Il DNA forense e la bioetica

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Il DNA forense e la bioetica
La scoperta nel 1953 della struttura a doppia elica del DNA, che
ha meritato il premio Nobel ai due giovani ricercatori Crick e Watson, ha aperto notoriamente un enorme spazio alle conoscenze ed
alle possibilità pratiche di un grande numero di discipline.
La bioetica, nata successivamente nel 1970, benché inizialmente
connotata da finalità e principi ambientalisti, si è poi estesa a studiare gli effetti positivi, ma anche negativi sotto il profilo etico, delle
applicazioni conseguite alla scoperta di Crick e Watson, specie in
ambito di ingegneria genetica.
Tra queste ha suscitato grande interesse, inizialmente confinato
agli esperti, la possibilità di avvalersi del cosiddetto “DNA forense” per indagini private o giudiziarie intese ad attribuire o disconoscere la paternità oppure l’appartenenza o meno a vittime ed indiziati di tracce biologiche rinvenute su reperti o persone in caso
di delitti.
Lo sviluppo della tecnica di tipizzazione dei polimorfismi del DNA
è iniziata nel 1985, con la tecnica del southern blot con sonde multilocus e unilocus, ed ha avuto un decisivo progresso dopo la geniale
invenzione della PCR (Polymerase Chain Reaction) da parte di Mullis – anch’egli insignito del premio Nobel – che hanno reso il metodo più agevole ed efficace e quindi di utilizzazione sempre più frequente. La sua popolarità è stata assicurata anche da fictions televisive, da giornali e riviste e ad essa è seguita una diffusa, ma spesso
opinabile, convinzione che si tratti di una “prova regina”, altamente
e decisivamente affidabile.
L’analisi del DNA si è estesa anche a reperti antichi, di interesse
quasi esclusivamente scientifico. L’idea di provare ad estrarre materiale genetico da campioni archeologici e fossili ha costituito un settore in continuo sviluppo della moderna biologia molecolare, grazie
al quale è oggi possibile studiare il patrimonio genetico di specie
estinte mettendolo a confronto con quello delle specie attuali. L’antropologia molecolare, che si intreccia con una varietà di discipline
quale ad esempio la genetica di popolazioni, l’antropologia, l’archeologia, la linguistica e la paleontologia, ha acceso controversie
su molti dei risultati ottenuti dagli antropologi molecolari specie in
ordine alla eventuale presenza di contaminanti nel corso dell’anali-
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si. Molti scienziati impongono un limite di circa 100.000 anni per la
sopravvivenza di DNA amplificabile.
Come tutte le tecniche biomediche, ed in generale tutte le tecniche, la possibilità di errore è sempre in agguato. Ma le conseguenze
sono ovviamente diverse, in caso di possibili errori, nel caso del
“DNA antico” studiato a scopo scientifico, e “DNA forense” per il
quale le conseguenze di errori di tipizzazione possono essere di rilevante, talora insanabile gravità. Figli negati o attribuiti erroneamente, indagati che diventano imputati e talora ingiustamente condannati od ingiustamente assolti.
Questo serio problema giudiziario, che fatica molto a farsi strada non solo nell’opinione pubblica ma perfino tra gli “esperti”, ha
indubbi connotati bioetici perché attiene al generale problema dell’impiego pratico dei progressi della biologia.
Ciò che si sta rivelando sempre più pericoloso, è l’uso sbrigativo e superficiale del DNA forense sia nell’esecuzione dell’analisi che
nella tipizzazione conclusiva e nella comparazione con altre tipizzazioni. Ne emerge sempre di più la rilevanza bioetica del problema
perché attiene proprio ai temi cui la bioetica si è dedicata: verificare e denunciare i rischi della applicazione dei progressi scientifici
biologici dei quali l’analisi del DNA è senza dubbio uno degli esempi
più significativi.
In verità non è tanto il settore della ricerca della paternità a destare preoccupazioni reali in quanto, se il laboratorio cui è affidata
è ben dotato ed organizzato, e la tipizzazione, compiuta su materiale
biologico fresco – sangue, saliva – è effettuata su padre, madre e figlio, i risultati sono in genere altamente affidabili.
Più complesso è invece il caso di ricostruzione di un albero genealogico in caso di morte di uno o di entrambi i genitori, senza
dubbio più problematico, più che altro sul piano interpretativo che
non su quello tecnico. Diverso è il caso di tentativi di ricostruzione
del rapporto parentale su resti scheletrici, dentali, muscolari che ricadono nell’area delle tracce biologiche e pertanto sono esposti a
maggiore rischio di errore.
L’analisi delle tracce presenta invece problemi e difficoltà molto
complessi e rischi di errore elevati.
Non raramente in caso di delitti, la ricerca viene impropriamente
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compiuta senza il previo accertamento – spesso infruttuoso – della
reale esistenza di una traccia (e non di contaminanti) della sua natura – sangue, saliva, liquido seminale, altro – e quindi della pertinenza sicura ad una sola persona. Ma spesso queste esigenze non
sono soddisfatte con la necessaria certezza e ne possono seguire tipizzazioni forzate e poco affidabili. Più rischioso ancora è il caso di
tracce miste – sangue di persone diverse, sangue e saliva ed altro –
dove la cautela deve essere massima.
Ancora una volta i limiti della biotecnologia, purtroppo spesso
ignorati o occultati richiedono prepotentemente una adeguata riflessione critica, ed il conseguente allarme bioetico per i riflessi pericolosi sui singoli e la società, in questo caso sulla giustizia. La consapevolezza che deve essere assolutamente acquisita riguarda anzitutto, e soprattutto, i magistrati e i difensori delle parti ma anche l’opinione pubblica che, spesso disorientata di fronte a risultati non univoci, ha il diritto di essere informata di questi problemi e delle conseguenti possibilità di gravi errori giudiziari e quindi anche dell’aspetto etico di questa grande rivoluzione scientifica che, se bene e
prudentemente utilizzata, può in molti casi fornire risposte e soluzioni in casi di rilevante impatto sociale.
Angelo Fiori
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