- Emanuele Pagoni

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FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN ANTROPOLOGIA CULTURALE ED ETNOLOGIA
Elaborato presentato per il corso di
ANTROPOLOGIA APPLICATA
GLI UOMINI DELLA COOPERAZIONE:
IL CEFA E LO SVILUPPO PARTECIPATIVO
Bologna, 6 giugno 2009
EMILIA LICITRA
0000363699
INDICE
Introduzione .................................................................................................................................. 3
CEFA: Comitato Europeo per la Formazione e l’Agricoltura.................................................... 5
Cenni storici................................................................................................................................ 5
Interventi agricoli........................................................................................................................ 5
Progetti di sviluppo ..................................................................................................................... 7
La sostenibilità dei progetti ....................................................................................................... 10
Cooperazione: una questione di relazione e partecipazione...................................................... 12
I volontari come “motivatori” dello sviluppo............................................................................. 13
In quali termini si coniuga la partecipazione con gli “sviluppati” e in quali pratiche si concretizza
all’interno del CEFA? ............................................................................................................... 14
I significati della partecipazione ................................................................................................ 14
L’ispirazione cristiana ............................................................................................................... 14
In quali pratiche si concretizza la partecipazione? ..................................................................... 15
Il fattore lingua.......................................................................................................................... 16
Fattore spazio............................................................................................................................ 19
Uso della manodopera locale..................................................................................................... 19
Partecipazione delle istituzioni .................................................................................................. 20
Dialogo con i rappresentanti locali ............................................................................................ 21
La partecipazione operata dai volontari CEFA......................................................................... 23
Gli agenti dello sviluppo e i volontari CEFA ............................................................................. 23
Chi sta dietro la selezione e formazione dei volontari nel CEFA? .............................................. 23
La gratuità................................................................................................................................. 24
Umiltà culturale ........................................................................................................................ 25
Professionalità........................................................................................................................... 26
Caratteristiche umane e motivazioni.......................................................................................... 27
La formazione dei volontari ...................................................................................................... 27
Quando la partecipazione diventa “globale”: il settore dell’Educazione allo sviluppo ................. 29
Le immagini.............................................................................................................................. 30
Antropologia e CEFA ................................................................................................................. 32
Conclusioni .................................................................................................................................. 34
Appendice.................................................................................................................................... 35
Bibliografia.................................................................................................................................. 66
2
INTRODUZIONE
“Il dialogo autentico presuppone il riconoscimento dell’altro
al tempo stesso nella sua identità e nella sua alterità.”
Alassane Ndaw
Oggetto di questo elaborato è l’analisi delle dinamiche di cooperazione e sviluppo attuate da un
organizzazione non governativa di esperienza trentennale, dal nome CEFA.
Il filo conduttore dell’elaborato è dato dalle storie di vita dei promotori dello sviluppo: il mio
interesse era quello di scoprire gli “uomini della cooperazione”, con le loro motivazioni, aspettative,
emozioni, logiche e strategie di azione; per poi in particolare delineare la figura del
volontario/cooperante CEFA. Tutto questo perché credo che i volontari hanno un ruolo
fondamentale nei progetti: con le loro scelte, i loro comportamenti e soprattutto con le loro capacità
di interagire con gli “altri”, possono influire sull’andamento del progetto. Un’azione di sviluppo,
infatti, è sempre un’occasione di interazione tra attori sociali appartenenti a mondi diversi e dunque
anche luogo in cui si confrontano molteplici logiche e strategie1.
“Una scelta estrema potrebbe portare delle conseguenze irreversibili sulla
popolazione, oltre a creare sfiducia nei confronti della cooperazione”2.
Lo sviluppo è un campo in cui diversi attori partecipano, interagiscono e nella loro interazione
vanno a definire lo sviluppo stesso. In questo senso, diventerà essenziale analizzare i rapporti tra i
sistemi di pensiero dei vari attori: nell’interazione, infatti, si produce un rapporto di incontroe
scontro di sistemi di conoscenza diversi. Mentre i tecnici di una Ong hanno di solito una
conoscenza di tipo scientifico, spesso una formazione positivista, la controparte ha un patrimonio
culturale completamente diverso. Così nel momento in cui le due parti devono comunicare tra loro,
possiamo riconoscere un campo di tipo conflittuale: l’appartenenza a sistemi diversi di conoscenza
crea degli sforzi, delle difficoltà di comprendersi per poi creare una sintesi per agire.
Il progetto di sviluppo si presenta così come una sorta di laboratorio dove si producono reazioni,
proprio perché qui regna la diversità. Questo è uno dei motivi principali per cui gli antropologi
possono e debbono occuparsi di sviluppo e delle dinamiche che si sviluppano tra i diversi attori
sociali.
I dati a mia disposizione provengono da una serie di materiali scritti e di testimonianze orali: i
documenti ufficiali sull’identità del CEFA; documenti del bilancio sociale dal 2004 al 2009; alcuni
documenti sul progetto della latteria; un libro di un volontario del CEFA che mette insieme una
1
2
Olivier de Sardan J.-P, Antropologia e sviluppo, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2008, p. 131.
Pagoni E., Email dalla Tanzania. Esperienza di cooperazione,Roma, 2008, cit. p. 54.
3
serie di riflessioni dal campo. A questi si aggiungono le interviste semistrutturate svolte da aprile a
giugno e rivolte ai responsabili dei vari settori del CEFA e ad alcuni volontari del progetto della
latteria in Tanzania.
In alcuni passaggi del mio elaborato, prenderò in esame un progetto della creazione della latteria a
Njombe, in Tanzania, del quale però (per brevità di tempo e di materiale) non so molto, nel quale
non ho lavorato, realizzato in un posto nel quale non sono mai stata. Ma mi serve come esempio per
spiegare certe tematiche ed esprimere certe riflessioni.
4
CEFA: COMITATO EUROPEO PER LA FORMAZIONE E L’AGRICOLTURA
Cenni storici
Il CEFA viene fondato a Bologna il 23 settembre del 1972 per volontà di un gruppo di
cooperative agricole bolognesi di ispirazione cristiana, mossi da uno spirito di solidarietà per i
contadini dei paesi del cosiddetto “Terzo Mondo”. I suoi ispiratori sono Giovanni Bersani e Padre
Angelo Cavagna, che sono anche tra i massimi esponenti nell’elaborazione della primissima stesura
della legge 49/87 sulla Cooperazione allo Sviluppo3.
Fin dalla sua nascita, in particolare dal 1974, anno in cui ottenne dal Ministero degli Affari Esteri
italiano l’idoneità come agenzia dello sviluppo, il CEFA si è impegnato a promuovere e gestire
iniziative di cooperazione allo sviluppo e di volontariato internazionale in vari paesi del mondo, in
primis alcuni stati africani, fine anni ’80 in paesi dell’America Latina e poi ancora in Bosnia e in
Albania.
Interventi agricoli
I progetti di sviluppo del CEFA sono prioritariamente rivolti alle regioni rurali: l’obiettivo è
quello di evitare la grande migrazione dalle campagne alle città, dove si vanno a creare sacche di
estrema povertà, e poi l'emigrazione nei paesi del nord Europa e dell'America, fattori che secondo il
CEFA tolgono dignità alle persone.
Operando in zone rurali, il bacino d’utenza del CEFA è formato in buona parte da cooperanti
specializzati in ambito agrario4. Seguono, dunque, tre brevi “storie di vita” di operatori del CEFA:
Benassi Marco, il direttore del CEFA
Ha conseguito un diploma in perito agrario e una laurea in agraria. Conosce il CEFA tramite un
incontro sulla cooperazione internazionale e italiana tenuto da Giovanni Bersani, dopodiché inizia a
frequentare il consorzio di cooperative agricole e partecipa come volontario a delle missioni di
breve periodo. Ad un certo momento, Bersani gli fece la proposta di lavorare al CEFA e di fare così la definisce Benassi - una “scelta di vita” particolare.
3
La legge diede una strutturazione al movimento volontaristico e cercò di istituzionalizzare il ruolo della figura del
volontario, colmando alcune lacune di tipo retributivo, previdenziale, assicurativo, e sanitario. “Il volontario non è né
un santo, né un figlio di papà: un santo perché deve avere delle motivazioni extra-umane, un figlio di papà perché se lo
può permettere perché ha i soldi.”, mi spiega Luca Rondini. Per la problematica delle leggi sulla cooperazione
internazionale, si veda 5) Intervista Luca Rondini, p. ; Incontro di formazione CEFA, Gli aspetti legislativi e
contrattuali della Cooperazione allo Sviluppo italiana, Bologna, 17 marzo 2007.
4
Nelle pagine successive viene precisato e ampliato questo discorso: il CEFA, infatti, non opera solo in ambito agrario
ma promuove progetto plurisettoriali integrati.
5
“È una scelta di vita: perché c’era un discorso di solidarietà che comunque faceva parte anche
della mia esperienza precedente: in quanto ho fatto diverse esperienze di volontariato
soprattutto in Italia, nel volontariato locale […] Fare una scelta del genere (lavorare al CEFA)
è stato un pochino più radicale perché voleva dire anche a livello lavorativo avere presente
determinati canoni, obiettivi…”5
Beccari Giovanni, responsabile della raccolta fondi:
Laureato in agraria, parte per il CEFA come volontario a venticinque anni fino a ventotto anni.
“Ė tutto un percorso dovuto alla famiglia, alla tua storia: ritengo che quando hai mamma e
papà entrambi medici di campagna, sempre disponibili ad aiutare gli altri, i fratelli (maggiori)
che hanno fatto esperienze del genere, ti viene voglia... e la scommessa è stata che io ero
agronomo, così ho unito il mio spirito di servizio alla mia professione.”6
Dopo l’esperienza in Africa cessa per un periodo la collaborazione con il CEFA finché nel 2000
ritorna nell’organizzazione, ma come responsabile della raccolta-fondi e della comunicazione.
quindi non seguo più un progetto in particolare. Così ormai quando vado in Africa, vado ad
accompagnare i volontari per vedere come i soldi vengono spesi.
“Tutti i giorni cerco di incontrare della gente, con comunicazione, con tecniche cerco di
portarli dalla mia parte. Vado dove sono i più ricchi, cerco di coinvolgerli a sostenere la
missione del CEFA.”7
Pagoni Emanuele, capo progetto nelle fasi iniziali della latteria in Tanzania:
Si laurea nel 2001 in Scienze della Produzione Animale presso L’università degli studi di
Camerino, e proprio in funzione della preparazione della tesi di laurea conosce più da vicino il
mondo della cooperazione internazionale: il relatore infatti aveva ed attualmente ha molti progetti
nei paesi in via di sviluppo. Dopo la laurea, lavora subito a tempo indeterminato per un’azienda di
salumificio e macellazione, svolgendo il ruolo di zootecnico, ispettore ISO 9001, valutatore suini e
ispettore per il Settore Biologico; nel frattempo coopera con il Parco Nazionale dei Monti Sibillini.
Aveva svolto il Servizio Civile presso lo IOM (Istituto Oncologico Marchigiano):
“Per un anno sono stato a fianco di un malato terminale di tumore, ero diventato parte della
famiglia. Autista di Ambulanza per la Croce Gialla di Falconara, facevo interventi di
emergenza: mi è capitato di fare due massaggi cardiaci e di salvare una vita. Inoltre facevo
taxi sanitario dividendo le storie e le vite di molte persone.”8
Nel 2004 parte per il progetto della latteria Tanzania per il CEFA, spinto da diverse motivazioni:
“Lasciare un segno nella mia vita e nella vita degli altri, distaccarmi dal consumismo e
dall’aridità che si crea dentro di noi nella società attuale frenetica e priva di valori.”9
5
Si veda in Appendice 3) Intervista a Marco Benassi, p. 43
Si veda in Appendice 1) Intervista Giovanni Beccari, p. 35
7
Ibid., p. 35
8
Si veda in Appendice 6) Intervista Emanuele Pagoni, p. 61
9
Ibid., p. 61
6
6
Per l’ottimo lavoro svolto a Njombe, nel 2006 gli viene conferita la Cittadinanza Benemerita “per
essersi distinto nella promozione di una concreta cultura della pace e nella costruzione di un
progetto etico”.
Tornato in Italia, crea un sito internet dedicato all’Africa e al mondo della cooperazione. Sempre
via internet, pubblica un suo libro, una raccolta delle mail inviate agli amici durante il periodo di
volontariato in Tanzania, molto interessante per chi vuole comprendere meglio “le pratiche” del
volontariato (testo che ho più volte usato per le mie riflessioni in questo elaborato). Inoltre,
Emanuele conduce una trasmissione radio L’africa ed i suoi Miti, dedicata ai Presidenti africani
post-coloniali della Tanzania, Burkina Faso e Sud Africa.
Progetti di sviluppo
In tutti questi paesi, il CEFA si fa portavoce di progetti di sviluppo e non d’emergenza10,
attribuendo al termine “sviluppo” l’idea di lunga durata (in media dieci anni), e di auto sviluppo,
ovvero un sostegno alle popolazioni beneficiarie del progetto perché queste possano comprendere le
soluzioni per il proprio sviluppo. Queste soluzioni non si riducono ad essere solo soluzioni
tecnologiche: le grandi tecnologie, infatti - a detta dei vari cooperanti del CEFA - possono divenire
facilmente “un dono avvelenato”, capace di creare false aspettative, in mancanza di un’accurata
valutazione. Interessanti, in questo senso, le riflessioni di un volontario responsabile del progetto
della latteria nelle sua fasi iniziali:
“Creare molte aspettative che poi si infrangono nella realtà del posto è deleterio per la
cooperazione e per i volontari. […] Quindi che senso ha creare cose esagerate sapendo che
nessun Africano saprà portarle avanti? […] Esempio, se mettiamo un generatore di vapore
potentissimo per la sterilizzazione, ma poi nessuno sa manovrare quel generatore, cosa se ne
faranno? Oppure una latteria megagalattica per una quantità di latte di 1.000 litri al giorno,
anche di dubbia qualità, che cosa se ne faranno se non miglioriamo contemporaneamente le
condizioni alimentari e sanitarie della vacche? Sono tutti dubbi che ogni giorno mi passano
per la mente.”11
La scelta di una tecnologia appropriata implica sempre una riflessione sulla sua “appropriatezza”,
ovvero una conoscenza della struttura produttiva e del contesto culturale (compito che può essere
10
In realtà, nell’Art. 2 dello statuto del CEFA, tra le finalità si parla anche di “azioni di aiuto in casi di emergenza
causati da disastri naturali, lotte interne o conflitti internazionali, inviando aiuti, soccorrendo i profughi e i rifugiati,
organizzando campi di risistemazione, soccorrendo in ogni forma utile le zone e le persone colpite da tali flagelli”. Ma
a questo segue sempre “la riabilitazione delle strutture e dei servizi primari colpiti da tali scontri e conflitti, in modo da
favorire il ripristino delle attività essenziali e preparare il ritorno della normalità sociale ed economica”. Quindi, il
CEFA anche quando opera in situazioni d’emergenza cerca sempre di coniugare l’urgenza dell’assistenza con
un’impostazione di intervento rivolta al coinvolgimento attivo dei beneficiari, alla ripresa di azioni di sviluppo.
Sullo statuto del CEFA si guardi il sito: http://www.cefa. bo.it.
11
Pagoni E., Email dalla Tanzania. Esperienza di cooperazione,Roma, 2008, cit. p. 54.
7
svolto dall’antropologia)12. Infatti “non esistono tecnologie appropriate in sé”: una tecnologia è
appropriata se è “culturalmente adattabile”, quindi modellata sulle risorse e sul contesto locale in
modo da non sconvolgere le tradizioni radicate nella cultura indigena e nello stesso tempo favorire
un processo di crescita economica equilibrata. In realtà, una tecnologia anche se appropriata altererà
comunque il tessuto socio-culturale della società beneficiaria del progetto: ogni intervento di
cooperazione occidentale in un paese in via di sviluppo costituisce per definizione un mutamento
sociale indotto, producendo un effetto moltiplicatore13. Ne risulta che non esiste un progetto solo
tecnico.
Ma, attenzione: il cambiamento non è da considerare negativo: tutti hanno diritto a migliorare le
proprie condizioni di vita! Ma, allo stesso tempo, non bisogna dimenticare che “ogni società ha una
sua propria logica di funzionamento, che deve essere svelata e capita prima che trasformata”14.
Questo spiega la necessità di un approccio globale che ogni intervento di sviluppo deve portare
avanti, e di una collaborazione intensa e costante tra le parti del progetto e non di una
monopolizzazione dei progetti da parte dei sviluppatori “che poi senza i bianchi non possono andare
avanti”15. (Questo presuppone anche una buona preparazione ma soprattutto certi atteggiamenti
d’animo dei volontari di cui parlerò successivamente).
In questo ambito, l’antropologia del cambiamento sociale e dello sviluppo suggerisce due
prospettive euristiche: 1) l’“olismo metodologico”16 che considera i processi di sviluppo non
autonomi dalle loro dimensioni sociali, politiche, culturali e simboliche, magico - religiose; 2)
“l’individualismo metodologico” vede invece gli individui come “imprenditori che manipolano le
relazioni personali”17, attuano delle strategie, per raggiungere i propri obiettivi (prospettiva actororiented).
Attento a queste problematiche, il CEFA promuove progetti plurisettoriali integrati: azioni
combinate sui settori tecnico-agricolo, zootecnico e veterinario ma anche sui settori di promozione
sociale, educazione e scuola, sanità.
“Noi facciamo “progetti plurisettoriali integrati”, cioè progetti dove ci sono vari settori, ogni
settore viene gestito da un volontario e dopodiché c’è un coordinatore che coordina ogni
settore in modo tale che ogni progetto abbia un scopo il più possibile armonico tra i vari
settori […] Diciamo che, gioco-forza, davanti ad un progetto specifico obbligatoriamente ne
12
Sugli apporti dell’antropologia, vedi Olivier de Sardan J.-P, 2008; Malighetti R., 2005; Tommasoli M., 2003; Casella
Paltrinieri A., 2002; Rinaldi M.D, 1986.
13
Rinaldi M.D., Antropologia e progetti di volontariato, Certosa di Pontignano, 30/31 gennaio 1986.
14
Rinaldi M.D., ibid.
15
Pagoni E., op.cit., p.54.
16
Si tratta di una indagine intensiva, a lungo termine, su una situazione concreta per cogliere una realtà in tutte le sue
dimensioni. Confronta Olivier de Sardan J.-P, Antropologia e sviluppo, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2008, p. 29.
17
Confronta Olivier de Sardan J.-P., op.cit., p. 32.
8
nasce un altro, poi un altro e ancora un altro. E ne nasce uno di conseguenza al fatto che
abbiamo messo in moto quel progetto in risposta ad un’altra necessità.”18
Si tratta dunque di progetti dinamici e non fatti a tavolino
“[La cooperazione allo sviluppo] io la ritengo un processo, un cammino, un percorso fatto
insieme… Noi del CEFA, penso come anche altre Ong, non lavoriamo né nell’emergenza,
nell’assistenza, e neppure in interventi presso le scuole, gli ospedali. [Le nostre] sono proprio
realizzazioni che si innestano nel territorio e comprendono diversi ambiti: economicoproduttivo, (quello che ci riguarda) l’agricoltura e la sua trasformazione, il settore dell’energia
perché è indispensabile. Ma l’energia non è solo finalizzata ad un discorso di tipo economico
ma anche sociale che è importantissimo, perché per noi vuol dire elettrificazione nelle
abitazioni, nelle scuole, e quindi vuol dire una vita che ottiene maggiori opportunità nel
territorio. […] I casi sono il più delle volte casi che si sviluppano e procedono con dinamiche
che non avevi assolutamente pensato e che non avevi neanche pensato di lavorarci per farle
sviluppare. Dare la possibilità, poi sono le persone del luogo che prendono in mano il loro
destino.”19
Dunque, la natura del processo decisionale che è alla base della pianificazione attuata dal CEFA
appare aperta, flessibile e dinamica. Spesso, invece, come ci ricorda Tommasoli, le procedure
decisionali di molte agenzie e organizzazioni di cooperazione sono spesso talmente rigide e
burocratiche da non lasciare spazio alla flessibilità richiesta dalla considerazione di variabili sociali
nell’attuazione di un progetto20. La differenza tra i due casi è collegabile anche alla diversa
provenienza delle informazioni sulle quali si deve fondare il momento decisionale. Si possono
delineare due modelli: il primo detto top-down, in cui il flusso delle informazioni segue un
movimento dall’alto verso il basso; il secondo è un approccio cosiddetto bottom-up, che comprende
una concezione processuale degli interventi di sviluppo e un impiego di metodologie flessibili e
partecipative di pianificazione che coinvolgano i beneficiari di un progetto21.
Il CEFA così attua un’elaborazione del progetto non “per” ma “con” la popolazione in questione:
“desiderio del CEFA è quello che ogni persona, in ogni parte del mondo, diventi protagonista dello
sviluppo, per essere soggetto attivo di democrazia e di pace”22.
“Ci siamo innanzitutto avvicinati con le nostre competenze (i nostri soci fondatori sono
cooperative agricole), scegliendo sempre un approccio di tipo partecipativo, che non va mai
dato per scontato sia nelle situazioni di emergenza che di prima riabilitazione. Infatti è proprio
attraverso il ricominciare a sedersi insieme attorno a problematiche concrete, coltivazioni,
acqua, cibo, salute, che la fiducia nelle proprie potenzialità può rifondarsi, restituendo
speranza nei meccanismi propri della democrazia. Fare agricoltura in situazioni precarie
significa offrire la possibilità di prodursi il cibo da soli, senza dover contare sugli aiuti
internazionali: questo permette alle persone di “riempire” ancora il proprio tempo, di non
perdere la storia e gli usi del proprio paese, di vedere il frutto del proprio lavoro, in una
18
Si veda in Appendice 5) Intervista a Luca Rondini, p. 54
Si veda in Appendice 3) Intervista a Marco Benassi, p. 43
20
Confronta: Olivier de Sardan J.-P, op. cit., p.151; Tommasoli M., Lo sviluppo partecipativo, Roma, Carocci, 2003, p.
67.
21
Tommasoli M., ibid., pp.105-106.
22
http://www.cefa. bo.it/pagina.asp?Page=53.
19
9
dinamica di restituzione di dignità che può anche contribuire a contrastare la tendenza alla
dipendenza dagli aiuti.”23
La sostenibilità dei progetti
Dunque, “l’avvelenamento tecnologico” (di cui si è parlato in precedenza) può anche significare
dipendenza irreversibile degli sviluppati dai sviluppatori e dalla loro terra d’origine, in poche parole
dall’Occidente. Per evitare questa dipendenza, il CEFA, così, focalizza la sua attenzione alla
sostenibilità e auto sostenibilità del progetto. Cosa intende il CEFA per sostenibilità?
Nei paesi in cui opera, il CEFA cerca di costruire le necessarie premesse perché ciò che è stato
realizzato nel corso dei progetti di cooperazione possa essere preso in carico e gestito interamente
dalla realtà locale senza dover dipendere da contributi di donatori internazionali24.
“Ogni realizzazione dovrà raggiungere nel medio periodo la condizione di autosufficienza,
camminando con le proprie gambe”. “cercare di aiutare la gente a star bene dove sono,
camminando con loro per un pezzo di strada e poi facendoli proseguire da soli nel progetto di
sviluppo. Cerchiamo di individuare quelle persone che ci possano garantire una sostenibilità,
domani, dell'intervento. Figure locali che si affiancano ai volontari e piano piano si
sostituiscono nel loro ruolo, dopo essere state adeguatamente formate.” 25
Per essere approvati, quindi, i progetti devono dimostrare di essere sostenibili nel tempo: al termine
del finanziamento le attività e i risultati saranno compatibili e durevoli sul piano economico,
tecnico, ambientale, sociale; ciò significa che i partner locali sono i soggetti deputati a dare
continuità alle azioni dei progetti dopo la fine del finanziamento e con il ritirarsi dell’Ong26.
Qui di seguito la testimonianza di un volontario, responsabile della sostenibilità del progetto di
Njombe:
“Per le macchine della latteria si è cercato un diplomato in elettrotecnica e lo si è trovato in
una città ad una giornata di distanza dal luogo del progetto, in quanto non esisteva qui un
tecnico che potesse riparare i frigoriferi….Comunque credo che non si possa prescindere da
tecnologie elevate: queste danno stimoli alla gente. Queste tecnologie sono cmq gestite dalle
persone del posto che sono state precedentemente formate… per la guarnizione, invece, c’è
sicuramente una dipendenza dall’Italia. Ma questa situazione è così ovunque..neanche noi
italiani dipendiamo non so per le auto da un paese straniero, ma non siamo suoi schiavi…è il
mercato e noi come anche i tanzaniani sappiamo come gestire questi scambi, contratti….non
c’è il CEFA che fa per loro.”27
Conosciamo più da vicino la figura di questo volontario, Bonelli Alessandro.
Ha lavorato per circa tredici anni per un’azienda italiana e ha gestito una piccola azienda in
Germania come commerciale nel settore no-profit. Nel 2005, ha sentito la necessità di un
23
CEFA, Agricoltura come strumento di sviluppo. Intervista a Patrizia Farolini, Bilancio sociale 2007, p. 20;
http://www.cefa.bo.it/pagina.asp?Page=54
24
Monini G., Progetti sostenibili. Un impegno prioritario: la missione, p.6, in CEFA, Bilancio sociale 2006,
http://www.cefa.bo.it/pagina.asp?Page=54.
25
Bilancio sociale 2004 del CEFA. http://www.cefa.bo.it/pagina.asp?Page=54
26
Lucia Bigliazzi, Oggetti o soggetti dello sviluppo?, in Zanichelli F., Lenzi Grillini F., Subire la cooperazione?,
Catania, Ed.it, 2008.
27
Si veda in Appendice 2) Intervista a Bonelli Alessandro, p. 40
10
cambiamento nel percorso professionale: ha iniziato così ad interessarsi al volontariato,
distribuendo cene ai poveri a Brescia, la città natale.
Poco dopo, ha avuto la possibilità di entrare nel mondo del volontariato internazionale presso le
suore Canossiane, con le quali ha fatto un’esperienza di un mese in Brasile. Una volta tornato,
“L’esperienza mi aveva tanto colpito che ho fatto fatica a riprendere il lavoro di prima (dato
che già facevo fatica anche prima). Così ho contattato una serie di organizzazioni, ong, e poi
tramite un amico, sono arrivato al CEFA. Sono stato invitato a vari incontri, dove il CEFA si
auto presentava”.
In quel periodo il CEFA aveva
bisogno di una
figura esperta nell’ambito della
commercializzazione, sostenibilità economica, per il progetto della latteria in Tanzania, vedendo in
Alessandro la persona giusta. Alessandro ha partecipato al progetto dal Novembre del 2006 fino al
Dicembre del 2008, occupandosi della fatturazione, della produzione e della commercializzazione del
formaggio.
Dopo due anni di volontariato in Tanzania, per evitare il ritorno drastico:
“Insieme ad una collega ci abbiamo messo sette settimane per tornare in Italia: anziché
prendere l’aereo abbiamo preso i trasporti pubblici, autobus, treno. Abbiamo così attraversato
numerosi paesi dell’Africa: mi piace viaggiare, stare tra la gente, conoscere, sentire gli odori, i
profumi diversi! A Brescia, invece, è un po’ difficile: troppi stereotipi! Lì (in Africa) ti senti
utile, coinvolto!” .
11
COOPERAZIONE: UNA QUESTIONE DI RELAZIONE E PARTECIPAZIONE
“Penso che il progresso, ciò che viene chiamato sviluppo, significhi
“fare il pieno” di quella capacità che hanno gli esseri umani di essere
trasmettitori e ricettori di valori.”
Joseph Ki-Zerbo (29 settembre)
Dalle prime annotazioni sul CEFA e le sue attività, si comprende subito che ci troviamo di fronte
ad una Ong promotrice di una concezione di cooperazione “decentrata” e di sviluppo “endogeno” e
“partecipativo”, tutti concetti che iniziano ad affacciarsi nel mondo dello sviluppo a partire dagli
anni settanta, non a caso nello stesso periodo in cui nasce il CEFA.
La questione della partecipazione fu riconsiderata all’inizio degli anni settanta, in corrispondenza
dell’adozione dell’approccio dei bisogni umani essenziali, quando il fallimento degli interventi
ambiziosi degli anni sessanta creò nella configurazione dello sviluppo le condizioni della ricerca di
nuovi stimoli28. Lo sviluppo come promessa di “accrescimento progressivo” fu una fede nata e
inventata dall’Occidente e poi esportata nei paesi del terzo mondo, che anziché migliorare le
situazioni di questi paesi, ha incrementato i problemi, creandone anche dei nuovi: disuguaglianza,
povertà, problemi ambientali29, ecc…
Con la concezione dello sviluppo partecipativo, invece, si esce dal paradigma della
modernizzazione30 e inizia ad esserci una maggiore consapevolezza dell’importanza dei fattori di
tipo umano e sociale: tasselli che rendono l’analisi di una società più complessa di quando si
utilizzano solo indici economici. “Gli aspetti “umani”, o più propriamente socio-culturali, non sono
o non dovrebbero essere una semplice appendice, un “di più”, ma sono (di fatto) e dovrebbero
essere (di diritto) sostanza e materia stessa del progetto” 31.
Viene così riconosciuta notevole importanza anche agli attori sociali: sia i soggetti beneficiari da
coinvolgere nei progetti di sviluppo, sia i promotori dello sviluppo dalla cui preparazione,
disposizione umana dei volontari e dalla conoscenza della realtà sulla quale si interviene, dipende la
28
Tommasoli M., op. cit., p. 101.
Il Club di Roma ha sostenuto il concetto di “sviluppo limitato”: da un punto di vista ecologico, la terra non può
continuare illimitata illimitatamente ad incrementare sviluppi industriali. L’uso del suolo in termini molto estensivi, ad
esempio, produce effetti a catena che rapidamente portano all’esaurimento del suolo stesso.
30
La teoria della modernizzazione è più una visione del mondo che una teoria economica in particolare: nasce e si
sviluppa negli Stati Uniti negli anni cinquanta e sessanta; usa un approccio storicistico - positivistico impostato su
un’idea di sviluppo come crescita data dall’industrializzazione e urbanizzazione. Vede quindi le società in continua
evoluzione e che si allontanano sempre più dalle forme che hanno assunto nel passato; in questo senso i paesi più
arretrati,“i paesi in via di sviluppo”, sono solo le versioni primitive delle nazioni avanzate e per svilupparsi devono
quindi seguire il loro esempio, acquisendo tutte le caratteristiche economiche, politiche, sociali e culturali della
modernità. Si veda come esempio La teoria degli stadi linearidi sviluppo di Rostow. Cfr. Malighetti R., Oltre lo
sviluppo, Roma, Meltemi, 2005; Tommasoli M., Lo sviluppo partecipativo, op. cit; Zanichelli F., Lenzi Grillini F.,
Subire la cooperazione?, Catania, Ed.it, 2008.
31
Rinaldi M.D., op. cit.
29
12
buona riuscita di un programma di sviluppo. È solo grazie alla loro interazione che nasce lo
sviluppo (lo sviluppo come campo di interazione; vedi introduzione).
Dunque, prendendo in prestito la definizione data dall’L’OCSE, l’Organizzazione per la
cooperazione e lo sviluppo economico, lo sviluppo partecipativo è un “un processo che consiste per
gli individui nel giocare un ruolo attivo e determinante nell’elaborazione di decisioni che devono
influire sulle loro vite”32.
Perfetta in tal senso l’immagine fornita da Haram Sidibe, nel saggio L’altra faccia del pianeta che
subisce33, per rappresentare l’approccio del co-operare: è come un ponte che viene attraversato in
entrambe le direzioni, come un momento di incontro, di dialogo, in cui ognuno si impegna secondo
le proprie capacità e mezzi, basato sul riconoscimento dell’altro.
I volontari come “motivatori” dello sviluppo
Nell’ambito dello sviluppo partecipativo, cambia così il ruolo dell’agente dello sviluppo: da
pianificatore a facilitatore di processi decisionali decentrati34.
[...] “Svolgo questi compiti sempre insieme ai partner locali, come il direttore di produzione
della latteria. Io non posso fare nulla se prima non abbiamo deciso insieme. Credo che fare i
cooperanti in un paese meno sviluppato significa che noi siamo sempre stranieri, per quanto
possiamo essere esperti. Dobbiamo quindi sempre collaborare. Se bisogna organizzare la
contabilità, non posso chiamare un giovane appena diplomato in ragioneria dall’Italia: non è il
mio paese, non so le regole del posto. Siamo solo degli organizzatori, dei “motivatori”, con
l’aiuto dei fondi alle spalle.”35
Il ruolo degli esperti non consiste più “nell’estrazione di informazioni utili per pianificare
dall’esterno un intervento, ma nella facilitazione di un processo che consenta alla popolazione
beneficiaria di produrre il sapere necessario per impostare ed eseguire un progetto di sviluppo
attraverso una pianificazione effettuata dall’interno di una comunità o di un sistema sociale”36. Ma,
una simile ottica non riduce certo l’importanza dell’intervento esterno.
“Ogni progetto di sviluppo è sempre fortemente condizionato nei suoi esiti finali dalla qualità dei
volontari che vi hanno lavorato, con una permanenza almeno biennale, totalmente immersi nella
realtà locale. L’invio di volontari espatriati non significa per nulla una prevaricazione nei confronti
della gente del posto, ma, al contrario, esso mira proprio al coinvolgimento della comunità locale
nella responsabilità: si tratta di una relazione tra persone le quali sanno che lo sviluppo non è
semplicemente e soltanto un fattore economico e tecnico, ma un progetto di civiltà e come tale
esso è un percorso che richiede il coinvolgimento delle persone, il confronto tra esse, in un mondo
peraltro in cui nessun uomo, nessuna comunità, nessun paese, nessun continente è un’isola, ma un
soggetto che si pone in relazione con altri.”37
32
Tommasoli M.,op. cit., p. 111.
Zanichelli F., Lenzi Grillini F., op. cit..
34
Questo argomentato è stato in parte sviluppato nelle pagine precedenti… relative alla sostenibilità dei progetti.
35
Si veda in Appendice 2) Intervista a Bonelli Alessandro, p. 40
36
Tommasoli M., op. cit., p. 122.
37
Tosi F., Sguardi di reciprocità, p. 3 in CEFA, Bilancio sociale 2007. http://www.cefa.bo.it/pagina.asp?Page=54
33
13
Non è altro che il concetto di empowerment elaborato da Freire: letteralmente significa “mettere in
grado di” o “rendere capace di”, ed è quindi l’insieme dei meccanismi e dei processi che
permettono alle comunità di assumere potere decisionale e di esprimere la propria volontà per
ottenere il raggiungimento di un obiettivo comune38.
In quali termini si coniuga la partecipazione con gli “sviluppati” e in quali pratiche si concretizza
all’interno del CEFA?
“La relazione con l’altro è la base di ogni sviluppo”.
Jacques Nanéma
Molti studiosi hanno criticato l’uso del gergo partecipativo da parte di molte agenzie dello sviluppo,
al quale spesso non corrisponde un’adesione effettiva ai principi enunciati39.
Ho ritenuto quindi necessario analizzare il significato e la rilevanza attribuiti alla filosofia
partecipativa degli agenti dello sviluppo afferenti al CEFA, principalmente dei soggetti espatriati.
I significati della partecipazione
“L’uomo deve essere la finalità di ogni sviluppo.”
Ebénézer Njoh Mouelle
In sintesi, per il CEFA la cooperazione è “una questione di relazione” e non di dono o di aiuti allo
sviluppo: è sempre un percorso fatto insieme ai beneficiari del progetto; mentre “pensare da soli di
potere definire e realizzare un progetto”, credendo di essere capaci di leggere i bisogni di un
territorio, porterebbe al fallimento degli interventi. Questo discorso è ben espresso dal direttore del
CEFA, Benassi:
“Io penso che [la cooperazione allo sviluppo] sia un processo di persone che lavorano
insieme. Intanto, è evidente che i rischi di sbagliare sono sempre tantissimi perché non si
tratta di tirar su dei muri ma di crescere come persone: crescere insieme, non solo nella realtà
in cui lavori, che è sempre un processo molto di andata e ritorno. Per cui io lo ritengo un
processo, un cammino, un percorso fatto insieme. Infatti qual è la risorsa che è sempre più
importante ma nello stesso tempo quella più delicata? Sono le persone: i volontari che partono
ma anche le persone locali che vengono individuate, selezionate, formate e che poi un
domani, operativamente, dovranno continuare quel lavoro che pian piano gli viene passato.”
L’ispirazione cristiana
Il CEFA attinge i valori della partecipazione dalla religione cattolica. L’ispirazione del CEFA è
cristiana ma chi effettivamente realizza i progetti, tra l’altro in paesi di diversa professione religiosa,
non è “il CEFA” ma i volontari che possono essere di tutte le direzioni. A questi e a tutti coloro che
38
39
Sul concetto di Empowerment si veda Tommasoli M.,2003, op. cit.; Zanichelli F., Lenzi Grillini F., 2008, op. cit.
Vedi Tommasoli M., ibid., pp. 103-105; Zanichelli F., Lenzi Grillini F., ibid.
14
lavorano in questo organismo, il CEFA chiede solo rispetto dei valori cristiani, senza mai
pretendere una fede o una conversione al cristianesimo.
“Il CEFA è un organismo di identità cristiana e fa grande riferimento ai principi del magistero
della Chiesa e del Vangelo. Noi chiediamo rispetto per la nostra identità cristiana, come noi
rispettiamo le provenienze spirituali diverse di ogni altra persona che si approccia a noi. Detto
questo, noi però diciamo che non siamo un’emanazione di un istituto missionario, non siamo
un’emanazione di un ente religioso, non siamo un emanazione di un centro diocesano
missionario, non siamo legati con una congregazione religiosa…in pratica non siamo né preti,
né suore. La nostra testimonianza cristiana passa non attraverso un cammino di
evangelizzazione ma passa attraverso un cammino di promozione umana. E in questo
cammino di promozione umana, cerchiamo e speriamo di condividere questo cammino con
altre persone che provengono da esperienze spirituali diverse dalle nostre.”40
In altre parole, questo cammino di promozione umana implica un desiderio e una volontà di porsi in
rapporto con le comunità beneficiarie per intraprendere insieme un percorso di sviluppo
responsabile e sostenibile, tutto ciò seguendo una visione cristiana dell’uomo e del mondo. Per
concezione cristiana dell’uomo il CEFA intende in sintesi che “l’uomo, figlio di Dio, è depositario
di un’originaria e inalienabile dignità, destinatario dei beni del creato e legato da indissolubili
vincoli di fratellanza universale. L’uomo è considerato così il valore più grande e la massima risorsa
per se stesso e per gli altri.”41
L’unico problema effettivo che potrebbe sussistere,
“È che in alcuni progetti la controparte ufficiale, cioè i veri rappresentanti della gente del
posto sono missionari: se ci sono progetti in cui la realtà è strettamente legata con la realtà
missionaria, bè, in questi casi una persona che abbia un bagaglio di esperienza di vita
religiosa, in questa situazione, forse si preferisce. Vero è che se viene qui una persona che
dice “io di preti e di suore non ne voglio sapere di niente!”, secondo me si squalifica perché
non è condivisibile.”42
In quali pratiche si concretizza la partecipazione?
La risposta la si trova innanzitutto nella strutturazione, in linee generali, dei progetti del CEFA:
1. c’è sempre una richiesta da parte dei beneficiari (in realtà chi fa la richiesta possono essere le
istituzioni, i missionari, come anche i turisti);
2. valutazione delle capacità del CEFA (viene mandato sul campo uno/due volontari per studiare la
richiesta e vedere la possibilità di sviluppo del progetto);
3. accertamento di una vera adesione e coinvolgimento degli attori sociali locali, ossia dei veri
beneficiari del progetto (fase fondamentale perché, talvolta, i beneficiari non coincidono con le
persone che hanno fatto la richiesta, come si è visto nel punto 1.);
40
Si veda in Appendice 5) Intervista a Luca Rondini, p. 54
Cfr. CEFA, Bilancio sociale 2004, Mettiamo il loro futuro nelle loro mani, http://www.cefa.bo.it/pagina.asp?Page=54
42
Si veda in Appendice 5) Intervista a Luca Rondini, p. 54
41
15
4. contatto e confronto con le istituzioni;
5. selezione e formazione dei volontari;
6. periodo di adattamento per i volontari sul posto: corso di lingua locale;
7. avvio del progetto: collaborazione con i rappresentanti locali;
8. accertata la sostenibilità, il CEFA consegna il progetto alla controparte.
In altre parole, da una analisi di queste fasi del progetto e tramite le interviste ai cooperanti e ai
volontari, la partecipazione negli interventi del CEFA risulta prendere forma attraverso le seguenti
pratiche, in seguito spiegate una per una:
Conoscenza della lingua e dei saperi locali da parte dei volontari;
Abitare lo stesso luogo dei beneficiari;
Conoscenza del luogo e rete di conoscenze;
Uso della manodopera locale;
Partecipazione monetaria e politica delle istituzioni;
Dialogo con dei rappresentati locali;
Disposizione umana e formazione dei volontari (discuto quest’ultimo punto nel
capitolo successivo).
Il fattore lingua
Wittgenstein in Ricerche filosofiche (1953) parla dell’importanza della comunicazione
linguistica. Egli crede che la partecipazione che ciascun uomo riesce a mettere in atto con l’altro è
tale solo quando c’è comprensione del linguaggio (comunicativo e di valore). Attraverso il
linguaggio si può capire la forma di vita degli altri; infatti il nostro modo di essere al mondo è
sempre mediato dal linguaggio.”
Anche Tedlock e Mannheim43 hanno riflettuto sul legame tra partecipazione e linguaggio in
antropologia e hanno definito quattro livelli in cui avviene la partecipazione mediata dalla
comunicazione linguistica: 1) livello linguistico: attraverso i nostri commenti valutativi (penso,
credo, ritengo…) poniamo il nostro essere davanti ad un altro; 2) struttura partecipativa: la cornice e
le circostanze mettono in comunicazione; 3) posizionamento: ciascuna persona in un dialogo riveste
un ruolo, occupa una posizione in una determinata situazione e così diviene portatore di un certo
potere e autorità; 4) storia personale: ciascuno si porta dietro un insieme di storie che entrano in
campo nel momento della comunicazione.
Riguardo al terzo punto, voglio qui sottolineare le difficoltà vissute da un volontario, Elena Masi
per il solo fatto di essere una donna:
“Buoni rapporti, nonostante i ruoli che impediscono a volte il contatto diretto con la gente, e il
fatto di essere donna […] L’essere sempre considerata mzungu, bianca… Il tutto vissuto con
grande sconforto perché all’inizio pensavo mi impedisse una profonda condivisione.”44
43
44
Si tratta dell’opera: Tedlock D., Mannheim B., The dialogic emergence of culture, University of Illinois Press, 1995.
Si veda in Appendice 7) Intervista a Elena Masi, p. 63
16
Coloro che lavorano nel CEFA, dal presidente fino ai volontari, hanno ben chiaro l’importanza della
conoscenza della lingua locale dei paesi in cui operano, considerandola un ottimo strumento di
lavoro e allo stesso tempo un approccio culturale.
Lavorando in zone rurali e quindi in villaggi lontani dai centri urbani, dove è più parlata la lingua
coloniale, la conoscenza della lingua locale (anche dei dialetti) è un mezzo di comunicazione
indispensabile; ma a questo si aggiunge un altro aspetto fondamentale:
“La lingua ti fa conoscere di più la cultura e ti fa anche essere accettato di più: perché quando
parli con un altro e parli la sua lingua, metti in moto una dinamica di reciprocità che
diversamente non avviene.”45
“È uno strumento di lavoro ed è un approccio culturale. È il confine! Per cui quando noi
parliamo lo swahili, tentiamo e ci sforziamo di parlare una lingua che non conosciamo, però
l’abbiamo imparata per la gente, per loro, allora i Tanzaniani capiscono che c’è un confine tra
un colonialista e uno che lavora per loro. E noi siamo quelli che lavorano per loro. Ma questo
approccio l’abbiamo fatto per capire che cosa ci devono dire loro, per capire la cultura che
passa attraverso una lingua africana. Gli africani certe volte dicono: “voi bianchi siete come
dei libri aperti”, in pratica quando parliamo, esprimiamo apertamente il nostro pensiero…
Attraverso il loro parlare passa molto del significato di ciò che loro ci dicono. Per cui parlare
attraverso una lingua veicolare come l’italiano e l’inglese, ci vuole sempre qualcuno che stia
in mezzo! Molto meglio è se noi cerchiamo di capire cosa loro vogliono dire e con la lingua
46
passa una cultura.”
I volontari vengono così sottoposti ad un periodo di adattamento nel paese in questione, in cui
frequentano per circa un mese e mezzo un corso di lingua locale e nel frattempo iniziano a
conoscere l’ambiente e la comunità con cui dovranno lavorare per due anni.
I volontari impegnati nel progetto della latteria a Njombe mi hanno confermato l’importanza della
conoscenza della lingua, senza però nascondere le difficoltà di tale impresa.
“Fondamentale per capire e per condividere anche momenti al di fuori del lavoro.”
“Grandi soddisfazioni nel lavoro in villaggio e nell’imparare lo swahili, nel comunicare con la
gente.”47
“Fondamentale perché il dialogo e l’accettare la cultura altrui è l’apertura di un nuovo
mondo.”48
Emanuele Pagoni nelle sue mail dal campo durante il periodo in cui frequentava il corso di swahili
(dal 21.09.2004 al 15.10.2004) non manca di annotare gli sforzi e talvolta anche i fallimenti di
questo compito: non conoscendo neanche l’inglese, Emanuele racconta di “conversazioni surreali”,
che lasciano il sorriso sulle labbra a chi le legge, ma che sicuramente sono state causa di disagio per
lui. Così scrive:
45
Si veda in Appendice 3) Intervista a Marco Benassi, p. 43
Si veda in Appendice 5) Intervista a Luca Rondini, p. 54
47
Si veda in Appendice 7) Intervista a Elena Masi, p. 63
48
Si veda in Appendice 6) Intervista a Emanuele Pagoni, p. 61
46
17
“A pranzo e a cena mi sento un lebbroso, lo straniero che non parla inglese. Tutti sanno che
sedendo vicino a me devono ripetere le cose 4 volte e badano bene a rivolgermi la parola…
Mangio in 5 minuti e fuggo per paura di domande incomprensibili.”49
“La prima settimana non vi nego che mi ha preso seriamente male, con delle vere crisi. Qui
sono solo con me stesso nella mia stanza, con il kiswahili che è veramente tosto e con un
inglese con accenti di tutto il mondo.”50
“Amici miei, mi è rimasta un’ora e mezza di lezione e ancora non parlo una parola di swahili,
a parte i saluti e i numeri naturalmente. Vedremo che succederà la settimana prossima in
mezzo alla popolazione.”51
Finito il corso di lingua, Emanuele deve confrontarsi con la popolazione ed è qui che riconosce
l’indispensabilità della conoscenza della lingua e ancor di più vive momenti di scoraggiamento
“La conoscenza della lingua è fondamentale e io ancora non spiccico una parola, mi sento
handicappato; qui pochissime persona parlano inglese, così la gente mi si avvicina parlando
swahili e io non capisco nulla.”… “La lingua continua a essere un mistero, spero che prima o
poi la situazione si sblocchi.”52
Un volontario sul campo non può esercitare il suo ruolo di “portavoce” del sapere tecnicoscientifico senza assumere anche un ruolo di mediatore e di interprete: la trasmissione di un
messaggio tecnico sfocia sempre in un confronto tra due sistemi di senso. L’agente dello sviluppo,
dunque, non può trasmettere nulla senza tradurre, e la qualità della sua traduzione dipenderà dalla
sua maggiore o minore competenza in entrambe le lingue. La traduzione non è un mero esercizio di
parole equivalenti da una lingua ad un’altra (visione lessicale), ma la messa in relazione di campi
semantici differenti, così come di modi differenti di suddividere o di pensare la realtà53.
Altri esempi di vita quotidiana mi sono stati forniti dal responsabile della raccolta fondi del CEFA,
che mi ha raccontato alcuni aneddoti della sua esperienza di volontariato in Africa Orientale:
“In Africa il treno si chiama gari amoshi che vuol dire “macchina che fa fumo”; oppure la
bicicletta non c’è un traduzione in swahili, si dice baisichely perché è una cosa moderna,
portata dagli inglesi. La lingua ti fa capire che arrivi in un paese diverso […]
In Kenya una volta ci capitò che c’era un mare di birra in un magazzino; poi andavi a chiedere
la birra ma non te la davano, dicendo di non averne. Capisco che siano tutti musulmani, però!
Così ho chiesto ad una persona che mi consigliò di chiedere un tè freddo: e così mi portarono
una teiera con dentro la birra.”54
La problematica della traduzione culturale è un tema molto discusso in antropologia, che quindi può
fornire ai cooperanti alcune migliorie all’approccio alle cultura altre. In questo senso significativo è
il contributo di Talal Asad55. In opposizione a Gellner, il quale crede che non ci sia nulla “per
49
Pagoni E., op. cit., p. 18.
Pagoni E., ibid., p. 21.
51
Pagoni E., ibid., p. 29.
52
Pagoni E., ibid., pp. 29-30.
53
Olivier de Sardan J.-P, op. cit., pp. 170-174.
54
Si veda in Appendice 1) Intervista a Giovanni Beccari, p. 35
55
Vedi Asad T., Il concetto di traduzione culturale nell’antropologia sociale britannica, pp.199-229, in Clifford J.,
Marcus G., Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografie, Meltemi, 2001.
50
18
stabilire in modo netto quanto contesto sia rilevante per una data enunciazione”, Asad sostiene che
per comprendere i contesti significativi occorre vivere un’altra forma di vita (che è non è lo stesso
di imparare qualcosa su un altro modo di vivere) e parlare un altro tipo di lingua. La traduzione
dell’antropologo dunque non consiste solo nel trovare corrispondenze tra frasi in astratto56.
Fattore spazio
La condivisione di uno stesso spazio da parte degli sviluppati e degli sviluppatori diviene, come
la lingua, un elemento fondamentale per una migliore partecipazione. È un elemento che può
rientrare nel secondo livello di Tedlock e Mannheim di cui si è parlato in precedenza.
[I volontari] “non vivono in città, e quindi non fanno due ore di strada per arrivare “nel
progetto”, ma vivono lì, con la gente, costruiscono la casa lì con loro… Vivendo con loro,
cercano di trasferire il know-how, le conoscenze alla gente del posto.”57
[Vivere nello stesso spazio, luogo dei "beneficiari" del progetto comporta] “essere parte del
sistema e della comunità e integrarsi il più possibile con le tradizioni e la cultura locale.”58
Vivere con gli altri, inserirsi nella loro vita da un punto di vista spaziale ma anche di ritmi di tempo,
è un punto centrale dell’osservazione partecipante di Malinowski: in questo senso, l’antropologo
britannico fornì una nuova modalità di fare antropologia, ponendo le distanze dagli evoluzionisti
noti come “antropologi da tavolino” per i quali l’antropologia si configurava come “un grande
viaggio mentale attraverso le culture”59.
Uso della manodopera locale
I cooperanti e i volontari del CEFA stanno molto attenti nell’evitare di fare delle cose che
potrebbero fare gli stessi attori sociali dei paesi beneficiari del progetto di sviluppo. Con uno
sguardo al futuro, infatti, cercano sempre di favorire un progetto che sia sostenibile (di cui si è
parlato in precedenza).
“Io dico sempre che la parte relazionale deve essere collocata in un ambito di cooperazione
per lo sviluppo. Non si va, dunque, con dei container per costruire un ponte, lo costruiamo e
poi andiamo via. Noi aiutiamo le popolazioni locali con le loro risorse locali, di territorio ma
anche personali. Ad esempio, se vi è un guasto in un impianto, il compito del CEFA è quello
di valutare insieme alla popolazione locale come risolvere il problema. L’obiettivo del CEFA
è quello di far sì che, quando conclude un suo progetto, chi è lì abbia preso coscienza delle
sue opportunità.”60
56
Entrambi gli autori fanno le proprie riflessioni a partire dal metodo dell’interpretazione contestuale dei funzionalisti
britannici: secondo questo modello i concetti e le frasi non esistono isolatamente nella vita degli uomini e delle società,
e quindi devono essere valutate in base al loro contesto sociale.
57
Si veda in Appendice 1) Intervista a Giovanni Beccari, p. 35
58
Si veda in Appendice 6) Intervista a Emanuele Pagoni, p. 61
59
Fabietti U., Storia dell’antropologia, Bologna, Zanichelli, 2001, p. 21.
60
Si veda in Appendice 2) Intervista a Alessandro Bonelli, p. 40
19
Qui di seguito qualche esempio della trentennale esperienza del CEFA, che alcuni volontari e
funzionari del CEFA mi hanno fornito:
“Abbiamo insegnato in Tanzania a fare le linee elettriche, tutto fatto dagli africani. Io ho
avuto un volontario italiano che per sei mesi ha insegnato loro, poi è andato via e la gente del
posto ha continuato per un anno e mezzo. Poco dopo a Usokami (la parrocchia gemellata con
la diocesi di Bologna in Tanzania), c’era un signore, il prof. Monari, con una associazione di
volontariato che era partita con l’idea di fare la linea elettrica in Tanzania. Io che ero lì, gli
dissi “possiamo darle i nostri tecnici africani per questo lavoro”; non ha voluto dicendo di
avere i suoi volontari italiani dell’Enel, e mandava avanti e indietro dei pensionati dell’Enel e
così ha fatto la linea elettrica. Io avevo formato quel gruppo di tecnici che in questo modo
hanno perso il lavoro. In più si sono disinnamorati di quello che gli avevamo trasmesso.
[…]
In Tanzania, ogni famiglia ha deciso di impegnarsi a recuperare le pietre per fare la diga:
c’è stata dunque una vera collaborazione, un coinvolgimento di intere famiglie, che tutti i
sabati portavano massi per costruire la diga. In questa situazione il CEFA ha così deciso
di portare avanti il progetto, e ancora oggi la diga c’è e funziona.”61
Nel caso del progetto della latteria in Tanzania, sono stati formati alcuni tanzaniani dai volontari e
dai cooperanti del CEFA per lavorare con le macchine della latteria, per la fabbricazione dei
formaggi, mentre per gli allevatori sono stati organizzati una serie di seminari come quello sulla
metodologia della raccolta del latte e sull’igiene della mungitura. In particolare Gerion, un uomo
con cui i volontari del CEFA (in particolare Emanuele Pagoni) avevano collaborato fin dal principio
del progetto, è stato mandato in Italia presso la Granarolo per imparare a fare vari tipi di formaggio
(mozzarelle, caciotte, provolone, feta greca…)
“Per le macchine della latteria si è cercato un diplomato in elettrotecnica e lo si è trovato in
una città ad una giornata di distanza dal luogo del progetto, in quanto non esisteva qui un
tecnico che potesse riparare i frigoriferi. Comunque, credo che non si possa prescindere da
tecnologie elevate: queste danno stimoli alla gente. Queste tecnologie sono comunque gestite
dalle persone del posto che sono state precedentemente formate; per la guarnizione, invece,
c’è sicuramente una dipendenza dall’Italia. Ma questa situazione è così ovunque: anche noi
italiani dipendiamo, non so, per le auto da un paese straniero, ma non siamo suoi schiavi! È il
mercato e noi come anche i tanzaniani sappiamo come gestire questi scambi, contratti. In
questi casi non c’è il CEFA che fa per loro.”62
Partecipazione delle istituzioni
Il CEFA lavora con la gente ma si relaziona sempre anche con le istituzioni locali, le quali offrono
una copertura politica, anche se poi chi porta avanti il progetto devono essere gli stessi beneficiari
del progetto.
“Nei nostri progetti le istituzioni a volte mettono a disposizione la casa per i primi volontari.
Poi coinvolgiamo l’amministrazione distrettuale, poi regionale, fino al livello nazionale.
Perché fino a questo livello? Perché, al di là che è importante essere riconosciuti in tutti i
livelli, prima o poi hai bisogno degli appoggi, e poi perché normalmente se hai dei
riconoscimenti a livello nazionale non paghi le tasse per importare le cose.”
61
62
Si veda in Appendice 1) Intervista a Giovanni Beccari, p. 35
Si veda in Appendice 2) Intervista a Alessandro Bonelli, p. 40
20
“In Tanzania, Kenya, Somalia, Zaire non arriva il governo centrale: noi andiamo in zone dove
i governi non riescono a coprire tutto il territorio e rispondere a tutti i problemi con i loro
funzionari, allora andiamo noi. Le autorità del posto […] non è che siano una gran interfaccia,
specialmente all’inizio. Siamo sempre noi a chiedere loro di fare una parte, di impegnarsi fin
dall’inizio, se no loro direbbero: fate, va tutto bene! Sappiamo che quando noi andiamo via,
saranno loro a doversene occupare, a impegnarsi.”63
Dialogo con i rappresentanti locali
È questo il luogo in cui si riscontrano le maggiori ambiguità e contraddizioni, perché è in questo
incontro che si confrontano e scontrano due culture e due mondi totalmente diversi. Ogni volontario
accorto deve stare attento a non cadere nella trappola degli stereotipi: dovrebbe sapere che “parlare”
con la gente del luogo e con i suoi rappresentanti non significa, di per sé, avere chiarezza dei
problemi, delle richieste e dei bisogni, e che le società altre non sono contesti uniformi e trasperenti
nei quali non si distinguono più i soggetti64.
Quando il CEFA parla di coinvolgimento della popolazione, intende che i progetti riguardano la
gran parte della popolazione e non solo ceti privilegiati, ma il vero dialogo è con i rappresentanti
locali, come i rappresentanti di quartiere, piccole associazioni locali, tutte realtà che di solito sono
preesistenti al CEFA.
Nel caso del progetto della latteria a Njombe, la controparte ufficiale era rappresentata
dall’associazione degli allevatori, dal nome Njolifa. Intervistando i volontari e attraverso la lettura
delle mail di Pagoni, ho potuto riscontrare il cosiddetto “shock di ritorno” di cui parla Olivier de
Sardan: si tratta di uno sfasamento che spesso gli agenti dello sviluppo vivono quando sono sul
campo, in quanto si trovano a delle reazioni e comportamenti della controparte che li disorientano.
Alle spalle del disorientamento, Olivier de Sardan individua due motivi principali: 1) immagini
stereotipate e distorte che gli sviluppatori hanno delle popolazioni; 2) esistenza di diverse logiche
tra le due parti, non messe in conto dagli agenti dello sviluppo.
“… C’è sempre da mediare. Ad esempio: l’associazione degli allevatori tende a chiedere una
retribuzione alta del latte, ma questo va oltre il progetto: secondo noi bisogna sostenere un
prezzo equo al quale si lega una durabilità nel tempo.”65
Spesso infatti appare una “bestia evoluzionistica”, di cui parlano Palmeri e Antoniotto perché in
fondo il volontario si aspetta che l’altro accolga a braccia aperte sia lui che le innovazioni che
porta.66
Le innovazioni invece si diffondono, si inseriscono in un sistema locale già strutturato e poi
vengono reinterpretate e deviate da parte degli attori sociali67.
63
Si veda in Appendice 1) Intervista a Giovanni Beccari, p. 35
Sugli stereotipi, si veda Olivier de Sardan J.-P, op. cit., pp. 39-66; Casella Paltrinieri A., Oltre le frontiere.
Antropologia per avvicinare i popoli, op. cit.
65
Si veda in Appendice 2) Intervista a Alessandro Bonelli, p. 40
66
M. D. Rinaldi, op. cit.
64
21
“… Certamente il fatto che incontrerai sempre è che “tu sei e vivi in una realtà che ha e quindi
puoi portare”… Come siamo razzisti noi lo sono anche loro. Non è da guardarli né come
vittime né come diversi. Hanno degli approcci, una cultura, aspetti sociali che vengono da
storie diverse; loro hanno fatti positivi, li abbiamo anche noi; hanno fatti negativi loro e li
abbiamo anche noi.”68
Come la citazione suggerisce come le ideologie e gli stereotipi interessano entrambe la parti e
vanno a strutturare poi le reazioni e le strategie d’azione69. E ancora la testimonianza
e le
perplessità di Pagoni, quando scrive:
“Mercoledì 14 dicembre abbiamo fatto una riunione con la controparte che si chiama Njolifa,
la riunione è andata bene, i soci sono rimasti soddisfatti dei lavori svolti e per la prima volta
non hanno chiesto quando la latteria sarebbe partita… la cosa che mi ha fatto notare Ele è che
alla riunione hanno partecipato i soci economicamente benestanti. Il Presidente, per dirne una,
possiede due distributori di benzina e un albergo oltre alla macchina, che qui è simbolo di
potere. Purtroppo non posso dire con certezza se il progetto che stiamo sviluppando andrà a
migliorare le condizioni della popolazione e no forse solo il portafoglio di alcuni. Anzi, credo
che la situazione sia molto più delicata all’interno del suo equilibrio sociale.”70
Per far fronte a tali problemi, ogni agenzia di sviluppo dovrebbe scommettere e spendere soldi e
fatiche sulla formazione dei volontari, “un processo che si innesca al momento della sua prima
formazione in Italia, che non si esaurisce certo alla sua partenza e che continua soprattutto sul
campo”71 (vedi in seguito).
67
Olivier de Sardan J.-P, op. cit, cap.4.
Si veda in Appendice 3) Intervista a Marco Benassi, p. 43
69
Vedi anche Olivier de Sardan J.-P, op. cit., pp.40-41.
70
Pagoni E., op. cit. pp. 52-53.
71
Antoniotto A., L’antropologia e la formazione dei volontari, in Rinaldi M.D., Antropologia e progetti di volontariato,
op. cit.
68
22
LA PARTECIPAZIONE OPERATA DAI VOLONTARI CEFA
Gli agenti dello sviluppo e i volontari CEFA
I “volontari” sono il vero patrimonio delle Ong, le risorse umane. Gli operatori impegnati nei
Paesi in via di Sviluppo sono protagonisti e testimoni del dialogo fra Nord e Sud del mondo ed
incarnano, nel loro lavoro quotidiano, la funzione più specifica e cruciale di ogni Ong, che non si
limita ad alleviare le situazioni di povertà, disagio e sofferenza, ma tende ad inserirsi e ad incidere
concretamente nei processi sociali e politici delle comunità in cui opera.
Chi sta dietro la selezione e formazione dei volontari nel CEFA?
Il responsabile della selezione del personale espatriato (volontari e cooperanti) e delle attività di
formazione è Luca Rondini, impiegato al CEFA poco dopo la sua fondazione.
Dopo aver conseguito un diploma in ragioneria nel 1978, Luca vedeva di fronte a sé un futuro che
non lo avrebbe in alcun modo reso felice: e questo se avesse seguito le aspettative che la famiglia
aveva su di lui, proseguendo con un’attività lavorativa pertinente al suo diploma, ovvero
l’impiegato in Banca.
[…] “Se avessi fatto anche solo un mese in Banca, io mi sarei ridotto quasi ad alzarmi tutte le
mattine e a sputarmi in faccia nello specchio nel quale vedevo la mia faccia. La mia coscienza
era questa! Se dovevo abbruttire la mia coscienza in questo modo…”72
L’esperienza di volontariato, che svolgeva da diversi anni, con minori provenienti da condizioni
familiari difficili e tutti i valori che aveva maturato anche tramite questa esperienza … questi
elementi portarono Luca ad interessarsi all’obiezione di coscienza e al servizio civile, realtà che si
stavano definendo in quegli anni in Italia, specialmente dal punto di vista legislativo.
Un amico, Beppe Pierantoni (poi divenuto missionario dehoniano) gli fece così conoscere un
organismo di volontariato italiano presso il quale svolgeva già il servizio civile: il GAVCI,
capitanato da un padre dehoniano, padre Angelo Cavagna, che era anche uno dei fondatori del
CEFA. Dopo aver lavorato presso un ente legato ad un progetto del GAVCI per un anno (ottobre
’80-ottobre’81), Luca accettò la proposta di Padre Angelo Cavagna, il quale era stato incaricato dal
consiglio d’amministrazione del CEFA di cercare una persona che potesse seguire le attività
amministrative, di segreteria, di contabilità del CEFA (in quanto la struttura era appena nata).
“Allora Padre Angelo l’ha proposto a me: io in quel momento ho incrociato il discorso
dell’obiezione di coscienza, il discorso motivazionale, di formazione e di maturazione dei
valori che mi aveva dato questa esperienza con il fatto che avevo rifiutato di andare a lavorare
72
Si veda in Appendice 5) Intervista a Luca Rondini, p. 54
23
in Banca”. […] “A questo punto presi la palla al balzo e sono venuto al CEFA: era il 1981 e
dall’81 fino ad adesso sono passati circa ventotto anni e sono qua. E ho fatto tante cose
diverse: ho toccato molti settori qui al CEFA, perché storicamente sono sicuramente il più
vecchio, fino a diventare responsabile della formazione dei volontari, del personale
espatriato.”73
Pur svolgendo negli anni diverse mansioni all’interno del CEFA, Luca non è mai stato un
volontario ma ha avuto sempre un rapporto di dipendenza professionale con il CEFA. Nonostante
avesse già fatto quell’esperienza di volontariato locale, dopo un’attenta autovalutazione e analisi dei
pro e contro del volontariato internazionale, Luca ha tratto le sue conclusioni:
“Credo che il volontario sia uno stile di vita e lo faccio anche se sono qui per lavoro (perché
se non si ha la mentalità di volontario è difficile capire e continuare a lavorare qui al CEFA).
Però, studiandomi, ho visto che forse era meglio che non facessi il volontario all’estero.”
[…] queste motivazioni, che sono le più disparate ma che sono collegate alla sfera valoriale
più profonda della propria coscienza, sono importanti per arrivare a queste cose.74
La gratuità
Anche attraverso l’esperienza di volontariato con i minori, Luca ha imparato un atteggiamento che
adesso richiede ai volontari che seleziona e forma per il CEFA: si tratta della gratuità.
Vuol dire sobrietà di vita, sobrietà di mezzi, volontà di condurre un tenore di vita il più possibile
vicino a quello della gente con cui si condivide l’esperienza, senza pretendere di vivere al loro
livello. La gente non ci chiede di vivere come loro, ma per loro e con loro.
“La mia esperienza personale: i bambini che seguivo erano terribili, certe volte li avrei
strozzati. Ma detto questo, davanti alla loro ingovernabilità, davanti alla loro instabilità totale,
se raschiavo via questa cosa qui c’erano dei problemi serissimi in famiglia. C’era un’ipoteca
sulla loro vita [tale] che avrebbero avuto la strada segnata di nefandezze e infelicità. Perché?
Perché erano nati così… Se mi mettevo nei loro panni, capivo e comprendevo veramente la
loro situazione. Stessa cosa per i progetti all’estero: questa predisposizione d’animo nei
confronti degli altri vuole dire un atteggiamento di capire al massimo le situazioni che si
hanno di fronte e di tentare semplicemente di metterti nei panni della gente, [che ti trovi]
davanti.”75
Il mettersi nei panni degli altri (espressione coniata da Geertz) è un tema molto discusso in
antropologia, che quindi ci insegna che si tratta di un atteggiamento tutt’altro che “semplice”.
Già Malinowski, con l’osservazione partecipante, aveva sostenuto che l’antropologo deve
immergersi nella vita del nativo per comprendere il suo punto di vista e la sua visione del mondo,
per poi però distaccarsene. I suoi diari, però, rivelarono un’immagine di antropologo diversa: egli è
ben lontano dall’essere un camaleonte etnografico.
Come possiamo conoscere un’altra cultura se è impossibile, come appunto dimostrano i diari di
Malinowski, capire l’altro per empatia? Si chiede Geertz, “cosa accade al comprendere quando
73
Si veda in Appendice 5) Intervista a Luca Rondini, p. 54
Ibid.
75
Ibid.
74
24
l’immedesimarsi scompare?”76. Geertz supera l’empasse di Malinowski con il suo approccio
interpretativista, e afferma “dobbiamo capire quello che loro pensano di stare facendo”: il mettersi
nei panni degli altri significa però conoscere il contesto, descrivere (descrizione densa), distinguere,
interpretare. Non basta quindi solo una predisposizione d’animo!
Gratuità implica anche disinteresse personale, senza attendere una ricompensa. Questo non significa
però che la gratuità sia una cosa fatta gratis. Il volontario che parte ha invece un compenso che gli
permette di svolgere con efficacia e serenità i propri compiti77.
Il CEFA, come tante agenzie di sviluppo, definisce “volontari” i propri cooperanti nonostante
abbiano tutti un contratto di almeno due anni, mettendo così in rilievo la motivazione piuttosto che
la professionalità. Essi non sono più solo le persone di buona volontà che saltuariamente operano in
attività sociali ed assistenziali, ma sono persone che fanno del proprio impegno e motivazione l’asse
portante della propria esperienza professionale nel no-profit.
“Il volontario non è una persona che fa una cosa fatta gratis, è anche questa ma non solo
questa. Il volontario internazionale per il CEFA è un volontario che prende dei soldi per
potersi mantenere dignitosamente e lavora per potere produrre un benessere in un paese in via
di sviluppo. Un volontario va a lavorare con autorevolezza senza prendere delle grandi
retribuzioni perché il volontario va a lavorare con un mix di competenze e un mix di
motivazioni, tra le quali c’è quasi sicuramente la gratuità. Ma la gratuità, ripeto, non è una
cosa fatta gratis: la gratuità è un atteggiamento, una “predisposizione nei confronti di”. Gli
inglesi dicono “I care”: vuol dire un permeare la propria vita al progetto che stai facendo, un
“com-patire” i problemi che la gente ha davanti a te. È uno stato d’animo, una predisposizione
davanti alle grandi difficoltà che la gente ha, e questo va al di fuori di tutte le altre cose, va la
di fuori del fatto che la gente non capisce perché sei andata lì, del fatto che la gente ti frega i
soldi perché sei un bianco, perché “ti fa le scarpe”, e va oltre tutti gli ostacoli che il progetto ti
fa.”78
“Perché si fa riferimento allo statuto delle Nazioni Unite, che individua delle figure che
chiama volontari che vanno all’estero e percepiscono comunque un “compenso”: non è però
legato all’effettivo servizio che loro svolgono perché se tu lo vai a quantificare da un punto di
vista economico su quelli che sono i caratteri che determinano oggi il lavoro,ecc..., sarebbero
connotati da delle cifre ben diverse da quelle che invece connotano un contratto di
volontariato che varia di paese in paese e permette certamente alla persona di vivere in
maniera assolutamente decorosa ma sicuramente di non arricchirsi.
per noi la scelta di gratuità non vuol dire che uno va via gratis. Ma un compenso che viene
dato a quelli che noi chiamiamo volontari è legato molto a delle scelte della persona che sono
anche scelte di gratuità perché altrimenti non verrebbe a fare questo tipo di servizio o a
dedicare una parte del tempo della sua vita a questo tipo di impresa.”79
Umiltà culturale
La gratuità però va coniugata con “l’umiltà culturale”, un altro atteggiamento indispensabile per
persone come i volontari internazionali che hanno a che fare con culture “altre”, popolazioni molto
76
Fabietti U., op. cit., p. 237.
Diritti grantiti dalle varie leggi sulla cooperazione, come la 49/87 di cui si è parlato all’inizio dell’elaborato.
78
Si veda in Appendice 5) Intervista a Luca Rondini, p. 54
79
Si veda in Appendice 3) Intervista a Marco Benassi, p. 43
77
25
lontane dalle loro. Umiltà culturale implica una grande stima per il ricco cammino che la gente ha
fatto e sta facendo, e dunque la fiducia nella capacità e nelle possibilità che ha la gente di gestire la
propria vita e la propria storia e infine il rispetto profondo della realtà in cui il volontario si
inserisce, stando attento a non impoverirla con il suo arrivo. Tutto ciò comporta lo sforzo di
conoscere e di capire tale realtà, deponendo quei complessi di superiorità che consciamente e
inconsciamente i volontari portano con sé, e controllando la “bestia evoluzionistica”80 che
facilmente irrompe.
L’umiltà culturale da parte dei volontari così favorisce una buona e vera partecipazione con la
controparte, in quanto significa non solo coinvolgere ma lasciarsi coinvolgere, non soltanto far
collaborare, ma collaborare con la gente.
Se questo atteggiamento di umiltà e la conoscenza della realtà culturale vengono a mancare, ci si
potrebbe trovare di fronte ad una figura di volontario come quella che Zaccaria ha definito
“cooperante su marte”81: talvolta si assiste alla presenza di cooperanti in aree nelle quali sembrano
catapultati come su di un altro pianeta.
“La mancanza di un determinato approccio culturale alla cooperazione sia un limite molto
grande, perché grosso è il rischio di avere preconcetti personali nel portare avanti progetti di
vera cooperazione. Penso che il personale delle ONG non sia sufficientemente formato per
fare cooperazione, e parliamo nella maggior parte dei casi di persone molto giovani, magari
alla loro prima esperienza lavorativa, persone sulle quali vengono scaricate responsabilità
enormi, come decidere dove agire, come gli aiuti devono essere distribuiti. i cooperanti non
dovrebbero attenersi unicamente a ciò che prevede il progetto, ma dovrebbero sforzarsi di
contestualizzarlo in base al luogo in cui operano.”82
Professionalità
Per il CEFA, significa innanzitutto capacità di mettere a disposizione degli altri le proprie
competenze e di adattarle all’ambiente in cui si opera. Non è quindi data da un titolo di studio,
legata ad un valore economico o intesa in senso di produttività. È anch’essa un atteggiamento che
può favorire la realizzazione di uno scambio.
“Chiediamo caratteristiche tecniche: cioè il volontario bisogna che sappia fare una cosa a cui
è chiamato dal progetto. Se io ho bisogno di un veterinario, ho bisogno di un veterinario e non
di un ingegnere, e non ho bisogno neanche di una persona che dice “bé io non sono
veterinario però sono un maneggione, sono già stato in Africa, ho visto, mi adeguo, ho un
recinto, quattro maiali ai quali faccio le punture. Poi lì, gli africani li ho visti, e non sanno far
niente, io mi posso adeguare!.” Le sue motivazioni a me sembrano discutibili; sono legittime,
io le rispetto ma sono insufficienti ad andare via con il CEFA perché una controparte, un
beneficiario del posto che mi chiede un veterinario, io devo mandare uno che si è laureato in
veterinaria, che sa il fatto tuo, e non un maneggione!”83
80
Antoniotto A., L’antropologia e la formazione dei volontari, in Rinaldi M.D., Antropologia e progetti di volontariato,
Certosa di Pontignano, 30/31 gennaio 1986.
81
Zaccaria ha coniato questa espressione a partire da un famoso testo di Sachs “Un antropologo su Marte”.
82
Vedi nota precedente.
83
Si veda in Appendice 5) Intervista a Luca Rondini, p. 54
26
Se da una parte il CEFA respinge la faciloneria, dall’altre richiede ai propri volontari grande
flessibilità che non si limita ad un campo tecnico, ma è soprattutto una delle caratteristiche umane
fondamentali per il CEFA.
Il professor Barakat, che nell’Università di York ha formato alcuni tra i migliori aid workers del
mondo, sostiene che i cooperanti debbano rimanere prevalentemente dei generalisti: “quale che sia
il settore specifico di azione, i loro compiti esigono sempre una grande flessibilità e la capacità di
tenere costantemente d’occhio il quadro d’insieme. Bisogna saper leggere la politica, i
comportamenti del potere, le sensibilità di genere o religiose, le dinamiche familiari, i rischi
sanitari, i meccanismi economici, etc. Anche il miglior medico, agronomo o architetto, senza una
sistematica attenzione per tutto questo, e una solida cultura generale nel campo delle scienze sociali,
lavorerà male”.
Caratteristiche umane e motivazioni
“Caratteristiche umane: in pratica tutta una serie di specificità che fanno in modo che il
volontario possa trasmettere nel breve tempo possibile il progetto alla controparte. E faccio un
esempio: capacità organizzativa, spirito di iniziativa, capacità di adattamento in situazioni che
sono oggettivamente diverse dalle nostre, quella flessibilità che dicevamo prima. Queste
qualità che non sono formabili dal giorno alla notte, ma che sono il risultato di tutta una vita.
Diciamo “formazione! formazione!” Ma se noi diciamo formazione in quel senso lì, facendo
formazione su delle persone adulte noi commettiamo intanto un reato, perché il plagio è un
reato, e poi perché confondiamo il discorso di formazione. Quei discorsi lì non sono formabili
dal giorno alla notte, sono il risultato di tutta una vita, e sono il risultato di una selezione
attraverso una conoscenza reciproca.”84
Infine ci sono le motivazioni, che sono il “carburante” che porta avanti il lavoro di servizio nei due
anni attraverso tutti gli ostacoli che la vita ti metterà davanti. Le motivazioni sono le più svariate ma
che devono essere attinte nella sfera valoriale più profonda della persona.
“Una persona che riconosce le proprie motivazioni personali, è una persona che non
mente a se stessa; un volontario “scoppiato” che dopo tre giorni torna a casa perché “lì
non ce la posso fare”, è un volontario che ha perso il carburante per strada, e anzi non lo
ha trovato perché non ce l’aveva. Aveva scambiato le motivazioni che aveva per delle
motivazioni fittizie.”85
Secondo il CEFA, l’insieme di tutte queste caratteristiche (tecniche, umane e motivazionali) è
fondamentale perché un progetto di sviluppo abbia un buon esito.
La formazione dei volontari
Premesso che certi elementi non sono formabili dall’esterno in poco tempo, gli incontri formativi
che Luca Rondini organizza per i volontari sono così strutturati: ci sono periodicamente
84
85
Si veda in Appendice 5) Intervista a Luca Rondini, p. 54
Ibid.
27
quattro/cinque incontri di orientamento all’anno che sono uguali, modulari e sono fondamentali
sulla prospettiva e gli interessi.
“Facciamo lezioni teoriche, di presa di coscienza delle problematiche del sottosviluppo a
livello psicologico, storico, economico, antropologico, sociologico. E poi cerchiamo di
provare a vederli nell’ottica più concreta, nell’esperienza del progetto specifico del CEFA.”
“Non è che la selezione significa che ci sono i promossi, i bocciati. Avviene come in una
giostra, o una battaglia navale: ci siamo conosciuti, c’è un bacino di volontari che ci segue e
che si formano, nel frattempo abbiamo una necessità e peschiamo quel volontario lì che
abbiamo visto…”86
Dopo una sorta di selezione, seguono durante l’anno cinque/sei incontri di formazione, tra cui uno è
residenziale (due giorni, un weekend). Di questi sei incontri, due sono di secondo livello, specifici e
cioè riguardano il lavoro che faranno all’estero. Questi corsi di formazione riguardano: 1) il
progetto, la scrittura di un progetto: la costruzione del progetto; 2) la gestione di un progetto.
86
Si veda in Appendice 5) Intervista a Luca Rondini, p. 54
28
QUANDO LA PARTECIPAZIONE DIVENTA “GLOBALE”: IL SETTORE DELL’EDUCAZIONE ALLO SVILUPPO
“La cultura è una leva importante da utilizzare per rimettere in sesto
e rilanciare l’economia, dandole un senso.”
Aminata Traoré
Dopo aver analizzato il rapporto di partecipazione, interazione tra promotori dello sviluppo e
popolazioni beneficiarie, vorrei soffermarmi su una partecipazione più estesa: interdipendenza delle
cause tra situazione socio-economica dei paesi del Sud e quella del Nord del mondo.
Un settore più recente all’interno del CEFA, ma non per questo meno importante, è quello
dell’Educazione allo Sviluppo (EAS), diretto da undici anni da Giovanni Guidi.
Storia di vita:
Ha frequentato la facoltà di Scienze politiche, e poi il dottorato di ricerca in “Storia nella società
europea”, all’università di Pisa. Negli anni dell’università, ha fatto un’esperienza di volontariato con
Amnesty International, interessandosi presto alla tematica dei diritti umani fondamentali e non, fino a
sposare oggi la teoria di Sen, per cui i diritti fondamentali rendono più felici le persone e più vivibili
le loro situazioni quotidiane. Questo interesse si è sviluppato negli anni dell’insegnamento a scuola,
in cui ha cercato di fare sempre con gli studenti un minimo di approfondimento legato ai diritti
internazionali. Dopo cinque anni nel mondo della scuola, “forse anche su una spinta di una idealità
che ti guida quando scegli di fare questo tipo di lavoro” - mi dice Guidi - ha iniziato ad occuparsi di
Educazione allo Sviluppo presso il CEFA, che proprio in quegli anni cercava una persona
competente a cui affidare il settore. Ma lasciamo a lui la parola:
“Ho fatto per cinque anni l’insegnante precario, insegnando diritto ed economia negli
istituti tecnici, e mi sono spostato forse su un’onda emotiva: «voglio impegnarmi per
qualcosa che a livello sociale abbia la sua importanza, faccio una cittadinanza attiva!» Lì
c’era un grande territorio che era una grande prateria da dissodare perché quasi nessuno
ne parlava, se andavi a parlare con i comuni volevano essere aiutati a fare; dodici anni fa
al Ministero degli affari Esteri c’era una grandissima apertura e attenzione ai progetti
cosiddetti di Educazione allo Sviluppo e di informazione del pubblico europeo e italiano,
e diciamo che tutto era molto più semplice e per certi aspetti un po’ scontato: potevi
proporti come qualcosa di veramente nuovo per queste persone. Era tutto molto bello,
semplice e gratificante.”87
Dunque, quando Guidi ha cominciato a occuparsi di queste problematiche, in Italia da una parte era
una novità, dall’altra cresceva l’interesse per questo settore: a Bologna, ad esempio, c’erano solo
cinque, sei organizzazioni che facevano questo tipo di attività, mentre i Comuni non avevano ancora
preso di mira questo settore. Nel 2000 - a detta di Guidi - si assiste a grandi cambiamenti.
87
Si veda in Appendice 4) Intervista a Giovanni Guidi, p. 48
29
[…] “Io come spartiacque vedo sempre quella campagna incredibile, che fu fatta anche qui in
Italia, per la remissione del debito nel 2000…anno giubilare, soprattutto per le Ong cattoliche è
stato in qualche modo l’anno chiave, nel senso che fu intanto la prima campagna tosta, da tutto il
modo cattolico, con tutto l’appoggio della CEI; furono fatte centinaia di riunioni e di incontri di
sensibilizzazione su questi problemi. Da qui ci fu una attività straordinaria in qualche modo: qui in
Emilia era partita anche un po’ in anticipo, ma comunque il 2000 fu un anno di grande
cambiamento. Da quel momento, anche il comune più sperduto ha avuto un’attenzione diversa,
nuova e tutti si sono in qualche modo riorientati anche nel fare queste attività di educazione allo
sviluppo. Poi, progressivamente questa educazione allo sviluppo si è andata a intersecare con il
filone delle attività che danno attenzione verso l’altro: di solito è l’altro migrante, o comunque
l’altro che arriva da un’altra cultura. Per tanti motivi tutto quello che è diventato cultura etnica è
diventato una grande attrattiva e sono nate associazioni di tutti i tipi.”88
In questi undici anni, il tentativo di Guidi, con la collaborazione di altre persone, è stato quello di
differenziarsi rispetto al modello con cui vengono fatti per esempio le attività di sensibilizzazione
da parte dei Comuni, cercando specialmente di sviluppare “linguaggi nuovi”, utilizzando materiali
costruiti con metodologie nuove. Il CEFA ha così “sperimentato progetti innovativi o comunque
non sempre legati alla lezioncina, al testimone che va, racconta quello che ha fatto, magari con un
filmato, e poi finisce lì il rapporto con chi ascolta.”
In sintesi, le attività di Educazione allo Sviluppo del CEFA si dividono in attività legate al mondo
della scuola (dalle scuole elementari fino all’Università) e attività legate al mondo dell’opinione
pubblica più in generale.
“… Il tentativo è sempre quello di fare qualche cosa che possa permettere ai ragazzi delle
scuole e all’opinione pubblica di diventare a sua volta protagonista di qualcosa: protagonista
vuol dire sentirsi partecipe di un percorso di arricchimento culturale che possa anche portare un
aiuto concreto alle comunità con cui il CEFA lavora nei paesi in via di sviluppo.”89
Nell’ambito delle attività con le scuole, il settore di EAS ha proposto linguaggi nuovi come il
fumetto africano90, del quale il CEFA si vanta in quanto è stato tra i primi in Italia ad usare questa
forma di metodologia e di approccio ai problemi legati allo sviluppo, per raggiungere soprattutto
quegli studenti che si possono occupare di arte.
Un altro percorso didattico è stato quello di organizzare incontri nelle scuole con scrittori
provenienti da “paesi in via di sviluppo”91.
Le immagini
Facendo progetti di sviluppo e non d’emergenza, il CEFA (in particolare l’EAS) porta avanti l’idea
di “paesi vivi”, usando immagini (foto e video) che non abbiano una negatività in sé e che creino o
diano l’idea di una dipendenza. Vengono così utilizzati filmati in positivo, “che non è un truccare le
88
Per ulteriori approfondimenti, si guardi l’intervista a Giovanni Guidi, in Appendice, p. 48
Si veda in Appendice 4) Intervista a Giovanni Guidi, p. 48
90
Progetto fatto in collaborazione con la casa editrice Laimomo.
91
Per ulteriori approfondimenti su questi incontri, si guardi l’intervista a Giovanni Guidi, nell’appendice di questa
tesina, p. 48
89
30
carte perché cerchiamo di raccontare col filmato sia la positività che la negatività di un progetto”.
l’importante è che la negatività o la drammaticità di certe situazioni vengono sempre mediate da
qualcuno che le sappia raccontare, che le abbia vissute.
Bisogna però distinguere tra l’impostazione della raccolta fondi rispetto all’educazione dello
sviluppo, che sono spesso in contrasto. Capisco anche ci sia da parte della raccolta fondi la necessità
di mettere immagini forti, che attirino molto l’attenzione.
“La raccolta fondi deve essere comunque un’immagine di impatto: che dia anche una
sensazione, uno stimolo a donare. Mentre nell’educazione allo sviluppo (questa è una
polemica che c’è a livello nazionale), noi cerchiamo sempre di utilizzare immagini che diano
sì il senso della realtà, però, rispetto ai progetti in cui operiamo (tu sai che il CEFA non fa
progetti di emergenza ma di sviluppo), la sensazione deve essere non quello di intervenire in
una situazione drammatica ma in situazioni dove comunque c’è sufficiente serenità che
permette di sviluppare un progetto di sviluppo e non d’emergenza.”92
Giovanni Guidi cerca sempre di non adeguarsi al mondo della carta stampata e dei media, come
invece fanno molte Ong, specialmente quelle impegnate in progetti d’emergenza. Infatti, le
immagini mediatiche di bambini africani con la pancia gonfia che muoiono di fame attraversano
tutto il mondo e “vanno a naturalizzare la violenza, sofferenza”. Si diffonde così quella che il
sociologo Luc Boltanski ha definito la “sofferenza a distanza”93
Ad esempio nell’ambito del sostegno a distanza il CEFA cerca di non mandare quasi mai le
immagini (solo se ce lo chiedono) del bambino che viene adottato a distanza. In realtà non è mai il
bambino singolo ma un gruppo di bambini all’interno di un progetto già avviato. Questo fa perdere
loro un po’ di sponsor privati, perché la gente ha bisogno di quella “sofferenza a distanza”, in
qualche modo da trasferire concettualmente la loro solidarietà economica su qualcuno di ben
preciso.
92
93
Si veda in Appendice 4) Intervista a Giovanni Guidi, p. 48
Si veda il saggio di Pandolfi, in Malighetti R., Oltre lo sviluppo, Roma, Meltemi, 2005.
31
ANTROPOLOGIA E CEFA
Il tema di quanto e come l’antropologia possa essere utile agli agenti dello sviluppo è stato già
toccato più volte nel corso di questo elaborato. Adesso mi accingo solo a sottolineare il rapporto
attualmente esistente tra il CEFA e la disciplina antropologica.
Solo in un’occasione il CEFA ha collaborato con antropologi e sociologi, in particolare con il
dipartimento di sociologia di Bologna per una valutazione dell’impatto sociale di di un progetto
tecnico in Tanzania (allevamento avicolo, un mangimificio).La ricerca fu capitanata dal professore
Tarozzi, esperto in sociologia dello sviluppo, e svolta sul campo da due antropologi, il prof. Guido
Giarelli e la prof. Pirani, che andarono un mese in Tanzania, fecero una serie di interviste. Da
questo studio ne è nato un libro dal titolo Sviluppo e impatto sociale: valutazione di un progetto
Cefa in Tanzania94.
Nella mia ricerca di campo, ho chiesto ai volontari e ai rappresentanti di alcuni settori del CEFA se
ritenevano il ruolo dell’antropologo e di questa disciplina utile per il loro lavoro, per il successo dei
progetti. Tutti coloro da me intervistati hanno mostrato di conoscere (sempre in linea generale)
l’antropologia, con i suoi contenuti e metodologie di ricerca, riconoscendola anche come “un’ottima
partner culturale” e “ottima disciplina di completamento”.
“L’antropologo, se ha delle caratteristiche personali adeguate (ti ho detto che ci sono delle
caratteristiche che non sono formabili dal giorno alla notte, da verificare) può diventare un
coordinatore di progetto, nulla vieta che lo sia. Se un antropologo ha le caratteristiche di
leadership può farlo, eccome! Eccome!
Perché ha prima di tutto le chiavi in mano per aprire tutta una serie di dubbi che gli altri, che
sono ingegneri, si trovano davanti. Ha le chiavi, cioè i mezzi per arrivare a risolvere le
questioni che gli altri possono avere. Sai, lo studio di valutazione è stato fatto attraverso dei
sistemi, metodologie che sono bagaglio, equipaggiamento dell’antropologo con il quale va a
rispondere a tutte le necessità che vede.”
Hanno tutti dichiarato, se pur in modo diverso, il desiderio e la necessità di collaborare con figure
come quella dell’antropologo:
- In tutte le fasi del progetto: scrittura, implementazione, valutazione (Masi E.);
- nella valutazione ex-post dei progetti (Guidi G.)
-creando un’equipe interdisciplinare, mista tra Ong, antropologi, economisti (Giovanni Guidi);
- uno studio fatto in itinere; un controllo, una verifica sull’andamento del progetto. compito che
deve svolgere uno esterno, non uno coinvolto, uno che “scientificamente” vede, evidenzia i
problemi e aiuta a risolverli (Luca Rondini);
- conoscenza delle tradizioni e culture locali (Emanuele Pagoni).
Non sono mancate di certo anche qualche critica e consigli per noi antropologi:
94
Tarozzi A., Sviluppo e impatto sociale: valutazione di un progetto Cefa in Tanzania, Bologna, EMI, 1992.
32
“Negli ultimi anni mi è sembrato che nell’approccio dell’antropologia ci sia stata, un po’
troppo, un’attenzione verso gli aspetti negativi (che sicuramente sono negativi) della
cooperazione internazionale, anche delle Ong, un po’ troppo su base teorica. Nel senso che
anche nei pochi casi di analisi specifiche di contesti, di progetti in cui una Ong ha operato,
hanno tenuto poco conto comunque dei risultati positivi che si sono raggiunti e hanno dato
molto più valenza a quegli aspetti che invece sono prettamente tipici di un’analisi
antropologica, come “perdita d’identità” o della tradizione, o quanto un approccio dinamico di
un certo progetto ha influenzato il passaggio dalla tradizione alla modernità. Io di questo me
ne sono accorto in particolare perché qualche anno fa tra i vari linguaggi che abbiamo provato
a sperimentare c’era quello del cinema. Il cinema nei paesi in via di sviluppo è un cinema che
risente molto dell’antropologia europea, e quindi tende a mettere in aperto contrasto la
tradizione e la modernità, naturalmente con un peso enorme dato alla tradizione e una
negatività enorme alla modernità. Teniamo presente che in molti paesi, invece, la gente vuole
la modernità: quindi l’approccio dell’antropologia secondo me dovrebbe essere fatta di
riflessioni ulteriori su questi passaggi epocali, sul cambiamento che anche un progetto può
portare. Senza negare le negatività, che ci sono sempre e comunque: le Ong sono tutt’altro
che perfette; i progetti in corso d’opera vengono spesso cambiati per evitare di aggiungere
danno al danno. Però in molti antropologi ho notato che c’è un po’ questa tendenza.”95
“E’ giusto studiare le tradizioni e le culture locali ma credo che bisogna affrontarlo con la
propria personalità nel modo meno scientifico possibili perché i rapporti umani non sono
controllabili ma vanno vissuti.”96
95
96
Si veda in Appendice 4) Intervista a Giovanni Guidi, p. 48
Si veda in Appendice 6) Intervista a Emanuele Pagoni, p. 61
33
CONCLUSIONI
“Senza identità, siamo un oggetto della storia,
uno strumento utilizzato dagli altri: un utensile.
E l’identità è il ruolo che assumiamo; è come in
un’opera teatrale nella quale a ciascuno è
affidata una parte da interpretare.”
Joseph Ki-Zerbo
Lo studio della storia, la conoscenza dell’ambiente, del patrimonio di conoscenze delle popolazioni
che abitano “i paesi in via di sviluppo” devono essere sempre messe in primo piano da chi desidera
lavorare nel mondo della cooperazione. Lo sviluppo economico non è l’unica soluzione a tutti i
mali. La soluzione possibile al loro sviluppo non può ignorare o scavalcare queste persone, che
dimorano in luoghi “difficili” da sempre, tramandandosi di generazione in generazione i saperi e le
strategie necessari a vivere… e non solo a sopravvivere. È agli uomini che devono rivolgersi tutti
coloro che si impegnano per lo sviluppo di questi Paesi.
Ki-Zerbo, uno degli storici africani più noti, sostiene che il grande continente africano voglia avere
«diritto ai diritti»: come l’Africa anche tutti gli altri paesi in simili condizioni rivendicano il diritto a
essere conosciuti nella propria originalità e identità e non come cera da plasmare, disponibile ad
ogni manipolazione o linciaggio mediatico.
34
BIBLIOGRAFIA
Casella Paltrinieri A., Oltre le frontiere. Antropologia per avvicinare i popoli, S. Pietro in Cariano,
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