rispettate.
Davanti a questo rifiuto loro pensano “ma chi me lo fa fare” di imparare una lingua che non mi
serve, che mi serve solo per stare in Italia, ma se questo paese mi impedisce qualunque possibilità
di inserirmi nel tessuto sociale e trovarmi un lavoro.
Sono demotivati, per cui dopo un anno e tre mesi ci troviamo delle persone che nonostante sia
stato spiegato tutti i posti dove potrebbero trovare queste formazioni, e per fortuna Torino è piena
di associazioni che possono aiutare le persone analfabete
conseguire anche la licenza media, comunque
a imparare la lingua italiana o a
queste persone sono restie e demotivate a
proseguire.
Ma c’è una speranza.
A seconda del tempo queste persone manifestano delle speranze e degli atteggiamenti.
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“Quando andremo in commissione?” “Quando riceveremo delle risposte?” “Dove andremo dopo
il 31 Dicembre 2012?”
ci immaginiamo come ci si può sentire a non sapere cosa fare della propria vita dopo due mesi?
È abbastanza difficile e pesante.
Dopo il diniego c’è il ricorso poi queste persone devono pagarselo loro il continuo del percorso.
Ma con che cosa? I rifugiati spesso dicono che l’Italia è il paese delle carte.
Tutto sta nelle carte però effettivamente le cose sono diverse da operatore ad operatore.
Se questo è più sensibile è possibile che almeno un sorriso umano lo si trovi, rispetto a quello che
non vuole vedere un rifugiato e che pensa cosa vengono a fare e perché non sono rimasti nel loro
paese.
Queste sono le diverse sfaccettature delle accoglienze perché dipende da chi li accoglie, da chi
è responsabile, dal gruppo degli operatori che girano intorno a quel contesto.
Dipende dal contesto, dal comune, dove vivono e quanto sia sensibile ad accogliere e ad aiutare
e a considerarli come esseri umani, non come invasori, non come dei ladri che sono venuti a
rubare nelle nostre case.
Anzi vedere le cose dall’altra parte.
Dipende dal contesto del Comune, dove stanno, dove vivono, quanto sia sensibile ad accogliere
e ad aiutare, a considerarli come esseri umani e non come invasori, non come dei ladri che sono
venuti a rubare nelle nostre case. Anzi, vedere la cosa dall’altra parte, che queste persone con la
loro emergenza hanno portato ad alzare un po’ il livello, il tenore e l’economia del Paese, perché
sennò questi soldi sarebbero rimasti dove sono, nel fondo europeo. Senza l’arrivo di queste persone
molti degli operatori (noi ci viviamo) si sarebbero trovati a casa, come sta succedendo nel mondo
del lavoro, e lo sappiamo bene. Queste persone non chiedono una villa, chiedono un aiuto, una
spiegazione e l’attuazione della legge in quanto sia possibile. Dall’altra parte, è importante
responsabilizzare il rifugiato, si pensi a quelli riconosciuti come titolari di protezione internazionale:
anche loro sono tenuti a rispettare certi vincoli, come prendersi cura della casa, imparare la lingua
italiana, fare una formazione per essere poi dopo autonomi, però è mai possibile che l’autonomia
si raggiunga dopo un anno, due anni? Non penso. Possiamo pretendere da un immigrato che ha
vissuto nelle campagne della Nigeria di imparare tutta la prassi burocratica, la complessità che è
difficile anche per noi che giornalmente dobbiamo essere aggiornati. O un somalo che ha sempre
vissuto nella guerra, che ha sempre sentito tutto per se, che non ha mai studiato, e neanche i suoi
hanno studiato, perciò non ha nessun valore andare a scuola o meno, quello che chiedono è
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lavorare, vogliamo lavorare, perché anche noi nel nostro Paese, ci dicono, abbiamo sempre
lavorato. Però questi lavori son ben diversi, ci vogliono dei tempi. I tempi come vengono gestiti? É
nel programma, è nel progetto di sensibilizzazione? Comunque, l’accoglienza fa parte del primo
impatto, è il primo legame fra il contesto ed i rifugiati. Se l’accoglienza non funziona, non possono
funzionare tutte le altre cose, nel momento in cui si rompe quel minimo legame con i rifugiati non
sarà mai possibile creare un progetto di crescita e di aiuto alla persona. Che succede poi,
succede che se ne va, perché non vede una prospettiva futura. Magari uno dice che se va a
scuola, e poi gli si attiva una borsa lavoro, con quella borsa lavoro e dell’aiuto magari si riesce,
perché sanno di non poter andare avanti con le proprie gambe senza essere spinti, tutelati, senza
avere l’appoggio delle associazioni e delle istituzioni che li guidino all’inserimento, questo lo
riconoscono. Altrimenti, loro dicono che tanto vale che se ne vadano. Ho detto a molte persone
però che perderanno del tempo, perché quelle persone che non si sono mai mosse o comunque
sono da lungo periodo in Italia hanno imparato a parlare bene la lingua italiana e hanno fatto
formazione. La domanda è: un rifugiato che cosa ha di concreto? Va a chiedere, a pregare un
aiuto attraverso un progetto, o all’Ufficio Stranieri, o quant’altro. Non è autonomo. Perché non c’è
mai una garanzia, non c’è un percorso determinato. Chi è più fortunato, e sono le parole
dell’avvocato, o è il più ruffiano o chi sa piangere di più, chi riesce ad impietosire le persone, e se
va allo sportello o dove va, riesce ad essere inserito magari in un progetto, mentre le persone più
dignitose dicono di non poter andare sempre a pregare e a chiedere aiuto, che si sa che sono
rifugiati, che sono qua, che non sono in grado di gestirsi da soli, e che non li si dovrebbe
abbandonare. Un’altra cosa che ho notato nel mio percorso è che più i rifugiati usano la violenza,
questi modi forti, più vengono ascoltati, e questo non dovrebbe essere un sistema corretto per
sostenere le persone. Per me l’accoglienza vuol dire accogliere, parlare con la persona e
considerarla come un essere umano, come noi, che ha bisogno di un aiuto umano più che altro,
più che economico, umano.
Cristina: Chiarisco solo l’apparente contraddizione fra quello che hanno detto Gianfranco e Zahra.
Gianfranco ci ha parlato della “normalità” del sistema prima dell’”Emergenza Nord Africa”, quindi i
CARA di cui parlava lui sono quelli istituiti per decreto ministeriale, e sono quelli ufficiali. Poi nel 2011,
con l’arrivo di queste persone e di quella che si chiama “Emergenza Nord Africa” di cui oggi non
abbiamo parlato ma che in parte recupereremo quando andremo a parlare del sistema
Piemonte, per ogni regione è stata fatta una certa divisione del numero in base al numero della
popolazione e ogni regione si è confrontata con un certo numero di accoglienze, qui in Piemonte
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ne sono arrivate circa 1700, e questo ha fatto fare quella corsa di reperimento dei posti in cui è
stata data quella disponibilità da un certo numero di persone. Hanno alzato la mano persone
varie, che potevano essere enti che non si erano mai occupati di immigrati, che potevano essere
appunto hotel o altre cose, e anche alcune associazioni e strutture. Ad esempio noi abbiamo qui
questa cosa un po’ particolare come il centro della Croce Rossa che è stata utilizzata più volte in
cui sono state accolte un certo numero di persone anche dalla cooperativa dove adesso Zahra
sta lavorando che ha sede qua a Torino e ha dato una disponibilità per un numero molto alto,
quindi all’interno di queste 1700 persone, la divisione provinciale ne ha portate circa 1200 solo nella
provincia di Torino e 600 nella città di Torino, quindi sono state create delle strutture di accoglienza
dove sono state messe 200/300 persone al massimo che già è un numero grande e la convenzione
che gli è stata proposta da firmare è una convenzione simil CARA, quindi i servizi che sono stati
richiesti a queste strutture a fronte del riconoscimento economico dei 40/46 euro al giorno per
persona sono dei servizi simil CARA. Per questo Zahra dice che non c’è un CARA ufficiale in
Piemonte, ma con l’”Emergenza Nord Africa” in realtà sono stati sdoganati una serie di simil CARA,
di cui poi parleremo più diffusamente.
DOMANDE [D: domanda, S: risposta Schiavone]
-
D: Io ho un dubbio riguardo alla libertà di circolazione. Nel senso: le persone che sono
presenti nei CARA possono entrare e uscire liberamente da questi centri, nei CIE
sicuramente no, e poi avevo una domanda riguardo ai centri di prima accoglienza che lei
prima ha evitato dicendo che c’è un buco nero nella giurisdizione, e sapere qua se ci sono
delle norme che gestiscono se queste persone devono rimanere dentro, se possono uscire
e quando possono uscire, …
-
S: La normativa sui CARA prevede un obbligo di rientro serale, salvo che delle persone si
allontanino dal centro per motivate ragioni per tempi diversi o più lunghi. La sanzione però
ovviamente non è certo la decadenza della domanda di asilo, questo è ovvio perché la
persona rimane richiedente asilo, ma è la possibile revoca delle misure di accoglienza per
infrazioni al regolamento. Quindi la norma c’è, bisognerebbe valutare la sua conformità
con la direttiva europea, in realtà la direttiva europea parla di proporzionalità delle misure,
perché negare il diritto all’accoglienza è una misura pesante. Quindi non credo che possa
essere considerato legittimo un semplice non rientro serale una tantum per negare
l’accoglienza. Il provvedimento deve essere comunque scritto e motivato, in questo caso
dalla prefettura, che è l’organo che gestisce, e per la conformità con la normativa
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europea vi sono comunque una serie di infrazioni, almeno questa è la lettura che io do
dell’art. 17 della direttive europea. Mentre si può dire che in Italia siamo un po’ leggeri, su
questo aspetto. E comunque sì, è questa la misura. L’altra questione invece, cosa sono i
centri di prima accoglienza, non lo sa nessuno, nel senso che in effetti sono misure di cui
anche parliamo al capitolo 3 del libro, quando abbiamo chiesto al Ministero dell’Interno di
fornire l’elenco delle strutture di prima accoglienza con relativo decreto istitutivo, di aluci
risulta non esistere alcun decreto istitutivo, quindi sono luoghi che teoricamente non
esistono, e anche quelli che esistono non sono normati, perché nessuna disposizione di
legge parla di cosa sia un centro di prima accoglienza, e soprattutto se tale si può
intendere un luogo non di ospitalità, gestito da nessuna normativa. Il problema serio e non
risolto fin ad adesso è in relazione alla applicazione di misure di limitazione di libertà presso
questi centri che sono sicuramente al di fuori della legalità, su questo bisogna dire le cose
come stanno, tanto che un richiamo in questo senso è arrivato in questi giorni anche dalla
visita in Italia dallo speciale commissari ONU per i diritti umani delle Nazioni Unite che ha
richiamato l’Italia alle sue responsabilità, ed il rapporto non è buono e si aggiunge a tanti
altri rapporti ormai che l’Italia ha collezionato come non buoni, quindi l’Italia è ormai un
Paese che si sta distinguendo molto in negativo, il governo non ha replicato però il
commissario ha evidenziato anche la natura assolutamente indefinita dei centri di primo
soccorso e di prima accoglienza italiani, Lampedusa e questi porti qui che, ripeto, se hanno
posti per dar da mangiare e da dormire non c’è bisogno di normarli con delle leggi relative
alla salubrità del posto, oppure ai requisiti di abitabilità eccetera, ma nel giorno in cui sono
utilizzati come luoghi dove di fatto lo stesso ministero riconosce che le persone passano in
condizioni di trattenimento di fatto più giorni, qui siamo in una zona veramente
assolutamente al di fuori … è una anomalia di cui nessuno vuol parlare.
-
D: Tornando da un soggiorno a Lampedusa, io soggiornavo nel centro, nell’unico paese di
Lampedusa, e praticamente c’erano gli immigrati che uscivano durante la giornata, però
uscivano illegalmente, nel senso che loro lo sapevano, passavano una barriera, e c’era la
popolazione che si opponeva riguardo a questa loro uscita, perché dell’emergenza quello
era un po’ il campanello di allarme, in realtà poi la polizia, che è in sovrannumero a
Lampedusa perché è blindata, che in realtà non si preoccupava del centro, per cui c’era
una specie di situazione di tolleranza. Quindi non avevo chiaro dal punto di vista legale su
tutto questo ma ora ho capito che non c’è nulla di legale.
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-
S: Non c’è nulla, è tutto così.
-
D: Ho letto uno dei manuali che ci ha fatto vedere prima, non ricordo il titolo, quello blu, e
rispetto alla non accoglienza nei CARA, dato che la normativa dovrebbe essere prevista in
totale assenza di inserimento una somma di denaro che viene corrisposta e avevo visto che
però è una prassi che non avviene. Poi un’altra cosa rispetto al non invio in un CARA anche
fuori dalla regione, se la persona non indica un domicilio potrebbe essere che si decida di
inviarla fuori regione, però questa cosa non mi torna tanto, nel senso che ho sentito di
diverse persone che pur avendo non nessun posto dove andare, non venivano inviate in un
CARA lontano, però sempre meglio di rimanere in mezzo alla strada.
-
S: E quindi venivano inviati dove, in un altro centro?
-
D: No, gli veniva data la lista dei dormitori, vai prova nei dormitori, se non trovavi …
-
S: Ma la domanda di asilo veniva poi presa e formalizzata?
-
D: Sì, però è proprio rispetto all’ospitalità.
-
S: No, ma questo avviene. Per prima cosa la normativa europea non prevede l’obbligo di
rilasciare un pocket money o altro, ma di potere fare anche accoglienza attraverso un
contributo in denaro oppure in servizi, quindi se e quando l’accoglienza viene data in
servizi, quindi in strutture materiali, non c’è un obbligo di anche corrispondere un contributo,
poi nello SPRAR è previsto questo piccolo contributo giornaliero, che è chiaramente una
misura saggia però non è obbligatorio secondo la normativa, quindi l’Italia effettivamente
può anche non applicare mai l’ipotesi residuale. Se l’accoglienza non viene data,
dovrebbe almeno fornire un mezzo economico di auto sostentamento, cosa che non
avviene. Però mai viene neanche riconosciuto che non viene data, perché non si può
riconoscere che non viene data, e qui veniamo al secondo problema. Qual è il problema?
Il problema è la tutela dei diritti dei soggetti deboli, che è un enorme problema giuridico
ma anche un problema sociale. Come si difendono i diritti dei soggetti deboli? Come far
valere questi diritti? Le procedure sono lunghe, sono farraginose, i ricorsi si potrebbero
anche vincere ma nel frattempo cosa fa la persona? E quindi tendenzialmente spesso si
cercano soluzioni alternative, quando in realtà si potrebbe o si dovrebbe trovare una
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soluzione giuridica ma si trova un’altra soluzione. Perché appunto le attese sono troppo
lunghe o anche perché a volte la vittoria di un caso non si estende a tutti gli altri. Sarebbe
un discorso molto complesso anche rispetto alla tutela dei diritti collettivi, che è una
situazione molto poco definita in Italia – le così dette class action, ad esempio. Il nostro
sistema è un sistema che fa molta fatica anche a introiettare queste dinamiche e
soprattutto è molto molto farraginosa rispetto alla tutela dei diritti dei soggetti deboli, e si
pensi che fino a tutt’ora, ma adesso forse su questo
c’è anche un miglioramento, si
riteneva che per esempio il diniego dell’accesso alle misure di accoglienza, questa è
un’indicazione utile, forse anche per Torino, fosse di competenza del TAR (Tribunale
Amministrativo Regionale): non mi mettono in accoglienza, dovrei impugnare un
provvedimento. Prima di tutto non c’è nessun provvedimento da impugnare, ora che mi
fanno un provvedimento probabilmente sono già da un’altra parte, perché io devo
comunque vivere nel frattempo. Ammettiamo che mi facciano un provvedimento che
nessuna amministrazione mai farà sapendo di violare la legge. Devo andare al TAR, che
probabilmente mi fisserà un’udienza fra un anno. Nel frattempo che succede? É evidente
che io ho trovato qualche altra strada o qualcuno l’ha trovata per me, perché se qualcuno
mi vuole tutelare veramente mi troverà una soluzione. Quindi per dirle che in realtà
purtroppo non esistono meccanismi facili. Sul piano dell’accoglienza un piccolo
miglioramento potrebbe venire da una recentissima sentenza del TAR Lazio che si è
dichiarato non competente sul ricorso in materia di accesso alle misure di accoglienza,
ritenendo e secondo me inaugurando spero un nuovo filone giurisprudenziale e da
coltivare, quindi sollecito cause da questo punto di vista, ritenendo secondo me molto
giustamente che la materia non abbia nulla a che fare con la giurisdizione amministrativa
ma con la giurisdizione ordinaria. Trattandosi di diritti delle persone, e che quindi in realtà il
giudice cui ricorrere sia il giudice ordinario. La differenza in termini di agibilità e anche di
velocità dell’azione potrebbe essere significativa. E quindi vediamo se questo orientamento
si consoliderà, ma in un eventuale ricorso potrebbe anche essere fatto valere un silenzio
rigetto dell’amministrazione, quindi l’atto di non impugnare nessun provvedimento in
merito, ma una condizione che si è verificata, che la persona non ha risposto nonostante
l’abbia richiesto, si possono così cominciare ad aprire dei varchi per una migliore effettività
della tutela. Non ho portato gli estremi di questa sentenza ma è estremamente interessante
e apre un diverso orientamento. La seconda questione è dove vengono mandate le
persone, appunto in questo sistema che di fatto non tiene, esistono soluzioni terze, che sono
soluzioni che non sono ne lo SPRAR ne il CARA, a volte sono soluzioni che sono finanziate
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dallo stesso stato, per esempio lo stato ha finanziato, ha stretto degli accordi diretti con
delle metropoli e ha devoluto delle risorse per aprire delle strutture per i richiedenti asilo che
non sono ne CARA ne SPRAR. In altre occasioni invece sono strutture che esistono con altri
fondi che nulla hanno a che fare con i richiedenti asilo, ma dove se offrono una
sistemazione ai richiedenti asilo la questura ha da avviare comunque la procedura per
l’accoglienza presso questi centri. Però è tutto un sistema che funziona contraddicendosi,
perché dovrebbero esistere i sistemi previsti dalla legge per l’invio dei richiedenti asilo, che
ripeto sono solo due. I terzi sono soluzioni all’italiana, a volte con ottima buona volontà e
forse a volte anche con molto buon senso per tappare delle situazioni perché è chiaro che
a questo punto è meglio questa struttura piuttosto che il CARA di Crotone, certo che è
meglio così, però dove è prevista quella struttura, e che invio è? Nessuno. Non è ex art. 20
comma 2, perché non è un CARA, non è invio allo SPRAR e comunque c’è, e diciamo che
in assenza di normativa va considerata una soluzione alloggiativa normale, e quindi
assimilabile allo SPRAR, non può essere applicata una procedura prioritaria, quindi
sicuramente non è un CARA e non si applicano poi le misure quelle più negative che
dicevo, però è un arrangiarsi.
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Sesto
30 ottobre 2012
Incontro
Titolo
Sistemi di accoglienza in Europa e altrove; il campo profughi nella
cooperazione
Relatori
Chiara Marchetti,
Chiara Marchetti: Da qualche anno mi occupo di rifugiati e migrazioni forzate, lavoro all’università
di Milano dove ho un assegno di ricerca in sociologia. L’incontro di oggi nel dialogo con Barbara,
che non c’è, poteva essere interessante per questa combinazione di sguardo più sociologico, più
antropologico (lo studio dei rifugiati deve essere necessariamente interdisciplinare), sulle relazioni
più situate tra relatori e ospiti nella relazione quotidiana all’interno dei centri – settore di Barbara –
mentre io mi sarei più concentrata su uno sguardo più macro, politico-istituzionale, sul perché sono
così diffusi e utilizzati i grandi centri per richiedenti asilo.
Mi sono laureata in scienze diplomatiche e internazionali a Gorizia con una tesi che riguardava
proprio i campi profughi, poi sfociata in un libro che ha ormai qualche anno. Poi durante il
dottorato e anche nel periodo dell’assegno ho continuato ad occuparmi di rifugiati e in
particolare ho collaborato un paio d’anni fa allo studio coordinato da Gianfranco Schiavone sul
diritto alla protezione, uno dei primi così ambiziosi sul piano della vastità dei territori studiati sul
sistema di protezione in Italia. Io ho fatto ricerca sul campo in Lombardia, Sicilia, Calabria e Friuli
Venezia-Giulia, queste quattro regioni molto diverse fra loro ma in cui questa figura dei centri per
richiedenti asilo è molto diffusa.
Quello che vi propongo oggi è un’interpretazione di questi grandi centri per richiedenti asilo come
dei campi. C’è tutta una letteratura che fa un parallelismo, più o meno motivato, a volte anche
ideologico, che richiama la figura del campo, anche riferendosi ai campi di concentramento,
quindi a quella esperienza tragica ma anche alla letteratura che poi ha studiato e analizzato i
campi di sterminio, come poi invece l’uso più sociologico (Goffman, Said), lo studio delle istituzioni
totali.
C’è soprattutto a livello internazionale, ma anche nazionale – Agamben, la questione della nuda
vita – una lettura dei centri per immigrati che li associa alla figura del campo.
Prima vorrei farvi un’introduzione su cosa si intende per campo, poi alcuni esempi di esperienze
italiane e in seguito chiedere a voi in cosa questi esempi richiamano la figura del campo. Infine
nella seconda parte volevo proporvi alcune chiavi di lettura più analitica e politico-istituzionale sul
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perché di questo uso così diffuso di grandi centri per richiedenti asilo ha preso piede non solo in
Italia ma in Europa, sulla scia dei campi profughi del sud del mondo.
Salto la parte più giuridico-istituzionale sulle direttive che obbligano l’Italia a dare accoglienza ai
richiedenti asilo. Ci si deve chiedere come mai di fronte a una richiesta dei richiedenti asilo la
scelta è stata quella di ricorrere a delle strutture collettive, come mai si è ricorsi a questo tipo di
soluzione.
Prendo come definizione classica la definizione di campo che ha dato Giorgio Agamben in Homo
Sacer, che pur non essendo un libro sui rifugiati è ampiamente citato nella letteratura che riguarda
i rifugiati, non solo nazionale, per alcune riflessioni sul campo e poi sulla nuda vita.
“Il campo è quel pezzo di territorio che viene posto fuori dall’ordinamento giuridico normale, ma
non è per questo semplicemente uno spazio esterno. Ciò che in esso è escluso è, secondo il
significato etimologico del termine eccezione, preso fuori, incluso attraverso la sua stessa
esclusione. È lo spazio di questa assoluta impossibilità di decidere tra fatto e diritto, tra norma e
applicazione, tra eccezione e regola, che tuttavia incessantemente decide di essi.”
Le parole-chiave sono: un pezzo di territorio, quindi spazialità in termini molto fisici, la cui
particolarità è questo gioco di confine tra un ordinamento normale (stato italiano per esempio), tra
un dentro e fuori; non è un carcere per esempio, non è un luogo che ha delle regole
completamente a sé, è un luogo che comunque entra in relazione con l’esterno, in dialettica e
anche in tensione con le regole esterne, ma a sua volta ha delle regole interne, delle forme di
disciplinamento dei corpi, delle relazioni molto forti, e se pensiamo ai casi dei campi profughi sono
luoghi posti fuori dalla sovranità, in Kenia per esempio, dove i rifugiati non hanno diritto di rimanere
nella città, e possono esistere solo all’interno dei campi profughi. Quindi sono luoghi
dell’eccezione, della tensione continua fra interno e esterno, fra eccezione e regola.
Nei campi di sterminio l’obiettivo è lo sterminio degli ebrei, mentre nei campi di accoglienza
l’obiettivo è l’accoglienza dei rifugiati, quindi le regole sono diverse, ma allo stesso tempo si assiste
a una banalizzazione del campo (…) e a una miniaturizzazione, che corrisponde meglio alla
generazione umanitaria cui apparteniamo. (…)
Cito Marc Bernardot, antropologo francese, che dice che “nella maggior parte dei casi il campo
di internamento applicato ai migranti, il centro di detenzione, la maison d’attente, si integra in un
edificio banalizzato, in una catena alberghiera, in un foyer-hotel, in un locale di polizia, nei
container di un cantiere. E ancora di più questi spazi si situano in luoghi che garantiscono loro
l’anonimato, luoghi deserti e distanti per certi centri di richiedenti asilo, o al contrario, luoghi di
traffico intenso, stazioni, porti, aeroporti.”
Scritto nel 2007, se pensiamo a quello che è successo in Italia direi che combacia alla perfezione.
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La banalizzazione sta anche nel non pensare necessariamente a delle strutture tipo il carcere di
massima sicurezza; ciò che ci permette di riconoscere un campo non è una check list fatta di muri
alti, poliziotti in divisa, mitra spianati… vengono meno quelle coordinate spaziali che a prima vista
come in un campo profughi ci aiutavano a riconoscere il campo, come luogo di massa etc.
Un esercizio di memoria storica italiana: nel 1991 entra in gioco uno stadio, lo stadio di Bari, in cui
vengono più o meno provvisoriamente accolti, internati, migliaia di cittadini albanesi, che poi per
lo più saranno rimpatriati. Diventa luogo di un’accoglienza a breve termine e finalizzata ai rimpatri.
È interessante perché rappresenta un esempio un po’ al confine: giuridicamente, quasi nessuno ha
avuto accesso alla richiesta d’asilo in questa prima generazione di albanesi. È stato il momento in
cui è iniziata la stagione dei grandi sbarchi, e anche del diritto d’asilo in Italia perché fino al 1990
l’Italia da un punto di vista giuridico non applicava ancora il diritto d’asilo.
Siamo agli albori, in una stagione completamente diversa. È interessante anche vedere su youtube
le interviste, per chi non ha avuto l’esperienza diretta, qual era la reazione della gente di fronte agli
sbarchi massicci di persone. Noterete che i linguaggi, le risposte sia istituzionali che non, erano
molto diverse come spirito rispetto a quelle che sentiamo oggi. E poi però c’è questo caso di Bari,
che è un primo stonato caso rispetto agli esempi di accoglienza anche molto coraggiosa di quella
stagione.
L’8 agosto 1991 entra in porto a Bari, forzando il blocco navale, la Vlora, questa nave con migliaia
e migliaia di persone, che evocava l’espressione “esodi biblici”. È interessante perché è molto
simile all’esperienza della Tunisia, anche da un punto di vista politico: fine del regime socialista in
Albania, e all’indomani migliaia di persone che prendono letteralmente d’assalto questa nave e la
occupano e la fanno virare verso l’Italia.
La domanda è: questa categoria è di rifugiati, migranti forzati, o è gente che ha finalmente
ritrovato la libertà, quindi se volete l’opposto di rifugiato, come per i tunisini? Fino a ieri i tunisini
sapevano benissimo che venire in Italia e chiedere asilo non se ne parla… eppure c’era il
cosiddetto dittatore. Oggi scappano e abbiamo il dubbio di come mai in un primo momento
abbiano ricevuto un permesso umanitario… c’è un paradosso.
Lo stadio di Bari è un luogo che oggi definirei campo: un luogo banale, non deputato a quello,
tenuto dentro e fuori l’ordinamento, dove sono state stipate per lo più con l’inganno migliaia di
persone poi rimpatriate massicciamente dallo stadio. Un luogo creato come serbatoio per il
rimpatrio, un luogo assolutamente anonimo.
Per venire all’attualità vi presento il CARA di Gradisca (centro di accoglienza per richiedenti asilo).
Negli ultimi anni l’Italia si è dotata di un certo numero di centri governativi. Anche prima
dell’emergenza nord africa il panorama dell’accoglienza in Italia per i richiedenti asilo era molto
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problematica e un po’ schizofrenica: da un lato continua ad avere questi luoghi, i cosiddetti
CARA, che convivono con un altro sistema istituzionale che è lo SPRAR (sistema protezione
richiedenti asilo e rifugiati) che recentemente si sta orientando più verso l’integrazione, più per
persone con già un titolo di protezione. Ma non è scritto da nessuna parte che debba essere così,
tant’è vero che dati recenti pre-nordafrica dicono che almeno un 30% erano richiedenti asilo
anche dentro gli SPRAR.
Lo stato italiano, a fianco di un sistema che non è quello del campo, poi possiamo vedere se ci
sono esempi anche dentro lo SPRAR che possono essere assimilati a queste strutture. Però
sicuramente come filosofia non è quella del campo, perché sono luoghi dentro la città, c’è la
logica del decentramento, del radicamento, del non fornire tutti i servizi dentro lo SPRAR ma di
entrare in relazione col territorio e con i servizi normali. È interessante vedere che da un punto di
vista numerico, l’Italia quando entra in vigore la direttiva accoglienza dà la risposta che sono i
CARA, centri di diretta emanazione del Ministero dell’Interno, le prefetture locali fanno dei bandi…
quindi diciamo che c’è tutto questo filone che fa sì che quando si parla di richiedenti asilo l’Italia
risponde istituzionalmente coi CARA, gli SPRAR diventano quasi un’eccezione.
Vi porto due esempi di CARA che ho visitato: l’ex caserma Polonio di Gradisca, quindi la struttura
fisica è una caserma, ora non più usata. Dentro questo luogo convivono sia un CIE che un CARA,
di più di 200 posti e 130 rispettivamente. Non ho potuto far foto perché c’è la prossimità con il CIE:
dentro lo stesso luogo ci sono persone come i richiedenti asilo che avrebbero diritto a tutta una
serie di cose, gli veniva proibito l’uso non del cellulare ma del cellulare con fotocamera e
videocamera. Per motivi di sicurezza temevano che riprendessero cose che succedevano nel CIE
che era dentro lo stesso perimetro anche se diviso con filo spinato. Ai richiedenti asilo veniva
negato il diritto di avere un cellulare con fotocamera o videocamera.
Entro dai cancelli, passo due blocchi di polizia, presento l’autorizzazione firmata dalla prefettura,
lascio i documenti… stiamo varcando la soglia di un campo dal volto abbastanza riconoscibile.
Dentro ha una struttura da caserma: non ci sono spazi, tranne che un campetto all’aperto,
all’interno c’è al massimo un corridoio spoglio, e mi mostrano una specie di baby room, però
chiuso a chiave. Questa veniva aperta magari un’ora al giorno, con accompagnamento
dell’operatore di turno (operatori tra l’altro oggettivamente affaticati oppressi incattiviti da questo
tipo di situazione fisicamente carceraria).
Il CARA di Crotone era il più grande d’Europa: la capienza ufficiale è 1400 posti, e ha raggiunto
anche le 2000 persone. È fisicamente collocato nella statale che esce da Crotone, una strada
molto pericolosa, di fronte all’aeroporto di Crotone. Ed è un ex aeroporto militare, quindi enorme,
con un perimetro molto ampio, a cui si accede con una strada e posto di blocco, e ci sono varie
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aree: una pensata per le famiglie con delle simil-casette prefabbricate; da un lato un casermone
dove ci sono anche gli uffici, dall’altro dei container dove sono alloggiate le persone, con una
capienza di una decina di persone ciascuna (col caldo di Crotone…). Tra loro sono perimetrate
con filo spinato delle sotto-aree in caso non ci sia il numero massimo di persone, in modo da
raggruppare i container e tenerli meglio controllati. Dentro questa mega-area c’è l’edificio della
polizia dove si formalizza il modulo C3 per la richiesta d’asilo, e c’è anche la casetta della
commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato.
Crotone è a una decina di km, c’è una navetta dal campo due volte al giorno, ma appena esci
su questa strada trovi file e file di persone che poi si muovono con le loro gambe. Vicino c’è
Caporizzuto e Sant’Anna che diventano la valvola di sfogo per queste persone perché questi
luoghi non sono delle prigioni, non sono dei luoghi da cui non si può uscire, i richiedenti asilo non
sono dei carcerati (potrebbe sembrare visto le strutture). In realtà sono centri aperti dalle 8 di
mattina alle 8 di sera, salvo che bisogna chiedere l’autorizzazione, se per 24 ore non ti presenti sei
automaticamente fuori dall’accoglienza. Sono luoghi molto isolati fisicamente, per cui al di là
dell’isolamento dato dai muri o dal filo spinato, una volta esci sei su una statale trafficata, il primo
paese è a 10 km: il giovane forte se la fa una volta due, la maggior parte se ne sta lì tutto il giorno.
Tanto più che sono luoghi pensati per essere il più possibile autosufficienti, non c’è bisogno di
uscire, per esempio c’è la barberia dentro.
L’ente gestore del CARA Sant’Anna ha messo in piedi un sistema intelligente ai fini della gestione di
un luogo con 1500 persone, per cui ciascun richiedente asilo riceve all’ingresso una carta
magnetica che è la sua storia, la sua vita: vengono caricati i file, una specie di faldone
informatico, facilmente associato alla tessera; e poi cose come “musulmano” quindi dieta
musulmana; viene assegnato il turno biancheria; hanno diritto a due tagli di capelli al mese; hanno
diritto a un pocket money di 3-3.50 euro al giorno che gli viene caricato sulla tessera da poter
usare solo dentro il campo per sigarette, carte telefoniche, fazzoletti o quant’altro… questo ha
garantito una certa efficienza del centro.
Nel 2011 il sistema dei CARA non ha retto all’impatto del crescente numero di persone arrivate e
del fatto che molte di queste hanno presentato domanda di asilo.
Il caso di Mineo. Lampedusa esplode. I CARA non bastano più, gli altri sistemi non bastano più, non
si parla ancora di protezione civile.
Salta fuori questo luogo dei sogni chiamato villaggio della solidarietà, ribattezzato così perché era il
residence degli aranci, località Mineo, provincia di Catania, luogo sperduto nelle campagne tra gli
aranceti. In un bellissimo paesaggio bucolico era stato allestito questo villaggio che ospitava fino a
4000 militari americani della base di Sigonella.
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Siamo in una situazione abitativa radicalmente diversa: qui abbiamo 404 villette indipendenti,
strutture commerciali, palestre, campi da tennis e football, piscine, un asilo nido, una sala per le
funzioni religiose e 12 ettari di spazi verdi. Il lusso.
L’idea iniziale era di svuotare il CARA e portare le persone a Mineo. È stato fatto, dalla sera alla
mattina con gente che aveva già le audizioni fissate all’interno dei CARA. Questo perché i CARA
erano dei luoghi più vicini ai CIE nella mentalità istituzionale, anche fisicamente in molti casi. Erano
luoghi in cui era più facile mettere delle persone che già si supponeva non avrebbero avuto
questa carriera da titolari di protezione.
Questo avviene per una certa fase, nel frattempo Lampedusa veramente esplode. Intorno a fine
marzo i migranti sono più dei lampedusani (6000 contro 5000), quindi deus ex machina Maroni
decide di mettere più di un migliaio di persone dentro una nave militare per svuotare Lampedusa
almeno un po’. Questa è rimasta al largo senza sapere bene dove andare. Potevano andare a
Mineo ma questo viene dichiarato dall’oggi al domani un CARA, come pure si dichiarano
richiedenti asilo i tunisini sulla nave, che quindi vengono tutti messi a Mineo.
Mineo quindi ha un primo strato di persone provenienti dai CARA, secondo strato di tunisini
provenienti dalla nave militare, più altri richiedenti asilo che hanno proseguito l’iter della protezione
civile o del post 5 aprile. Si sono trovate più di 4000 persone dentro quel luogo dei sogni, tra le
proteste dei sindaci locali, che dicevano: impossibile che queste persone si integrino qui, dove non
c’è da lavorare nemmeno per noi. La reazione d’allarme ha portato all’arrivo di un numero
ingente di militari a controllare la zona. Dall’altra parte la reazione di enti e associazioni era
all’opposto, vi vedevano possibilità economiche perché questa presenza ha portato tanti soldi in
questa zona. Mineo esiste ancora. (01.00)
Un altro esempio è quello della Val Camonica, località turistica del bresciano. Siamo in fase
emergenza Nordafrica, quindi piani regionali, quindi situazione più simil-SPRAR perché i territori sono
tutti coinvolti, c’è un decentramento… succede che le varie regioni si trovano una quota di
persone da dover accogliere e il modo in cui pensano di collocare queste persone è molto
variabile: vengono scelti dei luoghi che sono delle strutture private di tipo alberghiero o simile, che
per un motivo o per l’altro, o per la stagione o per crisi erano luoghi scarsamente frequentati, vuoti,
liberi.
Qui è un caso abbastanza estremo, in particolare tre comunità: Montecampione (1800 m), Val
Palot (1200 m) e Corteno Golgi (900), luoghi che forse hanno 50 abitanti fuori dalla stagione
sciistica invernale. Lì vengono letteralmente catapultati in shorts e infradito i migranti soprattutto
dell’Africa Subsahariana arrivati in Italia attraverso la Libia nel post - Gheddafi, creando delle
situazioni paradossali e garantendo solo vitto e alloggio, perché le strutture alberghiere non erano
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né attrezzate né intenzionate ad offrire assistenza legale, psicologica, in isolamento estremo, con
proteste degli abitanti.
Lì subentra con un ruolo molto interessante la cooperativa K-Pax che lavora a Breno, uno dei paesi
della Val Camonica, luogo storico dello SPRAR, dove addirittura c’erano dei progetti per
vulnerabili. Coinvolgono nel progetto di accoglienza diffusa una serie di comuni e di istituzioni, e
puntano progressivamente allo svuotamento di queste strutture con progetti che rimangono
problematici, perché si tratta di decine di persone in territori su cui va pensata la capacità di
sopportazione in termini di possibilità di integrazione.
Altro luogo è Pieve Emanuele, nella periferia di Milano, residence che arrivava a contenere 5000
persone, inizialmente per poliziotti o figure che hanno bisogno di risiedervi a tempo determinato.
Fatto sta che a riempirlo non ci sono mai riusciti. I “profughi” finiscono in questo luogo, senza
nessuna assistenza legale, nessun corso di italiano. Questo tipo di strutture e questo tipo di
accoglienza molto poco qualificata è venuta a costare moltissimo: molte persone hanno avuto
un’accoglienza molto scadente per tempi prolungati, mentre molte persone hanno avuto degli
introiti economici molto consistenti. La scelta istituzionale che è stata fatta ha lasciato molto spazio
anche a privati, non associazioni onlus cooperative comuni enti locali, che hanno avuto la
possibilità di metter mano a delle cifre molto superiori a quello che riceve un ente gestore in un
progetto SPRAR.
In vari studi, tra cui un interessantissimo rapporto uscito pochi mesi fa che si chiama “Lampedusa
non è un’isola”, ricostruzione fedele di quello che è successo, reperibile online, Lampedusa stessa
viene letta come un campo. Quello che è successo negli ultimi anni è stato un uso purtroppo
molto spregiudicato dell’isola da parte di chi ha gestito le varie fasi delle cosiddette emergenze. In
realtà di sbarchi veri e propri ce n’è stato uno, quello iniziale di febbraio; tutti gli altri sono stati
intercettati in mare e accompagnati a riva o addirittura fatti scendere dalle imbarcazioni.
Smontiamo l’immaginario degli sbarchi in quanto tali. Se entra in gioco la guardia costiera o un
altro soggetto istituzionale che li ha accompagnati a Lampedusa ci da l’idea di un flusso non così
incontrollato e incontrollabile, ma già gestito ancora prima dello sbarco. Si arriva in quest’isolacampo il cui confine non è così permeabile, in cui si possa effettivamente sbarcare.
DIBATTITO
Riflessione 1: Una caratteristica che ho visto in tanti luoghi più che altro dell'emergenza Nord Africa
dove ho avuto esperienza, specialmente nei luoghi più grossi sono le generalizzazioni che vengono
fatte delle persone. Ritrovandomi da un punto di vista della gestione di questi luoghi o comunque
far parte di un team che ha contatti con le persone che vi vivono mi rendo conto di come a volte
si parli o si veda tutto come un' "unica minestra", ovviamente sono centri che accolgono migliaia di
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persone quindi non si può parlare del singolo però, per dire, c'è sempre il discorso: "Ah i Nigeriani
sono quelli che fanno casino, gli altri sono quelli che non parlano,gli altri non studiano" e questo lo
ricollego al discorso del campo perché mi ritorna in mente la frase citata all'inizio dove si diceva
dell'ordinario, ma che non è ordinario; anche quando ci sono delle doti particolari, anche non
delle capacità straordinarie, un qualcosa di particolare anche in senso positivo non viene
comunque osservato perché lì è generale. Perché sono ammassi di gente buttata in un posto,
perché tante volte l'impressione che ho avuto io, per esempio in quei posti in montagna, mi viene
in mente che durante l' emergenza Nord Africa a Pracatinat c'è questo luogo, un ex sanatorio
gigante completamente isolato a 1600 metri di altezza dove hanno incastrato 150 uomini di dodici
nazionalità diverse, qualcosa del genere, ed era un luogo super angosciante oltre al fatto che era
completamente isolato. Anche nei discorsi che venivano fatti dietro le quinte di questo posto c'era
sempre una generalizzazione delle persone e poi c' era proprio questa impressione di persone
incastrate in un luogo dove gli si dava il minimo indispensabile tipo il cibo, un minimo di vestiti,il
pocket money, e basta. Non c'era ascolto non c'era niente.
Chiara Marchetti: Allora metto l'elemento DIMENSIONE COLLETTIVA che è una premessa se vuoi
alla generalizzazione, ma aggiungo che non è necessario che ci siano tutti gli elementi che hai
detto perché ci sia generalizzazione, ci può essere anche in un centro di cinque persone. Però
sicuramente la DIMENSIONE COLLETTIVA e anche l' ALTO NUMERO influiscono. E poi l' ISOLAMENTO,
che può essere un isolamento ambientale, se sei isolato in alta montagna, oppure può essere un
isolamento creato anche da un luogo(come quelli che abbiamo visto) dentro la città, ma con dei
muri, o anche altre forme di isolamento più sottili che derivano da una forma di non-relazione, di
non aver pensato a delle relazioni con il territorio, non è detto che ci debba essere l'isolamento
fisico territoriale, così auto evidente.
Sulle generalizzazioni sicuramente una dimensione è quella che ha a che fare con la
sopravvivenza, quello a cui si mira, quello che si deve garantire è la sopravvivenza delle persone.
Quindi di per sè nell' idea di campo c'è anche l'idea di non dare per scontato che ci sia un
riconoscimento dei diritti, una forma di accoglienza qualificata,personalizzata, personale
qualificato..sicuramente c'è l'elemento come hai detto tu del non considerare la persona "a tutto
tondo".
Riflessione 2: Mi viene in mente il controllo e disciplinamento dei corpi e delle menti. Io ho fatto una
breve visita al centro di accoglienza di Otranto e sono stata colpita dal fatto che una ragazza, un'
adulta che ho conosciuto mi ha detto che quando sono arrivati hanno messo a tutti quanti un
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numerino che hanno pinzato con una pinzatrice alla maglietta. Al di là del fatto che c'è un
raffronto con altri tipi di campo che risulta però poi essere pericoloso,immediatamente richiama il
lager.
E poi il disciplinamento nel senso che i Cara ma anche il centro dove ho avuto esperienza io erano
luoghi liberi ma fino a un certo punto perché si aveva sempre un orario in cui bisognava essere
presenti, pasti e non pasti, quindi controllo pressante su persone che si riteneva quasi che non
fossero capaci di controllare i ritmi della propria vita normalmente. Alle dieci si chiudevano i
cancelli, quindi chi rimaneva fuori rimaneva fuori.
C.M. : Ovviamente molto interessante oltre che molto forte quello che dici. Mi viene in mente che
quando ho iniziato a fare la mia esperienza quando abitavo a Gorizia a fine anni '90-inizio 2000 e
c'erano le persone che entravano clandestinamente, allora era ancora una frontiera extra
Schengen e io facevo volontariato in una struttura che dava l' accoglienza nella notte prima
dell'identificazione, arrivavano le persone con i numeri scritti sulla mano a pennarello dal poliziotto
di turno..è la stessa dinamica. C'è da un lato una LOGICA BUROCRATICA, apparentemente neutra
come forma di gestione e ordinaria amministrazione "è un fascicolo ,un badge elettronico che
male c'è, anzi" E' una logica burocratica che chiama sempre in causa criteri di efficienza.."ma che
differenza c'è nel chiamarti 52 o chiamarti Abdul, che poi te lo storpio il nome che è anche
peggio". E' chiaro che questo è richiamato dai tempi dei campi profughi come uno dei criteri
cardine della gestione collettiva delle persone perché è un po’ un mantra del tutto ingiustificato
perché non è vero che funzioni meglio né che sia appunto più sostenibile economicamente; l'idea
che grandi gruppi di persone si possano gestire sol con soluzioni massificanti, molto standardizzate,
quindi STANDARDIZZAZIONE che ha a che fare con la generalizzazione, perché con poco
tempo,poche risorse, l'unico modo per gestire le persone è dare risposte di minima, però
indifferenziata, uguale per tutti senza che ci sia un' attenzione alla persona. Sicuramente questo ha
dei lati riguardanti i corpi, gli spazi, i tempi e tutto questo richiama la diffusione di un sospetto
generalizzato: l'idea che le persone lasciate a sè in ogni caso creino problemi. Problemi di ordine
pubblico o di gestione "immaginati te se con mille persone possiamo permetterci che ognuno
faccia come vuole".
C'è una cosa interessante: al Cara Sant'Anna, per dire una cosa controtendenza rispetto a quello
che ho detto prima,hanno istituito una specie di Consiglio delle Comunità, un nome del genere,
hanno provato a immaginare una specie di organo intermedio secondo l'idea che non ci fosse
semplicemente l'amministrazione e la massa di persone accolte, ma visto che c'erano dei grossi
problemi di gestione tra questi due livelli, queste comunità potessero individuare dei rappresentanti
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che facessero da interlocutori rispetto all'amministrazione ,delle figure autorevoli( anche se c'è di
nuovo una generalizzazione perché non è così scontato che 500 iraniani eleggano all'unanimità un
degno rappresentante. La logica è quella ancora burocratica standard, non quella della
autogestione, una logica però che a sua volta ha bisogno di persone che facciano da filtro delle
tensioni ecc..
Riflessione 3: Io l'unica parola che ho in mente da mezz'ora a questa parte è ISTITUZIONE TOTALE".
Mi ricorda i tempi della 380 in cui la spersonalizzazione della persona era tutto in funzione dei
bisogni dell'organizzazione. E questo si ritrova tantissimo nella fase di uscita quando lavorando con
le persone ti accorgi che hanno in qualche modo perso la percezione di che cos' erano prima, per
cui si diventa un pò un fantasma non più lo studente che sei stato, il lavoratore che sei stato, non
c'è più. Avevo invece una domanda : "Che cosa succede dopo il 31 Dicembre?"
Cristina Molfetta : Succederanno ancora tante cose, ne riflettere,mo nel prossimo incontro del
laboratorio quando parleremo della realtà piemontese. Però tieni la domanda. Comunque è
uscita un 'ordinanza per cui il ministero dice che la responsabilità delle decisioni sarà delle
prefetture, dei territori coinvolti. Ma altri elementi usciranno più avanti.
C.M.: comunque certo rispetto alla riflessione ci sono riferimenti a Goffman, alla carriera morale, al
rapporto tra staff e utenti, beneficiari. Scrivo AZZERAMENTO perché c'è proprio questa dimensione
di azzeramento non solo delle biografie,è un anno zero, sembra quasi che tutto quello che viene
prima sia cancellato o quantomeno messo tra parentesi.
Riflessione 4: A me era venuta in mente la parola SOSPENSIONE, nel senso sia fisicospaziale,abbiamo visto che dal campo non si esce agevolmente e non si raggiungono facilmente
né i servizi né il centro abitato, quindi il campo è fatto anche per sospendere sia la mobilità, il
trasferimento, le normali attività del quotidiano, ma sospensione anche in termini temporali, in
quanto la sistemazione in un campo tradisce qual è l'obiettivo anche, è sospendere la vita delle
persone perché oltre a stare, respirare, mangiare sembra non ci sia nessun' altro obiettivo.
L'integrazione non fa parte di quel tipo di accoglienza; quelle vite vengono sospese per un periodo
e poi ne escono quasi nella stessa posizione in cui ne sono entrate, anzi spesso magari un po’
peggiorata. La struttura tradisce quello che è l'obiettivo delle istituzioni che l'hanno creata.
Poi una considerazione sulla generalizzazione e spersonalizzazione di cui si diceva, stavo
ragionando sui codici, anche all'interno dello SPRAAR ci sono dei codici numerici che vengono
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assegnati e credo che sia una questione anche di privacy, cioè spesso non si parla di nome e
cognome, di problemi nell'identificazione di una persona, ma si usano dei numeri e non ho mai
riflettuto che questa sia una pratica violenta. Però ragionavo anche sul fatto che forse ci sono altri
metodi per affiancare un codice a una persona quindi banalmente una scuola anche è un
sistema complesso,ma non useremo mai un numero per un' identificazione di una persona. Il
numero c'è sempre ma anche per esempio un libro non ha solo un numero, il codice porta con sé
qualcosa che fa parte del libro: la categoria cui appartiene, il genere letterario,l'epoca in cui è
stato scritto. Il numero da solo non porta dell'identità nulla, per cui mi chiedo se c'è un numero più
umano..premesso che non possiamo tenere il nome,girerebbero 320 Mohammed per il campo e io
potrei avere dei problemi di identificazione però tra nome e cognome e 124 forse c'è il mare di
mezzo.
C.M.: Già l'altro giorno a un convegno di addetti ai lavori per richiedenti asilo e protezione hanno
sentito il bisogno di creare un' acronimo. Tradisce una nostra mentalità. E' il prodotto di una cultura
che pre- esiste ai richiedenti asilo.
Rispondo solo con una battuta che ha fatto il direttore del centro di Salina Grande a Trapani, un
Cara, a suo tempo pre- emergenza Nordafrica che diceva: “A me hanno chiesto di innalzare il
numero degli ospiti da 120 a 180, io ho detto di no perché per me il limite massimo è il numero di
persone di cui io riesco a ricordare il nome”. Se vuoi si può rispondere il contrario: “Qual è la
struttura che non obbliga, rende necessario il ricorso all'uso dei numeri, dei codici (con 1500
persone anche l'operatore più bravo non può farcela)?” In questa dimensione, dato che c'è la
correlazione tra tipi di persone come richiedenti asilo e protezione, vittime di tortura, traumi
psicologici e situazioni di questo genere (pur con tutte le cautele a ricadere anche qui in un’altra
generalizzazione). Perché non c'è solo la sospensione ma sicuramente un peggioramento dopo un
anno di limbo è chiaro che queste situazioni possono diventare più esplosive. Certamente ci sono
codici più simpatici però.
Riflessione 5: Quando si parla del controllo e del disciplinamento a me viene in mente Foucault, in
cui sì c'è un controllo di massa in luoghi di massa, in luoghi collettivi, di massa. Dove però allo stesso
tempo c'è un'attenzione alla persona non tanto dal punto di vista relazionale: chi è, da dove
viene, che cosa fa, alla persona con la p maiuscola,ma al controllo di questa persona. Il sistema
informatico credo che sicuramente sia stato pensato per questo, per rendere più efficace il
controllo :"quante volte cambia le lenzuola, entra o non entra entro le 24 ore".Poi per quanto
riguarda i codici anche scuole e ospedali sono luoghi pensati anche per il disciplinamento.
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Riflessione 6: Una cosa che mi veniva in mente è la parola APOLIDIA che fa parte proprio della
normativa: è uno dei casi in cui le persone si ritrovano senza la cittadinanza. In realtà si pensava
che tutto questo sistema non fa altro che creare apolidi, in questo momento ci sono persone che si
hanno una cittadinanza ma non la stanno più esercitando nel loro paese e allo stesso tempo sono
in quello stato in cui non hanno ancora un riconoscimento,prima di avere un cedolino, prima di
avere un permesso prima di..possono passare molti mesi molti anni, in cui sono a-polidi, a-soggetti,
a- rispetto a tutto quello che è un soggetto giuridico. E poi una battuta, è interessante pensare che
l'1 Gennaio è il compleanno di molti rifugiati. Poi una precisazione: su Pieve c'è il corso di Italiano
con la cooperativa arcobaleno.
C.M.: Si è vero il soggetto che ha preso in gestione il posto ha provveduto anche se non in prima
istanza,non l'hanno messo nel pacchetto iniziale.
Riflessione 7: Rispetto all'assistenzialismo sterile mi chiedevo se ci sono dei Cara o degli enti rispetto
all'obbligo di mandare la gente ai corsi di italiano perché rispetto all'emergenza Nordafrica nei
Cara c'è il pensiero :"tanto il 5 per cento di questi rimane quindi non ha senso neanche attivare dei
processi di autonomia", anche delocalizzando spazialmente questi centri se non è garantito il
servizio internamente è anche impossibile per loro utilizzare i servizi del territorio..quindi mi chiedevo
se c'è questo obbligo e se non c'è è perché c'è questa logica dietro?
Riflessione 8: Un' altra riflessione che volevo aggiungere è anche su quello che succede dopo
l'accoglienza perché quello che sto vedendo nella realtà dell'emergenza Nordafrica, ma posso
supporre che sia così anche all'interno dei Cara, è la dipendenza che quest'accoglienza
comporta nelle persone. Perché magari c'è un ' avversità nei confronti dei servizi, ci sono tanti
aspetti negativi ma alla fine inevitabilmente le persone quando stanno 6 mesi, un anno e mezzo (le
persone con cui lavoro io sono qui da maggio 2011) si sviluppa una totale dipendenza. Mi sono
trovata con persone che mi hanno chiesto: "Ma se il 31 Dicembre finisce tutto chi mi porta da
mangiare?" C'è il fatto che ormai una persona non pensa neanche più al fatto di come trovarsi da
mangiare. Diventa una logica di assistenzialismo totale anche nelle piccolezze della vita, nella
base..è un effetto collaterale che è la peggiore conclusione del tutto.
Riflessione 9: Io pensavo a una parola che poteva essere vicina a quella di isolamento, ma che è
un concetto un pò più ampio: il CONFINE..confini fisici, ma anche a livello identitario bisogna
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cercare di capire come loro cerchino dei confini al proprio essere,riprendendo la nozione di asoggetto che si diceva prima.
Riflessione 10: Un' altra cosa che mi viene in mente legata di più ai concetti di spersonalizzazione e
di dipendenza è che in realtà spesso spersonalizzando si categorizza, nel senso che c'è una
costruzione di una categoria di "rifugiato" che imbriglia colui che deve stare in quella categoria.Ma
immagino che questa categorizzazione impregni anche la relazione che l'operatore ha con lui,"li
tratto come rifugiati, li considero così..da un certo punto di vista sono tutti mescolati e allo stesso
tempo io richiedo di stare dentro quel costrutto
C.M.: Dico qualche cosa a flash: sicuramente c'è il processo di categorizzazione che da un lato è il
contraltare della spersonalizzazione, dall'altro di tutto il processo di etichettamento. Di nuovo
dentro i processi delle migrazioni i rifugiati e i richiedenti asilo sono i soggetti che attraversano la
carriera morale che attraversa dei passaggi di status, una procedura giuridico-burocratica che
però si incarna in una tipologia di accoglienza, in relazioni e non relazioni con i soggetti che
devono dare qualcosa..e sul discorso della dipendenza c'è un' antropologa che parlando di
campi profughi dice che ormai si è arrivati a definire una "sindrome della dipendenza", a una vera
e propria patologizzazione. E' trattata come una malattia però non guardi ciò che l'ha prodotta
ma guardi il risultato. Ti trovi a considerare doppiamente colpevole o quantomeno malato il
soggetto perché se si fosse comportato da soggetto, non apolide, persona che ha diritto ad avere
diritti, che agisce allora sarebbe stato guardato con sospetto come troppo intraprendente, che
esce dalle categorie. Nel momento invece in cui tu rispondi agli obblighi istituzionali che ti
collocano dentro a un disciplinamento di un certo tipo, a una relazione di dipendenza si traduce o
in una colpa o in una patologia, comunque qualcosa da guarire, da risolvere. E' chiaro che in
questi passaggi di stato anche giuridico, si entra in un altra casella,prima eri malato poi colpevole,
prima eri una persona che soffriva di una qualche forma di dipendenza dall'istituzione, poi se non
hai più diritto a quella forma di assistenza allora sei un parassita, un approfittatore.
Spesso c'è un po’ il rischio per gli studiosi e gli operatori di individuare un male assoluto,
l'impressione che ci siano dei luoghi che riassumono tutte queste caratteristiche, luoghi negativi e
da evitare. Quello che è più difficile è riconoscere è come queste persone non necessariamente
siano così segnate dal controllo, dal potere..non dobbiamo guardare solo al governo con la G
maiuscola. Anche i progetti SPRAAR( un po’ i contraltari dei CARA) non sono esenti da questo tipo
di dinamiche,forse sono meno ricorrenti,meno affastellate,più liquide e diluite.
Bisogna vedere anche i rischi che discendono da quelle situazioni micro-situate in cui c'è un
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operatore e un utente,non occorrono necessariamente i macro centri,persino in un rapporto uno a
uno possono riprodursi queste dinamiche. Mi fermo qui.
Cristina: Mi veniva da ricollegare alcune cose che riguardano la mia esperienza rispetto ai campi,
degli esempi che esemplificano alcune delle cose dette. Mi viene da dire che la cooperazione
internazionale da questo punto di vista ha insegnato, cioè avendo una pratica di anni ha anche
alcuni correttivi che noi siamo ben lungi da applicare. Ha fatto una parabola, ha prodotto delle
cose estremamente negative,ma in queste cose negative ha poi applicato dei correttivi.
All'inizio si diceva:"Perché si concentrano le persone in un posto? Perché scappano e hanno
bisogno di protezione". Per riuscire a proteggere devo capire chi sta proteggendo,quanti sono, chi
e è dentro e chi è fuori. Quindi stabilisco un confine tra "chi mi prendo cura" o che hanno diritto a
essere accuditi e quelli che stanno fuori. Quindi alcuni concetti come riconoscere un dentro e un
fuori e un contare le persone. Questo contare le persone porta a dire se le proteggo questa
protezione in cosa si declina,a che cosa materialmente hanno diritto queste persone se li
riconosco come rifugiati da un altro stato. Quindi si porta già dietro l'idea che tu gli dai qualcosa e
per farlo devi controllare che siano quelle le persone a cui lo dai e all'inizio secondo me ci sono
stati questi grandi campi profughi con dei grandi sistemi di controllo e anche un apparato di
controllo molto forte nato per "protezione", ma una volta nato era sempre più controllo e meno
protezione. Perché io ti conto e ti riconto e sto a pensare se sei tu o non sei tu e questo
meccanismo di controllo nei campi profughi dove non c'è neanche l' acqua è arrivato a portare
dei grandi scanner per il controllo ottico della pupilla. Per cui tu sei in una realtà dove non c'è una
strada, non c'è una scuola, non c'è un ospedale, sei praticamente in mezzo al deserto,ma c'è un
apparato stratosferico che controlla la tua pupilla quando entra per essere certo che tu sei quella
persona lì. Quindi i campi profughi hanno sicuramente delle cose aberranti che però hanno
prodotto qualcos'altro. A un certo punto si è iniziato a dire ;"No innanzitutto questo apparecchio
costa un sacco di soldi possiamo fare qualcos'altro". Diciamo che essendo lontani il controllo è
meno forte: "Chi controlla la comunità internazionale? Nessuno", quindi l'operatore che in qualche
modo ha un margine molto ampio di contrattazione.
In molti posti questo confine è un pezzo di ramo e quindi non prende già più quella forma di un
muro di tre metri con il filo spinato e inoltre il villaggio dei rifugiati e quello delle persone che vivono
fuori è molto simile quindi anche il tipo di vita che si fa può essere molto simili. In molti posti il campo
profughi non è più separato, si dice che debba essere molto comunicante. Se si creano dei servizi
sono a beneficio di tutto il territorio. Cioè spesso il campo profughi in alcuni posti ha portato i primi
pozzi e le prime scuole. Addirittura ha generato per anni dei conflitti per il fatto che chi era rifugiato
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aveva dei benefit che chi era fuori e non era rifugiato non aveva. Immaginate i campi profughi nel
Sud Sudan o nel West Darfur e villaggi fuori dai campi profughi senza acqua e senza corrente e
senza scuola mentre queste erano nei campi. Allora se già cominci a dire se quello che posso darti
è una risorsa per tutti allora questo "dentro e fuori" non è tanto importante. Diventa sempre meno
importante contare le persone, cioè uno dice " ti registro, ti do la buonafede,ma non sto lì a
contare se entri se esci se hai dormito qua se non hai dormito qua". All'inizio era molto accudente e
assistenzialistico; i campi profughi sono nati con questa idea "cucino per le persone, gli do questa
quantità di calorie, questo tipo di cibo. Vuol dire che si obbliga tremila, quattromila persone a stare
in coda a colazione, pranzo, cena con tutti i sistemi abbruttenti che vogliono dire. Sempre di più si
danno delle razioni di cibo mensili di alcuni alimenti base cosicché le persone cucinino cosa
vogliano all'orario che gli piace . Alcuni cucinano delle cose e poi le vendono allora vuol dire che
non sono veramente bisognosi e devono poter fare quello che vogliono perché se vendono il riso e
comprano l' antibiotico per me stanno "agendo" quella soggettività e quel diritto di scegliere che è
bene che mantengano . Non voglio entrare nel merito anche se altri continuano a entrare nel
merito e dicono " ah se hai venduto la razione ti depenno". Ci sono fior fior di cooperanti
internazionali che passano il loro tempo a vedere se quello che hanno distribuito il giorno
precedente si trova in vendita al mercato locale. A me personalmente faceva piacere , pensavo
che le persone stessero intelligentemente usando una modalità di scambio per avere quello che
secondo loro evidentemente era utile: siccome quando si dà una risposta a tutti non può essere la
risposta adeguata per tutti va benissimo. Nei campi per quanto di possa avere questa fissa del
controllo ci sono sempre dei buchi nelle reti, delle persone che entrano ed escono di giorno.
Anche sulla condivisione della gestione del campo sono stati fatti grandi passi avanti: all' inizio
erano rappresentanti di etnie, tribù, lingue . I grandi campi profughi sono nati sull'idea del campo
militare e quindi sono organizzati in blocchi, in sezioni a, b, c. C'è una bella cartina del campo, ogni
zona elegge il proprio rappresentante che rispetto a qui è un passo avanti. Perché a volte si
mettono venticinque persone in un container, c'è solo il problema di sistemarle quando arrivano e
non ci si rende conto se non dopo che forse non sono tanto compatibili..Di solito nei grandi campi
gli si dice che ci sono determinate aree e dove vorrebbero collocarsi e le persone dopo un pò si
collocano in un ordine razionale rispetto alle persone a cui vogliono stare vicino: dall'area da cui
sono scappate. alla lingua..più si lascia fluido il meccanismo per cui le persone si assommano,
perché hanno un motivo per cui lo fanno, più emerge una normalità. La differenza rispetto a qua
è forse che ci sono dei tempi certi più lunghi. I campi profughi all'estero possono durare anche solo
sette mesi,ma normalmente durano anni. Quindi un insieme di persone ha un periodo di stabilità
che è anche un periodo, di sospensione in cui si prova ad attenuare tutti questi rischi che tuttavia
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rimangono, ma si prova ad attutirli. Alcuni diventano delle cittadine.
NOTA:
Le parole scritte in stampatello sono parole che abbiamo riportato su un cartellone durante il
lavoro in classe in quanto parole -chiave
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Settimo
6 novembre 2012
Incontro
Titolo
La situazione piemontese: verso la creazione di un modello alternativo di
intervento
Relatori
Michele Manocchi, Cristina Molfetta
Cristina: EMERGENZA NORD-AFRICA: CONDIZIONE PIEMONTE E COORDINAMENTO NONSOLOASILO +
CONDIZIONE ABITATIVA
Partiamo dalla considerazione di cosa esiste strutturalmente in Piemonte rispetto ad accoglienza e
progetti per richiedenti asilo e rifugiati.
Lo Sprar esiste dal 2002. Abbiamo 3000 posti in Italia.
Lo Sprar è stato un bando annuale per un certo periodo di tempo, poi è divenuto biennale dopo
una dura lotta. Per la prima volta tra 2010 e 2013 è divenuto bando triennale, dando maggiore
stabilità.
3000posti teoricamente sono 6000posti all'anno, ma in realtà i poti liberi all'anno sono molti meno.
Rispetto ai 6000posti annuali, reali, cioè i posti dove si possono inserire persone nuove, sono circa
14000-15000 perchè alcuni sono occupati in eredità dall'anno precedente.
Ufficialmente in Piemonte ci sono 145 posti che vuol dire il 4% dei posti presenti a livello nazionale.
Lo Sprar è un sistema decentrato fondato sulla libera adesione dei Comuni, in questa divisione
territoriale non vi è corrispondenza fra grandezza della Regione e il numero delle persone e il
numero di richiedenti asilo ospitati. In Piemonte si è consolidato questo numero di accoglienze. La
nostra Regione aderisce al sistema nazionale con un numero molto basso di posti rispetto alle
persone che possono palesarsi sul territorio.
In Piemonte non c'è un CARA, abbiamo però un CIE, dove accade che all'interno alcuni facciano
domanda d'asilo, con una procedura accelerata: si fa domanda d'asilo dall'interno del CIE. Il
tempo per andare di fronte alla Commissione è più breve, e anche il tempo per fare ricorso una
volta ottenuta la risposta è dimezzato rispetto ai tempi normali. Con un esito di riconoscimento
bassissimo e un ostruzionismo da parte di chi lavora nel CIE che ostacola la possibilità di
concretizzare la domanda d'asilo, perchè spesso è vissuta come domanda d'asilo strumentale.
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In Piemonte ci sono poi 250 posti d'accoglienza messi a disposizione dall'ufficio stranieri della città
di Torino. Posti finanziati con il fondo Morcone, dato alle grandi città metropolitane: Roma, Torino,
Milano, Firenze.
A Roma con questo fondo è stato costruito un grande centro, a Milano se ne sono istituiti quattro.
Torino ha finanziato i 250 posti d'accoglienza con forma diversa: posti in dormitori, comunità,
alloggi.
Il fondo Morcone scade ad aprile 2013, poi si dovrà capire cosa accade rispetto a questi posti.
Anche lo SPRAR nel 2013 è in scadenza. Il fatto che tutti questi pezzi di sistema siano in scadenza
potrebbe essere anche una possibilità. Valutando seriamente quello che c'è, e si considera
insufficiente l'esistente, si potrebbe anche mettere in campo qualche cosa di diverso.
Emergenza Nord-Africa. Vediamo che ricaduta ha avuto in Piemonte.
Sono arrivate circa 1800-1700 persone in Piemonte.
Di cui 1200 concentrate in provincia di Torino, quasi 600 nella sola Torino.
Era un'emergenza? Non lo era, ma vi era invece di certo una carenza strutturale italiana che l'ha
resa tale.
E' stato messo in atto un piano immaginandosi un arrivo massimo di 50000 persone: in questo
sarebbero arrivate in Piemonte 3819 persone.
Non essendo arrivate in Italia 50000 persone, ma circa 25000; in Piemonte ne sono state dirottate
1737.
Qual è stata la logica di distribuzione? La logica di distribuzione è diversa da Sprar e CARA. Qui il
piano è stato di distribuzione circa il numero di richiedenti asilo in base al numero della
popolazione di ogni Regione.
E poi si sono ampliati dei posti i posti Sprar che sono passati durante la fase emergenza nord Africa
da 3000 a 3800: (si sono finanziate quelle realtà che avevano fatto domanda ma che erano state
escluse dai finanziamenti SPRAR per mancanza di fondi) Ma come si sia verificata la dislocazione di
questi posti è misterioso: in Piemonte sono stati alla fine dati 28 posti anche se la disponibilità era
stata maggiore.
Dopo che le persone arrivarono, ogni Regione divenuta responsabile del suo “pacchetto”
decideva come organizzarsi:
alcune hanno differenziato in base alle province e alla loro popolosità.
Il nostro tavolo regionale non ha attuato questa dislocazione. La provincia di Torino ha numero
elevatissimo, e anche la sola città di Torino ha avuto numeri elevati.
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Quanto costa un posto Sprar per persona al giorno? Circa 32-33 euro al giorno ma oltre vitto e
alloggio prevede anche supporto psicologico, legale, orientamento al lavoro, mediazione...ecc...
L'emergenza Nord-Africa è costata circa 40-46 euro al giorno per persona: è costata di più, ma ha
offerto di meno. La convenzione che molti enti hanno stipulato rispetto a emergenza Nord Africa
era una convenzione simil CARA, che prevedeva sì una serie di servizi, ma il sistema di
monitoraggio non ha prodotto risultati importanti, per cui moltissimi enti e strutture hanno potuto
limitarsi al solo vitto e alloggio.
I risultati del Piemonte sono nella media...abbiamo avuto anche noi pagine non felici: in una prima
fase abbiamo piazzato 180 persone a Pracatinat....
abbiamo tuttora centri molto grandi, a Settimo abbiamo il centro della Croce Rossa e un albergo
gestito da Connecting People, che porta ad avere più di 300 persone nella sola città di Settimo;
poi abbiamo avuto circa 200 persone nella cooperativa Ariel della circoscrizione 4, più di 100
persone gestite dal Dravelli in Via Calabria...ecc... queste grosse realtà sono tutt'ora aperte, Con
un’alta concentrazione di persone in certe aree in cui è stato più difficile lavorare su
un'integrazione.
I risultati a distanza di un anno e mezzo:
un 70% di diniegati,
un anno e mezzo di intasamento della Commissione
Un costo altissimo (40 euro per persona); ad oggi su 1700 che erano arrivati sono presenti sul
territorio 1550 richiedenti. Di queste persone 177 sono persone vulnerabili che al 31/12 rischiano di
essere messe su una strada.
Il centro di Settimo della Croce Rossa.
Dal 2008 ci sono state pressioni da parte di Croce Rossa e Prefettura di Torino affinché quel centro
divenisse un CARA, chiedendo al Ministero l'autorizzazione. Il ministero non ha autorizzato, ma il
centro è stato utilizzato:
-con accordi nel 2008 con il Ministero in relazione a una partita di Somali,
-e poi nel 2010 mediante accordi con Prefettura di Torino per dare una possibilità alle persone in
uscita dalla clinica San Paolo;
-e con lEmergenza Nord Africa si è stipulata una nuova convenzione. Il centro di Settimo ha svolto
un po' il ruolo del centro in cui le persone arrivavano all'inizio, venivano smistate per gruppi e per
età per poi essere spostate. È un centro che permette di concentrare un certo numero di persone.
Parliamo ora delle realtà non strutturate che esistono a Torino, cioè le 3 case occupate:
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-quella di Via Bologna- Via Paganini. È una palazzina comunale dei vigili urbani, che è occupata
dal 2007. Le nazionalità più o meno presenti sono sudanesi, etiopi, eritrei (per lo più sudanesi).
-poi c'è stata la grande occupazione della clinica di corso Peschiera partita con 200persone e
chiusa con circa 500. le persone sono state spostate nel 2009, anche se è rimasta vicino alla clinica
di Corso Peschiera la palazzina di via Ravello (appartamenti di medici e infermieri) che è ancora
occupata. Le nazionalità più presenti sono somali, etiopi, eritrei.
-poi c'è l'occupazione di Corso Chieri, la più bizzarra per il modo in cui è nata: le persone uscite da
corso peschiera sono state suddivise in due tronconi.
Alcune persone, circa 150, le più vulnerabili, seguite dal Coordinamento Non Solo Asilo (per cui si
erano fatti alcuni progetti FER) sono state dirottate prima nel centro di Settimo e poi man mano
fatti uscire con delle progettualità a piccoli numeri in tutto il territorio regionale.
Più di 200 persone sono finite in Via Asti gestite direttamente da Prefettura, Comune e
un'associazione datasi disponibile dietro pagamento (Dravelli) per gestire il centro. Allo scadere
della convenzione non si era trovata una soluzione per tutte le persone; l'ultimo giorno le persone
rimaste lì sono finite su un autobus della GTT accompagnate in Corso Chieri. È così iniziata
l'occupazione di Corso Chieri di 19-20 persone somale. Ad oggi il numero di persone presenti sono
circa 100 somali.
Stare in una casa occupata a lungo significa stare in una situazione di marginalità, senza possibilità
di ottenere la residenza, successivamente quindi la tessera sanitaria, ad avere problemi anche per
il rinnovo..è una situazione di disagio.
Michele: È una situazione quella descritta, molto frammentata. Manca cioè un’evidente
programmazione e un controllo sistematico sui progetti fatti.
Il Coordinamento Non Solo Asilo è una di queste realtà: esso nasce nel Dicembre del 2008 per
gemmazione spontanea da parte di due-tre grandi enti torinesi (San Vincenzo, Gruppo Abele,
UPM...) che si mettono in moto perchè vedono questa clinica di 5 piani occupata da 200persone
che crescono rapidamente, in una delle zone più vicine della città (Corso Peschiera-Piazza
Sabotino), con grande risonanza mediatica...
Diverso è il discorso di via Paganini: nessuno se la filava prima, perchè è una specie di recinto con
un muro invisibile, in una zona isolata della città, all'interno di una circoscrizione con molti problemi;
per cui i ragazzi di Via Paganini sono ancora lì, dal 2007.
Diverso è stato il discorso su Corso Peschiera, occupazione in una zona visibile della città: le
persone in 1mesi sono state fatte uscire dalla palazzina. Non è stato uno sgombero violento, ma si
è fatto un lavoro cercando di suddividere le persone fra vulnerabili e non.
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Nell'assenza quasi totale dello Stato, si sono mossi altri soggetti (associazioni, enti di volontariato,
cooperative), e dove mancava esperienza con i rifugiati sicuramente saranno stati fatti degli
errori...però meglio così che il vuoto.
Comunque il Coordinamento Non Solo Asilo parte con questo gruppo di associazioni che si raduna
attorno ad un documento programmatico che riconosce le difficoltà e le necessità di Corso
Peschiera, con una coscienza di questa realtà e la capacità di vedere dove andare a lavorare. Il
Coordinamento Non Solo Asilo rapidamente raggiunge una ventina di enti, poi dopo c'è una
contrazione e i gruppi stabili si possono dividere:
tra associazioni che lavorano intensamente sul progetto
le associazioni che mettono a disposizione le loro competenze per sensibilizzazione nelle scuole,
associazioni che appoggiano il progetto, ma non hanno risorse sufficienti per lavorare nel
Coordinamento.
Questa lettera (documento programmatico) viene mandata alle istituzioni e il Prefetto convoca il
Coordinamento Non Solo Asilo dicendo di non avere le idee chiare rispetto alla situazione di Corso
Peschiera e chiedendo quali proposte portasse il Coordinamento.
Il Coordinamento Non Solo Asilo proponeva di lavorare dentro quella casa per capire le diverse
situazioni. L'idea era: iniziamo a lavorare con queste persone, anche con i mediatori, e
contemporaneamente facciamo un lavoro sul territorio: non solo su Torino città, ma su tutta la
Regione Piemonte. L'ottica è quella di sensibilizzare il territorio affinché a piccoli gruppi le persone
vengano spostate sul territorio piemontese e trovino lì una rete di persone in grado di accogliere.
Il lavoro di rete è stato fatto con le istituzioni spesso in un rapporto conflittuale, ma che comunque
ha portato i diversi soggetti a parlarsi: città di Torino, Provincia di Torino, Regione Piemonte e
Prefettura---Regione che di lì a poco creerà un tavolo regionale che si riunirà tutte le settimane per
tutto il tempo dell'occupazione, e finita l'occupazione, ogni due settimane. Il tavolo cambierà
natura una volta subentrato Cota: il peso politico nell'allocazione delle risorse si è fatto sentire.
(Quelle per l’immigrazione sono state annullate!)
Il grosso lavoro del Coordinamento Non Solo Asilo è stato quello di creare questa rete regionale
andando a parlare sia con chi già lavorava con i rifugiati, sia sensibilizzando realtà che non
avevano mai avuto a che fare con i rifugiati e poi collocando questi piccoli gruppi di persone
continuando a seguire la situazione una volta piazzati.
Le persone del Coordinamento Non Solo Asilo di fatto fanno un lavoro di continua sensibilizzazione
del territorio su chi siano i rifugiati, perché lo SPRAR sia fondato ancora su base volontaria dei
comuni; sensibilizzare i territori perché siano capaci di comprendere cosa significhi accogliere i
rifugiati, e poi lavorare sui rifugiati stessi per far capire che le occasioni migliori non sono
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necessariamente a Torino, nella grande città.
Il lavoro fatto durante l'occupazione è stato molto lungo e ha annoverato anche alcuni enormi
insuccessi.
Cristina: Che cosa ha fatto il Coordinamento Non Solo Asilo? Ha riflettuto su quello che mancava in
Regione, e ha tentato di aumentare i posti di accoglienza del Piemonte provando ad individuare
risorse differenti da quelle utilizzate fino a quel momento intrecciando fondi Europei, disponibilità
delle fondazione bancarie e provando a far dialogare quelli che rischiavano di essere frantumati e
non utilizzati a questo fine (fondi provinciali e regionali). Dopo questo primo lavoro di ricerca di
situazioni di alloggio e combinazione con i rifugiati ritenuti più compatibili, nel momento in cui
veniva a concretizzarsi l'abbinamento rifugiati-alloggio c'era un fondo del “progetto Piemonte non
solo asilo” finanziato in origine dalla Prefettura, dalla Provincia e poi dalla Regione.
Successivamente vengono coinvolte la fondazione San Paolo e i fondi FER---progetti quindi della
comunità europea, dove comunque difficile era far rientrare le 100persone vulnerabili rispetto a
una progettualità molto rigida.
Michele: Dal Coordinamento Non Solo Asilo nascono poi una serie di esperienze a cascata: dopo
questo primo intervento a livello di volontariato, viene coinvolta una cordata di enti e cooperative
sociali affiancate alle associazioni del Coordinamento.
Il lavoro è stato ampio; questa cordata ha presentato questo progetto FER su un numero grosso di
persone.
I progetti Fer sono pensati per le persone vulnerabili, ma nell'ottica non di una totale presa in carico
del soggetto, la logica è infatti: io appoggio il percorso del rifugiato laddove lo Stato non arriva.
Ma l'Europa non può sostituirsi a quello che lo Stato membro deve fare per legge: lo Stato deve
avere un sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati e l'Europa integrerà laddove lo Stato
non ce la fa più.
Quindi si sono avute difficoltà di tipo tecnico, ma anche difficoltà nel relazionarsi con rifugiati che
rivendicavano pretese di un'accoglienza di un certo tipo quando invece il progetto che si poteva
sviluppare non poteva esprimersi in un progetto come lo Sprar....
le conseguenze di quel lavorare in emergenza si sono trascinate in altri due progetti fer (fer2fer3)...questa è la complessità di situazioni concrete.
Altro tentativo: andare dalle fondazioni a “batter cassa”. Molto interessante è il lavoro con la
fondazione San Paolo che vuole una presenza massiccia di uomini della fondazione all'interno dei
tavoli di regia dei progetti: cioè non è il finanziatore che ti dà i soldi e tu dai la rendicontazione, ma
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il finanziatore dà i soldi e vuole intervenire, prendere parte al progetto.
Ma se interviene in modo professionale è un aiuto perché porta altre competenze che derivano
da altri ambiti e che possono accrescere l'offerta.
Problema: ogni volta che cambiano gli equilibri politici tutto cambia...la difficoltà di lavorare su
progetti annuali è proprio il dover ripartire ad ogni volta! E quindi gli operatori prima si trovano
sovraccaricati di lavoro organizzativo gestionale burocratico, pochi mesi di effettivo lavoro con i
destinatari, e sovraccaricati alla fine per la rendicontazione finale. Ecco perché il Coordinamento
Non Solo Asilo chiede un totale ripensamento di questo sistema di accoglienza.
Il tentativo del Coordinamento è quello di sensibilizzare il territorio, fare rete con le altre esperienze
nazionali, attirare fondi e convogliarli su un progetto unico, nel tentativo di rendere i rifugiati un po'
più protagonisti del loro percorso.
L'emergenza Nord Africa ha distolto di molto l'attenzione dai richiedenti asilo e rifugiati; quelli
dell'emergenza non erano richiedenti! È stata una costrizione in cui questi soggetti si sono trovati: lo
Stato ha detto loro che era obbligatorio fare domanda d'asilo, poi al 70% li ha diniegati dopo un
anno e mezzo, ora lo Stato rispetto al 70% dei diniegati, pur di non prendersi la responsabilità di un
riconoscimento, dice: chi è stato diniegato può andare in Questura e fare domanda di riesame
(ripassare dalla commissione) ma firmando che non vorrà più il colloquio, la commissione a questo
punto darà un umanitario.
Tutta l'emergenza nord Africa distoglie comunque l'attenzione dai molti rifugiati presenti ancora sul
nostro territorio.
Domande:
D. A livello nazionale ci sono altre realtà di Coordinamento Non Solo Asilo?
R. Cristina: Ci sono Regioni dove non esiste un coordinamento regionale, ma vi è stato un tavolo
formale costruito per l'emergenza nord Africa; ci sono poi Regioni più strutturate anche prima
dell'emergenza, ci sono reti diverse dal coordinamento—es: Emilia Romagna è una realtà dove vi
è una rete istituzionale di associazioni, ed è una regione dove ci sono quasi 400posti sprar!
Una cosa è avere una regione dove ci sono quasi 400 posti che ha progetti in ogni provincia e su
tutto il territorio, un’altra cosa è avere una regione che ne ha 125 è in cui è coinvolta solo una
provincia.
Ci sono tre Regioni dove dal basso sta partendo una richiesta forte di proposte rispetto al livello
nazionale: Emilia Romagna, Piemonte, Lombardia.
Per questo motivo sono le tre realtà che abbiamo invitato al convegno, oltre alle tante altre realtà
in Italia che però non hanno una base regionale. Siccome sono anche tre regioni grandi che
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hanno un peso, speriamo che possano cambiare un po’ le carte in tavola, ma ovviamente si
incontrano resistenze: ogni meccanismo per quanto non funzioni si auto-genera continuamente, si
fa fatica a immaginarsi di ribaltare il sistema, è più facile dire “allarghiamo i posti SPRAR” e questo
non basta. Ci sono persone che non hanno nessuna idea, fior fior di istituzioni e di politici che non si
pongono neanche il problema...ad esempio in Piemonte ci sono state province che non si sono
preoccupate della questione finora e per cui varrebbe la pena pensare qualche nuovo intervento.
Per cui esistono tante realtà a livello nazionale, meno a livello regionale che si muovano in maniera
coordinata però forse è arrivata l’occasione per cambiare le cose.
D. La situazione romana? La realtà romana è molto complessa, ha un “sistema-città” più che
regionale e non è paragonabile a nessun’altra città italiana.
Nonostante ci sia il leitmotiv a livello istituzionale secondo cui tutte le persone vengono a Torino!!
R. Cristina: Io penso che se alcune delle persone che affermano questa cosa andassero a vivere a
Roma per poco tempo allora si renderebbero conto di cosa significa avere un flusso di persone
veramente elevato che va e viene continuamente.
D. Cos'è il FER:
R. Michele: Lo Stato italiano attraverso il Ministero dell'interno partecipa al Fer e chiede all'Europa
dei fondi, ma c'è un co-finanziamento da parte del Ministero dell'interno.
Sulle persone non vulnerabili il ministero dell'interno mette un 25% e l'Europa mette un 50%.
Sulle persone vulnerabili il co-finanziamento di Europa è del 75%. Quindi il ministero fa uscire bandi
che paga con il fondo dell'Europa, ma il bando del ministero dell'interno può essere modellato
sulla situazione del Paese che chiede quei fondi.
In altri Paesi europei il ministero prende il bando europeo e poi crea un bando specifico per la
propria situazione nazionale. In Italia invece il bando viene preso e il Ministero lo scarica sulle
organizzazioni, e la complessità organizzativa non è per nulla smussata dal ministero.
L’Italia chiede le persone vulnerabili perché entra il 75%.
D.: Esistono fondi europei a cui si accede direttamente?
R. Michele: Direttamente non è possibile perché la comunità europea ha una programmazione
specifica.
D.: Nell’ultima circolare sull’emergenza nord africa non si capisce chiaramente se i dinieghi
avranno effettivamente diritto ad un aiuto umanitario...è così?
R. Cristina: Sì, avranno diritto agli umanitari nonostante il percorso sia lungo ed esageratamente
complicato. Nell’arco di 20 giorni danno una risposta e non avrebbe senso fare un riesame per
dare esito negativo. Al ministero la questione era su come sarebbe stato possibile dare un
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umanitario a queste persone e l’ipotesi era quella di fare un decreto per cui lo stato si assumeva la
responsabilità, ma poi si è deciso di mettere in piedi il meccanismo delle commissioni. Queste
ultime si sono a lungo opposte ma alla fine è prevalsa questa decisione.
Addirittura, ed è anche spiegato nel documento Stato-Regione, questo meccanismo del riesame
attraverso le commissioni potrebbe portare a ottenere un sussidiario. Le due possibilità
contemplate dopo il diniego sono o un umanitario o un sussidiario.
Il sussidiario è difficile che lo concedano, l’umanitario invece sarà concesso sicuramente proprio
perché tutto il meccanismo è stato messo in piedi per questo scopo.
D.: Ci sarà un riesame anche per i pochi fortunati che avevano avuto l’umanitario nei primi mesi o
glielo rinnoveranno?
R.: Tendenzialmente si rinnova. Bisogna ricordarsi sempre della suddivisione: i titolari di protezione
internazionale, cioè rifugiati e sussidiari sono gestiti direttamente dalle commissioni ed è la
commissione che concede gli aiuti, per gli umanitari invece se ne occupa la questura. Una volta
che tu chiedi il permesso umanitario passi attraverso la questura e sei meno tutelato: la questura
ha, per esempio, il potere di decidere che non rinnoverà i permessi per coloro che vivono nelle
case occupate.
Intervento: quando scadono gli umanitari in realtà la questura non decide autonomamente, ma
segnala alla commissione eventuali fatti che possono essere avvenuti nel frattempo, chiedendo il
parere sul rinnovo o meno degli aiuti. Se non c’è la presenza di reati gravi la commissione di norma
rinnova i permessi umanitari, anche per facilitare il processo di integrazione in attesa che la
persona trovi un lavoro e che si arrivi eventualmente al ricongiungimento familiare. Senza permesso
umanitario è difficile trovare lavoro.
La logica che sta dietro alla questione dei dinieghi è basata su due elementi: il primo, molto
pragmatico, è la difficoltà materiale di rimpatriare le persone nei paesi d’origine data la scarsa
chiarezza sulla reale provenienza di alcuni individui, inoltre il rimpatrio è molto costoso.
La maggioranza di queste persone lavorando e vivendo in Libia ormai da molto tempo non ha più
legami forti col proprio paese d’origine, per cui il rimpatrio assume un’ulteriore difficoltà, in quanto
non si ha la certezza che le persone una volta rimpatriate siano in grado di trovare lavoro o
abbiano una rete di conoscenze a cui appoggiarsi.
Quindi la commissione nazionale ha dichiarato di riconoscere una sorta di artificio: non potendo
regalare permessi umanitari a tutti ha inizialmente diniegato, e in seguito ha messo in atto il riesame
dei casi per poi concedere gli umanitari, alla luce del fatto che c’è una dichiarazione generale su
tutto il territorio italiano che riconosce la difficoltà di riallacciare legami nei paesi di provenienza,
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dopo aver vissuto molti anni in Libia.
Da questo tipo di premesse una soluzione migliore sarebbe stata quella di non farli passare, fin
dall’inizio!, dal sistema di richiesta d’asilo, proprio per evitare tutte queste complicazioni, in quanto,
come s’è visto in seguito, la commissione non avrebbe potuto, rispetto al mandato che ha, dare
un esito positivo!
Questo argomento ci fa riflettere: perché concederli adesso i permessi e non un anno e mezzo fa,
quando davvero si sarebbe potuto favorire da subito l’integrazione di coloro in grado di farcela
con le proprie gambe? Adesso quelle stesse persone, hanno sì questo tipo di strumento per
cercare lavoro, ma hanno alle spalle un anno e mezzo di accoglienza assistenzialista.
Quanto costa non avere un sistema adeguato di accoglienza? Siamo multati perché non
abbiamo un reale sistema, ma non viene mai detto esattamente quanto. Lasciamo in mezzo alla
strada, nei dormitori e nelle case occupate una serie di persone perché non siamo in grado di
accoglierle...tutto ciò quanto costa? Garantire le cure mediche per qualcuno che dopo aver
passato l’inverno in una casa occupata si ammala di polmonite ha dei costi molto elevati.
Quanto costa intervenire con un qualsiasi progetto x, a livello umano, rispetto ad una nonaccoglienza strutturale e ad una marginalità sociale che si è protratta per anni...quanto è difficile
riprendere in mano certe situazioni e riconquistare un percorso lineare per queste persone? Questo
sistema genera una serie di marginalità ed introduce le persone in un circolo vizioso da cui è quasi
impossibile uscire. L’esempio delle case occupate è emblematico: chi trova questo tipo di
sistemazione non ha diritto al rinnovo del permesso, e/o della tessera sanitaria. Spezzare i percorsi
di vita di queste persone e lasciarle nella marginalità è uno spreco immenso di soldi e di energie.
Intervento: quest’attesa di un anno e mezzo ha portato ad elevati livelli di vulnerabilità: molte
persone sono arrivate al punto di tentare il suicidio, ed alcune purtroppo ce l’hanno fatta nel loro
intento, perché non vedevano una speranza da nessuna parte. Se i permessi fossero stati concessi
da subito forse si sarebbero evitate queste tragedie.
D.: Quali sono esattamente le categorie di vulnerabili? Sembra che dipenda dai punti di vista,
tant’è che nel censimento studiato per l’emergenza nord-africa si chiedeva di indicare i casi di
persone vulnerabili, ma la cerchia era abbastanza ristretta: donne con figli ma senza un marito,
persone affette da specifiche malattie infettive....
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I parametri del censimento regionale sono diversi da quelli del ministero, la logica utilizzata dalla
regione era quella di individuare le persone che, se non seguite adeguatamente, avrebbero
generato situazioni gravi e difficili da risanare (ad esempio i casi di tubercolosi), per cui il
censimento era molto mirato.
Le categorie di vulnerabili europee e del ministero sono: malati cronici, invalidi, donne incinte,
anziani (la categoria di persone anziane dà adito a dibattiti in quanto l’aspettativa di vita nei paesi
da dove provengono i rifugiati, è molto più bassa rispetto a quella italiana...una donna di 40 anni
per es, potrebbe già essere considerata anziana tenendo conto di quest’aspetto), famiglie
monoparentali (un solo genitore), minori non accompagnati.
Intervento: alcune strutture di accoglienza non si sono minimamente preoccupate di segnalare
casi palesemente vulnerabili (persone a rischio HIV, donne vittime di stupro e persone affette da
disturbi psichiatrici lasciate a loro stesse, ecc...)
Il dramma è che chiaramente è stato un censimento al ribasso: lo scopo era arrivare ad un basso
numero di vulnerabili perché anche per quei pochi casi non erano garantiti i fondi.
Al tavolo regionale si è tentato di ragionare anche sulla categoria di persone autosufficienti: oltre a
salvare i più fragili, sarebbe opportuno fare qualcosa per gli individui che invece sarebbero pronti
a integrarsi con le proprie forze e che avrebbero bisogno solo di una piccola spinta e che invece,
in mezzo a una strada, diventano nel giro di poco tempo vulnerabili.
Non ci sono i fondi né per le persone più a rischio, né per quelle avvantaggiate per il loro buono
stato di salute, titolo di studio, competenze lavorative ecc...né per quelle che stanno in mezzo. Non
ci sono i fondi per nessuno insomma.
Gli umanitari si concedono anche in base al paese di provenienza: ci sono paesi a cui
tendenzialmente si danno e altri a cui non si danno. La stessa organizzazione UNHCR da indicazioni
sui paesi con precedenza rispetto ad altri, salvo eccezioni per singoli casi. Per esempio la Somalia è
da 20 anni un paese a cui si dà la protezione sussidiaria, se domani si pacificasse si comincerebbe
invece a entrare più nel merito dei casi individuali. Per le persone proveniente dal Mali invece non
si dava facilmente fino a un certo momento nessuna protezione, fino a che c’è stato il colpo di
stato e la prospettiva è cambiata: le notizie arrivano da un giorno all’altro e il modo di gestire le
varie situazioni è alquanto arbitrario. Dipende anche dalla zona specifica del paese in questione:
possono esserci regioni più problematiche di altre che ottengono subito la protezione.
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Intervento: spesso si presenta il problema di non sapere con esattezza da dove provenga una
persona, poiché sorgono dubbi sulla veridicità del suo racconto e questo può portare ad un
diniego.
Domanda: qual è la differenza tra i sistemi di controllo dell’accoglienza legati allo SPRAR e quelli
utilizzati nell’emergenza nord-africa?
Nello SPRAR più che un sistema di controllo è prevalso negli anni un monitoraggio dei diversi
progetti, all’inizio erano davvero molto diversi. Ultimamente si dichiara che più o meno i servizi base
sono garantiti dappertutto, chiaramente con caratteristiche che variano secondo il territorio. Ogni
territorio ha una sua dimensione: una presenza maggiore o minore di associazionismo, un tessuto
lavorativo più o meno ricettivo, possibilità di trovare casa a un certo prezzo...quindi non
necessariamente creare un sistema nazionale livella tutte le altre situazioni. I servizi base sono
arrivati, attraverso dinamiche più o meno contrattuali e conflittuali, ad avere una certa conformità:
dentro lo SPRAR il sistema centrale interviene, monitora e suggerisce in modo da mantenere le
garanzie iniziali.
Le persone che lavorano nello SPRAR responsabili delle varie regioni hanno avuto modo di
conoscere personalmente i colleghi dell’ente centrale, e la rendicontazione dello SPRAR ha una
flessibilità tale per cui è più facile spostare dei soldi all’interno del progetto, quindi l’operatore
stesso può essere più flessibile nel lavoro concreto, rispetto a quanto possa esserlo nel FER. Questa
flessibilità c’è anche nel caso della rendicontazione: il servizio centrale può giustificare delle spese
facendo in modo che da un anno all’altro si cambino le voci, al contrario può decidere di tagliare
dei fondi nel caso di spese non trasparenti: le mele marce in questo modo vengono eliminate nel
corso degli anni, grazie a questa conoscenza diretta che facilita questo tipo di controllo. Però il
controllo vero e proprio è molto blando, mira di più a visite e colloqui periodici.
Invece l’emergenza nord-africa prevedeva un sistema di controllo e possiamo riflettere su quanto
non abbia funzionato. Si era prevista nei primi mesi la formazione di gruppi misti, composti da
membri dell’UNHCR, della Protezione Civile e rappresentanti regionali: questa commissione in
pratica si auto-esaminava, per cui i luoghi di accoglienza messi peggio ovviamente non sono stati
presi in considerazione. Per ogni regione si controllavano al massimo tre o quattro posti, si è poi
stilato un rapporto unico che avrebbe dovuto fornire gli strumenti per chiudere i posti che
funzionavano meno, ma non è mai uscito pubblicamente. C’è stato un controllo esagerato su
cose puramente materiali come la quantità di cibo e non sui reali servizi forniti alle persone. In
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Piemonte sono state chiuse tre strutture (Pratonevoso, Pracatinat, Falchera) perché erano
insostenibili, ma non a causa del controllo centrale, tutto è stato lasciato agli enti gestori. Il sistema
di controllo e monitoraggio centrale non ha funzionato assolutamente, e chissà se ci saranno
strascichi di tipo legale e penale per alcune situazioni che comprendevano addirittura
maltrattamenti.
Un caso che non ha destato sospetti all’inizio è avvenuto in un comune piemontese che aveva
messo a disposizione un alloggio per due coppie di rifugiati: una situazione con poche persone,
fattore che non ha messo in allarme in quanto le situazioni più problematiche si presentano quasi
sempre quando si hanno strutture che ospitano molti individui. Ebbene, proprio questa situazione
non problematica ha portato a uno dei casi più inquietanti: queste due coppie sono state tenute
segregate e obbligate a lavorare gratis.
La convenzione si è rivelata essere una convenzione simil-CARA, che si occupa più delle cose
pratiche: razioni di cibo, turni di pulizia, ecc (condizioni igienico-sanitarie nutrizionali)...e non della
qualità dei sistemi di accoglienza, della mediazione, dell’accompagnamento legale, del servizio di
orientamento al territorio, al lavoro e formazione linguistica. Avrebbero potuto scegliere una
convenzione diversa, poiché ne erano state proposte altre.
Lavoro di gruppo
Abitare, casa, concetto di casa...abbiamo iniziato a ragionare sul fatto che, in base alle situazioni
di partenza, specifiche di ogni singolo individuo, possono esserci degli aspetti positivi e degli aspetti
negativi...rispetto alla situazione di cui abbiamo parlato finora, possiamo individuare tali aspetti
positivi e/o negativi di queste forme di accoglienza?
Quelle che noi vi proponiamo sono: la strada, il dormitorio, la casa occupata, la comunità (per
adulti e per minori), la casa col contratto a nome (o non a nome) del soggetto, e situazioni miste,
altre, come ottenere una casa in cambio di prestazioni lavorative (custode ad es).
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Partiamo dai dormitori, aspetti negativi: questione dell’assenza privacy, precarietà, limitata
mobilità (orari di entrata e uscita), convivenza forzata.
Aspetti positivi: creazione di reti tra le persone che convivono, scambi di informazioni e strategie,
contatto con gli operatori come risorsa.
Come rifugiato, non essendo residente, puoi usufruire del dormitorio una sola volta per una
settimana (o due al massimo), al contrario dei residenti che possono usufruirne più volte ad
intervalli di tempo regolati dalle liste di attesa. Ci sono i dormitori comunali, ma ci sono anche
molte altre strutture che forniscono gli stessi servizi.
Le persone come strategia di sopravvivenza si spostano continuamente da una struttura all’altra
(Via Ormea, San Luca).
Ci si mette un po’ ad imparare a sopravvivere dentro questa foresta di servizi, e gli operatori
possono essere fondamentali in questo.
Intervento: ho parlato con la responsabile del servizio adulti in difficoltà per sapere come muovermi
riguardo all’orientamento ai rifugiati che non avessero ancora ricevuto alcun tipo di assistenza (né
dallo Sprar, né altro) e lei ha risposto allarmatissima che i dormitori comunali sono pensati per un
altro scopo, adesso ci ritroviamo con questo problema dei rifugiati, senza riuscire a gestire
neanche i “nostri” senza fissa dimora...parlatene con l’ufficio stranieri!!
Intervento: noi abbiamo uno “zoccolo” di persone senza fissa dimora che appena c’è un
fenomeno di novità, viene estromesso dai servizi, proprio perché non si riesce a gestire le due cose
insieme. I senza fissa dimora hanno strategie molto varie, più di quanto si pensi, anche se il servizio
di Torino è ancora basato sulla vecchia filosofia dell’andare a prendere il clochard per strada
perché da solo non sarebbe in grado usufruire della mensa o del dormitorio. In ogni caso è una
guerra tra poveri, e quando sono in corso queste dinamiche (emergenza rifugiati) questi poveri
spariscono e non hanno voce.
Questo è un esempio di tema trasversale, con risvolti positivi e negativi: il fatto che i rifugiati
apprendano strategie per cavarsela è positivo, però è uno di quei meccanismi dal quale poi è
difficile uscire e questo ha dei risvolti assolutamente negativi.
Stando con persone con un determinato stile di vita, modo di pensare e di agire per sei mesi, molto
probabilmente si diventerà sempre più simili a queste persone.
Il richiedente asilo, una volta scappato da una situazione di pericolo, una volta arrivato qua e
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ottenuto il permesso di soggiorno, dovrebbe trovarsi in una situazione positiva, con persone da cui
imparare per riuscire a gestire bene la propria vita: molto spesso non accade questo, perché i
rifugiati hanno contatti, nei dormitori per es, solo con persone problematiche e marginali, in fase di
vita discendente.
Cosa succede, anche emotivamente ai rifugiati in queste condizioni?
Intervento: servizi sociali non sono in grado di intervenire con progetti di reinserimento per persone
straniere...non sono in grado o non vogliono, in quanto esiste una forte logica di suddivisione di
competenza tra uffici.
L’esperienza del dormitorio è molto ambigua, si rischia sempre di rimanere incastrati in quel mondo.
Molto intensa (lo dico come operatore) sia per gli utenti che per gli operatori, ed è molto costosa
sul piano delle risorse.
Molti rifugiati non vogliono assolutamente stare nei dormitori, qualcuno dice “meglio la strada
piuttosto che il dormitorio”. Dopo essere scappati da situazioni terribili non accettano che i
dormitori siano l’unica alternativa che si propone loro.
Intervento: alcuni ci stanno dopo aver trovato lavoro, per non spendere per l’abitazione e
mandare più soldi a casa.
Sì, ma devono avere una forte conoscenza del territorio per adottare questa strategia, direi che
nella fase di arrivo iniziale questa cosa non sta in piedi.
Bibliografia | Settimo incontro
Link utili
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Slide Emergenza Nord Africa: Convegno 10 novembre 2012 – “L’emergenza non esiste”.
http://www.nonsoloasilo.org/index.html?pagina=corsi
La strada sembra non finire mai. http://www.nonsoloasilo.org/slide/Quaderno%20NsA3.pdf
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Ottavo
13 novembre 2012
Incontro
Titolo
Tra esigibilità dei diritti e pratiche sociali: residenza, ricongiungimenti,
approccio di genere
Relatrice
Yagoub Kibeida:
Joli Ghibaudi, Simona Taliani, Yagoub Kibeida
Il tema del ricongiungimento familiare è un diritto per tutti gli immigrati che
vengono qua in Italia,
quindi tutti gli stranieri in possesso di un permesso di soggiorno valido per più di un anno hanno
diritto a fare domanda di ricongiungimento familiare. Ci sono dei requisiti per fare questa
domanda, per fortuna che il rifugiato non ha bisogno di dimostrare questi requisiti. Ma il rifugiato
quale? Il rifugiato politico, in possesso di permesso di soggiorno con status di rifugiato come giudica
la commissione territoriale il riconoscimento del titolo di rifugiato quindi solo questo soggetto che
ha un permesso di soggiorno di cinque anni. Altri tipi di rifugiati, con permesso sussidiario o
umanitario, devono dimostrare tutti i requisiti per fare domanda. Vediamo dopo come anche il
rifugiato politico che ha questa via privilegiata, questo diritto a un certo punto è negato. Chi,
quale familiare possono ricongiungere? Il coniuge maggiorenne, dobbiamo precisare perchè in
alcuni posti si sposano prima di diciotto anni, quindi quando fanno le domande di asilo la
domanda sarà respinta perché la moglie o il marito hanno meno di diciotto anni e non la possono
fare. Figli minori, anche fuori del matrimonio da parte della moglie, anche figli adottati possono
avere riconoscimento. Figli maggiorenni con invalidità al cento per cento, solo questi possono fare
domanda. Un caso Pakistano, un signore Pakistano ha chiesto di ricongiungere suo figlio da solo in
Pakistan di diciotto anni, ma non si può fare niente perché è maggiorenne, suo padre era un
politico in Pakistan, ma niente da fare, non si può ricongiungere. Genitori a carico che non hanno
altri figli nel paese d'origine e quindi solo questi soggetti possono venire per ricongiungimento
familiare, sorelle cugini non possono venire, anche se sono a carico, anche se hanno maggior
esigenza o necessità di venire.
Quindi i requisiti necessari per poter ottenere l'autorizzazione al riconoscimento familiare sono vitto
e alloggio e un reddito non inferiore dell' importo annuo dell'assegno sociale, quindi non inferiore di
5.349 euro necessari a una persona per vivere, per far la domanda non deve avere meno di
questo, e per far una domanda per una persona per venire in Italia, dobbiamo mettere la metà
dell'assegno sociale quindi 2.764. Quindi per fare domanda devi avere un reddito annuale di 8.365
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euro e così via, ogni persona che ricongiungi mettiamo la metà dell'assegno sociale e quindi per
due familiari dobbiamo avere un reddito di 11.154, per tre familiari di 13.000 e così via. E questo
riguardo al reddito, riguardo all'alloggio deve essere idoneo, i parametri dell'alloggio devono
essere visti dall'ufficio tecnico della asl o dall'ufficio tecnico del comune che
rilasciano un
certificato dicendo che in quest'alloggio possono vivere due persone ma che c'è posto anche per
altre. Quindi questa è una pratica importante. La certificazione accertante il rapporto familiare,
questa non necessariamente da portare qui per fare la domanda ma dal rappresentante
dell'ambasciata italiana del paese d'origine per ottenere il visto, poi prefettura rilascia il nulla osta e
il nulla osta dovrebbe essere mandato al familiare che va con il nulla osta all'ambasciata italiana
nel proprio paese per ottenere il visto ed è lì che deve essere certificato il rapporto familiare. Qui la
domanda si fa per via telematica sul sito del ministero dell'interno, quindi i rifugiati che non sanno
come funziona possono andare al sindacato, al patronato e a questi tipi di uffici dove trovano chi
li aiuta a fare questo tipo di domanda.
Dopo di che arriva una lettere della prefettura con un appuntamento per portare tutta una serie di
documenti: alloggio, reddito, fotocopia permesso di soggiorno e passaporto, marca da bollo e
tutto questo. Per avere questo appuntamento a Torino più o meno devo aspettare 4 mesi per
avere questo appuntamento. Altre città in Italia si deve aspettare anche di più: sei, nove mesi, per
esempio a Roma nove mesi devo aspettare e anche a Milano. Per i rifugiati a Torino c'era una via
privilegiata perché la domanda veniva fatta sul sito del ministero dell'interno e dopo una settimana
arrivava subito in prefettura e quindi posso lavorare subito sulla pratica, ma per i migranti o per
quelli che devono portargli i documenti devono passare comunque per la questura, anche i
rifugiati devono passare per la questura per accertamenti, ma solo per vedere che il permesso di
soggiorno è vero e valido, ma niente altro e quindi non ci sono altre cose da accertare e possono
avere il nulla osta dopo un mese. Adesso hanno detto no, devono aspettare come gli altri,
comunque non so perché, non ci sono cose da accertare: non c'è alloggio, non c'è reddito e
quando qualcuno mi ha chiesto di portare gli accertamenti non lo so, non è giustificato, e adesso
devono aspettare tutti come gli altri, quindi 4 mesi prima di avere l'appuntamento e dopodiché
portano tutti i documenti di nuovo, mandano la domanda di nuovo in questura per fare tutti questi
accertamenti di alloggio, di reddito e quindi ancora due tre mesi di attesa. E dopo di che la
prefettura rilascia il nulla osta, manda copia originale del nulla osta al paese di origine e il familiare
va all'ambasciata, l'ambasciata chiede che rapporto c'è di parentela, i documenti del matrimonio
o certificato di nascita del figlio.
Dal 2001 c'era un ordinanza per facilitare per i somali la richiesta di ricongiungimento familiare
perché non ci sono documenti, perché è tutto bruciato, non possono accertare e dimostrare
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questi certificati e quindi hanno detto va bene possiamo fare il test del Dna, il problema è che
questo test è stato generalizzato a tutti, a chi non ha documenti e a chi ha documenti. Io porto il
certificato di nascita fatto dall'autorità del mio paese e l'ambasciata mi dice no, vai a fare il test
del Dna. E quindi una cosa fatta per facilitare è diventata un ostacolo per tantissimi rifugiati perché
il test è a carico del rifugiato e quindi se io ho 3 bambini devo pagare tutto questo e quindi se non
ce l'ho magari quando avrò questa cifra altissima il nulla osta è già scaduto e lo devo fare di
nuovo e così via.
Anche i rifugiati devono fare questo test per il loro figli, il problema è che anche altre categorie,
sussidiaria o umanitaria, alcune hanno rinunciato a fare la domanda di ricongiungimento familiare
perché con la crisi non c'è lavoro, non c'è casa e non c'è reddito, e quindi è un diritto negato.
Il problema va avanti, non solo in Italia, ma anche per le famiglie che sono al paese d'origine
come un bisticcio, problemi dentro la famiglia perché tuo marito non vuole portarti con lui, c'è
qualcosa che non va ma non dicono che ci sono ostacoli, dicono che lui non vuole, perché l'altro,
o suo fratello, ha portato sua moglie perché ha lo status di rifugiato quindi non gli hanno chiesto
questa serie di documenti, lui invece ha sussidiaria quindi deve farlo, ma le famiglie non capiscono
questo che crea tanti problemi gravi anche a volte alle famiglie giù.
Alcune ambasciate adesso chiedono anche cose che non sono di loro competenza: certificato di
stato libero del rifugiato o dell'immigrato che deve andare all'anagrafe e chiedere il certificato,
ma alcune anagrafi dicono no, siete rifugiati e quindi noi non possiamo fare questo certificato,
quindi o andate in tribunale, e per prendere un appuntamento in tribunale e fare un certificato ci
vogliono ancora 4 o 5 mesi e andate all' UNHCR è vero che all'alto commissariato dei rifugiati
rilasciano questo certificato ma per sposarsi in Italia, ma se lui è già sposato ho dichiarato nel mio
verbale che sono sposato e il cognome e il nome della moglie e dei miei figli, allora perché devo
portare il certificato di stato libero? È una cosa strana.
Gli ostacoli, chiedono anche ai rifugiati le ambasciate, che non hanno niente a che fare con
questi documenti, di portare l'idoneità alloggiativa e quindi se la prefettura qui rilascia il nulla osta
e non chiede a me, rifugiato politico, l'idoneità alloggiativa, allora perché i miei figli e mia moglie
che sono in pericolo di vita e hanno rilasciato il nulla osta che il governo italiano non ha nessuna
obiezione a far venire la moglie qui, l'ambasciata dice no, devono portare questo certificato di
idoneità alloggiativa, e quindi mettono in difficoltà il rifugiato?
Io non parlo di tutte le ambasciate, ma alcune fanno delle cose veramente assurde, altre cose
che i tempi molto lunghi nelle ambasciate per avere un appuntamento e presentare solo il nulla
osta, alcuni abitano, per esempio in Sudan, il Sudan è un paese tre volte l'Italia, se io vengo da una
regione del Darfur che è grande come Francia e devo andare all'ambasciata nella capitale a
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Kartun e quindi, quanto mi costa di fare tutto questo viaggio, dopo di che dicono manca questo,
vai e dove vado io a fare questo, con una moglie e i bambini piccoli, torno in Darfur, dove torno?
Simona Taliani : Mi è stato chiesto dai colleghi, che ringrazio per l'invito, di aiutarvi e aiutarci tutti
insieme per capire, dal punto di vista di genere che tipo di esperienze possono esserci, sia per la
donna richiedente asilo e rifugiata, sia per l'operatore che si confronta con una donna. Non vorrei
scivolare nel luogo comune che spesso si sente dire per cui, a seconda delle culture da cui si
proviene è meglio che ci sia un uomo o una donna, piuttosto vorrei ragionare con voi sulla
specificità. Da un lato di come l'esperienza della persecuzione, della violenza, del tipo particolare
di violenza che si abbatte sulle donne può generare una forma peculiare di sofferenza una volta
raggiunta l'Europa quindi, se c'è e come in qualche modo parlare di una violenza di genere che
già, sia nel paese di origine, ma anche durante il viaggio e nelle fasi dell'accoglienza, senza
pensare che la violenza sia fatta al richiedente asilo soltanto nel paese di origine, perché in realtà,
e qui scusate apro alcune finestre per condividere con voi un linguaggio, un certo vocabolario dal
mio punto di vista e non solo mio ma di una serie di altri ricercatori, il richiedente asilo, colui che fa
domanda di protezione umanitaria accumula una serie di violenze che non hanno una soluzione di
continuità, che si configurano come cumulo e continuità tra il momento della fuga e il momento
dell'arrivo nel paese d'accoglienza. Dall'altro lato bisogna capire se c'è una specificità della figura
della donna richiedente asilo rispetto al tipo peculiare di discorso che oggi alcuni autori ci hanno
proposto con forza e che quantomeno nelle discipline antropologiche ha preso sicuramente
piede, ma non solo in quelle antropologiche, del vedere oggi la figura del rifugiato come
l'emblema per eccellenza di una vita nuda, di una forma dell'umano ridotto ai minimi termini,
essere umano biologico che deve dimostrare di essere bisognoso di aiuto, bisognoso di cure che
sono legate principalmente alla sua sopravvivenza, al suo corpo e quindi se c'è una specificità che
ricade sulla donna in termini di biopolitiche, di quelle che Foucault aveva definito biopolitiche.
Cercherò di essere breve, il tema è complesso.
Allora, primo punto, parto da lontano, c'è un lavoro che ho trovato molto interessante
recentemente lavorando su tematiche affini al tema della memoria che è stato condotto da un
giovane ricercatore in Uruguay, uno dei pochi paesi del Sud America dimenticati dalle ricerche
rispetto alla violenza di stato perché abbiamo molta più familiarità con l'argentina, il Cile, il
Guatemala e ci si dimentica che l'Uruguay dagli anni 70 e fino al 1985 ha vissuto un periodo di
dittatura militare molto violenta e rispetto al numero della popolazione l'Uruguay ha visto una
concentrazione di detenuti nelle carcere e di desaparecidos la più alta di tutto il sud America
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quindi un paese che è stato seriamente ferito da questa dittatura militare. Nel cercare oggi di
recuperare, a vent'anni di distanza, le memorie dei detenuti in carcere, questo ricercatore che si
chiama Lorenzo Dorsi e che aveva fatto una ricerca per la sua laurea alla Sapienza di Roma,
indicava che dopo il periodo della dittatura, nel tentativo di ricostruire una memoria collettiva su
quello che era successo, le donne presentavano una maggiore predisposizione, appunto, alla
composizione di una memoria comune, mentre si era visto negli uomini una sorta di vissuto molto
più privato, intimo, frammentato e l'impossibilità di
costituirsi come gruppo di memoria, nel
tentativo di capire con i suoi interlocutori l'origine di questa distinzione di genere, quindi le memorie
femminili più propense a costituirsi come memorie condivise di gruppo, si era ricostruita da parte
dei suoi interlocutori, appunto, l'esperienza stessa della carcerazione e delle torture in carcere, il
fatto che per esempio le donne venissero detenute in celle comuni aveva permesso il
mantenimento di minimi legami sociali anche all'interno dell'istituzione carceraria, gli uomini
venivano invece isolati in celle da un metro per un metro e passavano la maggior parte del loro
tempo in isolamento, l'unico canale che veniva consentito in carcere era la ricezione da parte dei
familiari di libri, quindi molti erano gli uomini che avevano superato l'esperienza della solitudine e
della tortura studiando e quindi si erano concentrati in un'attività intellettuale e individuale mentre
le donne, proprio perché la dimensione delle celle era comunitaria, non perché le violenze erano
meno pesanti, riuscivano a sostenere la detenuta che era stata torturata quando ritornava in cella
e quindi già a costruire, nel momento stesso dell'esperienza della violenza e della cultura, un
momento di condivisione.
Questo era il primo spaccato che volevo lasciarvi per provare a ragionare sulle questione di
genere, di come dovremmo aiutarci e farci aiutare da chi queste ricerche le fa sul campo per
capire il contesto peculiare in cui si struttura l'esperienza della violenza e le risorse locali che sono
state attivate, perché erano nella possibilità e nella convinzione di attivarsi, oppure che sono state
cancellate a seconda delle condizioni in cui le persone sono state messe. La stessa cosa ce la
potremmo chiedere per altri contesti, le condizioni del viaggio come si affrontano i viaggi, che tipo
di esperienze al femminile si possono raccontare da questo punto di vista o nelle fasi
dell'accoglienza, ragionare oggi qui, e magari promuovere delle ricerche sul territorio cittadino, sul
territorio nazionale rispetto a come noi organizziamo l'accoglienza in modo molto strutturato
rispetto al genere, e di come questo naturalmente non può che influenzare le risposte che gli altri,
uomini e donne, giovani ragazzi e giovani donne danno.
Nell'affrontare una formazione in Emilia Romagna a Ravenna si ragionava con alcuni operatori del
comportamento, che a volte veniva percepito come manipolatorio dalle donne richiedenti asilo,
di presentarsi da sole con i loro figli e di dire che non avevano i mariti, si era ragionato con gli
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operatori che in quel territorio, ma è una questione abbastanza diffusa, che le strutture che noi
offriamo raramente sono per nuclei familiari. Sono strutture di accoglienza per donne e bambini da
un lato e per uomini dall'altro, ora questo tipo peculiare di accoglienza influenzerà non solo le
modalità con cui l'altro si presenta, abbiamo avuto anche casi a Torino in collaborazione con gli
assistenti sociali dove c'era la stessa variabile di fondo, per cui l'operatore aveva il sentore che la
donna abbia il marito sul territorio cittadino, ma per usufruire delle maggiori risorse possibili e anche
perché il richiedente asilo ha già avuto delle informazioni da chi ha fatto lo stesso percorso e sa
che non verrà inserito in un nucleo familiare, ci si divide in famiglia per riuscire a ottenere il massimo
dell’accoglienza che le strutture possono offrire.
Questo era il primo punto che volevo proporre a voi, a partire da un brevissimo excursus puntuale
di un'etnografia
fatta in Uruguay che dice come andare a ricostruire i contesti di vita della
violenza e della cultura ci aiuta anche a capire come nelle esperienze seguenti, in uno scenario
post hoc, le persone si posizionano rispetto a tematiche fondamentali, l'identità, la memoria,
l'appartenenza, la ricostruzione di sé. In Uruguay è esemplare il fatto che l'unico libro pubblicato di
comune accordo e che ricostruisse secondo un punto di vista unitario l'esperienza della
carcerazione è stato fatto da donne, gli uomini non ce l'hanno fatta: ciascuno ha pubblicato il suo
libro e la sua esperienza ma le divisioni ideologiche e politiche venivano messe avanti rispetto
all'esperienza carceraria, perché ogni uomo era stato messo in carcere per le posizioni politiche
peculiari che rappresentava e quindi essere tupamaro, comunista, anarchico e quindi questa
dimensione politica della carcerazione prendeva il sopravvento. Anche nella ricostruzione della
vita dopo, le donne, spesso incarcerate perché figlie o mogli o sorelle di, e sopratutto per le
condizioni carcerarie che in cui si trovavano, sono riuscite a creare una condivisione
dell'esperienza di violenza e a farla diventare materiale comune.
Non abbiamo sempre la possibilità di studiare in loco, anzi saranno pochi gli antropologi che vi
permetteranno in tempo diretto di avere l'analisi del contesto dove la violenza è ancora attiva e,
come dire, presente. Anzi solitamente tanto gli antropologi quanto gli storici sul campo ci arrivano
un attimo dopo, quando almeno ci sono le condizioni minime per sopravvivere quindi, dal Rwanda
alla Cambogia si è arrivati sempre dopo e in modo un po' sarcastico qualche antropologo critica
gli stessi antropologi dicendo, siete anche partiti un attimo prima, cioè anche se si era sul campo
una volta che si comprende che ci sta per essere un colpo di stato si tenta di tornare nel proprio
paese. Quindi è difficile che si possano avere delle descrizioni puntuali del presente, però ci si può
servire di ricerche che parlano di altri contesti o di un prima o di un dopo per riuscire in realtà a
comprendere che alcune risposte che le donne possono essersi date rispetto agli uomini possono
essere condizionate, non solo da percorsi soggettivi, questa è una variabile che chiaramente c'è,
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ma possono essere condizionate dalle modalità peculiari con cui la violenza si è abbattuta, con le
modalità peculiari con cui il gruppo di donne ha vissuto quel tipo particolare di esperienza.
Il secondo punto che volevo affrontare con voi, sempre per ragionare sulle tematiche di genere,
certo questa può essere una dimensione trasversale, ma per quel tipo peculiare di violenza che si
abbatte sulle donne in contesti di guerra, di violenza di stato, e cioè lo stupro, c'è una peculiarità di
quello che adesso vi sto dicendo, su come l'intreccio, tra violenza politica e violenza privata,
domestica, è così articolato da non poter più ritornare sulla nostra dicotomia originaria violenza
politica o violenza domestica.
Mi spiego meglio, ancora una volta avvalendomi di una ricerca condotta questa volta da un
antropologa per un dottorato di ricerca in Perù, ancora una volta arrivando dopo, dopo gli anni
del terrorismo. Il Perù ha passato gli anni bui tra 1980 e 2000, tutto sommato se ci pensiamo bene,
essendo anche la città di Torino una città che accoglie una comunità peruviana importante, sono
gli anni di questi genitori e dei figli, quindi non è una generazione così lontana nel tempo, sebbene,
e questo è un dato, la comunità peruviana non sia da noi una comunità di richiedenti asilo e
rifugiati, e soprattutto tenendo conto che di questo nelle famiglie non se ne parla, è rimasta
davvero per il Perù ancora una zona d'ombra troppo violenta per essere detta. La ricerca di
questa antropologa in loco si era svolta nelle regioni dell'entroterra peruviano laddove il
movimento di Sendero Luminoso, questo gruppo che aveva dato il via a una serie di azioni che da
azioni di rivoluzione si sono trasformate in vere e proprie rappresaglie terroristiche a danno dei
contadini, attaccati da due eserciti, quello governativo e quello del Sendero luminoso. Ciò che ha
messo bene in evidenza questa ricercatrice è che in molte delle situazioni che noi osserviamo
come teatri di violenza il nemico è un parente stretto. Kimberly Taylor, quest'antropologa riporta
una frase emblematica di un contadino peruviano che diceva: “Vedi Kimberly, qui chiunque
entrasse di notte per violentare le donne aveva comunque la maschera, e perché l'esigenza di
avere la maschera di notte se non perché sapeva che se non si fosse mascherato lo avrebbero
riconosciuto? Era qualcuno di conosciuto che entrava lì e che agiva una forma di violenza contro
le nostre donne e i nostri bambini”.
Io credo che questa analisi di Kimberly Taylor, che poi intitola il suo libro...tradotto in italiano
potrebbe essere “ tra vicini, tra prossimi” è qualcosa che accade tra chi si conosce, sia
generalizzabile.
Sono molti i contesti da cui vengono i nostri richiedenti asilo in cui non c'è la possibilità di
distinguere nettamente se la violenza è stata agita da paramilitare sconosciuto o conosciuto, da
qualcuno che era membro della propria famiglia o meno.
Ho incontrato proprio stamattina una studentessa che ha condotto una breve ricerca in campo in
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Rwanda, e che mi diceva che la persona che l'aveva accompagnata a fare le interviste, girando
per strada ancora oggi, a quasi vent'anni dal genocidio del '94, diceva che: “ Noi camminiamo
per strada..Sappi che chi incontri o è assassino o ha nella sua famiglia degli assassini”.
Sono tanti i contesti dei richiedenti asili in cui la violenza è ormai un intreccio che non si può più
districare, non si può più sciogliere, tra questa dimensione politica e la dimensione privata,
domestica.
Quindi io non voglio di questo aspetto farvi solo intravedere ciò che gli psicologi o gli psicanalisti
possono insegnarci ancora oggi, e cioè che per chi ha vissuto esperienze di violenza ci può essere
un'incapacità a risolvere individualmente la violenza che ha vissuto e a riprodurla in un secondo
momento su altri; questo è un rischio che corrono tanto gli uomini quanto le donne. Voglio
piuttosto farvi intravedere che già all'origine questa violenza non si sa, da parte di chi l'ha subita,
dove collocarla. A me stupisce molto quando incontro delle donne congolesi che raccontano di
esperienze di carcerazione a Kinshasa. Di solito il loro racconto finisce con una frase un po'
stereotipata, alla quale molti operatori non credono neanche più perché la fine del loro racconto
è sempre la stessa e più o meno recita così:” Sono stata in carcere tre settimane, un mese, non
ricordo, è successo questo, questo e quest'altro...un giorno piangevo nella mia lingua madre –
questa è già un'espressione interessante – e un carceriere mi si è avvicinato e mi ha risposto, allora
ho capito che eravamo dello stesso gruppo e di solito è il carceriere buono che salva, ma in realtà
quel “carceriere buono che salva”, la sera prima o la settimana prima, poteva essere stato quello
entrato incappucciato che mi ha violata, che mi ha stuprata.
Quindi è tanto in una dimensione istituzionale come quella di un carcere, c'è già questa
commistione che io non so chi è l'altro, tanto più in situazioni esterne. Un'altra donna congolese
che aveva raccontato di essere stata violentata in casa sua con sua madre e sua sorella: era in
casa, sono entrate delle persone in casa e lei non sapeva bene chi fossero, potevano essere
anche i vicini. Quindi sono contesti in cui si struttura fin dall'inizio un'esperienza con la violenza
profondamente contrassegnata dall'ambivalenza.
È tanto politica quanto già privata, che le persone fanno poi difficoltà a distinguere i diversi livelli.
Qual è , a questo proposito, il punto che ci interessa? È che quando noi raccogliamo le narrazioni
dei richiedenti asilo, spesso quello che gli chiediamo è di ritornare a una contrapposizione
dicotomica tra ciò che è stato di natura pubblica, politica, sociale, e ciò che è stato, invece, di
natura domestica. Non si dà un asilo politico se, una persona, racconta che ha subito una violenza
da parte di un cugino, quindi noi cerchiamo di districare nella narrazione un racconto che sia
coerente con il nostro modello di protezione umanitaria o status di asilo politico e che ci siano
certe condizioni.
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Quello che vorrei farvi intravedere è che, a volte, la questione
non è così discernibile e che
potremmo fare delle domande al rifugiato che non è impreparato, che sa benissimo che cosa noi
vogliamo e quindi ci racconterà una storia il più possibile coerente con i nostri parametri di
valutazione, ma questa è un'altra questione che riguarda il suo percorso politico da rifugiato.
Noi siamo interessati, come ricercatori, come educatori, come psicologi a fare un lavoro che non è
incollato al percorso giuridico, dovremmo riuscire a fornire dei contesti di narrazione molto più
flessibili, metaforici, capaci di oscillare tra il pubblico e il domestico, perché non possiamo dare
per scontato che nell'esperienza del richiedente asilo ci sia questa capacità di discernere che
cosa è stato e chi ha agito su di me violenza. Per la donna ancora di più perché, poi, essendo
oggetto di questa violenza brutale che è la violenza carnale, lo stupro. Questo agisce sicuramente
su alcune forme peculiari di disumanizzazione che sono proprie della torture, far violentare una
madre dal proprio figlio, ed è successo c'è un bellissimo lavoro di una psicoterapeuta francese,
Sironi, che porta dei casi clinici in cui emerge che una delle forme peculiari di tortura è stata
proprio la rottura di ogni forma di legame familiare, culturale e sociale, quindi si prendevano
genitori e figlie e si obbligavano i figli ad avere rapporti sessuali con le proprie madri o a guardare
le proprie madri mentre venivano stuprate. Guardare, emblematico sintomo edipico portato poi in
Europa la cecità, il non voler vedere nulla, non su base organica, non vi erano lesioni organiche. In
quei casi la donna chi può dire chi ha agito la violenza? È stata parte della logica degli aguzzini
creare in lei uno stato di confusione cognitiva, affettiva, relazionale, non sapere più identificare il
carnefice.
Terzo punto che volevo sottolineare è che, come dicevo prima, c'è sicuramente da parte del
richiedente asilo oggi una consapevolezza del sistema asilo in Europa, si parlano, si dicono come
sono organizzati i vari stati, quali sono le possibilità, a volte si è ragionato sui percorsi, si vede che ci
sono comunità che seguono determinati percorsi e che si rivolgono a determinate prefetture o
questure, quindi c'è sicuramente una conoscenza di ciò. Se diamo ragione a un autore come
Giorgio Agamben che spero sia conosciuto dal pubblico, se non lo fosse poi nelle domande posso
anche spiegare meglio, comunque se diamo ragione a Giorgio Agamben che il rifugiato oggi è la
versione emblematica di questa “vita nuda”, questo essere biologico che deve essere salvato
perché è essere umano, non perché ha una storia sociale, culturale, politica che ci interessa.
Sto da tempo riflettendo sul fatto che le donne, e questo è dunque il terzo stimolo che vi do sul
genere, sono maggiormente esposte, o comunque affrontano, di questa peculiare condizione di
vita nuda, una variabile ulteriore. A me interroga sempre quando ascolto nel racconto delle donne
l'insistenza che fanno su questa esperienza dell'essere state violentate, dello stupro, quindi la
violenza sul corpo e la possibilità di documentare col corpo dei segni di violenza. Alcune sono
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preparate, chiedono di poter fare la visita ginecologica, oppure è l'assistente sociale che nel
parlare valuta se è il caso di far fare una visita ginecologica, sono donne molto concentrate sul
loro corpo, per capire se hanno fistole, se hanno emorragie, se hanno anche la paura di aver
contratto l'HIV in carcere e quindi fanno ripetutamente il test a distanza di mesi per capire la loro
condizione di salute, ma è un'attenzione sul corpo che ci deve interrogare, non possiamo lasciare
così. Se legittimiamo questo paradigma del rifugiato come vita nuda come vittima degli eventi,
sicuramente dobbiamo riconoscere che negli ultimi Cinquant'anni, per eccellenza uno dei
paradigmi della vittima è quello della donna violentata e quindi sono donne alla ricerca assillante
di poter certificare che hanno vissuto un'esperienza simile perché questa lascia sul corpo dei segni
che possono garantire di più la loro domanda di richiedenti asilo.
Non sono statistiche ma il 2007-2008 avevo seguito una decina di donne congolesi e le uniche due
che sono fuggite prima, uso questa espressione come la usava Primo Levi, non avevano subito
violenza, sono le uniche a cui è stata rigettata la domanda. Può essere per tanti altri elementi, io vi
propongo qua di considerare anche questo aspetto e cioè che quando noi ascoltiamo queste
storie, che siamo commissari di una commissione o operatori di uno sportello, rischiamo di non
ritenere credibile un racconto che non abbia nel corpo dei segni di violenza. Questo è il famoso
spunto teorico che ci ha dato un'altra antropologa, e mi sposto dal Sud America all'Africa, Lisa
Malkki che ha parlato di corpo eloquente per dire che nel paradigma umanitario è il corpo ciò
che conta, è il corpo del profugo e del rifugiato che possa dimostrare dei segni che gli danno uno
status giuridico. E dunque se in Europa ci stiamo piegano, ci siamo già piegati su questa logica, il
rischio è che sempre di più il richiedente asilo, e la donna richiedente asilo, si fabbricheranno, e uso
quest'espressione nel senso forte del termine, come vittime di una violenza, e nel caso delle donne
quasi sempre una violenza carnale.
Chiudo riportandovi le parole di una amica maliana, non è un'informatrice, non è una paziente,
ma è una amica che conosco da anni, vado in Mali da dieci anni, e lavoro su tutte altre cose
quando sono in Mali ma, ahimè, il Mali adesso mi costringerà a occuparmi di violenza perché
anche io sono una di quelle antropologhe che è fuggita prima, a Gennaio 2012 ero in Mali e a
Febbraio 2012 c'è stato il colpo di stato, quindi sono partita un mese prima del colpo di stato.
Un'amica maliana nel raccontarmi il suo tragitto nel tentativo di arrivare in Libia quattro o cinque
anni fa, per poi vedere se sarebbe riuscita a venire in Europa, e non stiamo parlando di una
ragazzina, stiamo parlando di una donna che oggi ha sessant'anni, mi raccontava che per
passare il confine tra l'Algeria e la Libia, si era procurata lei delle lesioni alla vagina per sporcare la
sua biancheria intima e per passare la frontiera. Qual era lì il problema, non essere violentata dai
poliziotti libici e le donne avevano capito che se passavano la frontiera come donne mestruate,
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l'uomo poliziotto, musulmano, aveva un respingimento nei confronti della visione del mestruo
femminile e lasciava le donne tranquille, quindi si era procurata delle lesioni per poter avere gli
indumenti intimi bagnati di sangue. Chiaramente è un'immagine che vi do feroce, di una donna
che arrivi a questo, io non escludo che le donne arrivino a questo anche in altri passaggi di
frontiera, e dovremmo iniziare a interrogarci anche sui nostri passaggi di frontiera, quelli del
mediterraneo, per iniziare a costruirsi come vittime di un sistema Europa che possa proteggerle.
Allora c'è un grosso rischio in tutto ciò perché se spingiamo, attraverso le nostre politiche, il rifugiato
a costruirsi come tale, possiamo anche andare incontro a fenomeni di costruzione “malata”, la
chiamo in questi termini, non per entrare in un registro patologico, ma perché obbliga le persone a
trasformarsi radicalmente. Che prezzo pagano poi le persone? Dobbiamo chiederci anche questo.
E quindi chiederci che cosa può fare chi le accoglie per costruire dei contesti narrativi in cui non è
necessario essere vittima di questi eventi per poter veder riconosciuta una storia e una richiesta
credibile e legittima di protezione umanitaria.
Forse ho anche sforato nel mio tempo, mi fermo qua.
Joli Ghibaudi : Il mio argomento è un po' meno angosciante, anche se comunque problematico,
rispetto a quello raccontato da Simona Taliani. Io mi occupo di persone richiedenti asilo, rifugiati,
titolari di protezione sussidiaria e umanitaria. Faccio parte del Coordinamento Non solo asilo e
opero all'interno di una delle associazioni del coordinamento che si chiama Gruppo Abele.
Come coordinamento abbiamo fatto un'azione molto importante, una battaglia molto importante
sulla residenza ed è per questo che questa sera volevamo ragionare con voi sul significato della
residenza: perché fare una battaglia sulla concessione della residenza alle persone rifugiate?
Perché è così importante?
Allora, a me viene da farvi una domanda: tutti voi possedete un documento che vi permette di
dire che in qualche modo vivete in questo stato? Sì. E qual è il documento di base di tutti noi? La
carta di identità.
Non è così semplice averla. Se non hai la residenza, la carta di identità mica ce l'hai.
E se però non hai la residenza come fai ad avere diritto all'accesso a tutti i servizi territoriali? Se non
hai la residenza, in teoria non puoi neanche iscriverti al centro per l'impiego. Se non hai la
residenza non puoi nemmeno dare un esame di stato. Se non hai la residenza non puoi conseguire
la patente di guida. Se non hai la residenza non puoi aprire un conto in banca, non puoi aprire una
partita iva. Non puoi fare nulla.
E quindi, quando il nostro ordinamento ci dice che le persone titolari di rifugio per legge, perché lo
dice la nostra costituzione, sono equiparate ai cittadini italiani nei fatti poi questa cosa non è vera.
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Quindi questa famosa residenza è un diritto di carta, inesistente.
Certo puoi averla la residenza, se tu riesci ad avere un indirizzo di una casa privata e dimostrare
che vivi lì. Però se io sono una persona che arriva sul territorio, non ho una dimora stabile, perché
non posso avere una residenza come un qualsiasi cittadino italiano senza fissa dimora? Perché c'è
questa discrepanza? Qualsiasi persona italiana senza fissa dimora ha comunque un'iscrizione
anagrafica, gli viene comunque concessa una residenza (poi le vie sono le più diverse: via del
Comune, strada Comunale, etc).
Ma perché esiste questa possibilità? Non perché gli amministratori locali sono particolarmente
buoni e quindi concedono la residenza alle persone, ma c'è questa possibilità perché gli
amministratori locali sono costretti a darla in quanto ci sono delle leggi vincolanti in questo senso.
La prima legge ormai ha più di 50 anni, perché è una legge del 1954. Se dopo 50 anni siamo
ancora qui a dire che questa legge non viene rispettata, immaginatevi che accoglienza possiamo
dare a queste persone. Questa legge dice che è un dovere l'iscrizione anagrafica, di tutte le
persone anche di quelle che non hanno una dimora stabile. E per dimora si intende qualsiasi luogo
dove la persona esplica i propri interessi: quindi può essere qualsiasi città, qualsiasi posto della città.
Quindi se io dichiaro di vivere sotto i portici di via Po perché non ho una residenza fissa però di
fatto la sera dormo sotto i portici di via Po, l'ufficiale anagrafico mi dà la residenza in via Casa
Comunale come senza fissa dimora. Se però io sono una persona titolare di rifugio questa
possibilità non mi viene riconosciuta. E questa è un'ingiustizia. Anzi è una discriminazione
inaccettabile.
Allora da una parte diciamo che è importante che le persone si integrino, anche se sovente
quando si parla di integrazione viene declinata come omologazione. L'integrazione è qualcosa di
molto diverso dall'omologazione, l'integrazione è un riconoscimento reciproco, una valorizzazione
delle differenze; l'omologazione è invece richiedere alla persona che si adatti e che si omologhi in
tutto e per tutto. E forse non è proprio questo che si intende per convivenza civile: perché non è
che i nativi di un paese abbiano la verità in tasca o i valori di riferimento principali siano loro. Ogni
cultura ha i suoi valori. E la civiltà cresce anche con lo scambio, con il riconoscimento reciproco
dei valori, altrimenti si creano i muri, le barriere.
Per noi come coordinamento il riconoscimento della residenza ci sembra un passo importante,
però purtroppo non tutti i comuni riconoscono questa possibilità di residenza fittizia. Questo
comporta poi una serie di cose perché succede che se io non ho la residenza non riesco ad
accedere ai servizi, non riesco ad accedere al centro per l'impiego, non riesco a trovare un lavoro
legale. E quindi forzatamente per sopravvivere mi devo aggiustare, e sappiamo tutti cosa vuol dire
in Italia aggiustarsi. E sappiamo tutti quanto chi è più debole in Italia è facilmente preda della
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malavita, perché quella si che è una potenza ad offrire lavoro, e va proprio a pescare le persone
che stanno peggio.
Ci sono poi dei comuni che, sebbene non concedano la residenza, hanno messo in atto degli
escamotage che cercano di correggere il tiro. Ad esempio: viene fatto un accordo con i centri
per l'impiego che ritengono valida la domiciliazione anziché la residenza e permettono di iscriversi
comunque alle liste di collocamento.
Qual è il problema? Che si tratta di una concessione e quindi non di un riconoscimento di un
diritto. C'è differenza fra il riconoscimento di un diritto e una concessione benevola, ciò che mi
spetta per diritto non può essere considerato un favore. Si instaura così una spirare perversa.
Si tratta fra l'altro di un diritto soggettivo, dice la nostra normativa, cioè un diritto che non può
essere disconosciuto né vincolato da altre condizioni. Un diritto soggettivo è un diritto che deve
essere garantito al di là di ogni cosa. Cioè se un diritto soggettivo viene vincolato dalla disponibilità
economica non è più un diritto soggettivo. Su questo tema c'è un dibattito aperto.
Uno degli aspetti che non vengono considerati è che il funzionario dell'anagrafe non può decidere
se dare o meno la residenza, perché la residenza non attiene al Comune ma dipende
direttamente dalle funzioni governative, cioè dal Governo e dalla Prefettura. Il sindaco, e l'ufficiale
per il sindaco, nel momento in cui ti dà la residenza te la concede come funzionario governativo.
Sovente, però, l'ufficiale dell'anagrafe non riceve la domanda di residenza se non viene dichiarato
un indirizzo. Anche questo non è corretto perché nel momento in cui il rifugiato senza una dimora
stabile chiede a un comune italiano una residenza, dovrebbe poterla fare la richiesta. Cioè
l'anagrafe è obbligata ad accogliere la domanda, poi può rifiutarla argomentando il perché. Ma
spesso non si riesce nemmeno a fare la domanda perché viene subito rifiutata.
L'unica strategia è quella di far accompagnare il rifugiato all'anagrafe da un avvocato.
Capite che non ha senso sempre ritrovarsi in guerra per qualcosa che dovrebbe essere
riconosciuto di default.
D'altra parte se io non ho la concessione di residenza, arrivano a cascata tutta un'altra serie di
problemi: perché non potrò mai fare domanda per una casa popolare (perché bisogna avere tot
anni di residenza), non potrò chiedere la cittadinanza (perché anche per la cittadinanza ci
vogliono tot anni di residenza) né richiedere la carta di soggiorno anziché il permesso di soggiorno.
Se vogliamo davvero perseguire la costruzione di una comunità locale che sia accogliente, che
permetta alle persone di ricostruirsi un futuro, che sia garante della possibilità di vivere una vita
dignitosa, se vogliamo fare tutto questo i muri li dobbiamo abbattere non costruire. I muri
burocratici sono peggio dei muri fisici perché quelli fisici se non altro li vedi, quelli burocratici non li
vedi e te ne accorgi poco per volta, e sono un continuo ostacolo, un continuo impedimento per
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riuscire ad integrarsi.
Il discorso della residenza per noi come coordinamento è fondamentale: in Piemonte, come in
altre realtà italiane, non tutti la concedono. Ci sono poi altre realtà che invece non solo la
concedono, ma addirittura (come ci ha spiegato un collega di Bolzano) se il comune sa che in
città sono arrivati dei rifugiati ospiti di un'associazione che non ha ancora accompagnato nessuno
all'anagrafe è il comune stesso che contatta le associazioni per ricordare i diritti dei rifugiati di fruire
dei servizi territoriali e sociali. Quindi, come vedete l'Italia è un po' una macchia di leopardo.
È vero che nelle grandi città ci sono delle forti concentrazioni di persone rifugiate, è vero però che
le grandi città hanno anche più opportunità. Ed è anche vero che sono più attrattive perché i
luoghi dove queste persone ricevono il permesso di soggiorno non offrono grandi opportunità e
quindi si spostano sul territorio nazionale alla ricerca di migliori chance.
Roma ad esempio concede la residenza, Firenze ad esempio prima la concedeva adesso stanno
dibattendo. Però noi stiamo cercando di collegarci a livello nazionale, visto che la questione della
residenza attiene più a un livello governativo che locale, per riuscire a fare della residenza una
battaglia a livello nazionale. I diritti soggettivi devono essere riconosciuti in tutta l'Italia.
È anche vero che se si lavora con i territori aiutandoli ad assorbire i numeri e i flussi delle persone
che arrivano anche in base alle risorse che i luoghi offrono, in modo da collegare le risorse dei
territori con le capacità e le competenze dei rifugiati, attraverso inserimenti territoriali a piccoli
numeri è più facile garantire un'integrazione più serena da entrambi i lati.
Se invece si fanno delle grosse concentrazioni su piccoli territori diventa più difficile il verificarsi di
veri meccanismi di integrazione.
Inoltre succede spesso che le persone senza residenza, che non possono accedere ai dormitori
(che fra l'altro oggi sono congestionati e con liste d'attesa lunghissime) finiscono a vivere nelle case
occupate.
Questo
fenomeno
delle
case
occupate
è
in
crescita
e
rappresenta
un'automedicazione del disagio che queste persone stanno vivendo: perché se non ho una casa
e sono in mezzo alla strada piuttosto occupo uno stabile abbandonato.
Ma di nuovo in una casa occupata, anche se privata, non posso ottenere la residenza. Si tratta di
soluzioni di ripiego che però forzano a vivere comunque nell'illegalità e in circuiti illegali. Vivere in
una casa occupata è una soluzione a cui si è spinti perché non c'è un sistema di accoglienza che
sia adeguato alla domanda.
A me sembra che sia importante capire che il discorso della residenza non è un capriccio di pochi
operatori, ma è una pietra miliare perché rappresenta la porta per poter entrare a far parte a tutti
gli effetti di una società. Se non ho la residenza io sono escluso. Se sono escluso come faccio ad
integrarmi? E quindi sono costretto a vivere nuovamente ai margini.
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La residenza è la chiave della porta della cittadinanza, senza quella la cittadinanza non sarà mai
ottenibile. Per questo come coordinamento ci stiamo impegnando molto su questo fronte:
abbiamo fatto una petizione, abbiamo raccolto delle firme, abbiamo portato la discussione in
Consiglio Comunale (non faccio commenti perché sono uscita dal consiglio comunale
sconcertata). Tanto per dirvi: ci siamo resi conto che avevamo di fronte degli amministratori
pubblici che non sapevano la differenza fra migrante, clandestino, richiedente asilo e rifugiato. E
questa è la realtà.
Dopodiché qualsiasi sforzo che un territorio fa per integrare le persone e quindi costruire un nuovo
modo di convivenza civile su quel territorio, se non ha come base la residenza si auto-annulla.
Perché di fatto viene impedita la progressione di tutte le attività integrative. Se viene minata alla
radice la possibilità di integrazione il rischio è che la presenza di rifugiati e di titolari di protezione
internazionale venga vissuta e trattata come problema di ordine pubblico. Non è accettabile che
il problema della convivenza civile venga declinato come problema di ordine pubblico.
Il motivo per cui per noi è così importante la residenza è proprio questa consapevolezza: che
costruire una convivenza civile significa permettere alle persone di poter entrare a far parte di una
società, di una comunità di un territorio. Se però noi sbarriamo questa possibilità facciamo
un'azione contraria alla legislazione vigente.
Cristina: a conclusione solo di quello che ha detto Joli e per specificare: anche all'interno dello
SPRAR è stato fatto un censimento l'anno scorso di quali sono i progetti che concedono la
residenza.
Quindi non stiamo più parlando di persone che transitano dai CARA, ma anche di persone accolte
all'interno dello SPRAR. Gli SPRAR infatti hanno politiche diverse a seconda dei comuni sulla
concessione o meno della residenza. Ad esempio Torino dà la residenza alle persone accolte
dentro lo SPRAR, non la dà invece a quelli che arrivano sulla città provenienti dai CARA o da altri
territori o che sono presenti adesso nelle case occupate e che hanno bisogno di rinnovare il
permesso di soggiorno. Alcuni SPRAR non la danno, ad esempio in Emilia Romagna. L'Emilia
Romagna passa come una buona pratica italiana perché un lunga diffusione dei progetti SPRAR,
uno in ogni provincia. Nella città di Modena però ad esempio non viene data la residenza ma
vengono garantiti tutti i servizi comunali e territoriali, dall'iscrizione al centro per l'impiego,
all'iscrizione al servizio sanitario. Insomma il comune interviene tutte le volte che servirebbe la
residenza per garantire quei diritti. Ma resta il problema che finito il progetto SPRAR, le persone si
spostano e ricadono nella maggioranza di persone che poi la residenza non riesce ad averla da
un'altra parte.
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Quindi, era solo per aggiungere questo elemento di complessità: il fatto che dentro ad alcuni
SPRAR il Comune stesso riconosca la residenza alle persone che accoglie o che sono dentro allo
SPRAR, non toglie il problema più generale del non riconoscimento della residenza di tutte le altre
persone che purtroppo sono la maggioranza perché i CARA sorgono molto di più dello SPRAR o di
tutti quelli che non vengono mai accolti. Stiamo cioè parlando di tutti quelli che non avendola mai
avuta non riescono ad entrare in questo meccanismo di riconoscimento e di appartenenza al
territorio.
Roberto (partecipante al corso): Su questo tema io vorrei provare a fare due esempi per spiegare
quali sono le difficoltà di qualunque comune per applicare la norma nazionale sul diritto alla
residenza. Tutti noi che siamo nati in Italia quando siamo nati i nostri genitori ci hanno denunciato
allo stato civile e immediatamente siamo stati inseriti in un'anagrafe di qualche comune. Chiunque
di noi quando vuole cambiare residenza attiva una pratica per cui l'ufficiale anagrafico chiede:
“tu eri già residente nel nostro comune? O provieni da un altro comune?”. E quindi avviene una
trasmissione di dati da un comune all'altro. Questo è il percorso normale. I cittadini che invece
provengono dall'estero, già per iscriversi la prima volta in un'anagrafe devono seguire una serie di
steps: devono produrre della documentazione che li identifichi. Ma sorvoliamo su questo pezzo. Nel
momento in cui diventano residenti in una città, non abbiamo ancora un meccanismo che
consente a una qualunque altra città nel momento in cui quel signore chiede una nuova
residenza di verificare da dove provenga. Per cui il primo problema è creare un sistema tale per
cui si possa impedire a una persona di poter chiedere una residenza in una città e
contemporaneamente chiederla anche in un'altra. perché finché non c'è un meccanismo di
verifica non si può controllare.
Un altro elemento di complessità che abbiamo sperimentato anche qui a Torino, è che la nostra
anagrafe di Torino ha un programma, gestito dal
CSI che prevede l'inserimento di alcune
informazioni come quelle che si riferiscono allo stato civile (sposato, non sposato). Nel caso di
persone che chiedono l'iscrizione che non hanno una documentazione che riesca ad attestare il
loro stato civile, per l'ufficiale dell'anagrafe c'è un problema di completamento delle informazioni.
Cosa deve fare l'ufficiale: fare riferimento a quello che c'è scritto sul permesso di soggiorno? Ma
spesso le informazioni dichiarate sul permesso di soggiorno sono poco attendibili. Quindi diventa un
problema, ad esempio: io mi dichiaro non coniugato, poi voglio sposarmi in Italia e al momento
del matrimonio si scopre che ero già sposato.
A Torino adesso iscriviamo le persone di cui riusciamo ad avere sufficiente e ragionevole certezza
che le stiamo registrando nel modo giusto: con il nome e cognome giusti, la data di nascita giusta,
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il paese di provenienza corretto. Questi dati fondamentali per dare identità a una persone se
dichiarati
in
maniera
sbagliata
producono
confusione
e
ulteriori
problemi:
correggere
successivamente è un gran casino. Se prima non si mette a punto uno strumento adatto, per la
fretta di registrare tutti quanti, si corre il rischio di un problema ancora più grande e ingovernabile.
Quindi secondo me chi fa come il comune di Modena che comunque cerca di garantire i servizi,
sicuramente non sbaglia. Ma per cercare di dare una risposta all'iscrizione anagrafica è necessario
costruire un meccanismo attraverso il quale l'operazione di iscrizione venga fatta in modo corretto.
Cristina: aggiungo che il comune di Modena è stato contestato da tutti i comuni dell'Emilia
Romagna che già iscrivono. E a me viene da dire che al massimo è un problema del programma
dell'anagrafe. Però siccome quando io vado ad iscrivermi all'anagrafe non devo dire che sono
nata a Biella ma il mio luogo di nascita viene recuperato in automatico. Allora credo che non
dovrebbe essere così difficile che in base al nome e cognome scritto sul permesso di soggiorno,
siccome passa dalla Questura ed è un riconoscimento statale, sia possibile registrare e rintracciare
la persona.
Il fatto che invece il nome registrato o dichiarato sia giusto o sbagliato ha ovviamente una
ricaduta sul permesso di soggiorno ma nel caso specifico si tratterebbe di fare poi una procedura
per cambiare il nome sbagliato scritto sul permesso di soggiorno e poi a caduta sugli altri
documenti.
Il fatto che poi molti comuni già iscrivono e concedono la residenza, come Reggio Emilia, Roma,
significa che un modo c'è e lo strumento per registrare c'è già.
Cioè non si tratta di un problema tecnico, noi quando abbiamo fatto la discussione in consiglio
comunale non era un problema tecnico era un problema politico. Cioè l'ufficiale dell'anagrafe
diceva “io so che sto contravvenendo alla legge ma so anche di aver ricevuto una direttiva da
parte delle forze politiche della mia città per non fare questa operazione”. Quindi non si trattava di
un problema legato alla modalità di registrazione o a dubbi sulla veridicità di ciò che viene scritto
sul permesso di soggiorno.
Roberto (partecipante al corso): ti diranno: “non sei tu quella persona”. Chiunque abbia avuto la
sfortuna di avere un cognome che era diverso da quello di suo padre, anche solo in una sola
lettera, nel momento in cui ha dovuto riscuotere l'eredità fatti spiegare quanto ha dovuto penare.
Joli: se altre città sono riuscite in qualche modo a superare questo inghippo mi viene da dire che
una soluzione c'è. D'altra parte mettere degli ostacoli burocratici a un diritto non mi sembra
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accettabile.
Roberto (partecipante al corso): io credo che si arriverà a una soluzione, volevo solo dire che non è
così semplice. Probabilmente succederà così: sui rifugiati le anagrafi chiederanno allo Stato di
emanare il documento, poiché si tratta di un obbligo di legge che compete allo Stato. I rifugiati
verranno registrati in base al loro titolo di viaggio che verrà rilasciato dalla Questura di riferimento,
che ovviamente sarà caro e di lento rilascio. Il permesso di soggiorno non va bene perché non è
un documento di identità, è un documento amministrativo di altro genere.
Cristina: No, su questo ti posso dire che le persone solo con il permesso di soggiorno che volevano
aprire dei conti bancari, ti possono fare dei problemi ma siamo comunque riusciti a farglieli aprire.
perché il permesso di soggiorno è annoverato come documento di riconoscimento.
Roberto (partecipante al corso): Io ti posso dire che ne discuto tutti i mesi con la nostra ragioneria,
perché quando rilasciamo le borse di lavoro, c'è il mandato, nome e cognome, numero di
permesso di soggiorno. La nostra tesoreria che è Cassa di Risparmio di Torino -Unicredit con solo il
permesso di soggiorno non ti da le borse di lavoro. Con le banche il permesso di soggiorno...non
basta. Serve il passaporto o un altro documento di identità. Io ho fatto una battaglia e l'ho persa.
Però il problema non si risolve per le protezioni umanitarie e sussidiarie dove non esiste una logica
per cui tu non ti possa rivolgere alla tua ambasciata. E quindi il problema si ri-propone se poi
l'ambasciata non rilascia il passaporto.
Cristina: Infatti secondo me il documento che dev'essere riconosciuto è il permesso di soggiorno,
non bisogna introdurre altre variabili.
Yagoub: Volevo solo parlare di un altro diritto negato che è quello di cittadinanza. I rifugiati politici
hanno diritto alla cittadinanza dopo 5 anni sul territorio italiano. In verità viene concessa dopo 5
anni di residenza più 3 CUD relativi al reddito. Quindi io rifugiato politico oltre ad avere una
residenza stabile devo avere 3 anni di lavoro consecutivi per poter richiedere la cittadinanza. Si
tratta quindi di un diritto negato, se non cambiano questa norma che era pensata per i migranti
economici e non per i rifugiati politici.
Enrica (partecipante al corso): A livello nazionale la petizione è stata portata avanti?
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Joli: La petizione l'abbiamo fatta solo a livello cittadino. A livello nazionale stiamo mettendoci in
rete con altri coordinamenti che si occupano di rifugiati proprio per portare questi temi a livello
nazionale e non solo locale. Proprio perché la residenza è una questione che attiene a un livello
governativo ci sembra importante che ci sia una presa di posizione nazionale e anche un
pronunciamento.
Sara (partecipante al corso): Mi pare di aver capito che il rifiuto della residenza a livello comunale
sia un problema prettamente politico, poi forse anche burocratico. Ma a cosa è legato?
Joli : è legato al fatto che se io ho la residenza posso rivolgermi ai servizi sociali e li intaso. Con la
penuria di risorse che ci sono fa paura pensare che ci siano altri cittadini con gli stessi diritti che
possano quindi chiedere un'assistenza.
Il punto però è che se queste persone vengono considerate a livello di legge come gli italiani,
come si fa in una grande famiglia se ci si allarga, la torta si restringe. Però si restringe per tutti, non
solo per qualcuno.
Cristina: Il permesso di soggiorno è già un documento statale: cioè la persona per riuscire ad
ottenere un permesso di soggiorno fa già una serie di passaggi. Allora mi chiedo come si fa a
chiedere allo Stato di produrre un secondo documento che accerta l'identità di quella persona.
Nel senso che la Commissione Territoriale è l'organismo messo in piedi da questo Stato per
riconoscere a quella persona un determinato titolo o protezione. Quindi quella persona ha già
fatto un processo all'interno di questo stato: passa prima dalla Questura, poi dalla Commissione
Territoriale, ha infine diritto a un permesso di soggiorno. E a me sembra davvero il gioco dell'oca
dirgli poi: “ecco hai vinto il titolo del permesso di soggiorno...”
Roberto (partecipante al corso): Lo stato non riconosce come documento di identità il permesso di
soggiorno
Cristina: Sì, ma lo stato riconosce che il permesso di soggiorno è il documento rilasciato dallo stato
medesimo per certificare che quella persona ha bisogno di protezione. Quindi per me è implicito
che ha riconosciuto quella persona x, quella sua identità, per avere diritto alla protezione.
Efisio (partecipante al corso): Io non credo che sia solo un problema di risorse economiche ma è
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anche un problema di politiche di accoglienza. Questa cosa qui fra l'altro non riguarda solo i
rifugiati. Da un po' di anni per esempio il Comune di Torino adotta delle politiche anagrafiche che
sono dilatorie, che servono a tenere fuori quelli che vengono dalla Provincia di Torino. E' certo che
alla base c'è sempre la penuria di risorse ma è anche un problema di sistema. Lo stesso vale per la
questione dello stato: la politica che viene fatta è quella di non prendersi responsabilità che
competono a determinate istituzioni per cui ognuno fa come gli pare. Io ad esempio non riesco a
capire perché l'iscrizione anagrafica in strada comunale non venga concessa ai rifugiati,
soprattutto perché il permesso di soggiorno come rifugiato politico equipara i rifugiati ai cittadini
italiani e quindi viene difficile da capire come non possa dargliela. Mi sembra particolarmente
difficile da giustificare
Roberto (partecipante al corso): Non viene concessa perché quando il Comune di Torino fece le
regole per concedere l'assistenza economica (prima ancora di casa comunale 1 e casa
comunale 2), l'assistenza era data solo alle famiglie che erano residenti. E l'assistenza economica
era pensata per dare aiuto solo ai nuclei famigliari. Poi ci fu l'invenzione di casa comunale 1 e 2
così da dare assistenza economica su base di progetti a persone seguite da servizi sociali specifici,
visto che i servizi sociali del territorio non si potevano occupare di persone che non avevano una
casa per cui non si poteva riuscire a verificare l'esistenza di determinate condizioni per l'accesso
all'assistenza. Casa comunale 1 diventò l'indirizzo per gli italiani senza fissa dimora senza nessun
benefit o assistenza. Casa comunale 2 diventò il modo di dare anche l'assistenza economica ai
barboni, ai clochards.
Cristina: In consiglio comunale quando abbiamo dibattuto la nostra petizione, l'ufficiale comunale
diceva che non c'è alcun motivo per non iscrivere i rifugiati insieme ai senza fissa dimora. Ma
sottolineava anche che attualmente per iscrivere un senza fissa dimora all'anagrafe ci vogliono 2
anni! Perché la procedura è che: tu dici che vivi su una panchina, poi il poliziotto passa due volte,
poi viene fatta una ricerca contattando i parenti per capire se possono ospitarlo, etc. E a uno
viene da ridere, se non da piangere, perchè in 2 anni una persona che vive per strada
probabilmente sarà morta prima!
La domanda è: perché fanno così? Perché probabilmente iscriverli a questo registro anagrafico
vuol dire riconoscergli dei diritti che evidentemente si vuole poter posticipare il più possibile.
Roberto (partecipante al corso): Via Casa Comunale 1 è un indirizzo anagrafico fittizio dove la
persona dice che non ha una dimora fissa, ma nel momento in cui si rivolge al servizio sociale
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territoriale per richiedere un aiuto, un'assistenza, allora si costruisce un progetto. E quella persona
per poterne usufruire transita in Casa Comunale 2. A semplice richiesta.
Iscrivere i rifugiati creando un meccanismo che con il passaparola significa “venite tutti quanti a
Torino perché basta venire a Torino per essere iscritti all'anagrafe e accedere ai servizi sociali”,
questo significa non riuscire a garantire possibilità per tutti. Perché il bilancio non ce la fa, e quindi
è impossibile gestire una richiesta così. Quando la delibera economica verrà modificata per cui
vengono esclusi dai benefici economici coloro che non hanno una casa effettiva ma sono iscritti
al diritto fittizio, otterrai che nessuno dei rifugiati avrà diritto a quello che oggi si pensa possano
ottenere e tutti quelli che attualmente sono gli italiani che ne stanno beneficiando verranno
esclusi. Perché il comune non ha le risorse per fronteggiare tutto ciò.
Cristina: A me sembra più equa una situazione in cui a tutti viene riconosciuta la carta di identità e
basta.
Roberto (partecipante al corso): Sì, ma non se ne fanno niente. Come quelli che hanno ricevuto la
carta di identità a Roma. Perchè se quella desse dei diritti veramente, se li sarebbero già fatti
riconoscere già da un bel po'. Non è la carta di identità che ti da la soluzione.
Joli: Non è vero. Perché con la carta di identità puoi in qualche modo anche autonomizzarti. Mi
spieghi allora perché i comuni leghisti del cuneese danno la residenza e la gente ha potuto
lavorare ed essere assunta?
Roberto (partecipante al corso): Questa è un'altra fantasia. Non è vero che senza carta d'identità
non si può lavorare.
Cristina: E' molto più difficile. Credimi. Non capisco perché bisogna pensare di continuare a
mettere paletti e rendere le cose molto più difficili di quello che potrebbero essere.
Anna (partecipante al corso): Nessuno dice che la carta di identità miracola e che il giorno dopo
sei a posto, però è vero che è una chiave come diceva Joli Ghibaudi. I problemi sono fuori dalla
porta comunque. Però dà un riconoscimento agli individui, già solo per il fatto che si sentono un
po' meno estranei. Poi, che non ci siano risorse per tutti, ormai questo lo sappiamo bene. Però dà
un riconoscimento di esistenza.
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Nono
20 novembre 2012
Incontro
Titolo
Sanità: leggi, protocolli, ostracismo istituzionale
Relatore
Salvatore Geraci
Salvatore Geraci: Sono un medico e lavoro nel campo dell’immigrazione dal 1986. Ho iniziato a
lavorare per caso in questo campo: era il periodo in cui stavo finendo medicina e dovevo far e il
servizio civile. Non volevo far e il servizio militare e ho scoperto che a Roma c’era un piccolo
ambulatorio, dietro la stazione Termini, che assisteva le cosiddette “persone invisibili”, che per
legge non esistevano: gli immigrati.
La prima legge sull’immigrazione è del 1986, quindi quando io ho incominciato ad interessarmi di
questo ambito non esisteva niente.
Su intuizione di un sacerdote romano, l’allora direttore della Caritas, Monsignor Luigi di Liegro, si era
creato dietro la stazione Termini (le stazioni sono luoghi di incontro e di passaggio) questo
ambulatorio per immigrati senza documenti, o meglio senza la possibilità di accedere ai servizi
sanitari. Ho iniziato il mio servizio civile in questo spazio per la durata di 20 mesi, perché allora chi
faceva servizio civile era penalizzato rispetto ai militari: addirittura eravamo valutati forza assente,
non eravamo considerati ( ci siamo trovati bene quindi a lavorare con gli immigrati che non
esistevano: tutti invisibili). Finito il servizio civile Don Luigi ebbe un’altra intuizione (è morto da ormai
15 anni; era un sacerdote, di quelle persone carismatiche, che vivono l’oggi ma guardano al
domani). Lui aveva già intuito alla fine degli anni ’70 che l’immigrazione sarebbe stato un fatto
epocale per il nostro paese, quando nessuno pensava che potesse entrare strutturalmente
nell’Italia stessa. Tutti i servizi che la Caritas andava ad organizzare negli anni ’80, avevano sempre
una connotazione culturale, o nel caso nostro, della sanità transculturale, come noi la
chiamavamo. Alla fine degli anni ’80 ebbe un’altra intuizione: la scuola e la sanità potevano essere
il cavallo di Troia per i diritti degli immigrati. Volle in qualche modo strutturare maggiormente sia i
servizi interculturali, sia quelli educativi, (c’era anche un asilo nido), sia quelli sanitari: il servizio da
noi offerto, fino a quel momento gestito da volontari e obiettori di coscienza divenne, per volontà
di Don Luigi maggiormente strutturato.
Mi venne chiesto di lavorare a tempo pieno; io inizialmente dissi di no perchè pensavo di aver già
dato, poi però accettai: era difficile resistere al carisma di Don Luigi.. Di fatto, dall’86 ad oggi mi
occupo, dal punto di vista professionale, quasi esclusivamente di immigrati, rifugiati, richiedenti
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asilo, rom, sinti; di persone in condizione di difficoltà. Soprattutto questa parte in difficoltà negli
ultimi anni: fino a qualche anno fa infatti ne vedevamo pochi come struttura e questo è legato al
sistema sanitario italiano, che è un sistema universalistico, cioè un sistema per tutti, in cui ogni
italiano è teoricamente iscritto obbligatoriamente, è inserito nel sistema. Anche il senza dimora
“teoricamente” dovrebbe avere il suo medico, dovrebbe avere i suoi percorsi assistenziali e così
via.
Il problema esisteva per gli immigrati perché non avevano questo passaggio legato al diritto
all’assistenza sanitaria.
Io dunque sono questo: medico Caritas, che da tempo si occupa di questa tematica e che dal ’90
fa parte, insieme ad altri medici fa parte del gruppo SIMM (Società Italiana di Medicina delle
Migrazioni), che si occupa in qualche modo di conoscere il fenomeno e di fare una grossa azione
di advocacy, cioè di emersione dei diritti assistenziali.
Il tema è quello dell’assistenza sanitaria e quindi soprattutto in rapporto alle leggi, le normative. Il
focus è sui richiedenti asilo e sui rifugiati, però chiaramente non possiamo prescindere
dall’immagine complessiva degli immigrati. Non parlerò per niente dei comunitari, per scelta,
poiché è di per sé un tema a parte per quanto riguarda la normativa e i diritti assistenziali. Vi
indicherò le leggi, quello che esse dicono, ma vi darò più delle chiavi di lettura piuttosto che entrar
e proprio nel dettaglio.
Pensavo di fare una parte frontale e un’altra che potrà partire dalle vostre domande, oppure
possiamo fare delle esercitazioni. In particolare ho individuato un paio di casi clinici, in cui entrano
in gioco tutta una serie di fattori dal punto di vista normativo, e poi una serie invece di altre
situazioni prettamente amministrative sul diritto all’assistenza.
Il tema è quindi il diritto alla salute, il diritto all’assistenza sanitaria. Farò riferimento anche a dei
documenti che sono stati prodotti dall’Unione Europea. In un documento del 2007, quando parla
di salute parla in questi termini: “Rivolgersi alla salute dei migranti non è solo una giusta causa
umanitaria, noi non lo facciamo per bontà, perché siamo buoni, ma è anche un bisogno per il
raggiungimento di un miglior livello di salute e di benessere di tutti coloro che vivono in Europa”.
Sembra una frase banale, però qui c’è un concetto chiave: la salute è un bene indivisibile; non
possiamo pensare che un gruppo umano, un grippo di persone siano tutelate e un altro gruppo
no, perché se quella parte che non è tutelata sia ammala non è solamente un problema per se
stessa, ma un problema per l’intera comunità. Tant’è vero che sempre di più si parla di salute in
termini di salute globale, quindi non solo all’interno dello stesso territorio ma sempre di più a livello
complessivo. Qualche anno fa, ma anche l’anno scorso, ci siamo sentiti allarmati per delle
epidemie che arrivano dall’altra parte del mondo. Una volta ci mettevano, non dico secoli, ma
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decine di anni perché un batterio o un virus passassero da una parte all’altra del globo, adesso
non c’è più latenza, e non riguarda solo gli immigrati, riguarda tutti. Quindi ormai non ha proprio
più senso parlare di salute in forma specifica di alcuni gruppi. Se questo è complicato, perché
significa prendersi la responsabilità della salute di tutte le persone del mondo, e lo sappiamo che
questo attualmente assolutamente non c’è, bisognerà andare per forza verso quella parte, a
meno che non blocchiamo tutte le comunicazioni, se no bisognerà per forza ragionare in termini
globali.
Quello che certamente dobbiamo fare in termini globali nelle nostre comunità, è smettere di
pensare che gli immigrati, i rifugiati, i rom e sinti vengano assistiti in maniera diversa o perché sono
immigrati, rifugiati o barboni italiani: il ragionamento è sempre lo stesso. Se ragioniamo in questi
termini e quindi iscriviamo il termine della salute dei migranti, dei richiedenti asilo dei rifugiati, nel
capitolo della salute globale, abbiamo delle parole chiave che dobbiamo iniziare a declinare.
Queste parole chiave sono: l’equità, le differenze e le disuguaglianze. Se uno parla di salute
globale non può non parlare di equità; e l’equità è un termine per cui tutti debbano avere
realmente pari opportunità, quindi equità non è dividere a tutti nello stesso modo, ma è dare a tutti
reali pari opportunità, significa che, laddove c’è più bisogno, laddove c’è una situazione di crisi tu
devi investire di più, devi dare in modo differente da altrove dove forse puoi dare di meno: questa
è l’ equità in salute. Si ragiona in termini di differenze e disuguaglianze. Equità: pari opportunità. Un
sistema equo non mira ad eliminare le differenze, le differenze sono fondamentali, pensiamo alle
differenze di genere, altre differenze sono assolutamente inevitabili, come quelle legate all’età. Tra
l’altro le differenze dal mio punto di vista sono assolutamente necessarie, anche per un giusto
modo di vivere insieme: in natura le differenze creano quel gradiente che permette alle reazioni
che sono biochimiche di avvenire: le differenze di potenziale, per chi ha ricordi di fisica, sono
quelle che permettono alla scintilla di scoccare e quindi creare energia. Quindi le differenze non
sono un tabù, anzi, devono essere valorizzate. Il problema non sono le differenze, il problema sono
le disuguaglianze.
Qual è una definizione di disuguaglianze? Sono quelle differenze non necessarie, evitabili, non
certe; perché a volte ci possono essere delle differenze in qualche modo che vengono scelte, ad
esempio nei comportamenti: uno può avere dei comportamenti assolutamente nocivi alla salute,
però nel momento in cui lo sceglie liberamente, se ne assume la responsabilità e le sue
conseguenze. Laddove però ci sono delle situazioni, delle differenze evitabili non necessarie,
queste sono delle disuguaglianze, e quindi la disuguaglianza ha di per sé anche una connotazione
etica, morale, una responsabilità di qualcun altro che la provoca e se vogliamo anche una
dimensione politica, soprattutto se parliamo di disuguaglianze per esempio a livello dell’accesso ai
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servizi sanitari.
Se a parità di problema noi andiamo a notare che alcuni riescono ad accedere e altri no, allora
quella è una disuguaglianza, e di conseguenza dobbiamo andare a capire che cos’è che ha
prodotto quella disuguaglianza.
Per farvi un esempio ho preso alcune mappe in un sito che, dal punto vista didattico è fantastico
anche se non è più tanto aggiornato: in base a determinati indicatori, come povertà, numero di
medici, o una determinata malattia, quegli indicatori vanno a gonfiare o a restringere tutti i paesi
del mondo. Laddove quell’indicatore è maggiormente presente il paese di gonfia, laddove è
meno presente si sgonfia, e immediatamente riusciamo a vedere le differenze in alcuni casi e le
disuguaglianze in altri che ci sono nel mondo.
In genere le disuguaglianze che ci sono nel mondo sono il motore in qualche modo delle
migrazioni e anche delle fughe, e quindi delle migrazioni forzate.
Ne ho scelta qualcuna:
-La popolazione nel mondo oggi. Vedete, proporzionalmente emerge in particolare l’India e in
qualche modo la Cina. Guardate l’Italia! Queste figure le vedremo cambiate man mano che
andremo a vedere gli indicatori. Guardate anche il Giappone, quello viola qui in fondo, è
abbastanza ciccione. Se noi vediamo la popolazione nel 2050 le cose più o
meno cambiano, relativamente. Continua ad essere protagonista l’India, un po’ come la Cina, ma
l’Africa diventa più cicciona rispetto a prima. L’Europa comincia a ridimensionarsi e l’Italia
mantiene la sua costanza. Guardate gli Stati Uniti come riducono, mentre il Messico...
-Gli over sessantacinquenni. Guardate l’Europa diventa protagonista, l’India non si fa mancare
niente, guardate l’Italia e il Giappone, sono i paesi più vecchi del mondo. Ripeto non sono
aggiornatissime, queste sono aggiornate a una decina di anni fa, forse 7 o 8 anni fa,
probabilmente adesso sarebbero ulteriormente diverse. L’Africa invece è sostanzialmente un
continente giovanissimo se non per quanto riguarda il nord. Continuiamo...
Le nascite. L’Europa diminuisce sempre di più, ancora qui l’India iper-protagonista, ma anche
l’Africa, che è molto più protagonista delle nascite rispetto alla popolazione e rispetto chiaramente
agli over sessantacinquenni, ciò significa che c’è un’altissima mortalità infantile, perinatale neo
natale.
Spese sanitarie pubbliche. Scompare l’Africa, tranne il Giappone, tutta l’Asia è molto
ridimensionata, l’Europa è presente, guardate l’Italia. Ma soprattutto gli Stati Uniti. É interessante
questo perché gli Stati Uniti hanno un sistema sanitario, ne avrete sentito parlare perché è stata
una delle battaglie semi-vinte da Obama nella passata amministrazione, non so se adesso la
ritirerà fuori. Gli Stati Uniti non hanno un sistema universalitico come il nostro, ma è un sistema
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sostanzialmente basato su una gestione privata. Nonostante questo guardate che forte spesa
sanitaria che ha, spesa sanitaria pubblica, nonostante un sistema diverso, ma non abbiamo modo
di ragionare su questo ma è interessante, nel senso che il privatizzare il sistema non è detto che
abbatta i costi del sistema stesso, questo bisognerebbe ripeterlo ai nostri politici. E di questo
Obama si è accorto, quindi sta facendo l’operazione, per garantire a quei 45 milioni di americani
che sono fuori dal sistema di entrare nel sistema, ma anche perché probabilmente questo
potrebbe provocare una riduzione delle spese a regime. L’Africa praticamente scompare, se noi
pensiamo da dove arrivano la maggior parte dei rifugiati ci rendiamo conto le disuguaglianze che
esistono, veramente una disuguaglianza fortissima rispetto ad altri indicatori.
La presenza dei medici. Ecco, qui molto simile alla spesa della sanità pubblica, anche qui l’Italia
assoluta protagonista, l'Africa è praticamene sparita, guardate l’India, la Cina che ha la tradizione
di medicina popolare anche se non sempre la medicina di medici laureati.
Se noi andiamo a vedere la povertà, chiaramente stabilita secondo determinati standard, 1
dollaro al giorno, mezzo dollaro al giorno, adesso non so esattamente quello che hanno preso,
però anche qui vedete come l’Africa e Asia siano i protagonisti, vedete l’Italia, è sottile ma non
quasi invisibile come Francia o Germania.
E queste sono le donne analfabete. Che secondo me è la vera disuguaglianza che esiste a livello
mondiale. La Cina in qualche modo, almeno dei dati che esistono ha recuperato qualche cosa
ma tutto il sub continente indiano si trova in una situazione altamente critica come tutti i paesi
dell’Africa. Sappiamo bene che l’alfabetizzazione delle donne è uno dei motori di sviluppo in
qualche modo, sia dal punto di vista di controllo delle nascite ma soprattutto lo sviluppo vero, dal
punto di vista economico. Su ognuno di questi si potrebbe far veramente tutto un ragionamento.
E adesso vediamo le patologie, le malattie, questo è il diabete, vedete in India è particolarmente
presente oltre che nei paesi occidentali. Esso è una malattia metabolica che ha delle basi
genetiche, probabilmente questo è legato all’India, ma anche legata a delle abitudine alimentari
o di vita e questo è legato soprattutto ai paesi occidentali. In Africa non esiste quasi per niente,
perché è anche vero che l’età media non permette lo sviluppo di questa malattia.
E ancora, la tubercolosi, forse ne avete sentito parlare, la tubercolosi è una di quelle malattie che
ha lo stigma più alto. Spessissimo si sente dire gli immigrati portano le malattie, la presenza di
tubercolosi in Italia è dovuta alla presenza di immigrati. Anche all’interno dello SPRAR c’è un timore
diffuso per la presenza di tubercolosi, questo vi risulta? La tubercolosi è effettivamente nel mondo
una malattia della povertà, tant’è vero la vedete nei paesi più poveri. Vi dico subito che in Italia
non c’è nessun allarme tubercolosi, è in diminuzione in Italia, da qualche anno è costantemente in
diminuzione nonostante la presenza degli immigrati, oserei dire, è una malattia dalla quale
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riusciamo bene a difenderci e che riusciamo bene a gestire. Servono dei pre requisiti fondamentali
per la gestione della tubercolosi, e cioè quello di garantire sempre l’accessibilità ai servizi.
Ed ancora, questa è la prevalenza di AIDS e di HIV, anche qui l’Africa assoluta protagonista. Chi ha
queste malattie, generalmente difficilmente parte e difficilmente arriva. Quindi io vi faccio vedere
questi indicatori, ma non significa che dall’Africa e dall’Asia arrivano tante persone con la
tubercolosi o l’AIDS, anzi assolutamente non è così, è l’opposto. Vi faccio vedere questo perché
queste sono lo cause per cui le persone a un certo punto vanno via dai loro paesi. Perché io devo
vivere in un paese dove il 60% dei minori moriranno per aids? Io se posso la mia famiglia me la
faccio in un altro posto, dove posso garantire un futuro a me e ai miei figli. In questo senso i rifugiati,
gli immigrati in genere non sono dei disperati, sono esattamente l’opposto, sono persone cariche
di speranze che lasciano queste situazioni di alta criticità per trovare strade migliori.
Questa è la malaria, e qui trionfa l’Africa. Ma la malaria che è in aumento in Italia, è forse la
malattia tropicale più in aumento; mentre la tubercolosi è in calo, l’hiv è in calo, anche tra gli
immigrati tutti i tassi della tubercolosi e dell’aids sono in calo, della malaria sono in aumento
significativo. Ma la cosa veramente interessante è che la malaria non è una malattia della
povertà, come può esserlo la tubercolosi, non è una malattia della marginalità , come può essere
l’aids per alcuni almeno storicamente: la malaria è tipicamente una malattia del turismo e gli
immigrati si ammalano perché sono turisti, ma non turisti qui in Italia, ma turisti quando tornano nel
loro paese. É veramente interessante il caso della malaria, perché magari per vedere i genitori
oppure per far vedere i nipotini ai nonni si ritorna in Africa sub sahariana, in paesi dove c’è la
malaria. Loro non considerano la malaria una malattia da cui si devono difendere, perché loro
hanno avuto questa frequentazione della malaria fin da quando erano bambini, per cui
non fanno la prevenzione. La malaria è una malattia per cui non c’è vaccino, bisogna prendere
una serie di farmaci che in qualche modo ti devono proteggere. Ecco, loro, se decidono di
tornare, non faranno prevenzione, nel momento in cui non fanno prevenzione arrivano giù e si
ammalano, come ci ammaleremmo noi se non facessimo prevenzione. Magari, siccome la
malaria ha un certo tempo di latenza, giù non si ammalano, ma sia ammalano quando tornano in
Italia. É difficile ad esempio tra i richiedenti rifugiati trovare casi di malaria, è praticamente
impossibile, a meno che non tornino al loro paese, anche perchè il viaggio dura così a lungo che
se guarda caso avessero avuto la malaria non arrivano nemmeno.
Mortalità materna. Ripeto queste sono tutte cause di disuguaglianza, perchè ad esempio nella
mortalità materna e anche in tutte le altre malattie, forse l’aids no, ma per certi versi anche l’aids,
con alcuni interventi poco costosi potrebbero essere gestite. É chiaro però che questa
considerazione entra nell’ottica complessiva delle politiche di sviluppo. Queste sono le morti
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prevenibili, sono soprattutto morti di bambini, perchè basterebbe dell’acqua potabile, basterebbe
un cucchiaino di sale. Forse sentite ogni tanto campagne dell’Unicef o di altre associazioni, ma è
esattamente così, è vero. Sono bambini che muoiono per delle “banalità”. E sono evitabili, non
necessarie e quindi disuguaglianze ingiuste, questo è sempre il parametro.
E questa è la mortalità neo natale. Sono le disuguaglianze che poi producono
il gradiente dell’immigrazione più o meno forzata. Ora vi faccio vedere alcuni dati, visibili nel
Dossier Caritas Migrantes: in Europa sono 33 milioni i migranti, nel mondo sono 214 milioni, di cui il
37% vivono nei paesi poveri. Questi sono i numeri delle migrazioni, ma non è questo l’argomento
che dobbiamo trattare.
Questi sono i paesi di emigrazione, da dove gli immigrati partono. Qui la cosa interessante è che
c’è anche l’Italia. Si intende più da dove gli immigrati partono, da dove sono partiti, cioè oggi si
calcolano quanti sono i cittadini di quel paese che si trovano fuori dal proprio paese. Quindi l’Italia
è significativamente presente perchè ha 4 milioni e mezzo di cittadini italiani fuori dall’Italia e dai 60
agli 80 milioni di cittadini di origine italiana fuori dall’Italia: c’è un’altra Italia fuori dall’Italia. Ma poi
lo vedrete sono i paesi dell’est e del sud America centrale soprattutto.
Questi sono i paesi di immigrazione, cioè dove gli immigrati arrivano, e anche qui vedete l’Italia
che ha un peso significativo, soprattutto gli Stati Uniti, ma questo è significativo perchè gli Stati Uniti
sono proprio un paese di immigrati.
Questi sono i dati in Italia, ma li conoscete, circa 5 milioni regolarmente presenti.
E questo è il dato dell’evoluzione dell’immigrazione in Italia, quindi si è partiti da numeri
abbastanza bassi e si è arrivati a numeri significativi. Nell’86 erano circa cinque mila adesso
parliamo di circa cinque milioni. Sempre tra quelle cartine ne ho messa una che
potrebbe essere un indicatore di coloro che sono scappati o che stanno scappando. E questi qua
sono per esempio i morti per guerre. Noi sappiamo quando c’è una guerra, diciamo eclatante
forse è il momento più difficile per scappare, molti dei richiedenti asilo non scappano dalle guerre,
scappano da situazioni di tensione, di guerre all’inizio, prima ancora che diventino marcate. Però
ci da un’indicazione quindi da dove arrivano le persone e come vedete, questa è del 2002, e
soprattutto è l’Africa sub sahariana che è presente. C’è lì un trattino viola in Europa che è legato ai
Balcani, a tutta la situazione che si è creata in quei luoghi. Questi sono i paesi di origine dei rifugiati,
siamo sempre nel 2004, però anche qui vedete l’Africa, l’Africa sub sahariana, poi andiamo verso il
corno d’Africa. Vediamo i paesi dell’est, e c’è anche una percentuale più piccola dei paesi
dell’America latina. Se l’avessimo vista un po’ di anni prima forse vedremmo l’America latina
ancora più forte, quando c‘era il Cile da cui partivano tanti immigrati, oppure ancora c’è qualche
risultato dall’estremo oriente, quando c’era il Vietnam o altri paesi di quelle zone. E questi sono i
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paesi di destinazione di rifugiati e qui già vediamo
come molti paesi di destinazione di rifugiati siano i paesi dei rifugiati stessi. E poi magari solamente
in un secondo o terzo tempo possono essere i paesi occidentali. Mi seguite? Vi ritrovate? E queste
sono le domande d’asilo oggi in Italia, ma queste cose le sapete. Quello che mi interessava era
invece andare sempre un po’ velocemente sul tema della salute. Qui vi cito un’altra frase
dall’Europa, quindi prima si diceva il diritto all’assistenza sanitaria, adesso è un diritto che
dobbiamo dare, garantire non per bontà ma perchè è necessario a tutti. Salute come bene
indivisibile. Qui si fa un altro passo avanti: questo altro documento a livello europeo, dice:
“L’accesso all’assistenza sanitaria da parte di tutti i cittadini deve essere considerato come un prerequisito per la salute pubblica in Europa, essenziale per il suo sviluppo sociale, economico e
politico, oltre che la promozione dei diritti umani”. E questo è un altro messaggio culturale
importante. Questi messaggio sono passati a metà degli anni 2000, ed è stato lo stesso periodo in
cui a livello internazionale il mondo medico ha cominciato a modificare il cosiddetto “paradigma
della sanità pubblica”, in particolare sulle cause delle malattie, ha cominciato a spostare
l’attenzione sui cosiddetti “determinanti sociali delle malattie” (in termine tecnico sono
determinanti distanti, lontani delle malattie), cioè la colpa della tubercolosi è certamente il bacillo
di Koch però ci sono dei determinanti che rendono possibile questo passaggio e sono delle
determinanti legati alla povertà, alle disuguaglianze, alle ingiustizie sociali e così via. E questo è
diventato paradigma proprio forte anche delle Nazioni Unite, dell’ OMS tra l’inizio del 2000 e la fine
del 2010. Nel 2008 esce un documento che possiamo dire dà questo paradigma, e quindi non è il
caso che anche a livello europeo si inizia a ragionare in questi termini. Capite bene che se cambia
il paradigma anche i termini della sanità pubblica cambiano, cioè non dobbiamo andare a fare la
lotta contro il bacillo di Koch, ma dobbiamo diminuire le disuguaglianze sociali, economiche,
politiche se vogliamo le ingiustizie sociali, e in quel modo riusciamo a ridurre la tubercolosi, proprio
cambia paradigma rispetto a qualche anno prima, anche se poi queste erano situazioni che noi
avevamo già sperimentato, perchè la tubercolosi in Italia si è ridotta non perchè c’è stato il
vaccino anti tubercolosi e sono arrivati gli antibiotici, ma perchè sono migliorate le condizioni di
vita degli italiani e lo stesso per tante altre malattie.
E qui parliamo di salute e il nostro riferimento è la Costituzione, questo è l’articolo 32 della
Costituzione, un po’ caratteristico tra gli articoli della Costituzione, non so se c’è qualche avvocato
o giurista tra voi, ma l’articolo 32 è una delle pochissime, sono in tutto due i punti nella nostra
Costituzione, dove non si parla di diritti dei cittadini ma di diritti dell’individuo.
E questo è stato fondamentale per fare eleggere i diritti ad esempio anche per gli immigrati,
anche per quelli in condizioni di fragilità ed è quello che in questi giorni stiamo citando per ad
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esempio garantire i richiedenti asilo anche nella fase della richiesta d’asilo, quando ancora non
hanno nessun documento, per dare loro la possibilità di accedere ai servizi sanitari pubblici. Perchè
è un diritto dell’individuo, per interesse anche della collettività. Il fatto che il diritto sia garantito
dalla Costituzione, non significa che sia un diritto e
che automaticamente ce l’abbiamo: la
Costituzione è la madre di tutte le leggi però non perchè sta scritto là poi immediatamente quello
che ci sta scritto diventa esigibile. Nella costituzione degli Stati Uniti c’è scritto che tutti gli
americani hanno diritto alla felicità, l’ha citato anche Obama nel suo discorso, ma non significa
che tu sei cittadino americano, perché lo dice la costituzione, tu sei felice, magari! Significa che tu
Stato, tu Presidente devi lavorare perchè tutti abbiano la stessa opportunità di essere felici. Quindi
la Costituzione dice una cosa, poi bisogna metterla in pratica.
In Italia questo passaggio dal mandato costituzionale al mandato pratico è avvenuto nel 1978
quando si è istituito il servizio sanitario nazionale, la legge 833, l’istituzione al servizio sanitario dice: il
mandato della costituzione è vero e si realizza attraverso il servizio sanitario nazionale. Quindi c’è
stato il passaggio tra il diritto enunciato a un diritto che invece può essere esigibile. Io quando ho
studiato queste cose, tra l’altro le ho studiate anche per la mia tesi quindi parecchi anni fa, a un
certo punto c’era un passaggio che tutti gli studiosi, tutti i bioetici sottolineavano, io non ci avevo
fatto particolare caso però adesso l’ho ritirato fuori perchè loro dicono (sia etici di area cattolica
sia di area laica): state attenti perchè questi passaggi, non è che nel momento in cui avviene c’è
per sempre, prima cosa, secondo, dipende da tutta una serie di variabili. Queste variabili sono ad
esempio la situazione
socio-economica
di
un
paese,
ad esempio le
scelte
politiche
programmatiche, o la capacità di organizzazione dei cittadini per dar voce ai loro diritti. Quindi
come può avvenire in un senso, grazie a queste situazioni, può anche tornare indietro se non ci
sono più questi requisiti. Siccome questi requisiti mi ricordano molto la situazione attuale, io vi faccio
vedere e dico stiamo attenti, non perchè c’è un diritto questo diritto poi rimane per sempre, stiamo
attenti noi che ci occupiamo di immigrati e di richiedenti asilo perché è vero che abbiamo
raggiunto un livello di diritti, per quanto riguarda il livello sanitario tra i più alti d’Europa, anzi
l’Europa ce li prende ad esempio, però non è detto che questi diritti possano rimanere sempre,
cioè se noi non stiamo attenti
probabilmente sono i primi diritti che possono saltare. Dicevo diritto alla salute perchè diventi diritto
all’assistenza servono una serie di cose, dalle politiche nazionali, delle norme nazionale e delle
politiche locali.
Ritorniamo al grafico di prima e qui vi faccio vedere le leggi che ci sono state sull’immigrazione. La
prima legge è dell’86, dove non si parlava per niente di assistenza sanitaria, poi la legge del ’90 la
conoscete sicuramente, la legge Martelli per i richiedenti asilo è importante perchè ha tolto la
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cosiddetta riserva geografica. Io già lavoravo per gli immigrati in quel periodo e ricordo il dramma
che c’era di fronte a quelle persone che chiaramente stavano scappando da situazioni di violenza
, da problemi molto gravi nei loro paesi, però non potevano essere riconosciuti in Italia come
richiedenti asilo, perchè l’Italia riconosceva solo quelli che venivano da alcuni paesi, nella
fattispecie dall’estremo oriente o dal Cile, che aveva senso qualche anno prima ma poi non
aveva più senso. La legge Martelli tolse questa riserva geografica e fu veramente una grande
conquista allora. Sulla sanità però la legge Martelli non dice niente. Bisogna aspettare il 1995, il
decreto Dini. Forse qualcuno di voi se lo ricorda, il decreto Dini è un decreto fatto da un governo
tecnico; c’era stato il primo governo Berlusconi, che cadde dal governo perchè la Lega tolse
l’appoggio e venne fatto un governo tecnico con l’appoggio esterno della Lega, presieduto da
Dini. Quando si dovette andare a votare quella che oggi si chiama legge stabilità, allora si
chiamava finanziaria, la Lega disse di volere una legge dura contro gli immigrati. Ebbene fu il
decreto Dini. Il decreto però conteneva una norma che stupì tutti, quella norma diceva infatti che
gli immigrati, anzi gli stranieri temporaneamente presenti, avevano il diritto all’assistenza sanitaria.
Stranieri temporaneamente presenti, non so se vi ricorda qualcosa, STP. Nel 1995 un decreto legge
votato dalla Lega, garantiva per la prima volta l’assistenza sanitaria agli immigrati senza permesso
di soggiorno. Poi tutto diventa norma nel 1998 con le legge Turco-Napolitano, che fa di più: non
solo garantisce l’assistenza agli immigrati senza permesso di soggiorno, ma regola finalmente
l’assistenza per tutti gli altri immigrati e anche per i richiedenti asilo e i rifugiati. Quindi è dal ’98 che
c’è una norma che garantisce l’assistenza a tutti gli immigrati compresi richiedenti asilo e rifugiati,
richiedenti di protezione internazionale, i termini sono cambiati nel tempo. Legge Bossi-fini nel 2002,
non modifica per niente gli articoli della
legge Turco-Napolitano, pacchetto sicurezza 2009 tenta di modificare alcuni passaggi della parte
normativa sull’assistenza sanitaria ma non ci riesce. Qualcuno di voi si ricorda quando i medici, gli
operatori sanitari sarebbero dovuto diventare delle spie, perchè volevano cancellare una norma
che era contenuta nel testo 1 sull’immigrazione, che però era una norma che derivava dal
decreto Dini, pensate la situazione, decreto Dini votato dalla Lega, la stessa forza che voleva
cancellare una parte della legge che aveva votato lei a suo tempo. Chiaramente abbiamo molto
lavorato su questa contraddizione della Lega stessa, per cui alla fine quella norma non è stata mai
approvata. Al momento noi abbiamo come legge di riferimento la Turco- Napolitano
sull’immigrazione. Quindi 1995 si sdogana il diritto, il diritto diventa testabile dal ’98. Sappiate che
sono 3 i riferimenti fondamentali: testo unico sull’immigrazione, regolamento d’attuazione del testo
unico e poi una circolare del Ministero della Salute a firma della Bindi del 2000. Quindi sono una
legge del ’98, una del ’99 e una del 2000. Ancora oggi questa è l’ossatura per quanto riguarda
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l’assistenza sanitaria, agli immigrati non regolari, a quelli regolarmente presenti ma anche ai
richiedenti asilo e rifugiati. Ed era un’ossatura solida perchè ha resistito tutto questo tempo, perchè
quella legge a differenza di quello che è successo per i comunitari, è una legge che nasce dal
basso, cioè per quanto riguarda gli articoli sanitari. Nel momento in cui si doveva ragionare su
questo, Guzzanti prima, Ministro della Sanità del periodo Dini, ma soprattutto la Bindi dopo, crea un
gruppo di lavoro di persone che erano già impegnate nell’assistenza sanitaria agli immigrati e che
quindi potevano vedere dal basso quali erano le reali problematiche che gli immigrati avevano. E
quindi con quelle persone, chiaramente insieme a funzionari del ministero, insieme ad altre
persone, si costruisce il pacchetto di assistenza sanitaria agli immigrati. Ricordo quel periodo, siamo
entrati un po’ nel panico, io facevo parte di quel gruppetto di persone che ha costruito la norma,
perchè nessuno di noi è un avvocato, nessuno di noi aveva esperienza da legislatore, avevamo
molto chiaro quello che volevamo fare. Ad un certo punto, i ministero degli interni voleva sapere
esattamente quali fossero i permessi di soggiorno che davano diritto all'iscrizione al servizio sanitario
nazionale. E noi facemmo l’elenco, ma avevamo paura di dimenticare qualche cosa, se non
facevamo capire alcuni passaggi, perchè eravamo sicuri che quei permessi di soggiorno
sarebbero cambiati nel tempo e che non serviva una legge per cambiare la dizione del permesso
di soggiorno, magari era una
circolare del ministero degli interni, e se poi noi non l’avevamo previsto? Quell’intera categoria
poteva rimanere fuori dall’iscrizione obbligatoria al servizio sanitario. Noi abbiamo visto che
l’iscrizione al servizio sanitario significa entrare nel sistema di tutela, tutti noi siamo iscritti al servizio
sanitario, nessuno di noi ha scelto di non essere iscritto, primo perchè non poteva farlo perchè è un
diritto e dovere, ma poi perchè non concerne assolutamente a nessuno. Allora in quel periodo
abbiamo consultato diversi giuristi, per capire come dovevamo muoverci, e devo dire che tutti ci
hanno rassicurato perchè ci hanno detto che una legge non vale solo per quello che c’è scritto
nella legge, ma vale anche per la filosofia che c’è sotto, per la volontà del legislatore, per il
razionale della legge stessa, tant’è vero che di fronte allo stesso delitto, la persona può avere una
pena più o meno grave in base alla legge che si invoca. Se tu invochi una legge più di tipo
riabilitativo rispetto a una legge punitiva di fronte allo stesso delitto puoi avere due trattamenti
diversi, questo è uno dei motivi per cui i ricchi difficilmente vanno in prigione, perchè i ricchi
avendo la possibilità di usare i migliori avvocati che ci sono, riescono magari a trovare quella
sentenza della Corte Costituzionale, piuttosto che quella legge particolare, che permette di avere
un approccio diverso alla punizione. Il lato positivo è che se noi riuscivamo a far emergere la
volontà del legislatore in quello che avevamo scritto, questo poteva resistere anche a modifiche di
altre amministrazioni. Allora qual è la volontà del legislatore? Questa è molto chiara ed evidente, e
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ormai ci sono sentenze del Tar che hanno dato ragione a questa impostazione. Cioè, laddove
qualcuno ha interpretato in maniera restrittiva gli articoli sulla sanità degli immigrati, e laddove c’è
stato qualcuno che ha fatto ricorso, il ricorso è sempre stato vinto. Quindi è evidente che la
volontà è esplicita e qual è la volontà del legislatore? Quella di includere nel sistema più alto dei
diritti e quindi l’assistenza sanitaria attraverso il sistema sanitario nazionale, la stragrande
maggioranza degli immigrati presenti in Italia, quindi ivi compresi i richiedenti asilo e rifugiati,
presenti in condizioni di regolarità o anche sul cammino della regolarità. E la volontà del legislatore
era quella comunque di intercettare anche coloro che erano fuori o temporaneamente fuori dal
sistema, quindi anche gli immigrati senza permesso di soggiorno. Questo è assolutamente
evidente. In questi giorni, anzi in queste ore, in questi minuti, c’è un braccio di ferro avviato dal
sottoscritto ma ora dal ministero della sanità verso l’Ufficio delle Entrate e il Ministero degli interni.
Questo braccio di ferro è sull’attribuzione del codice fiscale a immigrati regolarizzandi, quelli che si
stanno regolarizzando in questo momento. Perchè noi, facendo riferimento alla legge, diciamo
che i regolarizzandi non sono più irregolari, hanno pagato dei contributi, sono regolarizzandi
perchè sono lavoratori e quindi hanno diritto all’iscrizione obbligatorio al servizio sanitario nazionale
da subito. Il Ministero degli interni dice no, serve il codice fiscale, il Ministero delle finanze dice sì,
ma io per darti il codice fiscale voglio il permesso di soggiorno. Se non che il Ministero degli interni
l’ha scritto, ha fatto una circolare, scrivendo questa cosa, a quel punto io mi sono permesso di
scrivere una nota di dissenso dell’impostazione sul sito della SIMM, casualmente o non
casualmente questa nota l’ha letta il consigliere del Ministro e si è molto arrabbiato, ma non con
me fortunatamente ma con i funzionari del Ministero della salute perchè lui era assolutamente
d’accorso su quello che io avevo detto e quindi adesso si è avviato tutto un processo di
triangolazione e pare che si stia risolvendo, perchè man mano che approfondiscono stanno
andando alla fonte, la volontà del legislatore, cioè quella che permetterà, io spero, il passaggio
inclusivo rispetto al passaggio attuale di esclusione. Tra l’altro questo per me è importante perchè
potrebbe aiutare una situazione proprio dei richiedenti asilo, sapete i richiedenti asilo quando
hanno il C3, molte amministrazioni non gli rilasciano l’iscrizione al servizio di assistenza nazionale,
oltre al problema della residenza etc, perchè manca il codice fiscale. L’Agenzia delle entrate
rilascia
il codice fiscale perchè non riconosce il C3 come documento valido per poterglielo
rilasciare, allora se riusciamo a scardinare l’ufficio delle entrate con l’idea che possano fare dei
codici fiscali temporanei o provvisori, capite che si innesca un sistema virtuoso. Questo è un
dibattito di queste ore e stiamo riuscendo a portarlo avanti grazie al fatto che io ho molto chiara la
volontà del legislatore, dato che sono tra quelli che hanno scritto la norma, io la norma, su
mandato della Bindi certo, ma l’abbiamo scritta noi. Questa situazione è fondamentale.
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Vi cito i problemi che stiamo avendo sui cittadini comunitari. Oggi interi gruppi di cittadini
comunitari, che in teoria dovrebbero avere i diritti quasi uguali agli italiani, godono spesso di diritti
peggiori degli immigrati non regolari. Questo è dovuto al fatto che quella norma è stata creata
top-down, cioè dall’alto, dall’Unione Europea, che ha detto che l’obiettivo era la libera
circolazione di tutti i cittadini, quindi la salute non deve ostacolare la libera circolazione di tutti i
cittadini e quindi dovete fare questo, questo e questo, non tenendo conto che ogni sistema
sanitario di ogni paese è diverso dall’altro, i problemi specifici di ogni pese sono diversi dall’altro e
così via. Ma era giusto per darvi un’idea.
Cosa dice la norma, brevissimamente: per i cittadini non comunitari in regola, cioè con un
permesso di soggiorno, o anche nella fase di rilascio di primo permesso di soggiorno, ed anche
nelle more di rinnovo del permesso di soggiorno, persone che hanno permessi di soggiorno
riconducibili a tre grossi gruppi, hanno il diritto-dovere di iscrizione al servizio sanitario nazionale.
Questi tre grossi gruppi sono: lavoro, famiglia, protezione. Coloro che hanno i permessi di lavoro
(dati di inizio 2011: 47.8%, significa lavoro autonomo, subordinato, stagionale, ricerca lavoro,
disoccupazione che a volte viene rilasciata, ora viene rilasciata sempre perchè è stato dilungato il
tempo), tutti i permessi, riconducibili al lavoro hanno l’iscrizione obbligatoria. Tutti i permessi
riconducibili alla famiglia: ricongiungimento familiare, coesione familiare, attesa adozione, tutto ciò
che è legato alla famiglia ha l’iscrizione obbligatoria e sono il 48%; anche tutti quelli di protezione,
internazionale, richiesta asilo, rifugiati, articolo 18 la donna che denuncia il proprio sfruttatore, la
donna in gravidanza che è inespellibile e quindi viene dato un permesso di soggiorno per
gravidanza, e sono l‘1,7% di tutti i permessi di soggiorno, hanno l’iscrizione obbligatoria.
Se noi andiamo a vedere sono il 97% di tutti i permessi di soggiorno quelli che hanno diritto
all’iscrizione obbligatoria al sistema sanitario nazionale. Qui emerge chiaramente la volontà del
legislatore, cioè l’inclusione, quindi è assurdo che il regolarizzando non sia incluso, lui entra in vari
livelli in questa torta. Poi una parte, il 2,1% che non hanno diritto all’iscrizione obbligatoria, che è un
diritto e dovere, significa che nel momento in cui la fai non paghi all’atto dell’iscrizione, ma non
perchè essa sia gratuita, ma perchè il pagamento si basa su altri livelli, come per esempio per noi
italiani, se mi nasce un bambino io vado a segnarlo ma non vado a pagare, però non è gratuita
l’iscrizione, perchè io pago l’iscrizione di mio figlio come di mia moglie se è a mio carico in base
alla fiscalità generale, così come tutti voi. È il principio del sistema universalistico, cioè che tutti
contribuiscono proporzionalmente al proprio reddito e chi non ha reddito sta dentro nel sistema
stesso, questo è il sistema universalistico italiano. Però c’è una piccola parte, il 2,1%, per cui non si
obbliga l’iscrizione al servizio sanitario, ma si obbliga ad avere una copertura sanitaria di tipo
assicurativo. L’assicurazione può essere privata, ad esempio una compagnia assicurativa italiana
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oppure estera, oppure un’assicurazione “pubblica”, cioè l’iscrizione volontaria al servizio sanitario
nazionale. Quindi noi abbiamo 97% iscrizione obbligatoria; una piccola parte, circa il 2%, iscrizione
volontaria, che sono gli studenti, i religiosi, i collocati alla pari chi ha la residenza elettiva in Italia; ad
esempio George Clooney, lui volendo può iscriversi al servizio sanitario nazionale, non lo farà mai,
per il fatto che deve pagare proporzionalmente al suo reddito. L’iscrizione obbligatoria vale dal
momento in cui tu hai un titolo per restare in Italia, seppur ancora non è espresso con un permesso
di soggiorno.
Quindi nel momento in cui tu fai domanda di asilo politico dovresti già essere protetto, poi in realtà
qui stanno varie problematiche. Se arrivo in Italia con un visto per lavoro, già nel momento in cui
entro in Italia devo essere protetto. Questo non è iscritto esplicitamente nella legge, ma la legge
dice che si hanno sette giorni di tempo per fare il passaggio dal visto al permesso di soggiorno.
Nella legge c’è scritto che l’iscrizione è retroattiva, qualora tu non l’avessi fatta nel momento in cui
sei entrato in Italia, nella legge c’è scritto che anche se non sei iscritto formalmente al Servizio
Sanitario Nazionale, per il fatto che tu hai un visto o un permesso di soggiorno di queste tre macro
categorie lo sei di fatto. Quindi la volontà è evidentissima, solamente i ciechi non la vedono.
Invece per i famosi STP, sono garantite tutta una serie di prestazioni non solo urgenza, ma anche
prestazioni essenziali, medicina preventiva e così via e c’è il divieto di segnalazione. Quello che vi
ho detto è molto semplificato, in realtà poi la burocrazia italiana produce costantemente
ragnatele, per cui io ho detto cose elementari ma poi uno dovrebbe conoscere tutte queste
norme per sapere le situazioni che si sono venute a sovrapporre all’interno.
Ultimo passaggio, che ci sia un diritto all’accesso non basta, ci deve anche essere la possibilità che
ci sia reale fruibilità delle prestazioni. Io immigrato, io rifugiato ho diritto all’assistenza sanitaria, però
non riesco a comunicare col medico, non riesco a farmi capire nell’ospedale, non capisco la
filosofia del sistema o il contrario io medico non riesco a farmi capire, questo passaggio
dall’accesso alla fruibilità dei servizi è mediato da quelle che sono le politiche sanitarie che
servono a fare in modo che tutti i cittadini abbiano realmente pari opportunità non solo di accesso
ma anche di fruibilità delle prestazioni, e delle prestazioni più appropriate. E qui abbiamo delle
difficoltà evidentissime; la difficoltà principale nasce proprio dalla strutturazione dei percorsi
giuridici. La politica sull’immigrazione e l’asilo è una legislazione cosiddetta esclusiva, cioè è una
legislazione dello Stato ed è rimasta di pertinenza dello Stato, oserei dire purtroppo, che è una
pertinenza sempre di più del Ministero degli interni e questa è una stortura che secondo me è
molto forte ed è una delle politiche che noi costantemente alimentiamo, noi che ci occupiamo di
sanità, perchè è costantemente il Ministero degli interni che fa delle circolari che riguardano la
sanità. La pertinenza sulla parte immigrazione asilo è statale. Invece le politiche sull’assistenza
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sanitaria, così come le norme sull’assistenza sanitaria è una legislazione concorrente, cioè dipende
dalle regioni. Vi ricordate nel 2003, modifica del titolo punto della Costituzione, per cui alcune
funzione che erano proprio dello Stato sono passate alle regioni tra cui la devolution del
federalismo. Una delle mansioni passate alle regioni è proprio quella sull’assistenza sanitaria, lo
Stato si è riservato di dire quali sono i livelli essenziali di assistenza, cioè quei livelli che ogni regione
deve garantire a tutti, però poi sono le singole regioni che decidono come fare. Bene le politiche
per la salute degli immigrati stanno in mezzo, sono politiche per gli immigrati e quindi in qualche
modo di pertinenza statale, però sono politiche sanitarie quindi in qualche modo di pertinenza
regionale. A questi due insiemi si sono messe dentro poi altre situazioni, sono le politiche nazionali
sulla sicurezza che soprattutto quando la Lega andava per la maggiore, hanno provocato tanti
danni, ma anche le stesse politiche locali sull’integrazione e sul welfare, che ultimamente hanno
zero finanziamenti e poi sempre l’altro tipo di politica che si inseriscono in quelle che dovrebbero
essere le politiche sanitarie sugli immigrati sono iniziative locali di sicurezza.
Quei famosi interventi che i singoli sindaci facevano in termini di sicurezza guarda caso erano tutte
contro gli immigrati: l’accesso agli asili nido piuttosto che alle casa popolari, piuttosto che sulle
panchine non ci si poteva sedere etc. Tutte queste cose incidono sulla salute, intesa in senso
globale. Ma il problema più grosso è stato questa sorta di pendolo tra regioni e Stato. Io Stato non
ti dico cosa devi fare perchè sono le regioni che hanno pertinenza sulla sanità, io regione non dico
niente sulla sanità degli immigrati perchè gli immigrati sono di pertinenza statale e quindi aspetto
che lo Stato mi dica cosa devo fare. Cos’ha prodotto questo pendolo? Un’enorme difformità a
livello regionale, questo per quanto riguarda gli immigrati senza permesso di soggiorno, questo per
quanto riguarda i comunitari in condizioni di fragilità, esistono difformità incredibili.
Qualche anno fa abbiamo condotto uno studio tra tutte le regioni e vedete (grafico) le regioni più
scure sono quelle avanzate e quello più chiare sono quelle meno attente, tra queste ultime la
Lombardia.
Tutti questi studi che ho citato potete trovarli sul sito della SIMM (http://www.simmweb.it/). Volevo
chiudere con una nota di informazione che può esservi utile. Proprio a seguito di questo studio,
alcune regioni si sono attivate pensando che non fosse possibile che ci fossero tutte queste
difformità, quindi si è creato un tavolo dentro la commissione salute della conferenza delle regioni
che ha lavorato per due anni e ha prodotto un documento, che si può scaricare e che contiene le
indicazioni per una corretta applicazione della normativa, cioè un’interpretazione univoca, in
modo che quei colori diversi in qualche modo si potessero uniformare con un’impostazione
inclusiva, quella famosa volontà nella legge che abbiamo detto prima. Si è lavorato molto e alla
fine il documento è stato approvato dalla commissione salute della conferenza delle regioni e
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anche dal Ministero della sanità che ha approvato il documento, che l’ha mandato nuovamente
alle regioni per presentarlo in conferenza Stato - regioni. Noi abbiamo avuto l’annuncio in diretta di
questo passaggio durante la conferenza della SIMM e adesso si stanno limando alcune diversità di
vedute e speriamo che entro la fine dell’anno venga applicato, approvato. Ci sono delle cose
molto importanti in questo documento, ve ne dico due che possono riguardare indirettamente i
rifugiati: uno riguarda tutti i minori, se questo documento passa tutti i minori indipendentemente
dallo stato giuridico devono avere il pediatra di libera scelta; un altro passaggio avrebbe fatto sì
che tutto questo problema sui codici fiscali non esistesse. Un altro passaggio interessante: le
mamme comunitarie di cittadini italiani devono essere iscritte al servizio sanitario nazionale, che
sembra banale ma se una donna rumena fa un figlio con un uomo italiano, non sposandosi, e
quindi lei è madre di cittadino italiano, allora lei deve essere tutelata e quindi iscritta al servizio
sanitario. Questo va a tamponare un buco della normativa, perchè la normativa europea,
secondo me per cattiva traduzione, dice che la mamma comunitaria se è a carico di un cittadino
italiano deve essere iscritta al servizio sanitario, ma diventa difficile che una mamma sia a carico di
un bambino appena nato! All’inizio vi ho fatto vedere la copertina degli atti del congresso della
SIMM dell’anno scorso in cui si è trattato il tema della salute globale, noi abbiamo appena
concluso il nostro congresso nazionale, dove abbiamo affrontato le problematiche di immigrazione
e salute durante la crisi e le parole chiave questa volta sono state coesione sociale,
partecipazione e reti (reti inteso fare rete, lavorare in rete). Questo è l’elemento più importante sui
stiamo cercando di lavorare. Fare in modo che la SIMM possa diventare una rete di reti. Qui in
Piemonte esiste una rete collegata alla SIMM, che è il GRIS Piemonte e questo è un elemento
fondamentale per fare in modo che alcuni diritti e alcuni percorsi possano in qualche modo essere
da tutti condivisi. Concludo con l’Europa,
ancora una volta con una frase da un altro documento, il documento di Bratislava di tutti i ministri
d’Europa, dove dice: “Le misure sanitarie per i migranti che siano ben gestiti, inclusa la salute
pubblica, promuovono il benessere di tutti, [e questo era il primo documento che abbiamo letto]
possono facilitare l’integrazione e la partecipazione dei migranti all’interno dei paesi ospitanti
promuovendo l’inclusione e la comprensione e la coesione, [Questo l’avevamo visto nel secondo
documento che vi avevo fatto vedere] aumentando lo sviluppo”.
Ecco a me piace pensare agli operatori della salute o agli operatori che si interessano a tematiche
legate direttamente o indirettamente alla salute, come non a dei semplici meccanici che
aggiustano macchine ma a persone che stanno lavorando allo sviluppo di una società che veda
le parole dell’equità, della coesione sociale, della condivisione come a parole chiave per lo
sviluppo di tutti non solo di alcuni.
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Decimo
27 novembre 2012
Titolo
Lavoro e sfruttamento lavorativo
Relatori
Lorenzo Trucco
Lorenzo Trucco: Sono presidente dell’ASGI, associazione studi giuridici sull’immigrazione, che ormai
ha 22 anni e che raduna per lo più avvocati ma anche professori universitari, magistrati e in genere
persone, giuristi, ma anche non giuristi che si occupano delle tematiche dell’immigrazione, quindi
dall’asilo all’immigrazione, una materia di cui una delle caratteristiche è l’interdisciplinarietà, nel
senso che quando si tocca un argomento si toccano tante altre discipline, s’interseca tutto, è una
sorta di mosaico che rende quindi la materia sicuramente complicata, per cui bisogna rifuggire
sempre dalle banalizzazioni e dalle semplificazioni proprio perché la materia è complessa.
Dall’altra parte ha il fascino e il trasporto dato dal fatto che si parla della vita delle persone, sono
argomenti che riguardano direttamente da un lato la persone e dall’altro i diritti fondamentali, la
materia dei diritti umani, questo è il punto centrale per cui son tutti argomenti che riguardano
ognuno di noi, anche se non ci tocca direttamente ma sicuramente nei principi fondamentali.
Allora l'argomento che trattiamo oggi è il lavoro e tutta la tematica dello sfruttamento lavorativo.
La tematica del lavoro è centrale in qualsiasi normativa che riguarda l’immigrazione, é centrale
perché tra le ragioni che muovono la persona a cercare un'altra sistemazione quella della ricerca
di un lavoro è certamente centrale. Tant’è vero che tutte le leggi sull’immigrazione hanno come
tema centrale la regolazione del’ingresso per lavoro.
Il problema dello sfruttamento lavorativo, diciamo subito, è centrale perché è strettamente
correlato al tipo di politiche di regolazione dei flussi che un paese adotta. Lo stato italiano ha
scelto il sistema delle quote, cioè tramite un decreto legge viene stabilito un numero x di persone
che possono entrare nel territorio per lavoro in un determinato anno. Questo è il sistema, la scelta
di un principio, che di per sé non è né buona né cattiva, perché dipende dal valore che si dà a
questo numero, da come lo calcolo e qual è la procedura materiale per entrare. E qui nascono
tutti i problemi ben noti perché da un lato abbiamo il sistema delle quote e quindi occorre una
legge che dice “quest’anno entra per lavoro subordinato un numero x di persone”. Dall’altro lato
abbiamo la chiamata a distanza. Vuol dire che il datore di lavoro, si suppone, è sul suolo italiano
mentre il lavoratore é a distanza cioè é sul territorio di origine, questo secondo il legislatore. Questo
porta a tutta una serie di grandi conseguenze. Quello che spesso si sente dire e che sento anche io
in ambienti giuridici (che dovrebbero essere molto più acculturati su questo, da parte dei giudici e
colleghi) è: se io ti do da lavorare tu sei a posto, ti daranno il permesso di soggiorno. Chiaramente
non è assolutamente così perché il sistema centrale, con alcune eccezioni, prevede prima il
decreto flussi, quindi una legge che dice: quest’anno entra un numero determinato di persone,
quindi tutto quello che è compreso nel decreto flussi è regolare, ma quello che è fuori è irregolare,
anche qui con alcune eccezioni, ma questo è il sistema generale. Dall’altro lato questa procedura
della chiamata a distanza per cui, in estrema sintesi, occorre il decreto flussi, quindi per quest’anno
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entra un tot numero di persone sul territorio, dopodiché viene fissato, avviene ormai per procedura
telematica, il cosiddetto click day, il giorno in cui il datore di lavoro si deve recare con determinate
modalità a indicare la propria volontà di dire: io voglio assumere alle mie dipendenze il signor
diciamo Mohamed che sta, dovrebbe stare sul proprio territorio d’origine.
Questa domanda va corredata da un’insieme di indicazioni relative all’alloggio e a quello che
verrà pagato ma comunque il concetto è che ci vuole il decreto legge e ci vuole questa
domanda. Qui siamo appena all’inizio perché su questa domanda dovranno essere verificate
tutta una serie di cause ostativo-impeditive, cause ostative di cui la più frequente è per esempio se
il cittadino straniero ha avuto delle espulsioni ovvero l'allontanamento dal territorio dello stato, che
impediscono il suo rientro. Poi andrà stabilito se questa domanda fatta dal signor Rossi nei confronti
del signor Mohamed entra nel flusso, cioè questo numero che viene stabilito a livello centrale e
viene poi suddiviso a livello delle varie città, per cui a Torino tocca un numero x a Milano un altro
ecc. Quindi bisogna vedere se la domanda fatta dal signor Rossi entra nella quota generale o
meglio particolare stabilita per Torino, se questa persona è a Torino. Se tutto quadra viene dato un
nulla osta lavorativo che viene inviato poi telematicamente nel paese d’origine, per esempio
Marocco, all'ambasciata poniamo di Casablanca, a cui si recherà il signor Mohamed dicendo:
c’è un nulla osta al lavoro fatto a seguito della domanda del signor Rossi. A questo punto il
consolato verifica questo, se è tutto ok mette un timbro sul passaporto, un visto di ingresso. Con
questo visto di ingresso il signor Mohamed arriva sul territorio italiano e dovrà recarsi entro 8 giorni
davanti all'autorità di polizia per integrare questo percorso per arrivare al rilascio del titolo di
soggiorno, del premesso di soggiorno. Quindi è una procedura estremamente farraginosa, è una
procedura, possiamo dirlo ormai in maniera storicamente accertata, che non ha mai funzionato,
primo perché il numero delle quote è sempre stato di molto inferiore rispetto a quello che sono le
richieste di mercato, non parliamo anche di esigenze più generali rispetto a un'equità retributiva o
cose di questo tipo. Nel momento del click day le domande vengono prese a seconda della
priorità temporale quindi c’è una suddivisione proprio in base all’inoltro della domanda di un
milionesimo di secondo: nell’ultimo mi pare dopo 3 minuti e mezzo, la quota era già esaurita, chi
faceva la domanda dopo 5 minuti era già fuori dalla quota. Quindi una delle ragioni per cui
questo sistema non ha funzionato è il numero. La seconda ragione per cui non ha mai funzionato è
il fatto che i tempi di realizzazione di questa procedura sono estremamente lunghi. L’altro discorso
è che si basa su una grandissima ipocrisia, l'ipocrisia sta nel fatto che il signor Rossi chiami alle
proprie dipendenze e dica voglio assumere solo Mohamed che sta a Casablanca. Perché
dovrebbe farlo? Lo fa perché, il più delle volte, il signor Mohamed è li con lui, sta lavorando in nero,
è entrato con altre modalità non potendo entrare secondo i flussi regolari. Altra ragione per cui
sostanzialmente questo sistema non ha mai funzionato è che i decreti flussi che dovrebbero essere
annuali non lo sono affatto. Due giorni fa è stato emanato il decreto flussi per il 2012, in un primo
tempo era stato detto che non sarebbe stato emanato. Per altro non è limitato, è praticamente
insistente, è limitatissimo. Parla di una quota di 1350 posti che sono quasi tutti per altro di
conversione. In questo sistema molto rigido i permessi di studio non possono essere utilizzati. Se io ho
un permesso per studio posso lavorare ma solo poco e non posso cambiare il mio permesso in
permesso per lavoro. I posti di questo decreto saranno usati quasi tutti per la conversione. In sé è
una cosa positiva, ma una cosa residuale.
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Cos’è successo quindi da un punto di vista storico? Questo sistema che non funziona è stato in
qualche modo equilibrato diciamo così da un analogo sistema di sanatorie e regolarizzazioni che
sono strumenti un po’ come l'amnistia o l'indulto, prendono atto di una certa situazione e
intervengono e quindi sostanzialmente prendono le persone che sono entrate prima di una certa
data, che hanno determinati requisiti e che hanno una possibilità di lavoro. Nella storia italiana la
prima sanatoria, ce n’è stata una nel ’86 ma non c’era ancora una vera e propria legge, è stata
nel ’90 con la legge Martelli, poi c’è sta nel 1995, 1998, 2002, 2009, 2012. E' un equilibrio molto
ingiusto e iniquo perché è un provvedimento che tocca solo una quota di persone, in cui il fatto di
essere entrato prima di una certa data o dopo è solo casuale. In più le sanatorie sono diverse una
dall’altra, l’ultima aveva le sue belle schizofrenie, più delle altre, infatti è stata un flop molto grosso
come numeri. Intanto un primo dato spesso scordato è che la domanda la fa il datore di lavoro,
non la fa il lavoratore, quindi già su questo si parte con una grossa violazione dei diritti umani
fondamentali. Non è il lavoratore che dice voglio regolarizzarmi com’era nelle prime sanatorie, no
in questo caso è il datore di lavoro che dice ho alle mie dipendenze il signor Mohamed. Nel caso
di quest’ultima sanatoria bisognava che il signor Mohamed fosse alle dipendenze, in nero
ovviamente, del datore di lavoro almeno dal 9 aprile e che fosse entrato, che dimostrasse di essere
entrato entro il 31 dicembre dell'anno scorso (2011). Dimostrato come? Se uno è clandestino,
scusate il termine orrendo ma ci intendiamo, come fa a dimostrare? La circolare, la norma sulla
regolarizzazione riprendendo una vecchissima dizione pretendeva la dimostrazione tramite
documenti provenienti da organismi pubblici. Poi è stata un po’ ammorbidita la cosa ma se uno
aveva avuto la “fortuna-sfortuna” di finire in un ospedale poteva usare questo per il fatto che era
finito dentro, se aveva una multa particolare poteva dimostrare questo. La sanatoria prevedeva di
fare le domande fino al 16 ottobre e adesso le stanno vagliando. Sicuramente le domande sono
state molto minori anche perché la legge chiedeva che il datore di lavoro dovesse pagare un tot
alto, di un migliaio di euro, per il pagamento di una sorta di contributo forfettario in più pagare gli
arretrati passati per sei mesi, quindi una bella cifra. In realtà si sa benissimo, nelle sanatorie è un
dato acquisito, che questa cifra in realtà non viene pagata dal datore di lavoro ma viene pagata
dal lavoratore il quale si offre e quindi qui c’è tutto un mercato nero che fiorisce dietro a queste
sanatorie, quindi truffe a non finire per il pagamento di questa cifra. Nascono quindi dei lavori più o
meno artificiali.
Una delle altre affermazioni sulla regolarizzazione è che la regolarizzazione doveva avvenire
solamente nei confronti dei lavori a tempo pieno quindi con un esubero, una spesa molto alta,
tranne nel caso di badanti. Quindi era aperta sia ai normali diciamo così lavoratori subordinati sia
alle badanti a differenza di quello del 2009 che era solo legato alle badanti. Però siccome sul
lavoro subordinato normale, tipo operai, bisognava pagare un contratto di lavoro che doveva
essere a tempo pieno queste domande sono state pochissime e sono aumentate tantissimo nelle
domande di sanatoria i lavori come badante per cui abbiamo tutta una componente maschile
altissima che fa da badante e che magari ha 20, 25, 30 anni. Può essere vero ma si può pensare
ad un uso strumentale, non essendoci altra possibilità viene usata quella. Questa regolarizzazione è
stata un flop e poi sicuramente il governo pensava di guadagnarci molto di più, è una forma di
introito, ma nella realtà le cifre sono basse.
Questa domanda deve fare questa procedura particolare del click day del controllo delle cause
ostative e dopo di che il lavoratore deve arrivare, nel senso che prende il nulla osta e quindi il visto
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di ingresso nel suo paese di origine per arrivare in Italia. Da un punto di vista pratico vuol dire che
se il signor Mohamed già lavorava in nero per il signor Rossi. Cosa fa nel momento in cui c’è il nulla
osta cioè quando la domanda del signor Rossi è stata accettata? Mohamed sparisce dal territorio
italiano e riemerge dall’altra parte del territorio e va al consolato? E una procedura davvero
demenziale, passatemi il termine. È una procedura che ostacola. Cosa succede come
conseguenza di riflesso immediata? È ovvio che aumenta esponenzialmente il lavoro irregolare, il
lavoro nero, il lavoro non pagato o pagato malissimo e qui iniziamo a vedere anche i riflessi del
nostro tema.
Quindi sono due sistemi che sono strettamente collegati. Ci sono solo alcuni articoli nel nostro
codice sull’immigrazione che riguardano le cosiddette categorie protette che possono essere la
donna incinta o che ha appena partorito, il marito della donna incinta mentre aspetta la nascita
del figlio e fino a sei mesi (può avere un permesso di soggiorno quindi una forma di non
espellibilità), la donna che si sposa con un cittadino italiano e convive con questo cittadino, una
serie di categorie che però sono residuali. Se uno è irregolare è molto difficile che divenga
regolare proprio per questa rigidità di sistema mentre è molto facile il percorso inverso cioè da
regolari diventare irregolari perché prendiamo il caso di prima: finalmente il signor Mohamed ce
l'ha fatta ad vere il premesso di soggiorno però il permesso di soggiorno ha un a durata che è
limitata. Sul testo base sull'immigrazione, il Testo Unico, legge del 1998, la cosiddetta TurcoNapolitano, si sono inserite poi tutta una serie di modifiche dei vari pacchetti sicurezza che si sono
succeduti, prima di tutti la Bossi Fini del 2002 e poi tutti gli altri pacchetti che hanno ristretto sempre
di più. Un esempio: il permesso di soggiorno. Quanto dura il permesso di soggiorno? Se il contratto
è a tempo determinato dura quanto il contratto a tempo determinato, comunque non può
superare l'anno. Se il contratto è a tempo indeterminato allora al massimo arriva a 2 anni. Nella
situazione attuale di lavoro avere un contratto a tempo indeterminato non è la cosa più facile di
questo mondo. In sede di rinnovo al massimo, mentre una volta si raddoppiava, cioè da 2 anni si
passava a 4, dopo le modifiche della Bossi-Fini, quindi ormai da una decina di anni a questa parte,
non si raddoppia più quindi al massimo si rinnova per la stessa durata. Quindi il concetto base è
quello per cui c’è sempre un vincolo strettissimo tra il permesso di soggiorno e il lavoro. Il vincolo è
dato dal fatto che finché ho il lavoro ho il permesso di soggiorno, quando non c’è più il lavoro, se
una persona deve rinnovare il permesso di soggiorno, e lo rinnova spesso perché dura poco, ha un
permesso di attesa occupazione. Qui c’è stata una modifica, una delle poche modifiche positive
che sono intervenute. La riforma del lavoro, la riforma Fornero, quindi la legge n. 92 che ha
modificato tutta la struttura generale del lavoro, ha portato un unico elemento positivo: questo
permesso per attesa occupazione prima era per sei mesi adesso è stato portato a un anno. Tra
l’altro il termine di un anno è quello che c’era già anni prima. Quindi ha recuperato questa durata.
È stata una modifica sicuramente positiva ma non cambia la sostanza della blindatura tra
permesso di soggiorno e lavoro, la attenua un po’, ma sicuramente c’è sempre un vincolo molto
forte.
Questo è in estrema sintesi il quadro che riguarda la struttura del lavoro da cui deriva una cosa
ovvia, una conseguenza ineludibile: il lavoratore è molto debole sul proprio permesso di soggiorno
proprio perché è legato al lavoro. In una situazione di crisi come quella attuale è chiaro che la
debolezza, la paura di perdere il posto di lavoro mi fanno accettare condizioni estremamente dure
e ingiuste, perché se perdo il lavoro non solo non mangio più ma perdo anche il permesso di
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soggiorno e scivolo quindi in una situazione di degrado. Sono delle pressioni fortissime. La posizione
del lavoratore è molto debole nascono sacche di lavoro in cui ci sono forme di sfruttamento
lavorativo che hanno varia intensità, che hanno riguardato e riguardano più o meno tutti i paesi di
immigrazione. Una situazione che è scoppiata con grande clamore, che si sapeva ma che è stata
portata all’attenzione di tutti, è quello che succede nell’agricoltura. Nell’agricoltura stiamo
verificando una serie di violazioni dei diritti fondamentali, ovviamente con valutazioni diverse,
clamorose, alcune sono davvero delle situazioni feudali, con alcuni dati nuovi estremamente
preoccupanti. Queste situazioni dell’agricoltura sono diventate un po’ un simbolo, ovviamente ci
sono anche altri fattori che riguardano l’edilizia e altre situazioni, ma nell’agricoltura stanno
prendendo un valore simbolico anche molto forte. Queste situazioni di estremo e gravissimo
sfruttamento erano e sono ancora molto legate a zone del sud d’Italia controllate dalla criminalità
organizzata, il classico caso di Rosarno, della raccolta delle arance. In realtà il dato molto
preoccupante nuovo è che queste situazioni di gravissimo sfruttamento si sono estese in altre zone
che non sono assolutamente controllate dall’attività della criminalità organizzata del territorio, ma
semplicemente è il “normale” imprenditore agricolo che, per una serie di ragioni, difficoltà del
mercato, difficoltà sue, sfrutta in maniera pesantissima, in alcuni casi addirittura in riduzione di
schiavitù il lavoratore. Il caso di Yvan Sagnet è emblematico da questo punto di vista. Yvan Sagnet
è un cittadino del Camerun che viene a studiare al Politecnico di Torino, ci viene perché quando
era piccolo in Italia c’erano i campionati mondiali di calcio, il Camerun tra l'altro aveva una
squadra di calcio molto forte, a lui rimane una sorta di imprinting e decide di venire a studiare in
Italia. Va a studiare al Politecnico ma ci sono dei problemi economici e quindi decide nell’estate
dell’anno scorso di andare a lavorare al sud, in Puglia per la raccolta di cocomeri e pomodori e
altro. Si reca lì e vi trova un universo che assolutamente pensava di non trovare. Vive insieme ad
altri in una masseria che è una sorta di deposito di esseri umani. Al mattino vanno a lavorare,
siccome i campi sono lontani vengono presi da un pullmino, un “contenitore”, che devono
pagare. Pagano al cosiddetto caporale, su questo si innesta infatti il fenomeno del caporalato:
persone che sono a loro volta sfruttate e che controllano gli altri. Per bere e per mangiare nel
campo bisogna pagare, insomma quel pochissimo che viene dato come retribuzione salta e va a
finire addirittura in ulteriori pagamenti. Abbiamo quindi una situazione davvero pesantissima che
porta, questo è l’unico dato positivo, ad una ribellione da parte delle persone che, sostenute poi
anche dalle organizzazioni locali, entrano in sciopero.
La caratteristica negativa di questi fatti è che non sono più legati a zone controllate dalla mafia, il
dramma è che questo si sta allargando a situazioni in cui è l'imprenditore agricolo che trovandosi a
disposizione una manodopera silente, che lavora non protesta e che può pagare pochissimo o
non pagare, ne approfitta. Queste situazioni si stanno verificando anche nel nostro “civilissimo
Piemonte”. Sto seguendo i casi di Castelnuovo Scrivia, in provincia di Alessandria dove ci sono
grandi estensioni di campi e grosse aziende di ortofrutta. A un certo punto dei lavoratori magrebini
si ribellano ed entrano in sciopero perché il padrone non li pagava. Intervengono sindacati e
associazioni ed emerge un quadro allucinante: le persone protestano perché non riuscivano più a
comprarsi il pane. Con dodici, tredici, quattordici, quindici ore di lavoro al giorno con temperature
altissime la paga mensile era duecento/duecentocinquanta euro con condizioni gravosissime
(mancanza d’acqua, ecc).
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E’ importante dare un quadro giuridico cioè cosa prevede la legge di fronte a queste situazioni,
cosa si può fare. Sicuramente ci troviamo di fronte a comportamenti che costituiscono reato. La
legge prevede diverse ipotesi, ci sono tre o quattro situazioni che riguardano lo sfruttamento in
generale. L’ipotesi più grave, prevista dal codice penale, art. 600, è la riduzione in schiavitù o in
situazione analoga. A seguito dell’adesione dell’Italia al protocollo di Palermo contro il traffico
degli esseri umani è stata fatta una modifica anche al codice penale per cui quest’articolo è stato
modificato, rispetto a una vecchia versione datata, che faceva riferimento a una condizione
anche giuridica di schiavitù quindi una cosa praticamente inesistente. La nuova formulazione
dell'articolo è abbastanza complicata e infelice però introduce degli elementi importanti perché
sostanzialmente dice che viene punito il comportamento quando una persona viene ridotta a uno
stato di soggezione continuativa, questa è una delle caratteristiche principali, costretta a
prestazioni lavorative o sessuali o accattonaggio o prestazioni che comportino lo sfruttamento.
Come viene attuato lo sfruttamento? La legge prevede una serie di sfumature, possibilità diverse:
può essere fatto mediante la violenza, mediante minaccia (es.: se non hai il permesso e protesti ti
denuncio e ti mandano via), l’inganno, l’abuso di autorità o anche approfittare di una situazione
di necessità o di una posizione di inferiorità fisica o psichica. Questo stato di soggezione
continuativa deve essere legato a violenza, minaccia, anche approfittando dello stato di
soggezione, di inferiorità fisico-psichica, situazione di inferiorità o addirittura promettendo dei
vantaggi, dei soldi. Una situazione classica, che si verifica per esempio è questa: “ ti do solo 200
euro ma poi ti pagherò come i contratti prevedono, adesso non posso ti pagherò dopo”. Questo
elemento da solo però non basterebbe, ci vogliono le altre componenti. Questo è il reato più
grave, punito molto gravemente: da 8 a 20 anni. Però ha un problema applicativo, ci sono stati
casi di procedimenti ma sono pochi per una serie di ragioni. La cassazione in varie sentenze ha
detto che non è necessario che l’interruzione della libertà sia ininterrotta ma occorre una
situazione di coazione forte (il caso classico è quello della prostituta che viene lasciata andare a
prostituirsi o il lavoratore che va nei campi e che quindi può anche essere libero anche se sa che
non si può allontanare perché sa che il passaporto ce l’ha il datore di lavoro) e che lo stato di
soggezione deve essere continuativo.
Sull’interpretazione del termine continuativo si sono aperte molte maglie per cui le applicazioni di
questo articolo sono tuttora molto limitate. Ci sono anche due elementi di carattere tecnico da
tener presente, uno, può sembrare un paradosso, è che il minimo di pena di questo reato è molto
alto (otto anni) quindi i giudici per un modo applicativo della sanzione della reclusione che fa
parte della cultura giuridica italiana finiscono per non applicare questo tipo di reato se la
situazione non è veramente grave. Avere il minimo di pena così alto invece di essere un vantaggio
diventa uno svantaggio. L’altra importante questione di carattere tecnico è che la competenza
per procedere per questo tipo di reati è della DIA, la direzione distrettuale antimafia. È sicuramente
una cosa positiva: sono persone estremamente preparate, hanno più competenze di altri,
strumenti investigativi maggiori. Una delle zone dove ci sono più situazioni di questo tipo è quella di
Castel Volturno nel casertano. Qui è stato calcolato vi sono circa ventimila persone perlopiù senza
permesso di soggiorno, perlopiù ex richiedenti asilo che rimangono nel territorio, che sono una
massa di lavoro che poi si sposta a Rosarno, in Puglia, anche in Piemonte e ci sono molti casi di
sfruttamento lavorativo che potrebbero rientrare in ipotesi di riduzione in schiavitù. Ma la
competenza è della DIA e siccome la zona è quella di Caserta i fatti vanno a finire a Napoli dove
però si ha un gran da fare su altri casi (omicidi, ecc.) e alla fine si investiga poco su questi fatti.
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Questo è un problema di efficienza, ma è un problema reale. L’art. 600, che c’è e che è stato
cambiato nel 2003 a seguito del protocollo di Palermo, potrebbe essere applicato molto ma ha
una scarsa applicazione e riguarda le situazioni più gravi.
C’è poi una situazione intermedia importante da citare, si tratta sempre di una reato dal codice
penale: il 603 bis, che riguarda in realtà l’intermediazione quindi il fenomeno dei cosiddetti caporali
e del caporalato. In realtà la storia giuridica e politica di questo reato nasce proprio a seguito dei
fatti di Nardò, i fatti di Yvan Sagné. A seguito delle rivolte è nata una corrente di opinione che ha
portato all’elaborazione di questo articolo 603 bis introdotto l’anno scorso. L’articolo colpisce il
caporalato, l’intermediazione di manodopera. Nel libro di Yvan Sagnè si spiega molto bene la
dipendenza dai caporali che hanno un potere enorme essendo l’unico riferimento: sono loro che
decidono chi lavora un determinato giorno, a loro bisogna pagare il passaggio sul pulmino, a loro
bisogna pagare l’acqua. L’articolo non è scritto in maniera molto felice, il problema tecnico è che
colpisce l'intermediazione, ma indica come elementi del reato una serie di comportamenti che
riguardano più il datore di lavoro che l'intermediatore quindi dal punto di vista pratico l’imputato si
può difendere abbastanza facilmente. È un po’ infelice ma comunque importantissimo che ci sia,
si parla anche qui di sfruttamento mediante violenza, minaccia o intimidazione approfittando dello
stato di bisogno o di necessità del lavoratore, una dizione abbastanza larga ma per la prima volta
in un articolo di legge, vengono indicati degli indici di sfruttamento. Prima era solo generico, ora
vengono descritte, in quattro filoni, le circostanze che costruiscono indice di reato.
Il primo: quando la retribuzione è palesemente difforme dai contratti collettivi e nazionali, o
comunque sproporzionata rispetto a quantità e qualità del lavoro prestato. Il secondo gruppo di
elementi riguarda la sistematica violazione delle norme relative all’orario di lavoro, al riposo
settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie. Tutti quegli elementi centrali nella
contrattualistica lavorativa qui vengono presi come indice di sfruttamento, quando le ora invece
di otto, nove o dieci diventano quattordici sotto il sole, quando il riposo non esiste è chiaro che
sono indici di una condizione di sfruttamento. Altro elemento è la situazione di sicurezza e igiene sui
luoghi di lavoro. La legge la lega a una situazione tale da mettere in pericolo la salute la sicurezza
o l'incolumità personale, quindi igiene e sicurezza sono importantissime e la loro violazione può
essere un indice e maggiore se porta pericolo a salute e incolumità; è ovvio che se si lavora sotto il
sole o si trasportano cassette per dodici –quattordici ore senza guanti o altre cose minimali questo
è un indice ed è importante che lo stabilisca la legge. Il quarto gruppo è il fatto che il lavoratore
sia sottoposto a metodi di sorveglianza, qui è classica la situazione dei caporali, minacce, violenza
che possono anche non essere fisiche, situazioni alloggiative particolarmente degradanti, una
delle condizioni più significative da questo punto di vista.
Molte di queste situazioni, per esempio nel casertano sono difficili da descrivere, sono situazioni
feudali e anche il ribellarsi non è facile, le differenze sociali e culturali possono diventare
importantissime. Il concetto di sciopero non è facile, è difficile già in sé anche per gli italiani anche
se c’è una grande abitudine a questo e per persone che provengono da zone dell’Africa implica
un salto culturale notevole. Raccontava Yvan Sagné una delle situazioni più imbarazzanti delicate
e difficili. Dove lavorava lui c’erano varie etnie, i maliani, il Mali ha una situazione davvero pesante,
terribile, in realtà non hanno quasi mai partecipato agli scioperi dicendo di accettare le condizioni
più incredibili perché riuscivano a mandare qualcosa a casa. Sono situazioni che vanno
veramente contro la dignità, ma quello che é preoccupante è che non sono legate a situazioni
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estreme in cui camorra o mafia intimidiscono, non sono situazioni che accadono solo lì ma anche
nel nostro Piemonte.
Abbiamo visto queste due situazioni: riduzione in schiavitù e a livello più basso, quindi punita meno
della riduzione in schiavitù, l’intermediazione e il caporalato. La novità forte e importante è nata
da una nuova forma di reato che è entrata in vigore da pochissimo, quest’anno, a seguito della
direttiva europea sul lavoro irregolare. Questa direttiva riguarda in particolare le sanzioni contro il
datore di lavoro che assume alle sue dipendenze lavoratori irregolari cioè senza permesso di
soggiorno. Prevede una serie di sanzioni. Più o meno queste sanzioni nel nostro codice c’erano già,
quello che invece mancava e che è stato introdotto, ed è positivo, è una sanzione rispetto al
grave sfruttamento lavorativo che ha un grado di gravità inferiore sia alla condizioni di schiavitù
che alla situazione del caporalato. È come se fosse una tripartizione: il più grave è la riduzione in
schiavitù, poi il caporalato e poi si colloca questa nuova forma di reato, in realtà è l’aggravante di
un reato che già c’è. La direttiva è la n.52 attuata dalla legge d’attuazione n.109 del 2012 che ha
trasfuso la direttiva nell’ordinamento italiano, quella stessa legge che prevede la regolarizzazione,
che è terminata ad ottobre e che è stata un flop. Questo nuovo reato è contenuto nell’ art n. 22
comma 12 bis del Testo Unico.
Questa è una forma aggravata del reato semplice del datore che fa lavorare alle proprie
dipendenze un lavoratore che non ha il permesso di soggiorno, contrariamente a ciò che si pensa
questo è un reato, dovrebbero esserci migliaia di procedimenti per questo ma non ce n’è
neanche uno. È un reato punito con la reclusione. Quando faccio lavorare una persona che non
ha il permesso di soggiorno, quindi in nero perché non posso regolarizzarla, e ci sono alcuni
elementi che sono il fatto che il numero di lavoratori occupati è superiore a tre oppure se i
lavoratori sono minori, in età non lavorativa è un reato aggravato, la pena è maggiore rispetto alla
pena del reato di base di chi fa lavorare senza permesso di soggiorno. Verrebbe quindi in questo
modo colmato un po’ quel vuoto che c’era fino a poco fa tra la condizione di schiavitù e il
caporalato e altre situazioni meno gravi, ma gravi comunque. Ad esempio mi riferisco ai fatti di
Castelnuovo Scrivia. Non c’è ancora stato il processo ma ci sarà. Questi fatti sono gravissimi, c’è
stata un ipotesi di riduzione in schiavitù, gli atti sono arrivati anche a Torino perché a Torino c’è la
DIA. Sono però fatti in cui quello stato di soggezione continuativa che richiede la schiavitù non c’è
perché le persone abitavano in una loro abitazione, quindi la sera ritornavano a casa loro e
giuridicamente è zoppicante come riduzione in schiavitù. Poteva entrare in questo nuovo reato, il
problema è che i fatti sono di luglio, il nuovo reato della direttiva entra in vigore il 9 agosto quindi
non è possibile applicarlo. Questo nuovo reato potrebbe coprire questo vuoto in situazioni in cui
c’è un gravissimo sfruttamento lavorativo, ma non una vera riduzione in schiavitù perché non c’è
per esempio quello stato di soggezione continuativa.
Potrebbe essere una situazione che riguarda molti laboratori di sartoria, dove magari c’è anche
riduzione in schiavitù, o altri casi in cui il vincolo tra lo sfruttatore e la vittima è fortissimo, in cui la
vittima non ha altro riferimento se non lo sfruttatore per cui continua a stare lì se no perde il lavoro
e non mangia e quindi il vincolo è sempre più pesante, ma ha una certa libertà d’azione e può
andar via o dorme da un’altra parte, magari anche solo una panchina. Situazioni del genere
rimangono un po’ scoperte, adesso il nuovo reato potrebbe colpire queste situazioni.
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Questo come quadro di repressione, ma non si può contrastare veramente una situazione di
questo genere solo con la repressione. È importantissima, c’è bisogno di apparati investigativi forti,
ma finché non viene messa in primo piano la vittima, l’interesse della vittima, è difficile fare
significativi passi avanti. Quali sono gli strumenti per rafforzare la posizione della vittima? Prima di
tutto la posizione di debolezza estrema della vittima è data dalle condizioni di lavoro in cui è e dal
fatto che il più delle volte è senza titolo di soggiorno, senza permesso, quindi la debolezza che ha
normalmente gli impedisce di muoversi liberamente, di avere contatti facilmente con gli operatori,
di far valere i suoi diritti, insomma è in una situazione in cui è molto ricattabile. Gli strumenti sono
quindi sostanzialmente due.
L'articolo 18. Il titolo dell’Articolo 18 del Testo Unico è: Il titolo di protezione sociale. Questo articolo
è forse l’unica cosa di cui ci possiamo vantare un po’ in Italia. Da questo punto di vista è un po’
rivoluzionario perché pone in primo piano la vittima. Per far avere il permesso di soggiorno per
protezione sociale ci sono due strade: il percorso giudiziario e il percorso sociale. Il percorso
giudiziario è il percorso classico cioè richiede che la vittima denunci i propri sfruttatori. A questo
punto nasce un procedimento penale nei confronti degli sfruttatori in cui l’accusa è portata avanti
dal pubblico ministero. In questo caso per arrivare al permesso di soggiorno di protezione sociale si
richiede che il pubblico ministero dia un parere favorevole. Ciò che la legge richiede alla vittima
per arrivare a questo tipo di permesso è che ci sia una situazione di violenza o grave sfruttamento.
Può bastare la violenza o il grave sfruttamento. Non si dice “sfruttamento sessuale”, l'ipotesi
abbastanza classica per cui viene applicato il permesso di protezione sociale, quindi è applicabile
anche al grave sfruttamento lavorativo. La legge richiede violenza grave sfruttamento, sessuale o
lavorativo, e in più una situazione di pericolo nella commissione di reati tra cui quello della
prostituzione (sfruttamento, favoreggiamento) e altri tra cui riduzione in schiavitù e altri che
vengono contenuti nell’articolo 380 nel codice di procedura penale, che riguarda i casi in cui per i
reati è obbligatorio l’arresto in fragranza e quindi c’è un elemento di gravità. In questo quadro si
può inserire il percorso giudiziario: la vittima fa una denuncia, nasce un procedimento penale, il
pubblico ministero deve rilasciare un parere favorevole oppure no al rilascio del permesso.
Quali sono le condizioni per cui il pubblico ministro rilascia il parere favorevole o sfavorevole?
Quello che conta non è tanto la collaborazione della vittima, in senso tecnico, cioè che la vittima
indichi gli sfruttatori, ma si richiede che sostanzialmente la vittima sia attendibile, che sia credibile
nella sua ricostruzione dimostrando in questo modo di aver tagliato i rapporti con l’organizzazione
di sfruttatori. Questo è un punto delicato molto importante che spesso viene un po’ trascurato
perché da parte della magistratura si tende un po’ ad appiattirlo verso una collaborazione vera e
propria anche se è pacifico che la legge lo intende in questo modo. C’è una sentenza del
Coniglio di stato del 2006 che è rimasta l’unica ma molto importante in tema di art.18 che ci dice
letteralmente: il permesso di soggiorno dell’art. 18 non ha carattere premiale cioè non premia un
comportamento collaborativo che porta a un risultato ma è qualcosa che va a sostenere una
vittima che ha tenuto un comportamento credibile e che ha tagliato i rapporti con
l’organizzazione. Il consiglio di stato ha portato l'esempio di una vittima che aveva reso delle
dichiarazioni che però non avevano portato all’arresto o all’identificazione degli sfruttatori quindi il
processo penale era stato archiviato e il pubblico ministero aveva dato parere sfavorevole perché
non si erano raggiunti risultati e non è stato dato il permesso di soggiorno. È stata fatta una causa
al tribunale di Firenze, tribunale regionale della Toscana che aveva dato ragione al pubblico
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ministero. A quel punto è stato fatto ricorso al consiglio di stato che ha fatto questa sentenza che è
stata l’unica, la più precisa in tema, che afferma che non ha carattere premiale. Quello che conta
è che sia credibile ed attendibile. Ci sono degli enti delle associazioni iscritte in un particolare
registro, associazioni attendibili, serie, che devono stabilire un programma rispetto alla vittima che
deve essere sottoscritto dalla vittima che deve prendere coscienza che seguirà un certo tipo di
programma e che se non lo segue viene revocato tutto. Quando ci sono parere favorevole del
pubblico ministero e adesione al programma viene dato questo permesso di soggiorno. Viene
dato come permesso di soggiorno per motivi umanitari per non rivelare, per ragioni di privacy
comprensibilissime, la situazione della vittima. Il permesso di soggiorno permette di svolgere attività
lavorativa e soprattutto permette di essere convertito, mutato, in un permesso “normale”. Il
percorso può quindi completarsi in maniera favorevole, partendo da un situazione di vittima ed
entrando in questo percorso giudiziario con parere favorevole, adesione al programma, permesso
di soggiorno, lavoro e quindi poi situazione di “normalità”.
Questo è il percorso classico: il percorso giudiziario. In realtà la più grande novità dell’art.18,
difficilmente comprensibile all’estero, è il percorso sociale previsto nei casi in cui la vittima non fa la
denuncia, quando la vittima è particolarmente debole e non ha la forza di attuare nessuna forma
di denuncia. Il caso classico sono i minori o altri casi in cui il pericolo è altissimo, la vittima devastata
dalla paura. In questi casi in cui la vittima magari prende contatto con un associazione ed è la
stessa associazione che si fa carico della storia della persona, la presenta alla questura, perché
non c’è un procedimento del pubblico ministero, richiedendo a nome della vittima un permesso di
protezione sociale. È evidente che sono casi residuali, molto particolari, ed è evidente che l’art.18
è un articolo strano perché pone sullo stesso piano attori diversi, associazioni, giudici, polizia, la
vittima. Se tutti gli attori collaborano, facendo ognuno il suo lavoro, art.18 funziona, altrimenti no.
Nel caso del percorso sociale è ovvio che diventa centrale la serietà dell’associazione che
presenta il caso davanti alla polizia, se è credibile la questura l’ascolterà in un certo modo. L’altra
questione conseguente è che molte volte il percorso sociale si trasforma in percorso giudiziario
perché la polizia in qualche modo ha degli elementi per indagare, anche se non ha nomi, e poi
perché la vittima, debolissima all’inizio, passato un po’ di tempo, rassicurata alla fine fa denuncia.
Il problema è che l’art. 18 attualmente è in una fase di grandissima regressione perché il tutto si
regge sugli attori del territorio. Nel momento in cui faccio normative sempre più repressive per
quanto riguarda l’immigrazione, non finanzio più nessun progetto, smantello l’osservatorio centrale
è chiaro che l’art.18, che si basa sul lavoro di collaborazione di ognuno con la sua presenza e
competenza, implode. Ai fini dello sfruttamento lavorativo sicuramente art.18 è applicabile perché
la legge parla di grave sfruttamento e ci sono circolari del ministero che lo ribadiscono. Non sono
molti i casi a cui è stato applicato, ma ci sono, ultimo il caso di Castelnuovo in cui non si sa ancora
bene quale sarà l’imputazione di reato per gli sfruttatori ma è già stato dato parere favorevole per
l’art. 18. È chiaro che nel caso di sfruttamento lavorativo il programma rispetto all’associazione non
ha tanto significato poiché non sono vittime da recuperare alla strada, sono vittime da recuperare
nei loro diritti fondamentali di lavoro e dignità. Comunque ci sono casi in cui le persone pur avendo
avuto l'art.18 per grave sfruttamento lavorativo hanno fatto lo stesso dei percorsi con delle
associazioni che li hanno seguiti.
C’è una novità collegata anche alla direttiva. Quando la direttiva introdusse la forma aggravata
del reato di grave sfruttamento lavorativo (devono esserci almeno 3 persone o dei minori e ci
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vogliono gli indici di sfruttamento) prevedeva che ogni stato membro prevedesse delle forme di
aiuto nei confronti della vittima, concessione quindi di un permesso di soggiorno. Questo è stato
trasfuso nel nostro sistema in maniera non ottimale e si dice che in situazioni di grave sfruttamento
lavorativo, nelle gradazioni quello più basso che non rientra né nell’art.18 perché non entra nei
reati per cui è obbligatorio l’arresto in flagranza, né nella riduzione in schiavitù, viene prevista
comunque la possibilità dietro il parere del pubblico ministero di dare un permesso di soggiorno al
lavoratore. Al lavoratore si richiede che denunci e cooperi. Il termine cooperazione non è proprio
un termine tecnico non vuol dire proprio collaborazione, significa che degli elementi li deve dare.
Sintetizzando è come si dicesse che per questo tipo di sfruttamento è possibile dare il permesso ma
c’è solo il percorso giudiziario. È una sorta di percorso giudiziario, come nell’articolo 18. È una
novità sicuramente positiva, scritta male come spesso succede nelle leggi italiane. Credo però sia
qualche cosa su cui si possa lavorare. Quindi il quadro per la tutela della vittima è art.18 e questo
nuovo art.22 comma12 quater: possibilità per il lavoratore che denuncia e coopera di avere il
permesso di soggiorno con parere anche in questo caso del pubblico ministero quindi molto simile
all’art.18.
Domanda: …molte volte non so che risposta dare, li informo però la risposta dall’altra parte è: però
io tanto non ho alternative. Allora come si può gestire una situazione del genere? Ci sono dei
consigli? delle cose ulteriori da riportare?
L.Trucco: hai toccato un nervo importantissimo e molto delicato, se sapessimo cosa fare avremmo
risolto parecchie cose e non è così, però devo dire che qualche cosa si sta muovendo. Prima di
tutto in questi casi: informazione! Rivolgersi in luoghi in cui si possono reperire informazioni. Però è
ovvio che per queste persone quello che conta molto è il dato pratico. Se io oggi non ho da
mangiare, se non ho il lavoro vado in un altro posto. Di fronte ad una situazione così non ci sono
molte risposte. Io posso raccontare la nostra esperienza, quello che stiamo tentando di fare proprio
partendo da queste situazioni estreme. A Saluzzo c’è la raccolta della frutta, si sono concentrate
persone che venivano a cercare lavoro, tra l’altro quasi tutte avevano il permesso, creando anche
qualche problema di ordine pubblico perché c’era anche la questione della festa patronale. La
reazione è stata di vario tipo però ha portato qualche piccola conseguenza positiva.
Riassumendo: abbiamo creato un contatto forte con Terramadre e Slow Food. Quando c’è stato
Terramadre abbiamo tenuto una conferenza su questo tema facendo venire dei gruppi da
Rosarno, dei gruppi dalla Puglia, Yvan Sagnè ed altre esperienze. L’idea è un po' utopica però non
credo sia irrealizzabile. Io so che se compro l’arancia questo dev’essere da un lato un frutto
coltivato dal punto di vista biologico correttamente però ovviamente non deve essere stato frutto
di sfruttamento di esseri umani. Il salto sarebbe cercare di trasformare questo in una risorsa, poter
usare le normative. Non è facile ma si è aperta un finestrella. Usare questo come risorsa significa
che se io vado a coltivare l'arancio x cerco di coltivarlo correttamente cercando di tirare via da
una situazione di sfruttamento delle persone con questa tipologia offrendogli poi materialmente
del lavoro, quindi trasformandolo in una risorsa. Questo discorso sta andando avanti, la settimana
scorsa c’è stato un incontro con Slow Food, Carlo Petrini ha dato un appoggio a questo tentativo
ancora da specificare. L'idea era di provare qualcosa un po’ all’avanguardia in un territorio come
quello saluzzese in cui le condizioni sono diverse, provarlo a Rosarno ha delle difficoltà enormi di
pericolo. A Terramadre è venuto l’assessore (di Saluzzo), una donna molto disponibile al dialogo.
Durante l’incontro c’è stato anche qualche battibecco tra qualche ragazzo africano della zona di
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Saluzzo e l’assessore, che poi sono andati via assieme perché c’è conflittualità ma c’è anche
voglia di agire. Quello che cercheremo di fare coinvolgendo un po’ tutte le autorità è prepararsi
per la nuova raccolta affinché vengano meno tutte le condizioni di sfruttamento che a Saluzzo
non ci sono mai state ma avrebbero potuto perché basta che gli agricoltori facciano un cartello e
la cosa finisce lì. D’altra parte ci sono anche i problemi dell’impresa agricola, difficoltà di stare sul
mercato per dei costi che sono proibitivi. Prendiamo ad esempio quello che è successo a Nardò.
Quello che aveva portato al cambiamento aveva portato anche, primo caso in Italia, a fare un
protocollo con la Prefettura di Lecce in cui si indicava un elenco di aziende virtuose che si
impegnava ad assumere a determinate condizioni e ad assumere lavoratori che erano in un a
sorta di lista di collocamento con pagamenti che fossero legali. Partendo da questa esperienza il
nostro tentativo sarebbe riuscire a realizzare una situazione analoga, anzi un po’ più in là. Secondo
me bisogna cercare di “premiare” l’azienda virtuosa. C’è anche un problema di concorrenza
sleale: se io non pago niente ai miei dipendenti è chiaro che guadagno molto di più di chi invece
paga i contributi. Si tratta di dare un riconoscimento a queste aziende che potrebbe essere dato
attraverso una sorta di marchio di qualità (già in molti giocattoli è scritto: questo giocattolo non è
stato costruito tramite sfruttamento del lavoro minorile). E poi, lavorando in rete, aprire anche dei
mercati, dare insomma un riconoscimento all’azienda per incentivarla a seguire una via di legalità
tirando fuori dall’illegalità parecchie persone. C’è una situazione un po’ particolare
nell’agricoltura, ci sono dei dati precisi della regione Piemonte e della provincia di Torino che
l’agricoltura è assolutamente in controtendenza, non si sa se sarà un dato stabile, cioè sta
aumentando la produzione e sta assumendo e in più si sta aprendo tutto il panorama
dell’agricoltura sociale, quella forma di agricoltura che riguarda categorie di vulnerabili. C’è un
bel progetto di legge regionale in Umbria che premia proprio queste forme di agricoltura sociale e
ci sono dei progetti europei che sostengono queste iniziative di agricoltura sociale con progetti
abbastanza all’avanguardia per minori, anziani ecc. Si tratta quindi di aprire con un approccio
integrato. Non è una cosa semplice ma è una cosa su cui credo valga la pena impegnarsi. Dieci
giorni fa abbiamo organizzato su questo tema, con il gruppo Abele, un incontro di lavoro in cui per
la prima volta c’erano da un lato la procura della Repubblica, la questura ufficio immigrazione, la
polizia i carabinieri, la guardia di finanza poi l’agenzia delle entrate la CGIL, la, CISL, la UIL, l’IMPS,
una serie di attori diversi ovviamente ognuno con un ottica diversa. Mi ha molto colpito il fatto che
tutti i soggetti a cui abbiamo più o meno prospettato questo percorso erano tutti molto d’accordo
e con voglia di fare
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Undicesimo
4 dicembre 2012
Incontro
Titolo
Progettazione: leggere il territorio, scegliere gli obiettivi, rispondere ai
vincoli
Relatori
Michele Manocchi, Cristina Molfetta, Simona Sordo
Traccia 1 - Gruppo di lavoro per l’organizzazione della giornata mondiale sui rifugiati (Michele)
Avete 2.000,00 euro di budget.
La Giornata cade il 20 giugno di ogni anno.
Noi non vogliamo che sia un momento sterile e limitato ad una giornata ma vorremmo che fosse
un’occasione per:
4. ripercorrere il cammino dell’ultimo anno che i vari soggetti coinvolti nella nostra rete hanno
intrapreso;
5. individuare i punti di forza e di debolezza delle attività svolte o più in generale del sistema di
intervento adottato;
6. individuare gli attuali bisogni di richiedenti asilo e rifugiati, ma anche del sistema di
accoglienza adottato, e proporre eventuali strategie, suggerimenti, sviluppi.
Il target a cui vogliamo rivolgerci discutendo di questi temi è composto dai decision makers (politici
e tecnici), dagli stakeholders (locali e nazionali) e naturalmente dai protagonisti delle attività svolte
nell’ultimo anno.
Vogliamo, inoltre, che la Giornata sia un momento per le comunità di rifugiati (intendendo con
questo coinvolgere le comunità dei loro connazionali), ma avendo pochi soldi dobbiamo contare
sulle loro risorse e capacità organizzative interne. Noi possiamo gestire spazi e momenti e lavorare
con esse per rendere i temi trattati e le modalità di esposizione uniformi e armoniche tra loro.
Nel vostro progetto dovete indicare:
D. decision makers da coinvolgere, e come;
E. stakeholders da coinvolgere, e come;
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F.
le varie attività che proponete per la giornata, e per ciascuna di esse:
a. persone/enti coinvolti;
b. target di riferimento e strategie per raggiungerlo;
c. budget;
d. luoghi.
Inoltre, dovete porre molta cura agli aspetti amministrativi e logistici, in termini di:
-
eventuali permessi per il suolo pubblico o per la musica;
-
prenotazione per tempo degli spazi;
-
eventuale richiesta per tempo di patrocini o partecipazione da parte di enti speciali o di
personalità;
-
e in generale, stabilire i ruoli all’interno del gruppo di organizzatori dell’evento, indicando
chi, fa cosa, quando e come.
Traccia 2-
Formazione linguistica
ed acquisizione di strumenti di conoscenza del contesto
(Simona)
Ad un gruppo di operatori appartenenti ad una cooperativa sociale e ad un’associazione locale
viene chiesto di progettare e programmare un percorso sulla formazione linguistica e sulla
conoscenza del contesto (inteso anche nelle sue componenti sociali e culturali), dei suoi servizi,
delle sue risorse e delle sue reti per 7 destinatari. Si tratta di persone con storie e profili differenti:
-
giovane donna somala analfabeta con protezione sussidiaria, con un minore a carico.
Seppure in Italia da due anni e a Torino da 6 mesi, mostra grosse difficoltà nella
comprensione e nell’utilizzo della lingua italiana, fatica ad orientarsi e muoversi in
autonomia sul territorio;
-
uomo eritreo di circa 45 anni, con protezione sussidiaria, da 6 mesi in Italia, ex autista in
patria, disponibile alla relazione e alla formazione, ma scarsamente reattivo;
-
giovane congolese laureato in psicologia nel proprio paese, arrivato in Italia un anno fa e a
Torino da un solo mese, carico di aspettative rispetto a quello che potrebbe offrirgli Torino
dopo una deludente esperienza a Roma;
-
famiglia composta da madre, padre e due bambini, tutti richiedenti, in attesa di risposta da
parte della commissione, arrivano dal Bangladesh, sono a Torino da 3 mesi, dopo essere
stati nel nord-est ed essersi appoggiati per 6 mesi a connazionali presenti in Veneto;
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-
giovane somalo alfabetizzato, ma senza formazione tecnica, con protezione sussidiaria, da
tre anni in Italia; pur avendo svolto diversi tirocini, le sue competenze linguistiche appaiono
però appena sufficienti a risolvere questioni di prima necessità;
-
due giovani somale con protezione sussidiaria, cugine, alfabetizzate, entrambe con
diploma in patria; ricevono forti pressioni dalle loro famiglie, sono a Torino da 8 mesi e si
presentano particolarmente ostili e diffidenti.
Il gruppo di operatori dispone di un periodo di 9 mesi in cui progettare, svolgere, monitorare e
valutare le attività realizzate. Dispone di un budget di 1000 euro a persona (che diventa di 2000
euro nel caso della coppia).
Nella progettazione delle attività si invita il gruppo a porre estrema attenzione alle modalità di
apprendimento delle persone, alle resistenze che i soggetti possono mettere in campo e a come
fronteggiarle, al ruolo che possono giocare le comunità di appartenenza presenti a livello locale
nelle scelte e negli agiti delle persone.
Traccia 3- Progettare percorsi di sensibilizzazione, informazione e formazione in tre territori del
Piemonte
Unire la rete delle persone (operatori richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale), a
quella delle risorse, e del territorio. (Cristina)
Hai circa 5.000 Euro a disposizione da usare nell’arco di 9 mesi e i territori in cui devi immaginare le
azioni sopraccitate sono tre:
la città di Torino (dove lavorano 3 operatori e ci sono 7 studenti universitari con protezione
internazionale seguiti dal progetto) ,
Biella dove ci sono tre operatori(due del posto e uno di Torino) e 10 persone con protezione
internazionale seguite dal progetto che stanno facendo un percorso per aprire delle attività in
proprio (siano esse partite IVA, piccole imprese o cooperative)
Ivrea sempre con tre operatori (due del posto e uno di Torino) e 10 persone con protezione
internazionale seguite dal progetto che prova ad aiutarle nella fase del ricongiungimento familiare
o per cercare lavoro o per mettersi in proprio.
Gli studenti universitari con protezione internazionale sono a Torino da qualche anno e parlano già
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abbastanza bene l’italiano, le 10 persone a Biella sono sul territorio provinciale da circa un anno e
parlano abbastanza l’italiano e lo stesso le 10 persone con protezione internazionale ad Ivrea
Che azioni/iniziative pensate che sia importante fare in ogni territorio per informare i territori del
percorso che si sta provando a fare ma anche più in generale su chi sono i richiedenti asilo, rifugiati
e titolari i protezione internazionale? Che ruolo possono giocare gli operatori e le persone con la
protezione internazionale?
Che azioni/iniziative pensate che sia importante fare per provare non solo ad informare
genericamente il territorio ma più specificatamente le realtà che potrebbero contribuire alla
riuscita del percorso di autonomia in cui sono coinvolti le persone con la protezione internazionali?
(quali sono queste realtà in ogni territorio che ti vengono in mente?)
Che ruolo possono giocare rispetto a queste azioni gli operatori e le persone con la protezione
internazionale?
Esiste un sito un cui è possibile inserire sia le informazioni sugli eventi azioni che state pensando che i
risultati del progetto in ogni territorio come lo usereste?
Sul sito e anche attraverso gli operatori del singoli territori arrivano segnalazioni rispetto a persone
volontari più o meno giovani che da una parte richiedono informazioni sulle persone presenti sul
territorio dall’altro offrono una disponibilità di tempo per aiutare le persone e il progetto, come
potete al meglio rispondere alle loro richieste e utilizzarli come risorsa?
Provate a pensare non ogni singolo territorio come una realtà a se stante , ma i tre territori come un
unico sistema in cui se si pensa un’azione o un’iniziativa si prova a trovare la maniera migliore di
ottenere il massimo dei risultati nei tre territori ottimizzando i costi, e limitando gli spostamenti
Presentazione lavori di gruppo
Gruppo 1: Organizzazione delle celebrazioni per la Giornata Mondiale del Rifugiato 2013
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Breve presentazione del progetto: organizzare la giornata del 20 giugno con un budget di 2.000
euro. La richiesta era che non fosse una giornata sterile e limitata ad una giornata, ma
un’occasione per
- Ripercorrere il cammino dell’ultimo anno che i vari soggetti coinvolti hanno intrapreso;
- Individuare punti di forza e di debolezza delle attività svolte e del sistema di intervento
adottato;
- Individuare gli attuali bisogni di richiedenti asilo e rifugiati, del sistema di accoglienza
adottato, e proporre strategie, suggerimenti, sviluppi.
Durata dell’evento: le attività inizieranno il 30 febbraio 2013, e culmineranno nella settimana
conclusiva dal 15 giugno al 24 giugno.
Fasi del progetto:
In una prima fase di tipo organizzativo, che si prolungherà lungo tutto il periodo di svolgimento
delle attività prese in considerazione, si promuoverà l’evento attraverso diverse modalità
pubblicitarie. In particolare sono state considerate
- Il “volantino-agenda”, ovvero un volantino pubblicitario che sul retro abbia uno spazio
considerato utile per chi riceve il volantino e che lo invogli a non liberarsene;
- Le radio minori, cioè una pubblicità che passi attraverso i canali radio di circoscrizione o
comunque di organizzazioni minori, al fine di raggiungere in maniera capillare il maggior
numero di ascoltatori;
- La newsletter di Informagiovani e del Comune di Torino, che vengono automaticamente
inviate a tutti gli iscritti, per raggiungere i giovani;
- Facebook ed in generale i diversi links che possano avere un collegamento con l’evento in
questione, in modo da utilizzare anche il mezzo internet.
- Si è pensato a proporre un’eventuale collaborazione con il gruppo del Bike Pride, che
organizza una giornata di festa nella prima metà del mese di giugno. Si potrebbe loro
proporre di installare sulle biciclette una pubblicità di tipo cartaceo.
- Per i costi dei volantini, ci si appoggerà al CesVol di Idea Solidale di Torino, che permette la
stampa di diversi volantini formato cartaceo a costo zero per le organizzazioni senza
obiettivi di lucro.
In una seconda fase, si svolgeranno le diverse attività con dei tempi maggiormente dilazionati nel
tempo. A livello di permessi e partecipanti,
- Entro il 31 gennaio dovranno esser stati identificati finanziatori e sostenitori dell’evento;
- Entro il 30 aprile si dovrà essere in possesso dei permessi necessari per lo svolgimento delle
attività.
Le diverse attività nello specifico riguardano un concorso fotografico, una mostra fotografica,
un dibattito di esperti ed un convegno di taglio più accademico.
Attività
Descrizione
Concorso
fotografico “In
viaggio verso
l’accoglienza”
Promosso e
divulgato
attraverso
social networks
(Facebook,
Twitter) e links
connessi a
NonSoloAsilo
Persone/enti
Target
coinvolti
Associazioni
Rifugiati e
migranti,
cittadinanza.
volontari,
partecipanti al
concorso.
Budget
Luogo
Autofinanziamento Torino
con contributo da
parte dei
partecipanti di 3
euro per ogni foto
a concorso.
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Periodo
Dal 30
febbraio al
30 marzo
Laboratorio interdisciplinare sul diritto d’asilo
(Vie Di Fuga,
…).
Mostra
fotografica
itinerante
Convegno
“Rifugiati: per
saperne di
più, per fare di
più”
Dibattito “I
nostri passi”
Partecipazione
con al massimo
3 foto a
persona.
Esposizione
Volontari,
Cittadinanza Richiesta
itinerante delle partecipanti al
preventiva al
fotografie
concorso.
CesVol Idea
vincitrici del
Solidale di Torino
concorso
per poter usufruire
fotografico. I
di un furgoncino
primi 3
per poter spostare
classificati in un
le fotografie nei
posto
diversi luoghi e di
privilegiato.
impalcature per
l’esposizione.
Confronto
accademico
per
sensibilizzare gli
studenti
universitari e
ricercare
eventuali
volontari per
l’organizzazione
della giornata
attraverso
incontri con
docenti e
ricercatori
universitari,
presenza di
persone
rifugiate
disponibili a
raccontare la
loro esperienza.
Accoglienza,
esperienze
pregresse e
prospettive per
il futuro
attraverso i
racconti sia dei
rifugiati che
degli operatori.
Stazione P.
Susa e
P.Nuova,
lungo Po
(Murazzi),
Centro
Interculturale,
P.zza San
Carlo.
Docenti,
Rifugiati,
ricercatori e
studenti,
dottorandi che cittadinanza,
abbiano svolto
studi sul tema
dei rifugiati in
Italia, rifugiati,
Rastello
La Fabbrica
delle E
(Gruppo
Abele).
Istituzioni e
associazioni
locali
interessate al
fenomeno.
La Fabbrica
delle E
(Gruppo
Abele).
Rifugiati e
150 euro.
cittadinanza,
volontari.
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Richiesta
al CesVol
Idea
Solidale
entro fine
aprile.
Esposizione
dal ..? al
31
dicembre.
20 aprile,
dalle h
18,00.
20 giugno,
dalle h
21,00.
Laboratorio interdisciplinare sul diritto d’asilo
Confronto fra
esperti del
settore,
intervallato da
letture e
spezzoni
musicali.
Proiezione di
eventuale
materiale
prodotto
nell’ambito
delle attività sul
territorio
(documentario
prodotto dal
Gruppo 3) o
con i rifugiati.
Rappresentanti
dei diversi enti
inclusi nel
percorso dei
rifugiati in Italia
(SPRARR,
CARA, CIE, …).
Artisti
disponibili a
collaborare a
titolo di
volontariato
per letture e
spezzoni
musicali.
Il 23 giugno 2013
La terza fase sarà quella dedicata alla giornata del 23 giugno, scelta come momento culminante
dell’evento in quanto cade nel fine settimana; sono state previste diverse attività sul territorio
torinese in modo da promuovere dei momenti di partecipazione che includano sia i cittadini che i
rifugiati.
Le attività prese in considerazione nel corso della giornata sono state:
- Animazione per bambini, giochi ed attività ludiche per adulti: la struttura presa in
considerazione è stata quella dei Bagni Pubblici in via Morganti, San Salvario; le attività
saranno gestite ed organizzate in collaborazione fra rifugiati e volontari, al fine di
promuovere una giornata di confronto e gioco condiviso. Costo previsto: 100 euro
(materiali).
-
Concorso di cucina: a seguito di una spesa collettiva presso il mercato di San Salvario, si è
pensato di proporre sempre nella struttura dei Bagni Pubblici un momento di condivisione
culinaria in cui ognuno potrà cucinare ciò che preferisce. La sera sarà prevista una cena
sociale nel corso della quale si consumeranno i cibi cucinati nell’arco del pomeriggio.
Costo previsto: 350 euro (130 euro per la cucina e la sala utilizzabili dalle 9.30 alle 15.30 con
attrezzi e stoviglie dell’Associazione Biloba presso via Fuscaro, Torino; 220 euro per gli
alimenti).
-
Concerto: per la sera, a partire dalle h 18.00, sono previsti in piazza Carlo Alberto come
chiusura dell’evento una serie di concerti di gruppi musicali minori sensibili al tema (quali i
Sans Papier, …) e gruppi nati da percorsi musicali svolti sul territorio all’interno delle strutture
di accoglienza in seguito all’ “Emergenza Nord Africa”. Costo previsto: 1100 euro (300 euro
SIAE + 800 euro attrezzatura concerto e organizzazione).
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Titolo dell’evento: il tema proposto per questo anno è “In viaggio verso l’accoglienza”, con un
focus particolare dallo sbarco fino alla situazione attuale, mettendo l’accento sul post “Emergenza
Nord Africa”.
Considerazioni a seguito dell’incontro di presentazione
- A causa di questioni organizzative, non sono stati presi in considerazione diversi aspetti di
tipo logistico; in particolare, non è stato calcolato il costo del suolo pubblico. Avendo un
disavanzo di 300 euro rispetto ai 2.000 di budget previsti, abbiamo ipotizzato che questa
cifra possa coprire questa spesa. La mancanza di costi legati alla manodopera è
imputabile al fatto che alcuni membri del gruppo appartengono ad organizzazioni di
volontariato caratterizzate dall’alta presenza di partecipanti non pagati in cittadine di
molto inferiori alla realtà torinese.
- Rispetto alla proposta avanzata da Michele di proporre agli stessi partecipanti al concorso
fotografico un momento di in/formazione rispetto alla realtà dei rifugiati sul territorio, si è in
seguito pensato di proporre in alternativa al Concorso Fotografico una Maratona
Fotografica, promossa con i medesimi mezzi. La Maratona Fotografica si svolge all’interno
di un’unica giornata, nel corso della quale tutti i partecipanti si trovano in un luogo
prestabilito con gli organizzatori, ricevono i temi o le parole chiave che dovranno essere i
soggetti di ogni scatto e devono entro la fine della giornata proporre una foto per ogni
tema scattata entro la sera. Un approccio di questo tipo permetterebbe un incontro
introduttivo e uno conclusivo con i partecipanti, permettendo in questo modo di usufruire
anche di un tempo per l’in/formazione.
N.B.:tariffa COSAP per occupazione temporanea del suolo pubblico nella città di Torino
(occupazione inferiore all’anno o rinnovata in modo periodico)
La tariffa base per l'applicazione del canone di occupazione spazi ed aree pubbliche a carattere
temporaneo è di Euro 0,280 per ogni metro quadrato o lineare, al giorno. Vengono applicati
coefficienti diversi a seconda della tipologia dell'occupazione. Nel nostro caso sia la mostra
fotografica che il concerto rientrerebbero sotto la voce “Manifestazioni, eventi, attività
promozionali, riserve di parcheggio e altre tipologie di occupazione temporanea di suolo pubblico
non precedentemente indicate”
.La domanda andrebbe presentata alla Direzione Servizi Tributari, Catasto e Suolo Pubblico Settore Concessioni Occupazioni Temporanee di Suolo Pubblico (COTSP) con sede in Corso
Racconigi, 49 piano IV, ufficio n.418. Non è invece altrettanto chiaro quale coefficiente debba
essere applicato (http://www.comune.torino.it/cosap/temporanea).
Gruppo 2 – Formazione linguistica ed acquisizione strumenti di conoscenza del contesto
1. CAMPO DI INTERVENTO: percorso di formazione linguistica e di approfondimento del contesto
sociale e culturale italiano, attraverso la conoscenza dei servizi, delle risorse e delle reti del territorio
di Torino.
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2. BENEFICIARI PRINCIPALI: 1 donna somala con minore a carico, 1 uomo eritreo, 1 giovane
congolese, 1 famiglia (madre, padre e 2 bambini) del Bangladesh, 3 giovani somali (1 ragazzo e 2
ragazze)
3. DURATA DEL PROGETTO: 9 mesi
4. DATA POSSIBILE INIZIO PROGETTO: gennaio 2013
5. DATA POSSIBILE FINE DEL PROGETTO: ottobre 2013
6. FASI DEL PROGETTO: il percorso prevede l’attivazione di 3 differenti moduli formativi, che si
realizzeranno attraverso incontri di gruppo ed individuali.
I moduli tratteranno principalmente tre macro-argomenti : servizi, casa e lavoro.
I primi due moduli avranno una durata di 3 mesi ciascuno e coinvolgeranno i partecipanti per un
totale di 24 incontri.
L’ultimo si svolgerà in maniera trasversale e sarà strutturato con incontri periodici suddivisi per
l’intera durata del progetto (9 mesi).
7. FONDI RICHIESTI A: Comune di Torino/ Regione Piemonte
8. BUDGET: 1.000 euro a persona
9. RAPPORTI E VALUTAZIONE DEL PROGETTO:
10. RISULTATI ATTESI DAL PROGETTO:
Il progetto si propone di facilitare i partecipanti, nella costruzione di percorsi e progetti di vita,
attraverso la conoscenza del territorio torinese e dei suoi servizi. Inoltre dando loro l’opportunità di
acquisire competenze linguistiche (generiche e specifiche) che possano permetter loro di orientarsi
nella ricerca di opportunità adeguate ai loro bisogni, quali, ad esempio la ricerca della casa e del
lavoro, l’educazione dei figli, servizi sanitari ecc. I punti elencati sono quelli che costituiscono le
linee generali del progetto, sulle quali ci siamo basate per strutturare i tre moduli.
11. PARTNERS
Si collaborerà con enti ed associazioni che operano sul territorio torinese, nei diversi ambiti (CTP,
ASAI, ASL ed ambulatori, agenzie interinali, ufficio per l’impiego, agenzie per ricerca immobili es.
LOCARE, sportelli di informazione...) e con mediatori culturali.
PANORAMICA GENERALE
INTRODUZIONE AL PROBLEMA CHE SI VUOLE AFFRONTARE:
Progettare e programmare un percorso sulla formazione linguistica e sulla conoscenza del
contesto (inteso anche nelle sue componenti sociali e culturali), dei suoi servizi, delle sue risorse e
delle sue reti per 7 destinatari.
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DESCRIZIONE DELL’ASSOCIAZIONE PROMOTRICE DEL PROGETTO (REFERENTI) E DEI PARTNERS
COINVOLTI (SE CI SONO): gli operatori direttamente coinvolti nella progettazione e realizzazione
del percorso, appartengono ad una cooperativa sociale e ad un’associazione locale.
Si coinvolgeranno inoltre, mediatori culturali, rappresentanti di enti locali per fornire informazioni
specifiche riguardanti servizi del territorio e/o operatori di enti, agenzie ed associazioni che
forniscono corsi specifici o informazioni sugli argomenti trattati.
OBBIETTIVI DEL PROGETTO:
1. favorire l’inserimento dei destinatari nel tessuto sociale e migliorare la loro autonomia sul territorio
2. supportare i destinatari nella ricerca di casa, lavoro e servizi sul territorio
3 migliorare l’autostima dei partecipanti, la loro capacità di problem solving, la capacità di
fruizione dei servizi, aumentare la loro consapevolezza di capacità/competenze/conoscenze reali
e da acquisire
4. favorire l’apprendimento della lingua italiana
5. facilitare la mobilità sul territorio
BENEFICIARI DEL PROGETTO:
DIRETTI: 1 donna somala con minore a carico, 1 uomo eritreo, 1 giovane congolese, 1 famiglia
(madre, padre e 2 bambini) del Bangladesh, 3 giovani somali (1 ragazzo e 2 ragazze).
INDIRETTI: Famigliari/amici dei soggetti direttamente coinvolti.
METODOLOGIA E DESCRIZIONE DELLE ATTIVITA’ DEL PROGETTO:
Il progetto prevede tre fasi differenti di formazione: servizi, casa e lavoro. Qui di seguito il
programma dettagliato dei tre moduli:
MODULO SERVIZI:
Il modulo dedicato alla conoscenza dei servizi di realizzerà in 12 incontri a cadenza settimanale
della durata di tre ore circa, per un totale di 36 ore da utilizzare in tre mesi. Gli incontri saranno per
la maggior parte di gruppo, fatta salva la possibilità di erogare eventuali incontri individuali in caso
di necessità specifiche .
L’intervento del mediatore linguistico è previsto in due incontri, ma potrebbe essere più frequente
in base alle esigenze dei migranti a cui ci si rivolge.
1’ incontro: introduzione del gruppo di lavoro, degli operatori e degli obiettivi del progetto.
Incontro dedicato inoltre alla conoscenza reciproca.
2’ incontro: presentazione del contesto italiano in materia di politiche migratorie e di alcuni diritti
del rifugiato politico. Questo incontro sarà realizzato con la presenza di un mediatore culturale.
3’ incontro: primo approccio linguistico agli ambiti che verranno approfonditi durante tutta la
durata del progetto. Anche questo incontro sarà realizzato con la presenza di un mediatore
culturale.
Presentazione dei CTP e delle associazioni che si interessano della formazione linguistica e dell’
“integrazione”del migrante, anche in vista del conseguimento di eventuali certificati (licenza
media, CILS…).
4’ incontro: visita ad un CTP e/o ad un’associazione che si occupi di “integrazione” dei migranti e
formazione linguistica (es. ASAI).
5’ incontro: individuazione delle strutture sanitarie utili (ospedali, asl, agenzia delle entrate per
l’ottenimento del tesserino sanitario…) sul territorio della città e formazione linguistica di base in
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ambito sanitario. Si ipotizza per tale incontro, di suddividere i migranti in uomini e donne e di
effettuare due riunioni separate.
6’ incontro: uscita collettiva ad una Asl, o ad un qualche ambulatorio presente nel quartiere
(anche un consultorio).
7’ incontro: i servizi utili ala ricerca del lavoro sul territorio della città. Presentazione dei diversi
luoghi a cui rivolgersi (agenzie interinali, ufficio per l’impiego etc) e di una formazione linguistica di
base in merito a tale tema (es. nomi dei vari mestieri, lettura di qualche curriculum, riferimento
all’esistenza di vaucher lavorativi…)
8’ incontro: uscita collettiva in un’agenzia interinale e/o all’ufficio per l’impiego, e/o ad una
cooperativa.
9’ incontro: presentazione di servizi “formativi”, come scuole professionali, o corsi organizzati dalla
regione/ comune e rivolti alla formazione professionale. Presentazione, inoltre, dei servizi all’infanzia
( scuole materne ed asili nido)
10’ incontro: uscita collettiva ad una scuola professionale e ad una struttura rivolta ai bambini.
11’ incontro: individuale, per rispondere ad eventuali esigenze personali dei migranti.
12’ incontro: conclusione del ciclo di incontri, feedback da parte dei migranti.
MODULO CASA:
Il modulo si articolerà in 12 incontri complessivi, principalmente dii gruppo con alcuni momenti
individuali.
Un primo incontro sarà volto alla presentazione del modulo, alla conoscenza tra partecipanti e
operatrici, alla valutazione delle aspettative rispetto alla proposta. Verranno mostrati alcuni
progetti simili e presentati alcuni stimoli per introdurre il tema casa e verranno raccontate altre
esperienze simili (filmati, racconti, testimonianze.. etc.), mentre l’ultimo incontro sarà
sostanzialmente di verifica delle attività svolte e di raccolta dei feed back da parte dei
partecipanti.
I temi che saranno affrontati in modo trasversale nel corso degli incontri sono così riassumibili:
1.
Riflettere intorno al concetto di casa, alle rappresentazioni dello spazio quotidiano e come
queste prendano forma nelle pratiche quotidiane:
Ø
quali sono gli elementi che le persone portano con sé, spostandosi e migrando, e che le
fanno sentire “a casa”
Ø
in che modo possiamo ritrovare questi elementi o trovarne di nuovi nel nuovo contesto
abitativo
In questo tema si intende lavorare sul concetto di casa inteso come spazio quotidiano, ma anche
come territorio. Qui di seguito alcuni spunti di discussione che saranno offerti ai partecipanti :
Spazio quotidiano: casa come abitazione, spazio fisico; casa come relazioni, coabitare ospitare ed
essere ospiti, convivere; casa come nutrimento, come cibo e cucina (laboratorio: cucina il “piatto
della Tua casa”); casa come abitudini, come divisione del tempo e dello spazio; casa come
memorie, ricordi e desideri; casa come famiglia (bambini/e, mariti e mogli, parenti e amici)
Territorio: casa come comunità, quartiere, città e paese, attraversando le diverse dimensioni del là
(da dove arrivo), del qui e ora ( Torino, quartiere) dei luoghi che ho attraversato prima di
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approdare qui. Casa come rete e insieme di reti a cui fare riferimento, da costruire, casa come
insieme di significati che cambiano e attraversano il tempo prima, ora, dopo (il futuro)
2.
Supportare i destinatari del progetto nella ricerca di un alloggio, conforme alle esigenze e
urgenze che verranno sollevate dagli/dalle stessi/e destinatari/e e rilevate dalle operatrici.
Ø
Come si cerca casa a Torino (cosa offre il territorio):
presentazione dei servizi offerti dal Comune di Torino e Provincia e incontro con istituzioni
(LOCARE)
L'offerta del Mercato Privato (come accedere, come e dove cercare)
L'offerta del Terzo settore: organi religiosi e associazioni
l'offerta e le esperienze di realtà alternative: il cohousing, le comunità, le case occupate
Casa quando non hai casa: i percorsi di assistenza, i progetti di prima e seconda
accoglienza
Comprare casa o terreno (costruire casa)
Ø
Come si cerca casa ( cosa posso fare io)
Incontro dedicato con agenzie, sportelli, sindacati, associazioni
i criteri e le modalità per chiedere una casa popolare
Cercare casa su internet: le parole chiave da sapere, come leggere e cercare gli annunci,
come caricare un annuncio, come riconoscere le false proposte.
3. Il cibo
Il cibo è un aspetto fondamentale nella vita e nel ricordo per tutte le persone. Nel corso del
modulo i partecipanti avranno la possibilità di raccontare un cibo della loro infanzia, individuarne
gli ingredienti, cercare i luoghi dove questi possono essere comprati e, nel corso dell’ultimo
incontro, organizzare un momento collettivo di cucina e di cena comune.
3. Trasversalmente questo percorso favorirà l'apprendimento dell'italiano, attraverso la riflessione e
la lettura di nuovi e vecchi significati e rappresentazioni individuali e collettive dell'abitare: il
percorso prevederà principalmente momenti di riflessione e attività laboratoriale comune,
attività manuali, altri momenti invece saranno separati in virtù delle competenze linguistiche di
base, ovvero tra chi ha avuto una scolarizzazione anche basica e chi no (analfabetismo).
MODULO LAVORO:
Progetto sui nove mesi:
1-Primo incontro collettivo : presentazione del progetto.
Sarà un progetto di nove mesi, l'obiettivo è dare gli strumenti per sapersi muovere nel mondo del
lavoro.
Richiesta: cosa si aspettano i migranti dal progetto, quale aiuto vorrebbero dagli operatori.
2-è un incontro individuale.
Conoscenza della persona: racconto di sé.
Risposta alla domanda fatta nel precedente incontro—aspettative.
Operatori---si farà una valutazione sulla ricettività della persona e le sue aspettative, calibrando poi
gli incontri successivi sulla persona.
Richiesta: riportare le esperienze lavorative passate nel proprio Paese o in Italia, con eventuali
documenti più formazione e possibili certificati.
3-Incontro individuale
racconto delle esperienze.
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Cosa trai da queste esperienze?
Cosa sai fare?
Cosa vuoi fare?
4-dopo il racconto di esperienze, si colloca l'aspettativa espressa nel contesto italiano. Valutazione
della fattibilità delle sue aspettative/capacità.
5- incontro con realtà lavorative affini alla prospettiva che ci si è dati.
Operatori: ricerca di professionisti disposti a ciò.
Testimonianze di lavoratori.
6-incontro individuale.
Riconoscimento titoli.
7-Comprensione di che cosa è il curriculum, a cosa serve.
Richiesta: curriculum, analizza il curriculum e immagina cosa inserire.
8-discussione elaborazione degli elementi da inserire nel curriculum.
9-simulazione di un colloquio di lavoro per valutare se il curriculum è compreso dalla persona.
Come si gioca l'incontro?? La relazione??? sfruttare servizi (centro per il lavoro).
10- Valutazione di quel che è stato il colloquio.
Ed eventuali consigli.
Spiegazione dei modi di porsi.
Giochiamo sulla pratica.
Possibile attività di gruppo.
Modulo finale di 6 incontri. Ricerca attiva del lavoro:
comprensione degli annunci
ricerca su internet
comprensione dei giornali
utilizzo della rete esistente per la conoscenza del lavoro
consegna di curriculum accompagnato, da solo.
RISULTATI ATTESI (INDICATORI DEI RISULTATI):
- processo di inserimento nel tessuto sociale locale avviato da parte dei destinatari, ognuno a
seconda delle proprie caratteristiche e della propria storia personale;
- destinatari formati e informati sulle opportunità del territorio in materia di casa, lavoro e servizi;
- destinatari supportati nel miglioramento e il rafforzamento dell’autostima; sulla base di ciò, si
influisce anche sulla capacità di problem solving e, conseguentemente, sulle modalità di
interfaccia con i servizi e fruizione degli stessi;
- miglioramento delle capacità di espressione e comprensione in italiano;
- aumento del grado di autonomia nella mobilità sul territorio.
EVENTUALI ALTRE RISORSE (PARTNERS/RISORSE UMANI O STRUTTURALI) DEL TERRITORIO CON CUI SI
COLLABORA:
Nella realizzazione del progetto sarà fondamentale mettersi in rete con le risorse istituzionali e non
presenti sul territorio. In particolare verranno costruiti collegamenti e organizzati incontri di
conoscenza con il mondo della scuola, i servizi per il lavoro e i servizi socio assistenziali della città.
PUNTI DI FORZA DEL PROGETTO:
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Il progetto mira alla ricerca di un rapporto diretto e il più personale possibile con ogni singolo
destinatario, al fine di favorire i soggetti nel raggiungimento dei diversi obiettivi e di costruire un
percorso che risponda alle loro esigenze.
Inoltre verrà fornito, un gettone presenza di circa € 500 a persona, per motivare alla partecipazione
attiva.
Un altro aspetto positivo è rappresentato dall’accompagnamento dei destinatari, ad incontri con
altri enti e strutture, per favorire la mobilità sul territorio e cercare di dare risposte più concrete.
PUNTI DI DEBOLEZZA DEL PROGETTO:
Una criticità del progetto può essere la difficoltà a tenere agganciate le persone ad un percorso
della durata di 9 mesi che non può offrire soluzioni concrete ai problemi che le persone stanno
affrontando; a questo si può aggiungere la scarsa motivazione dei destinatari. Sarà cura degli
operatori curare un rapporto individualizzato.
Inoltre il percorso può risultare lungo, e nel tempo si può perdere la visione dello scopo finale.
Le difficoltà degli operatori saranno legate all’eterogeneità dei destinatari del progetto e,
conseguentemente, dei percorsi individuali, non facilitati dai tempi brevi che non permettono un
lavoro in profondità.
RAPPORTI E VALUTAZIONE DEI RISULTATI ATTESI DEL PROGETTO (NARRATIVI, FINANZIARI, STATISTICI...)
Gruppo 3: Progettare percorsi di sensibilizzazione, informazione e formazione in 2 territori del
Piemonte. Unire la rete delle persone (operatori, richiedenti asilo e titolari di protezione
internazionale) a quella delle risorse e del territorio.
1_PANORAMICA GENERALE
Progetto San Paolo – Nonsoloasilo – attivazione di percorsi di autonomia e sensibilizzazione su due
realtà della regione Piemonte.
TORINO: 5 studenti universitari (4 iscritti al Politecnico e 1 iscritto a Lingue e Letterature straniere) di
cui 3 con protezioni internazionali e 2 con protezione umanitaria - 2 liberiani, 1 eritreo, 1 somalo, 1
iraniano. Sono a Torino già da qualche anno e parlano abbastanza bene l’italiano. Hanno
bisogno di attività di supporto linguistico e connessione con il territorio circostante.
BIELLA: 10 uomini (18-27 anni) di cui 7 con protezioni internazionali (6 sussidiarie e un richiedente
asilo in fase di ricorso) e 3 premessi umanitari - 3 ivoriani, 1 nigeriano, 6 maliani. Tutti rifugiati in
emergenza nord africa: accolti nel centro diffuso biellese nato in occasione dell'emergenza Nord
Africa e inseriti in percorsi di accoglienza diffusa.
7 beneficiari sono stati inseriti in un progetto di autonomia di gruppo che prevede la coltivazione
dell’uva in un terreno della zona e la produzione di vino attraverso l’avvio di una coop agricola
(hanno già un attestato per operatore di sevicultura).
1 beneficiario con permesso umanitario sta svolgendo un tirocinio formativo in una carrozzeria e
vorrebbe proseguire gli studi.
1 beneficiario sta svolgendo un tirocinio formativo in un grissinificio.
1 beneficiario ha un attestato di operatore agricolo e vorrebbe investire personalmente sul settore
agricolo.
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2_SINTESI DEL PROGETTO
Il progetto ha un triplice obiettivo: attivare percorsi di sensibilizzazione e informazione sul territorio
rispetto alla tematica dei rifugiati e dei richiedenti asilo, mettere in rete ed attivare i volontari
presenti sui diversi territori e attivare percorsi di autonomia (già avviati) per i rifugiati beneficiari del
progetto. Le realtà di Torino e Biella presentano caratteristiche territoriali e sociali abbastanza
diverse, oltre ad accogliere gruppi di beneficiari con aspettative diverse.
Il progetto si struttura secondo 3 assi di intervento principali:
1. PERCORSI DI SENSIBILIZZAZIONE - attivare un’ampia campagna di sensibilizzazione indirizzata
al territorio e alla cittadinanza con l’obiettivo di raccontare chi sono e cosa stanno
facendo i rifugiati ospitati dai diversi territori
2. PERCORSI DI INFORMAZIONE & MESSA IN RETE – attivare percorsi informativi più specifici
dedicati ai volontari presenti sui diversi territori
3. PERCORSI DI AUTONOMIA – indirizzati ai rifugiati accolti nei due diversi territori
agganciandosi al mondo profit e non-profit locale
3a_BENEFICIARI DIRETTI
Beneficiari diretti del progetto sono a seconda delle azioni messe in campo principalmente 3:
1. i RIFUGIATI accolti sui territori di Biella e di Torino ai quali sono indirizzati i percorsi di
autonomia
2. i VOLONTARI dei territori ai quali sono indirizzati i percorsi di informazione e messa in rete
3. i CITTADINI di Biella e Torino verso i quali viene orientata l’azione di sensibilizzazione più
ampia (comitati di quartiere, operatori, educatori, etc)
3b_BENEFICIARI INDIRETTI
Beneficiari indiretti del progetto sono:
1. mondo del PROFIT locale (che può usufruire di lavoratori formati e co-partecipare a
progetti di formazione lavorativa)
2. le AMMINISTRAZIONI LOCALI (che vedono attivata una rete territoriale e locale di
collaborazione fra VOLONTARIATO-PROFIT-ASSOCIAZIONISMO)
3. mondo NO-PROFIT locale e associazionismo culturale del territorio (coinvolto nelle attività
promosse dal progetto)
4. i CITTADINI di Biella e Torino verso i quali viene orientata l’azione di sensibilizzazione più
ampia
4_OBIETTIVI
TORINO
I principali obiettivi del progetto sono:
1. informare/sensibilizzare i territori su chi sono i richiedenti asilo
2. promuovere/attivare percorsi di autonomia per i rifugiati/studenti
3. attivare realtà territoriali (no-profit) che possono contribuire ai percorsi di autonomia dei
singoli beneficiari
4. coordinare / mettere in rete le risorse disponibili sui territori (volontari) promuovendo percorsi
di informazione specifica per i volontari aderenti alla rete
BIELLA
I principali obiettivi del progetto sono:
1. informare/sensibilizzare i territori su chi sono i richiedenti asilo
2. INSERIMENTO I RIFUGIATI NELLA RETE TERRITORIALE
3. promuovere/attivare percorsi di autonomia lavorativa per i rifugiati
4. attivare realtà territoriali (profit) che possono contribuire ai percorsi di autonomia dei singoli
beneficiari
5_DESCRIZIONE ATTIVITA’ PREVISTE
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TORINO
1) PERCORSI DI SENSIBILIZZAZIONE – il percorso prevede:
la realizzazione di un’ampia campagna di comunicazione realizzata su grandi supporti
cartacei (almeno 70x100) da utilizzare come “bandiere” da appendere dai balconi di case
private (coinvolgendo i residenti di alcuni quartieri di Torino) e da utilizzare come mostra
fotografica in esposizione in alcuni luoghi “sensibili” del territorio (le 7 case del quartiere di
Torino, le università, le biblioteche, il centro informagiovani della città di Torino, centri to&tu,
circoli arci, asl, oratori, etc).
I contenuti potranno essere:
FOTOGRAFIE – coinvolgendo i rifugiati che riescano a raccontare tramite le immagini non
tanto il percorso di fuga ma la loro condizione dell’oggi, ovvero il loro percorso di autonomia
avviato (studente di ingegneria, studente di lingua cinese, etc) – le fotografie verranno
corredate con brevi testi illustrativi del progetto e un link di rimando al blog e/o al sito di
nonsoloasilo. es. dettagli del corpo, oggetti personali, … (coinvolgendo associazioni locali di
giovani che si occupano di fotografia/video o utilizzando la campagna dell'artista francese JR
– progetto GET INVOLVED - http://www.jr-art.net/get-involved)
GRAFFITI (es. artista torinese BR1) che attraverso un’immagine identificativa, come le donne
velate nei cartelloni pubblicitari dell'artista, diventino rappresentativi del percorso dei
beneficiari e riescano a promuovere i loro progetti di autonomia in corso
ADESIVI / STIKERS da apporre negli spazi pubblici e sui mezzi di trasporto cittadini
la diffusione della campagna tramite il sito nonsoloasilo e viedifuga
la diffusione della campagna tramite una pagina facebook dedicata
giornata di sensibilizzazione conclusiva del progetto (da agganciare alla giornata mondiale
del rifugiato) organizzata in una delle case del quartiere e in collaborazione con le università o
associazioni studentesche in cui viene allestita la mostra fotografica e organizzato un
momento di incontro/scambio fra beneficiari e cittadini/studenti interessati (magari attraverso
una cena/aperitivo) - attività che necessita di un lavoro di promozione (volantinaggio
università, web, volantinaggio spazi aggregativi della città, etc)
2.MESSA IN RETE & INFORMAZIONE – azione rivolta ai volontari presenti sul territorio
creazione del blog per connettere i volontari con le azioni del progetto / con la possibilità di
postare e suggerire idee
diffusione di una newsletter per informare su appuntamenti puntuali, eventi, etc
organizzazione di 1 giornata di incontro conoscitiva e organizzativa con i volontari
1 giornata di formazione in collaborazione con il progetto di Biella
10 passeggiate urbane: realizzazione di un percorso di conoscenza e scoperta del territorio
con volontari e rifugiati organizzato attraverso visite a luoghi di particolare interesse e utilità, con
un duplice scopo: pretesto/volano per creare una rete di amicizia e scambio attraverso la
condivisione di queste esperienze e strumento di conoscenza e integrazione territoriale
attraverso la diffusione di informazioni utili ai rifugiati per una migliore partecipazione alla vita
cittadina. Il percorso delle passeggiate urbane verrà progettato cercando di coinvolgere
nell'identificazione dei luoghi da visitare i rifugiati e i volontari, magari attraverso laboratori di
mappe mentali. Si immaginano come luoghi possibili: museo del cinema, rassegna mondi
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vicini/mondi lontani, case del quartiere, un concerto pubblico (es. 25 aprile), centri to&tu, una
passeggiata in bicicletta, visita al mercato di porta palazzo con la possibilità di fare la spesa e di
cucinare insieme, etc. E' prevista l'opportunità di regalare ad ogni rifugiato una tessera
abbonamento to-bike (bike sharing di Torino).
Sarebbe interessante immaginare la realizzazione di un mini-doc video che racconti le
passeggiate da poter presentare al concorso promosso dalla città di Biella, coinvolgendo
associazioni culturali giovanili del territorio.
3.PERCORSI DI AUTONOMIA - indirizzati ai rifugiati
come prodotto conclusivo del percorso delle passeggiate urbane si ipotizza la creazione di
una mappa delle opportunità (con l’aiuto dei volontari messi in rete) che ci sono a Torino
unendo i luoghi visitati direttamente durante le passeggiate con gli spazi e/o le opportunità
che vengono identificate come significative per l'integrazione dei ragazzi (es: servizio civile per
giovani immigrati, opportunità di tandem linguistici, biblioteche\sale studio, banca del tempo,
cus torino, centri poli-sportivi, centri culturali, cinema / rassegne di cinema in lingua, concerti,
luoghi di incontro e aggregazione, centri to&tu, case del quartiere, laboratori territoriali,
associazioni culturali del territorio, comunità di stranieri, csa, corsi per mediatori interculturali,
enaip, etc etc). La mappa delle opportunità verrà principalmente resa disponibile online.
organizzare dei momenti di supporto linguistico per i rifugiati cercando di promuovere
percorsi autonomi e auto-organizzati: es. progetto TANDEM – scambi fra studenti; corsi di lingua
swahili presso il csa, corsi di italiano l1-l2 presso associazioni del territorio.
tentativo di connessione con il servizio civile per giovani immigrati promosso dalla Città di
Torino – Settore Rigenerazione Urbana e Integrazione
BIELLA
1. PERCORSI DI SENSIBILIZZAZIONE E FORMAZIONE
−
creazione di un concorso ad hoc sull’integrazione/ analisi dei concorsi esistenti
sull’integrazione
−
formazione della rete interna dei volontari del centro diffuso (4 incontri) e creazione di una
nuova rete di volontari (rete esterna: ecomuseo, scuole, parrocchie, associazioni, eco villaggio,
universitari, etc):
- 3 incontri impostati come il laboratorio non soloasilo
- 1 incontro: creazione dello slogan e del gadget (economico), organizzazione di lavori di
gruppo per attivare reti esterne, i gruppi si organizzeranno per:
_ricercare premi per il concorso audio/video
_coinvolgere nuovi volontari
_coinvolgere fotografi e video maker
_pubblicizzazione del concorso (foto/video)sull'integrazione ad altre associazioni del territorio
Biellese e di Torino (collaborazione con il prog. che parallelamente si svolge a Torino)
−
PERCORSO DI “FORMAZIONE-SENSIBILIZZAZIONE” (rete interna + rete esterna + rifugiati) 5
incontri, così suddivisi:
•
1° incontro tenuto dai volontari che hanno partecipato alla formazione precedente.
Contenuti dell’incontro: informazione di base sulla questione rifugiati e lancio del concorso ad
hoc sull'integrazione (concorso foto/video)
•
2° formazione sulle tecniche base di fotografia e video per i volontari e i rifugiati –
divisione in gruppi di lavoro;
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•
3° e 4° attività sul territorio di riqualificazione territoriale in zone urbane degradate
(pitturare panchine, murales, riqualificazione di giardini, parchi, etc) – parallelamente a queste
attività i gruppi di lavoro realizzeranno dei prodotti video e delle fotografie. Nel corso di queste
iniziative si farà conoscere il progetto ai passanti, si offrirà il karkadè e il gadget del progetto su
cui sarà stampato lo slogan. In una delle due attività parteciperà anche il gruppo di Torino.
•
5° trasferta a Torino: biciclettata con i volontari e i rifugiati del progetto di Torino
−
EVENTO FINALE collegato alla giornata mondiale del rifugiato: cena multietnica di
presentazione del progetto (OGNUNO PORTA QUALCOSA), presentazione dei lavori video e
delle fotografie, proclamazione dei vincitori del concorso e consegna premi
EVENTO DI FORMAZIONE-SENSIBILIZZAZIONE DI ENTI PROFIT - un evento di formazionesensibilizzazione di ENTI PROFIT dove verrà costruito un gruppo di aziende sensibili al
progetto, che attraverso una sottoscrizione economica o di supporto al progetto saranno
poi pubblicizzate sul blog. L’evento sarà organizzato dall’operatore con il supporto di alcuni
volontari
2. PERCORSI DI AUTONOMIA
− SUPPORTO PER L’AVVIO DI UNA COOPERATIVA AGRICOLA:
• ricerca fondi per la creazione / avviamento di una cooperativa (fondazioni,
banche, comuni)
• ricerca fondi: autofinanziamento della cooperativa attraverso un servizio di
silvicoltura offerto a privati (offerta libera)
• ricerca del terreno ( ricerca di un terreno in vendita o di un terreno in accomodato
d’uso, contatto con Libera)
• ricerca di una cooperativa che vuole ampliarsi
• formazione di avvio all'impresa: business plan e creazione di un'impresa
(collaborazione con il MIP: formazione sull’avviamento d'impresa)
• creazione o ampliamento della cooperativa
• pubblicizzazione del prodotto della cooperativa (con l’aiuto dei volontari)
• inserimento nei circuiti: consorzio biellese, GAS, PAUSA CAFFè E botteghe dell’equosolidale, birrerie e vinifici, eataly (con l’aiuto dei volontari)
−
−
PERCORSO DI ORIENTAMENTO PER IL GIOVANE CHE VUOLE PROSEGUIRE GLI STUDI
−
PERCORSO PER IL GIOVANE CHE HA FATTO IL TIROCINIO NEL GRISSINIFICIO
• Ricerca di fondi per la borsa lavoro
• Ricerca di una ditta di panificazione che prenda il giovane per una borsa lavoro
• PERCORSO PER L’OPERATORE AGRICOLO
• formazione sull’avvio all'impresa: business plan, creazione di un'impresa
(collaborazione con il MIP )
• Ricerca di fondi per una borsa lavoro
• Ricerca di una ditta che assuma il giovane grazie alle agevolazioni della borsa
lavoro
• Ricerca di una fattoria o di una cooperativa che prenda il giovane come
woofers
• CREAZIONE DI UNO SPAZIO SUL BLOG DI UNA RETE DELLE COMPETENZE: ogni
rifugiato si autopromuove e segnala le sue competenze professionali
6_AZIONI PER UNIRE I TERRITORI
1. sensibilizzazione comune fra Torino e Biella (attraverso la campagna di comunicazione
realizzata su entrambi i territori)
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2. rete volontariato condivisa (strumenti di comunicazione comune: blog, facebook,
newsletter)
3. alcune attività di formazione dei volontari in comune: attività di riqualificazione a biella con
i rifugiati; un incontro di formazione per i volontari di Torino a biella; i biellesi alla biciclettata
a Torino
4. giornata finale (giornata del rifugiato) in contemporanea: mostra Torino/Biella
7_RISORSE
- 3 OPERATORI di Torino
- n. 2 tirocinanti laboratorio nonsoloasilo
- volontari agganciati durante il progetto
- collaborazione CASE DEL QUARTIERE di Torino
- 2 OPERATORI di Biella
- VOLONTARI del centro diffuso di Biella
- Gruppo dei nuovi volontari di Biella
- COLLABORAZIONE con una ditta di giardinaggio che mette a disposizione il suo materiale
per le attività di giardinaggio
- Spazi gratuiti all’informa - giovani e in biblioteca (dove verranno fatte le formazioni)
- Utilizzo di alcuni gadget prodotti a Torino per la giornata dei rifugiati
- Utilizzo degli strumenti di ripresa e di fotografia, messi a disposizione dai volontari e da ditte
che collaborano con il progetto (formatori)
8_CRONOPROGRAMMA
TORINO – Attività
Gen
SENSIBILIZZAZIONE
Fase di progettazione
Realizzazione
fotografie/stencil
Diffusione
Creazione face book
GIORNATA-EVENTO
MESSA IN RETE
Messa in rete
/contatto con i
volontari (ricerca e
contatto volontari)
Giornata con i
volontari
(organizzativa)
Passeggiate urbane
PERCORSI DI AUTONOMIA
Fase di progettazione
Realizzazione mappa
di opportunità
Supporto linguistico
(tandem, swahili, l1 e
l2, etc)
Contatti per servizio
civile immigrati
Feb
Mar
Apr
Mag
Giu
Lug
Ago
184
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Sett
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BIELLA – Attività
Gen
Feb
SENSIBILIZZAZIONE e FORMAZIONE
ricerca di un bando
di concorso adatto o
creazione di un
bando ad hoc
Fase di promozione
della formazione
interna
attivazione e
formazione dei
volontari del centro
diffuso (4 incontri)
pubblicazione dei
materiali sul blog
creato dal prog. di
torino
attivazione reti
esterne dei volontari
pubblicazione degli
eventi sul blog
percorso di
formazionesensibilizzazione (5
incontri)
evento finale
evento di
formazionesensibilizzazione di
enti profit
PERCORSI DI AUTONOMIA
supporto per l’avvio
di una cooperativa
agricola
percorso di
orientamento per il
giovane che vuole
proseguire gli studi
percorso per il
giovane che ha fatto
il tirocinio nel
grissinificio
percorso per
l’operatore agricolo
creazione di uno
spazio sul blog di una
rete delle
competenze
Mar
Apr
Mag
Giu
Lug
Ago
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Sett
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9_BUDGET
TORINO:
Voci di spesa
stampa bandiere (70x100)
su stoffa quadricromia
n. prodotto
Costo/prodotto
100
600 euro
(oppure) stampa bandiere (70x100) 300
su carta quadricromia
500 euro
giornata di sensibilizzazione – affitto
spazio per mostra
1 sala per ½ giornata
(oppure utilizzo dello spazio in
comune con la giornata
mondiale del rifugiato)
50 euro
giornata di sensibilizzazione –
cibo/aperitivo o pranzo
Catering e/o cucina autoorganizzata e/o accordo con
gestore per aperitivo
200 euro
giornata di sensibilizzazione –
2500 pezzi
comunicazione (flyer di promozione:
A5 – 2500 pezzi)
100 euro
Biglietti pullman (5 rifugiati)
6 x 15 uscite a/r (1,50 euro a
biglietto)
270 euro
Pagamento entrate luoghi
passeggiate urbane: museo del
cinema, portapalazzo spesa +
affitto spazio per cucina)
5 rifugiati, 1 operatore, 1 stagista, 3
volontari
Museo cinema: 7 € x 10 (70
euro) / kitchen club (sala per
cucinare): 100 euro / spesa:
50 euro
220 euro
Tobike abbonamento
20 euro all'anno
100 euro
Affitto biciclette per un pomeriggio
(tot 10 persone)
12 euro
120 euro
Operatore: accompagnamento
14 euro / h
nelle passeggiate urbane,
coordinamento sensibilizzazione (60
ore)
840 euro
Stagista (150 ore) – comunicazione
e sensibilizzazione
0 euro
0 euro
Treno a/r per uscita a Biella (5
rifugiati + 1 operatore)
14 euro
74 euro
TOTALE
2574,00 euro
BIELLA:
Voci di spesa
n. prodotto
Costo/prodotto
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OPERATORI
2 (9 euro l’ora) x 250 ore di
lavoro
MATERIALI, telefono(per
organizzare), attrezzi, strumenti (per
riqualificazione)
1620 EURO
100 EURO
PRANZI FUORI(a Torino e durante
progetto di riqualificazione)
2 pranzi fuori per 12 persone
136 EURO
AFFITTO BICI A TORINO
12
180 EURO
TRENO BIELLA-TORINO A/R
12 X 11,60 euro
139,20EURO
STAMPA PUBBLICITA’ PRODOTTO
COOPERATIVA + ADESIVI
200 EURO
PRODUZIONE MATERIALI PER
INCONTRI CON ENTI PROFIT
(fogli, cartelline..)
30 EURO
FOTO
100EURO
TOTALE
2506,00 euro
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Dodicesimo
11 dicembre 2012
Incontro
Titolo
Come gestire il distacco: la giusta distanza e il momento del congedo
Relatori
Antonella Meo, Paola Sacchi, Silvia Torresin
Antonella Meo (sociologa): La questione della giusta distanza da assumere nei confronti dei
soggetti della ricerca e di come gestire il distacco in una ricerca chiamano in causa le modalità di
accesso al campo messe in atto dal ricercatore, i modi con cui è stato arruolato nel contesto in
studio, il tipo di relazione che ha stabilito con i soggetti della ricerca.
Credo che il punto rimandi a una questione importante: l’interazione tra il ricercatore e i soggetti
della ricerca. Per un ricercatore è importante maturare consapevolezza sul ruolo che la relazione
ha assunto nel lavoro di ricerca, e su come questa relazione condiziona la conoscenza prodotta.
Nelle scienze sociali non c’è nessuna forma di osservazione che non dipenda dalla relazione.
Attore sociale è sempre parte della ricerca. Nella ricerca sociologica tradizionale l’influenza
dell’attore sociale era vissuta come elemento di perturbazione, in una prospettiva positivista. La
Relazione tra ricercatore e soggetti doveva essere sottoposta a procedure di controllo. Il
ricercatore doveva cercare di neutralizzare la propria presenza nel campo. Poi la metodologia
qualitativa ha assegnato al soggetto della ricerca un ruolo attivo, contribuendo a costruire la
realtà sociale, dandole dei significati, dando molta importanza alla relazione che il ricercatore
stabilisce con gli attori sociali. La relazione è parte integrante del processo conoscitivo. La ricerca
sociale implica un gioco relazionale in cui sono coinvolti ricercatori e attori sociali cui è richiesto di
partecipare. Da qui prende forma la costruzione dell’oggetto di studio e i sui significati. Il gioco
relazionale si sviluppa in un rapporto dialettico tra l’esigenza del ricercatore di stabilire il contatto
con i nativi, stabilire una relazione di fiducia, partecipare al mondo sociale degli attori e l’esigenza
di mantenere una distanza necessaria per comprendere il fenomeno. Il gioco relazionale prende
forma da questa tensione tra esigenza di partecipare ed esigenza di distanziarsi in quanto
ricercatore.
La relazione
ricercatore-attore sociale per definizione non è paritaria, è asimmetrica
inevitabilmente, di potere, in cui il ricercatore pone domande, ha finalità conoscitive. La natura
della relazione determina le condizioni, le modalità di accesso alla realtà indagata. È come se
osservatore e osservato stipulassero un’alleanza provvisoria. Un contratto implicito, in base a cui
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sono negoziate le modalità dell’indagine. L’alleanza può evolversi nel tempo, con la permanenza
del ricercatore sul campo. Come in una ricerca etnografica. Entrambi controllano delle risorse. Il
ricercatore controlla un sapere, con tecniche che non possono essere messe in atto senza la
partecipazione degli attori. Gli attori hanno il controllo delle azioni e dei loro significati. Non c’è
sovrapposizione dei ruoli. Ma gli attori possono avere esigenza di una conoscenza riflessiva che
può accrescere la loro possibilità di azione. In questo terreno si può stabilire un’alleanza tra queste
due figure. Su questo terreno si negozia un ruolo.
Mi piace pensare che il lavoro di ricerca abbia come obiettivo non solo il dare risposta a domande
di conoscenza, sulla realtà sociale, ma anche produrre e rendere disponibile agli attori sociali
risorse cognitive che possano allargare il loro potenziale di azione.
Su questo ci può essere un incontro. La relazione con l’attore sociale non va considerata come
elemento di disturbo ma come risorsa che fornisce molte informazioni. In questo incontro entrano in
gioco le identità dei soggetti coinvolti. La distanza non è data una volta per tutte. Può essere
ridefinita man mano che il ricercatore permane sul campo. È necessaria familiarità, partecipazione
del ricercatore, ma anche un punto di vista esterno. L’esperienza sul campo è per sua natura
dilemmatica. Contraddittoria, perché questa tensione tra distanza-vicinanza è un paradosso. Il
paradosso può essere risolto non tanto assumendo una posizione più distaccata, ma sviluppando
la propria riflessività, consapevolezza da parte del ricercatore, del gioco relazionale in cui è
implicato. Che significa anche modulare la propria presenza sul campo. La riflessività si sviluppa
quando sospende la sua attività sul campo.
Non c’è un unico modo di fare ricerca sul campo. Ci sono più modi: l’esperienza di ricerca è
fortemente plasmata dalla relazione osservativa, solo un’attenzione a questo gioco relazionale ci
aiuta a mantenere la giusta distanza. Questo concetto di giusta distanza suona un po’ come uno
slogan, ma non ci sono procedure codificate, formalizzate che permettono di stabilire la giusta
distanza. Sta al ricercatore, alla sua sensibilità ed esperienza. Per esempio ci sono alcuni espedienti
che sono raccomandati nei manuali di sociologia, che hanno a che fare con sottoporre e utilizzare
i back talk, cioè sottoporre agli stessi attori il quadro interpretativo cui si è giunti, le chiavi
interpretative che si sono adottate, oppure sottoporre la propria lettura del mondo sociale di studio
con chi ha una posizione più marginale in quel mondo, che spesso ha anche una posizione più
critica, distaccata e quindi è più capace di decostruire la realtà, le rappresentazioni culturali
rispetto a chi è più integrato.
E veniamo al problema di quando termina il lavoro di ricerca e come gestire il momento del
commiato. Curiosamente è una fase finale della ricerca che non è contemplata nei manuali di
sociologia. Di come si chiude un lavoro di ricerca, ci sono due autori spesso menzionati: Glaser e
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Strauss che parlano di saturazione teorica, che suggerisce un criterio orientativo per capire
quando finire la propria ricerca. Fa riferimento a quella condizione in cui una giornata di
permanenza sul campo in più non apporterebbe secondo il ricercatore, delle informazioni
aggiuntive e diverse. È il criterio che ci orienta anche nella raccolta interviste. Questo criterio
presenta molti limiti: l’inconveniente maggiore è quello dell’autoreferenzialità, è il ricercatore che
ritiene di aver raggiunto questa soglia. Questo criterio poi è anche difficile da definire
operativamente e presenta dei rischi: magari il ricercatore ha focalizzato la sua attenzione solo su
un sottoinsieme di soggetti, su una fattispecie di situazioni, e non ha dato conto della varianza
interna della diversificazione interna. Nei manuali di metodologia non c’è molto di più.
Cosa succede in esperienza di ricerca: per un lasso di tempo consistente, come in una ricerca
etnografica, che necessita di acquisire familiarità con attori, è molto difficile determinare quando
la ricerca finisce. Ci sono situazioni in cui la ricerca si interrompe perché viene meno il campo (ES
anni 2000: ricerca di M. Ambrosini per conto della Regione Lombardia, su un campo rom, che poi è
stato sgomberato. In questo caso una contingenza esterna ha stabilito la chiusura della ricerca).
Però una ricerca potrebbe non finire mai. A volte i tempi sono dettati dalla committenza. Es.
scadenza dottorato, vincoli istituzionali, i finanziamenti della ricerca… Raramente una ricerca
finisce perché si esauriscono le ragioni di permanenza sul campo, spesso la dipartita del
ricercatore è graduale, non definitiva. Spesso ritorna a distanza di tempo. O mantiene un contatto
tramite interlocutori privilegiati. La necessità di congedarsi è qualcosa che richiede impegno, c'è
una fase di restituzione tra gli attori sociali, e allora si tratta di capire come può avvenire. E
soprattutto un ricercatore può stabilire delle modalità con cui assicurare la propria presenza oltre il
termine della ricerca. Come negoziare l’uscita, come mantenere un legame.
La mia esperienza personale: una ricerca che mi ha coinvolto molto ha riguardato le condizioni di
vita di chi vive in strada, ricerca etnografica del mio dottorato. C’era quindi una scadenza dettata
dal dottorato, ma il tipo di relazione osservativa con alcuni ospiti del dormitorio pubblico che
avevo frequentato, mediatori culturali, ecc. ha fatto si che quest’oggetto di studio sia stato per me
privilegiato, quel campo abbia rappresentato per me un campo su cui sono tornata più volte,
anche con altre vie di accesso, altre prospettive. Secondo me difficilmente un ricercatore si separa
del tutto dalla realtà indagata. Nel caso di quel mio lavoro, è poi nata un’associazione, fondata
insieme a persone vissute in strada, operatori sociali, in cui il mio ruolo non era solo di ricercatore,
ma anche volontaria, e l’associazione ha dato vita a riflessioni politiche su i senza dimora. Su quel
tema sono tornata più volte, con altra strumentazione analitica. Questo per dire che alla questione
del congedo non c’è una risposta univoca. Ognuno trova proprie modalità
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Paola Sacchi (antropologa): Non dirò molto sul congedo perché non saprei molto cosa dirvi,
innanzitutto una ricerca finisce perché finisce sempre il tempo. Pensavo al distacco come
momento della separazione, poi è venuto fuori l’argomento del distacco inteso come giusta
distanza. Mi è venuto così da suggerire quest’anno il tema del coinvolgimento, nella ricerca e nella
relazione. Che è un po’ un vizio professionale. L’antropologia da quando è nata ha avuto
l’ambizione di produrre una conoscenza che fosse dal punto di vista dei nativi. Gli antropologi non
sono affatto d’accordo sulla loro metodologia sul campo. Ci sono una varietà di posizioni.
Malinowski è padre dell’osservazione partecipante: il ricercatore si coinvolge nella vita delle
persone. È un pilastro della ricerca etnografica. C’è stata una stagione critica nel '900 in cui si sono
messi in crisi molti suoi paradigmi, a partire dalla pubblicazione dei diari di Malinowski. Questo ha
gettato nel panico l’antropologia. Ecco forse che l’immedesimazione non si è più ritenuta tanto
possibile. Successivamente Geertz negli anni 70 ha predicato un’antropologia interpretativa che è
stata molto un lavoro intellettuale, l’antropologo è stato visto come chi destratifica i significati che
compongono una cultura. Di immedesimazione non c’è niente. Però ci sono state altre correnti di
antropologia critica (post-modernismo) che hanno pensato le cose diversamente, dopo il
disappunto creato dai diari di Malinowski.
Gli antropologi non hanno mai parlato di giusta distanza, non sta nel loro linguaggio.
L’antropologo pensa che la ricerca sul campo sia un curioso bilico, un movimento continuo tra
coinvolgimento e allontanamento. L’antropologo per lo più non intervista. L’ha fatto forse
influenzato dalla sociologia. Quando ho tentato di portarmi dietro un registratore, è stato molto
difficile gestire la relazione, come nel caso di un villaggio beduino in Israele. Il ricercatore sul
campo fa un lavoro di costruzione di relazioni.
Io abitavo in una famiglia in questo villaggio. A partire da questa esperienza, un concetto che mi è
sembrato cruciale è stato quello di posizionamento o posizionalità. Una cosa importante era il
genere: non potevo dimenticare di essere una donna in un villaggio beduino, l’età e il mio status
che ho spacciato per matrimoniale ma con un certo imbarazzo. Avevo anche mia figlia al seguito,
e la prima domanda che mi hanno fatto era su mio marito. Io ho risposto che ero sposata, ma c’è
stato però un problema per il fatto che non avessi la fede. Io non volevo dire di non essere sposata
perché sapevo che mi avrebbero classificato come una ragazza, che mi avrebbe messo in
determinate cerchie di relazione e inoltre c’era mia figlia con me.
Il posizionamento rilevante nella relazione, che è fatto anche dal modo con cui gli altri ci vedono e
ce lo rimandano (es. io sono italiana, e quindi sono stata definita come competente nella moda.
Dimensione identitaria che mi è stata appiccicata addosso). Nonostante ciò, lì ho capito cose
importanti sul velarsi, una dimensione estetica del velo che non conoscevo. Quello che il
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ricercatore conosce nella ricerca è molto condizionato da questo posizionamento esperienziale.
Essendo coinvolti nella relazione ci si mette molto in gioco. Entrambi chiedono cose, e ci sono cose
che entrambi non vogliono dare.
La ricerca è quindi una faccenda relazionale e anche
reciproca, c’è però un’asimmetria che rimane. C’è un coinvolgimento di sé nella relazione, non
sempre in modo pianificato.
Altro concetto che volevo darvi è l’empatia. Non c’è molta riflessione esplicita in antropologia
sull’empatia come strumento per la ricerca sul
campo. L’idea di mettersi dal punto di vista
dell’altro significa attingere intenzionalmente dalla propria esperienza per riuscire a comprendere
quello che altro dice e prova. (ved. “L’etnologo imperfetto” di Leonardo Presere e antropologa
norvegese Unni Vikam che ha parlato di risonanza). Risonanza è un concetto interessante. Vi
propongo una definizione di empatia presa da miei appunti: “un tipo di ragionamento emozionale
in cui una persona risuona emozionalmente con l’esperienza di un’altra persona mentre
simultaneamente tenta di vedere con l’immaginazione una situazione con la prospettiva di
quell’altra persona”. L’empatia comprende l’impiego intenzionale della propria esperienza e l’uso
dell’immaginazione.
Sul congedo invece vi posso dire che un ricercatore non si congeda mai del tutto. A volte è anche
un distacco doloroso, ma si tende a vederlo come un qualcosa di non definitivo.
Cristina
Molfetta
(Cooperante
internazionale
con
una
formazione
antropologica):
posso
aggiungere la mia esperienza. Nei miei anni all’estero, posso dire che l’età ha giocato un ruolo
nella maniera in cui mi sono posta ed esposta e ho permesso che le situazioni mi toccassero. Per la
mia tesi di laurea, (1994) io ero già nei capi profughi della Bosnia, non c’ero andata per motivi di
ricerca,
facevo parte dei giovani europei pacifisti, con cui ero partita per fare attività con i
giovani. Mi sono praticamente trasferita lì nei 2 anni successivi. Ho imparato la lingua, stabilito
relazioni. Poi ho scritto la mia tesi su questo campo. Questo sbilanciamento c’è nella mia vita da
sempre , io ho scelto di stare in quella realtà, non sono andata in quella situazione per fare ricerca,
anche se avevo gli strumenti teorici. Ho avuto rapporti molto coinvolgenti, per più di 10 anni con
quei paesi. Poi a un certo punto ho chiuso, perché ho sentito che in quella realtà avevo messo in
campo tutto quello che potevo mettere non era una questione di tempo. Sicuramente li ho
appreso molte chiavi di acceso per il Medio Oriente, in cui poi sono entrata. La Bosnia è diventata
un pezzo della mia vita. Non ho messo in atto lo stesso meccanismo in altri parti del mondo in cui
sono stata, forse non sarebbe stato possibile. Ho sicuramente imparato che le cose non le puoi
scegliere tutte tu, più provi a metterti in una posizione paritaria, più ci sono cose che non scegli.
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Non ho una ricetta da dare. Credo che ognuno abbia una sua modalità di stare nelle situazioni,
ma di certo non si può far pagare agli altri il prezzo della propria inesperienza, I danni che si fanno
pagare agli altri sono dovuti alla non conoscenza di se stessi, quindi capire bene chi si è e le
proprie fragilità. Perché le persone ti chiederanno molto. È sempre meglio non promettere niente,
al massimo meglio fare qualcosa che non si è promesso, meglio non creare e non avere grosse
aspettative.
Silvia Torresin: (psicologa): Mi presento: sono una psicologa, ho sempre lavorato nel campo etno
psichiatrico, quindi in parte con migranti, in parte con rifugiati e faccio parte come attivista
dell’Associazione Mosaico, che si occupa di fare lobby sul diritto di asilo, in teoria, in pratica le
prassi sono sempre ben distanti.
Ho pensato, sul tema del distacco, a poche cose, che però per me sono molto importanti
lavorando nel campo. Ho cercato di immaginarmi cos’è il distacco, intendendolo tra l’operatore e
utente, immaginandolo in progetti con i rifugiati. Ho pensato che il distacco ha diverse accezioni:
La fine del progetto: viene iniziato un progetto che ha una serie di tappe, e che a un certo punto
avrà un termine e per cui ci sarà un distacco
Distacco è anche un termine che spesso si usa per definire la relazione di aiuto con il rifugiato. C’è
bisogno di distacco nella relazione. Nella mi esperienza i rifugiati, che d’accordo sono una
categoria molto disomogenea, però se dobbiamo fare delle generalizzazioni diciamo che nella
relazione di aiuto con il rifugiato si incontrano dei bisogni estremamente urgenti e emergenziali
rispetto ai quali gli operatori si sentono nella condizione di “cascarci dentro”, di voler rispondere
nell’immediato a questi bisogni ma allo stesso tempo rendersi conto che questi bisogni sono
talmente importanti e sofisticati che non è possibile rispondere in questo modo. Quindi è come se
si istaurasse una relazione emotiva incandescente, in cui l’operatore stesso dice che ci vorrebbe
più distacco
Spesso quando parliamo di rifugiati, parliamo di persone che hanno avuto transizioni biografiche
estremamente complicate, molto diverse anche qui l’uno dall’altro, ma dove spesso hanno
affrontato dei distacchi o separazioni più o meno violente.
Quindi la parola distacco può avere il significato concreto della fine dei progetti ma in realtà ha
già delle valenze estremamente simboliche nella relazione. Mi ha fatto piacere prima la questione
sulla relazione intesa in senso antropologico, nel senso che penso che sia molto importante il
modo in cui ci proviamo a mettere in un contesto di relazione tra operatore e utente, nel senso
che le forme della relazione a seconda delle diverse culture sono differenti, e questo è un aspetto
molto importante di cui dobbiamo tenere conto.
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Quando penso al distacco inteso come la fine dei progetti, penso a un momento estremamente
problematico, mi è venuto in mente il discorso dell’Emergenza nord Africa. Per esempio in progetti
simili, in cui ci sono state diverse proroghe, che avevano la funzione in qualche maniera di tappare
dei problemi troppo grossi, in qualche modo mettono subito in evidenza che questa fine del
progetto è problematica perché non c’è un pensiero progettuale a monte, è stato fatto cioè un
progetto emergenziale in cui i progetti dovevano durare un tot. di tempo, si arriva così al momento
in cui l’operatore deve gestire il distacco con l’utente, poi c’è una proroga, e quindi il distacco
viene dilazionato nel tempo, e questo provoca una serie di lacerazioni anche nel pensiero che un
operatore può avere rispetto al nel modo in cui gestire il distacco e al modo e a che cosa si sta
accompagnando la persona, tralasciando il fatto che con tutte queste proroghe l’utente stesso si
mette in una condizione in cui il distacco non ci sarà mai e non sarà possibile, e non sarà quindi per
lui possibile incontrare la concretezza della realtà al di fuori delle illusioni di essere inseriti nei
progetti.
Io vorrei proporvi due concetti che per me sono molto importanti facendo un riferimento
nell’esperienza diretta con i rifugiati, io qui mi concentro sul vissuto dell’operatore, perché credo
che spesso gli operatori siano messi in scacco da tutta una serie di fattori che vanno oltre il proprio
controllo e visibilità, di cui magari si è scarsamente consapevoli, che poi possono dare una
relazione di impotenza nella relazione in generale con l’utente. Questi due punti di riferimento sono
il rendermi conto da un lato che un operatore ha dei propri pregiudizi nell’affrontare la propria
professione, pregiudizi in senso lato, cioè tutti quei pensieri che condizionano il nostro operare, che
sia quello che noi pensiamo, che sia di ideologia, pensieri politici, pensiero sulla relazione di aiuto,
noi arriviamo alla relazione con l’utente, con il migrante e il rifugiato con delle idee preformate su
cosa noi dobbiamo fare. E questo è un aspetto importante perché, se ne siamo consapevoli, in
qualche maniera possiamo poi ragionarci, ma se non lo siamo, gli effetti possono essere tanti e
diversi, ma tutti posso portarci a situazioni anche allarmanti. L’altro riferimento è per me la
questione delle difese che ha l’operatore. Ognuno di noi in una situazione relazionale,
qui
parliamo di una relazione di aiuto, in cui dichiaratamente c’è qualcuno che ha bisogno di
qualcosa da parte nostra, in realtà noi arriviamo con delle difese più o meno adeguate e
strutturate. Ognuno di noi si difende come può. Alcune difese possono essere estreme, mi viene in
mente che ad esempio davanti a una persona che racconta una storia di tortura, l’operatore può
rispondere
razionalizzando,
quindi
congelando
l’atmosfera
oppure
sovraccaricandosi
emotivamente di questa esperienza. Due reazioni tipiche entrambe disfunzionali.
Credo che il momento del distacco della fine del progetto e della fine della relazione di aiuto sia il
momento in cui l’operatore deve a maggior ragione elaborare questo rapporto emotivo. Ora vi
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faccio un esempio di una cosa che succede molto spesso nel campo. Ci sono studiosi che hanno
parlato di “costellazione della violenza” o “triangolo della violenza” secondo cui in una situazione
relazionale che ha a che fare con le violenze, umane e politiche, spesso si crea una circolazione
emotiva delle persone, per cui si assumono a turno tre posizioni: la posizione di carnefice, di vittima
e di soccorritore. Nelle situazioni di violenza, sempre per la questione di emergenza dei bisogni, in
qualche modo si vede facilmente. Questo triangolo relazionale ha la capacità di tenere incastrate
le persone dentro questi ruoli, evitando di creare reazioni adattive al problema. Una delle situazioni
più tipiche è quella in cui l’operatore si pone come soccorritore di un rifugiato, poniamo, che è la
vittima, vittima per mille motivi, perché ha una storia di sofferenza, perche siamo dentro un sistema
umanitario che vittimizza i rifugiati. Se prendiamo questo caso tipico, in qualche modo abbiamo
l’operatore che si allea con il rifugiato contro un sistema che non funziona. È qualcosa che
facciamo anche per salvare noi stessi, il sistema in cui siamo inseriti che ha un progetto politico che
non ci compete,non ci appartiene del tutto e che non condividiamo fa si che noi attuiamo una
posizione critica e che creiamo un’alleanza con gli utenti che cerchiamo di aiutare. Questa
posizione però è pericolosa, rispetto anche alla possibilità di attuare la separazione dalla persona
aiutata, perché in questo modo l’operatore tende ad assumere su di sé un compito che il rifugiato
si deve ritrovare a fare, e forse anche di passivizzare il rifugiato, per cui il progetto finisce che la
capacità del rifugiato di orientarsi in questo mondo e di attuare azioni per cui possa essere
responsabile, è molto limitata. Quindi il vero problema, secondo me, non è solo come gestisco a
fine progetto il distacco dalla persona, ma anche in che condizioni mi metto per pensare a cosa ci
sarà dopo. E questa è la cosa che spesso manda in scacco gli operatori. Questo triangolo della
violenza lo trovo molto interessante. Ci sono molte posizioni che si possono trovare, a volte gli
operatori si sentono vittime tanto quanto i rifugiati, più difficile che si sentano carnefici. La posizione
di soccorritore, che più spesso è quella dell’operatore, è molto ambivalente, perché crea sempre
dei conflitti interni, tra l’essere il rappresentante di un sistema di accoglienza, di cui tra l’altro spesso
non si condivide la logica, e in qualche modo si trova a attuare questa cosa, e dall’altra parte una
persona che sente molto più vicina di quanto potrebbe o dovrebbe sentire per essere veramente
in grado di aiutarla. Generalmente di questo triangolo è molto difficile essere consapevoli, nei
gruppi di lavoro si può notarlo, solo quando ci si riunisce in équipe. Un esercizio interessante che
spesso si fa all'interno dell'équipe di lavoro, è quello di mettere in scena una cosa simile e si chiede
al gruppo di notare cosa sta succedendo, e cercare di sostituirsi a qualcuno che si sente in una
posizione di stallo, in cui non si va da nessuna parte, perché c’è dal di fuori spesso una soluzione
che può essere più funzionale.
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Noi abbiamo un sistema di accoglienza e di società molto basata sull’idea di autonomia. Per cui
spesso ci interfacciamo con persone che magari sono state molto autonome nella loro vita nel loro
paese, società, famiglie, e che si ritrovano in Italia in un posto in cui per essere inserito nella società
devi dimostrarti immediatamente autonomo, quindi con una capacità di acquisire le logiche del
posto in cui sei arrivato molto elevata, (con problemi di lingua, acquisizione strumenti basilari, ecc.)
ma
da questa ideologia dell’autonomia non si può sfuggire. Questo lo dico perché uno dei
problemi nel gestire il distacco tra operatore e utente è proprio che si sente che il progetto di
accoglienza si sia svolto ma che in realtà i passi evolutivi che si dovevano fare non si sono fatti.
Questo è un mio pensiero sull’argomento, ho pensato perciò di portarvi questa esperienza: con
l’associazione Mosaico abbiamo tentato di fare con un gruppo di donne somale. Noi da tempo
abbiamo uno sportello di informazione prevalentemente rivolto a rifugiati, al cui interno da anni le
persone portavano molto il bisogno di lavorare contro l’isolamento sociale. E abbiamo cercato di
capire cosa fosse questo isolamento di cui parlavano. Abbiamo iniziato a fare questa analisi in una
popolazione soprattutto femminile, che lo portava in modo più elevato. Con una popolazione che
si trovava qui in Italia come donne sole, partite con progetti magari familiari ma che dopo perdite
si sono trovate ad affrontare un progetto come donne sole, e dove questo isolamento era anche
dovuto a una percezione di una scarsa sicurezza, legata alla temporaneità dei progetti, e quindi
all’impossibilità di fare progetti sul medio - lungo periodo, ma anche un’insicurezza reale, nel senso
che tante donne (per coincidenza tutte somale, quindi già con elementi in comune) portavano
molto questa esperienza di aver vissuto un pezzo di accoglienza, che si è interrotta. Quasi tutte
arrivate nel 2008, nel 2008 tentata poi una fuga in Europa, e rimandate in Italia, si ritrovavano a non
poter più usufruire dell’accoglienza, in quanto un po’ all’improvviso i progetti di accoglienza
finivano e loro si trovavano per strada e nei dormitori. Anche quindi un aspetto di mancanza di
sicurezza molto concreto. Era un gruppo di 20-30 donne a seconda dei momenti, non connesse tra
loro al di fuori e senza legami con la comunità somala. Noi abbiamo messo su un gruppo che
aveva diverse valenze: abbiamo pensato a un gruppo che si riunisse settimanalmente, in cui si
potesse parlare, ma al tempo stesso in cui se ci fossero bisogni specifici, tipo medici, documenti, si
potesse accompagnarle ai servizi. Questo sia per aiutarle concretamente ma anche perché
abbiamo visto che poteva essere frustrante fare un gruppo solo di condivisione di vissuti. All’interno
del gruppo le donne hanno portato il tema dell’insicurezza che vi dicevo e il tema della visibilità.
Cioè: nel momento in cui si è in un progetto si è qualcuno, ma appena si finisce, non si è più
nessuno. E poi problematiche concrete, come la difficoltà a fare progetti di medio periodo,
rispetto alla casa, salute, scuola ecc.
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E quindi abbiamo iniziato un percorso di accompagnamento attraverso delle mediazioni
istituzionali, con i servizi. Questo perché per queste donne l’unico servizio istituzionale veramente
chiaro era l’ufficio straneri. Noi abbiamo iniziato, anche per il tema della sicurezza rilevato, dalla
Prefettura. Dato che loro ci chiedevano uno spazio in cui pubblicamente portare questi discorsi e
farsi vedere, dove denunciare una situazione, abbiamo iniziato con loro a costruire un evento che
concretamente è stato un incontro con il rappresentante della Prefettura, a cui loro potessero
porre domande. Ve lo racconto così perché per noi questo è stato il modo di gestire il distacco
all’interno dell’attività. Nel senso: se queste persone si sentono così invisibili, e si sentono così
dipendenti dai progetti che dovrebbero puntare alla loro autonomia, abbiamo pensato che
l’unico modo fosse costruire situazioni in cui potessero interloquire concretamente con persone che
non fossero operatori dell’associazione. Questa per me è stata un’esperienza interessante, anche
se difficile da costruire, perché in qualche modo solo così ho sentito che si poteva lavorare con
loro sul loro attivismo, protagonismo, possibilità di agire su situazioni concrete costruendo anche la
propria responsabilità sulle azioni che fanno. E credo che questa sia una posizione, tornando al
discorso di come si pone un operatore, che noi possiamo avere, cioè nel momento in cui si chiude
la relazione, la domanda che ci si pone è sempre “ma che senso ha chiudere la relazione a quali
altre progettualità noi accompagniamo le persone”. Ecco questo per noi è stato un modo,
probabilmente ce ne sarebbero molto altri, però mi è sembrato che questo fosse un modo di porci
come operatori consapevoli da un lato, quindi di dire “noi siamo in questa posizione ambigua, non
condividiamo in qualche maniera l’intervento delle istituzioni ma allo stesso tempo ci poniamo
come mediatori perché siamo dentro questo sistema, allo stesso tempo faccio quello che posso
per metterti nella condizione di andare avanti nel percorso”. La mia esperienza di operatori che
lavorano con i rifugiati è che c’è un livello di burnout altissimo, di altissimo coinvolgimento e di
altissima frustrazione anche quando finiscono i progetti, perché sappiamo bene che i progetti non
possono avere il tempo sufficiente per aiutare le persone a evolversi, quindi credo che questo sia
uno degli aspetti su cui sia più importante sviluppare una consapevolezza.
Rispetto alla visibilità, è abbastanza impredittibile capire quale delle occasioni che noi offriamo sia
considerata una vera occasione di visibilità. Quello che io ho visto è che tante volte in tante
comunità di accoglienza, si creano delle bolle in cui ci sono operatori e rifugiati e c’è un modo tra
loro che è di concretezza e di illusioni reciproche. Queste bolle rendono più complicata la visibilità.
Cioè magari non sto male dentro la comunità, ma è come se diventasse l’unico spazio di vita che
ho, per cui quando parlo di visibilità è anche la possibilità di vedere che c’è un mondo fuori, con
cui ci si può più o meno relazionare. E mi vengono due esempi. Uno legato alle donne di cui ho
parlato. Il primo passaggio prima di arrivare alla prefettura è stato la giornata del 20 giugno in cui,
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all’interno di un piccolo convegno, abbiamo chiesto loro di parlare di cos’era il gruppo per loro e
parlare della questione della casa. E loro rispetto a questo si sono meravigliate, perché in qualche
modo avevano avuto la possibilità di parlare a un pubblico, quindi a un mondo che ruota attorno
alle tematiche dell’asilo che era pronto ad ascoltarle. Però mi viene anche in mente di un altro
episodio, con il Coordinamento Non Solo Asilo, quando siamo stati a Pinerolo come provincia
sensibile. Abbiamo fatto un progetto di formazione a operatori in cui il punto conclusivo era
convocare anche gli amministratori locali per coinvolgere tutti in un discorso pubblico,
sull’accoglienza. Nel territorio di Pinerolo, che è già estremamente fertile, nel senso che ha avuto
alcune polveriere molto conosciute, per es. Pra Catinat, insieme agli amministratori locali, una delle
comunità era arrivata con un rifugiato, e poi avevamo a posteriori a lungo discusso su quanto per
questo ragazzo quel momento fosse stato importante per vedere che c’è una realtà fuori. E questo
non è predittibile, non possiamo immaginarci che per tutti sia così. Questo è il passo da fare. Però
credo che avere una sensibilità su quali siano le occasioni che possono permettere alle persone di
fare anche un pensiero altro, cioè di potersi immaginare che cosa c’è fuori aldilà delle persone
che si occupano della loro accoglienza e dei loro connazionali.
Cristina: vorrei per questo aggiungere una cosa. Credo sia molto diverso se all’interno di una
esperienza di gruppo si portano delle persone esterne, perché non si modifica il fatto che quel
gruppo continui a rimanere un mondo a sé stante, dove è vero che la persona che porti non è un
operatore e non è un rifugiato ma la porti dentro un mondo comunque sospeso rispetto al
territorio. Ancora diverso è se è una cosa che tu hai pensato possa essere utile , oppure se arriva
da una richiesta di alcune persone. Diverso se rispetto alla richiesta si crea questo collegamento
con i servizi che sono fuori, dove è la persona che gestisce questo rapporto, capisce dov’è la
realtà terza, fa questo percorso e poi è in grado di accedervi indipendentemente dall’operatore
che ha fatto da ponte. E già con tutti questi tipi di dinamiche le risposte possono essere molto
diverse.
Silvia: le soluzioni di come uscire dal triangolo della violenza credo siano quelle che ciascun
operatore trova per sé, credo che sicuramente è utile avere un gruppo di lavoro che aiuti a far
notare quali sono i momenti di caduta e collusione con gli utenti rispetto a questo. In una
situazione di stallo in cui non si riescono a trovare soluzioni, lavorare con un collega può aiutare a
vedere cose che noi non faremmo o non abbiamo visto. Una delle altre cose che vengono
portate molto dai gruppi di lavoro che si occupano di rifugiati è l’esperienza che all’interno di una
équipe ci sia una divisione dei compiti o delle caratteristiche, anche delle personalità per cui in
certi casi in una situazione opera bene uno rispetto a un altro, e anche per diverse problematiche
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di una stessa persona ci vuole un gruppo di persone. Io credo che è la consapevolezza della
posizione che stiamo assumendo che è quello che ci porta a delle soluzioni.
Sul fattore dei bisogni diversi di cui parlava Cristina, che io condivido molto, segnalo anche che
questa nel nostro gruppo è stata una questione particolarmente problematica, cioè, ho iniziato a
capire che questo assunto che noi abbiamo che le persone hanno bisogni diversi, e quindi ci sono
risposte diverse ai loro bisogni, anche questo è un nostro assunto culturale, che fa parte della
logica di aiuto. E questo lo dico perché prima di andare in prefettura abbiamo tentato una
mediazione con l’ufficio stranieri, dove però non abbiamo portato le donne ma siamo andati noi
operatori, chiedendo quale è il problema più grosso di comunicazione con i rifugiati. l’Ufficio ci ha
risposto che il loro problema è che loro partono dal principio che la valutazione progettuale viene
fatta ad personam, e questo a molte persone non è comprensibile. E ciò l’abbiamo registrato
anche nel gruppo, la necessità di ricevere lo stesso trattamento. E a livello di operatori, anche qui è
necessario lavorarci avendo la consapevolezza che questo è un altro assunto che noi diamo per
scontato e che va lavorato con gli interlocutori.
Vi racconto un episodio che è avvenuto in una delle prime sedute del gruppo: nei primi incontri
raccontavano le loro storie di vita, situazioni emotivamente cariche. Al secondo incontro una
donna è venuta con il proprio figlio. In quell’incontro una delle operatrici ha preso il bambino,
senza dire niente, questo bambino si muoveva naturalmente nel gruppo, e l’ha portato in una
stanza con dei giochi per farlo giocare. Questo per noi è stato interessante perché poi lei stessa
nell’incontro di équipe ha detto che si è resa conto che la situazione emotiva era così forte che ha
voluto proteggere l’unica cosa che si poteva proteggere. Questo fa capire come subito ci
allineiamo rispetto a certe posizioni. Abbiamo lavorato molto noi operatori sulla posizione che
ognuno di noi assumeva. Abbiamo visto che una delle cose più difficili è tenere insieme questo
aspetto accogliente e rimproverante,essere protettivi e castranti. E questo lo si può fare solo in
gruppo, non si riesce da soli.
Cristina: rispetto a atteggiamenti più o meno di solidarietà che si può avere nei confronti del
malfunzionamento del sistema. Una differenza che avevo sentito molto forte l’anno scorso durante
il laboratorio con Le Quyen, una donna purtroppo morta in un incidente stradale, responsabile da
anni di tutti i servizi rifugiati alla Caritas di Roma, a sua volta arrivata in Italia come rifugiata
vietnamita. Il suo taglio rispetto alla critica verso il sistema e l’atteggiamento da avere con le
persone era molto “tranchant”. Lei diceva: “secondo me la cosa più sensata da fare è dire come
stanno le cose, dare termini di paragone, non introdurre nessuna possibilità
rispetto al
cambiamento del sistema. Questa è la cosa più sensata da fare con le persone, chiarendo bene il
tempo e gli spazi che uno ha”.
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Io ero un
po’ irritata nei confronti di questo atteggiamento, pensando che forse non avesse
nessuna volontà di cambiare un sistema che non sentiva come suo. Oggi arrivo a pensare che
probabilmente rispetto alle persone, ha più senso far passare quel tipo di messaggio, però penso
che per chi si senta anche il carico di: da un lato, poter fare qualcosa, perché per me limitarsi ad
essere il granello di un organismo e pensare che non c’è nessuna possibilità di cambiare è
estremamente frustrante, e per me è importante conservare questa militanza di dire “capisco
quello che c’è, capisco quello che è possibile fare ma metto in atto tutto quello che è in mio
potere per provare a modificare una situazione che non condivido”, dall’altro capisco che le due
cose vanno tenute separate. Da un lato c’è il messaggio di ciò che è possibile in questa situazione,
dall’altro c’è la carica emotiva e la rabbia che si mette in atto per cambiare le cose. Però per me
è importante che quella spinta di cambiamento, che si può avere solo conoscendo un problema,
si possa mantenere, conservare e usare per cambiare effettivamente le cose.
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Tredicesimo Incontro
18 dicembre 2012
Titolo
Valutazione del laboratorio e confronto conclusivo
Relatori
Cristina Molfetta, Michele Manocchi
C’è stato un tempo per compilare una personale valutazione scritta che ha dato i seguenti risultati.
Nell’incontro conclusivo del laboratorio è stato chiesto ai partecipanti di compilare un questionario di valutazione
scritto e poi di condividere insieme in una sorta di valutazione aperta e collettiva alcune riflessioni di carattere più
generali sull'andamento del laboratorio e sulle sue caratteristiche. Sia dal confronto orale che dai questionari, è
emersa una generale soddisfazione nei confronti del laboratorio e del suo approccio che anche in questa sua seconda
edizione ha integrato operatori e studenti provenienti da diverse realtà. Quasi il 90% ha infatti considerato come molto
positiva la presenza di persone con esperienze e background differenti.
È stata poi ampiamente apprezzata la presenza di relatori diversi, esperti in differenti declinazioni del tema, che hanno
consentito un approccio ampio e particolareggiato al tempo stesso. Se l’utilità del laboratorio è stata considerata molto
elevata dalla totalità dei partecipanti, la diretta traducibilità dei contenuti è valutata positivamente da molti operatori e
quasi dalla totalità degli studenti.
Il laboratorio oltre al ciclo di incontri e discussioni di gruppo, per provare a dare una possibilità concreta agli studenti di
applicare e sperimentare le cose discusse ha proposto due cose, da una parte un percorso parallelo di sviluppo di idee
progettuali e dall’altra offrendo agli studenti l’opportunità di svolgere un periodo di tirocinio formativo nelle realtà
connesse all’esperienza del Coordinamento.
Quindi questa alternanza tra teoria e pratica, carattere distintivo del laboratorio, è stata valutata in modo positivo dai
partecipanti, nonostante i tempi relativamente ristretti di ciascun incontro (3 ore l’uno) abbiano fatto nascere più volte
in alcuni partecipanti il desiderio di spazi aggiuntivi per ulteriori approfondimenti e discussioni.. La possibilità di
svolgere un tirocinio in realtà del territorio attive nel campo del diritto d’asilo è stata un altro punto di forza del
laboratorio, apprezzata e colta da molti studenti.
Sono stati 14 gli studenti che alla fine del percorso del laboratorio nel 2013 hanno avuto la possibilità di avere un
tirocinio formativo di circa 150 ore all’interno delle diverse attività e progettualità portate avanti dal Coordinamento
non solo asilo
I temi affrontati sono stati considerati rilevanti dalla maggior parte dei rispondenti e gli ulteriori suggerimenti
pervenuti saranno valutati per proporre integrazioni alla terza edizione del Laboratorio.
Grazie ai feedback di questo secondo anno di esperienza, sono stati individuati anche alcuni ostacoli di tipo
organizzativo e logistico, che nella prossima edizione si tenterà di appianare quanto più possibile. La valutazione
generale di questo secondo anno è comunque di carattere assolutamente positivo e non può che essere di buon
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auspicio alla preparazione della terza edizione del laboratorio.
È seguita una discussione collettiva di cui abbiamo riportato in un cartellone i seguenti punti:
Sul tempo:
•
ho c’è un vero rigore sulle pause o meglio fare 2,30 senza interruzione
•
secondo me invece rispetto agli stimoli teorici mancava poi il tempo di dibattere e approfondire assieme per
cui bisognerebbe passare da tre a 4 ore
Sull’organizzazione strutturale:
•
Tempo per fare il lavoro di pensiero e non solo la progettazione assieme dentro le ore di laboratorio
(aiuterebbe a far si che la discussione e il pensiero fosse più partecipato)
•
Forse invece di incontri settimanali di tre ore si potrebbe pensare a degli incontri modulari più lunghi
Sui temi trattati:
•
Mi sarebbe piaciuto che si entrasse più nello specifico rispetto alla realtà del Piemonte
•
L’incontro sull’abitare è stato molto generico/teorico poco tarato sui richiedenti asilo e rifugiati
•
Il filo conduttore abitare /case che avrebbe dovuto unire i diversi incontri non è stato veramente visibile
•
L’incontro sul lavoro secondo me è stato interessante ma alla parte generica legale legata al lavoro di
inquadramento andrebbe unita anche una parte più pratica che spiega i passaggi e le difficoltà di trovare
poi concretamente il lavoro e quindi l’inserimento qui
•
La parte sulle convenzioni italiane ed Europee è stata interessante ma poi è mancato il tempo per
approfondire così come la parte laboratoriale sulla ricostruzione delle storie di vita è stata interessante
ma c’è stato poco tempo per lavorare effettivamente in gruppo facendo le ricerche on line
•
Importante riuscire a portare il “testimonial” per ogni potenziale stage e riuscire a dare tante
informazioni concrete su che cosa si potrebbe fare all’interno di ogni stage
•
Secondo me è stato bello confrontarsi con persone diverse operatori e studenti di altre provenienze e io
manterrei anche l’impostazione così come è cioè un’impostazione che apre tante finestre e poi sta a noi
mettere assieme i pezzi e trovare i collegamenti, rispetto invece alla lavoro di progettazione inserire oltre
al tutor la possibilità di un incontro intermedio per capire se si sta andando in una buona direzione o
meno avrebbe senso
•
Bisognerebbe riuscire a far emergere di più e sfruttare di più nel gruppo le competenze di operatori,
studenti e volontari (dedicare una lezione del laboratorio alla presentazione? Fare le presentazioni tutte
assieme il primo giorno? Rispetto ai temi proposti far emergere temi e questioni in sottogruppo che
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potrebbero arrivare a far conoscere meglio le persone e il loro vissuto e pensiero rispetto alla
autopresentazioni. Cambiare comunque la modalità
Sugli argomenti che sono mancati
•
Non solo elementi per una progettazione generica ma entrare più nel dettagli delle progettualità esistenti sui
rifugiati (POR, FER, FEI e fra capire i vincoli sia di scrittura che di rendicontazione)
•
Forse sarebbe importante fornire anche ai partecipanti al laboratorio una lista dei diversi servizi dei territori
per richiedenti asilo e rifugiati, se ne potrebbe fare il compito di uno dei gruppi di lavoro
•
Secondo un'altra persona invece le liste dei diversi servizi aggiornate per argomento esistono già e non
avrebbe senso duplicare queste cose
•
Elementi di geopolitica e storia (contrasti economici, interessi di stato, squilibri di potere) come questi
agiscono sulla nascita delle crisi e privazioni di alcuni territori e determinano la causa e le motivazioni del
perché poi da lì si scappa e in prospettiva elementi anche di che cosa si potrebbe fare ragionando su politiche
di dialogo tra i popoli e operazione internazionale (magari scegliendo almeno un paese su cui riuscire a far
vedere nel tempo i diversi livelli
•
Parlare della cooperazione italiana ufficiale quali strategie e politiche ha seguito nel tempo
•
Inserire anche una parte pedagogica che tenga conto dell’importanza e qualità delle relazioni con l’altro
•
Cogliere e presentare di più il punto di vista dei richiedenti asilo e rifugiati ( se non portandoli di persona e
senza trasformarli nel “testimonial” forse utilizzando video e filmati)
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