UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO BICOCCA CENTRO DI RICERCHE ETNO-ANTROPOLOGICHE MILANO I QUADERNI DEL CREAM 2004 – II Trauben I quaderni del CREAM sono una pubblicazione a cura del Centro di Ricerche Etno-Antropologiche dell’Università degli Studi di Milano Bicocca. Raccolgono articoli, note, recensioni e testi di conferenze e seminari tenuti nell’ambito delle attività del Centro e delle iniziative ad esso collegate: Corso di Laurea Specialistica in Scienze Antropologiche ed Etnologiche, Dottorato in Antropologia della Contemporaneità (DAC), Corso di Perfezionamento in Antropologia Culturale (COPAC), Laboratorio di Antropologia Visiva (LAV), Seminario di Antropologia del Medio Oriente e del Mondo Musulmano (SAMOMU), Seminario di Antropologia Teorica (SAT). © 2004 Trauben editrice s.a.s via Plana 1 – 10123 Torino ISBN 8888398732 I quaderni del CREAM, 2004 - II 2 Indice 5 Tullio Seppilli, La funzione critica dell’antropologia medica: temi, problemi, prospettive 29 Romano Mastromattei, Il governo ombra del Nepal 69 Ildàsio Tavares, La liturgia della sopravvivenza negra 85 Roberto Malighetti, Emergenza come fine dello sviluppo. Le alternative dei favelados di Rio de Janeiro 119 Manuela Tassan, La cultura dell’ambiente nelle politiche di sviluppo della FAO I quaderni del CREAM, 2004 - II 3 I quaderni del CREAM, 2004 - II 4 TULLIO SEPPILLI • LA FUNZIONE CRITICA DELL’ANTROPOLOGIA MEDICA: TEMI, PROBLEMI, PROSPETTIVE ♦ Le due culture Questa sera vorrei presentare l’ambito dell’antropologia medica, i problemi principali, il suo percorso e le questioni aperte a cui la disciplina può dare un contributo. Visto che si tratta di una lezione introduttiva, cercherò di essere molto telegrafico. Innanzitutto vorrei segnalare una situazione di stallo riguardante l’antropologia in genere e l’antropologia medica in particolare. Deriva dalla condizione in cui, specialmente in Italia, si trovano le scienze che si occupano dell’uomo, le cosiddette scienze umane. In Italia abbiamo ancora due culture, intese non in senso antropologico, ma in senso più generale. Ovvero abbiamo, da un lato, un certo numero di Facoltà che analizzano l’uomo nella sua realtà biologica, (medicina, scienze, farmacia). Dall’altro abbiamo un certo numero di Facoltà, (lettere, sociologia, • Presidente della Società Italiana di Antropologia Medica. Presidente della Fondazione Angelo Celli per una Cultura della Salute. ♦ Il presente articolo consiste nella trascrizione della Lezione Inaugurale tenuta dal Professor Tullio Seppilli al Corso di Perfezionamento in Antropologia Medica dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, martedì 27 gennaio 2004. Il testo registrato è stato trascritto da Arianna Cecconi e organizzato da Roberto Malighetti, responsabile per l’elaborazione dei titoli interni e per alcuni interventi editoriali. Non vi è stata alcuna revisione da parte del Prof. Seppilli che si ringrazia per aver concesso il permesso alla pubblicazione. I quaderni del CREAM, 2004 - II 5 giurisprudenza, economia, scienze della formazione) in cui l’uomo è analizzato nelle sue componenti storico-sociali. Fin qui non ci sarebbe niente di male. Il problema è che non c’è dialogo fra le due. Voglio dire che un medico si può laureare tranquillamente senza avere la più pallida idea dei processi sociali che stanno intorno al complesso groviglio di questioni che riguardano la salute e la malattia. D’altra parte ci si può laureare in lettere senza sapere che cosa è una cellula, cos’è un microrganismo, come sta in piedi l’uomo e cose del genere. Siamo cioè di fronte alla legittimazione di due culture che sono già di per sé negativamente distinte e che a fronte dello studio dell’uomo, lo spaccano in due. In Italia non c’è ancora una seria formazione che ricomponga l’uomo nelle sue componenti biologiche e storico-sociali. Non dappertutto è così. Malighetti nella sua introduzione ricordava la mia formazione in Brasile. Qui, molto tempo fa, ho frequentato una Facoltà che allora si chiamava “sociologia”, dove si studiava biologia umana e genetica, insieme a tutte le discipline sociali, come la sociologia, l’antropologia ecc… Sembrava normale. In Italia non ci siamo ancora. Possiamo quindi prendere le mosse da questo punto, un punto molto importante perché la realtà dell’uomo è costituita da un’integrazione delle componenti biologiche e delle componenti storico-sociali per una serie di ragioni ben precise. Possiamo, sempre molto telegraficamente, ricordare il fatto che il processo di formazione progressiva dell’uomo e della specie umana, come si è venuto configurando fino a oggi, è un processo complesso, attraverso il quale un animale, uno dei primati che esistevano sulla terra, intorno a quattro, quattro milioni e mezzo di anni fa, si è sviluppato in termini evolutivo-biologici, ma con una caratteristica ben precisa. Tutta l’evoluzione biologica dell’uomo è avvenuta dentro contesti sociali. In altre parole, non possiamo distinguere nello sviluppo evolutivo dell’uomo il suo cambiamento biologico dal fatto che questo cambiamento sia avvenuto all’interno di contesti in cui gli uomini erano integrati tra loro in piccole o grandi comunità. Questo ha indirizzato non soltanto tutta la storia dell’umanità, ma la stessa sua evoluzione biologica. Per esempio, l’evoluzione biologica dell’uomo è stata prevalentemente un’evoluzione della capacità di intelligenza e si è tradotta in una I quaderni del CREAM, 2004 - II 6 profonda trasformazione del sistema nervoso, quindi del cervello. Dal punto di vista della forza fisica il processo di evoluzione è invece stato un progressivo indebolimento, perché la questione della sopravvivenza fisica e della difesa dalle sfide naturali è stata assunta dai gruppi sociali. Non era tanto il singolo individuo che stava al centro della risposta alla sfida ambientale, quanto le comunità. La questione è allora diventata quella della capacità di organizzare al meglio le risorse di una comunità. Questo ha comportato il fatto che, nel corso dell’evoluzione, l’uomo si sia indebolito fisicamente e nel contempo sia divenuto sempre più intelligente. Si tratta di un esempio molto banale, che andrebbe precisato meglio, ma serve per capirci. Cosa significa? Significa che in parallelo alla condizione biologica che si stava evolvendo, si è venuta organizzando nell’uomo l’esistenza di una rete di rapporti sociali più o meno ampia, che possiamo chiamare molto genericamente società. Possiamo parlare di comunità, possiamo parlare di gruppi maggiori, ma il problema di fondo è che l’uomo non è mai vissuto da solo, è sempre vissuto in comunità, e queste comunità hanno costituito una realtà sovra-individuale. Kroeber1 l’ha chiamata “super-organica”. Non so quanto sia utile questo termine, ma serve per indicare il fatto che la realtà umana non è fatta soltanto di individui biologici, ma di strutture, di rapporti tra individui. Queste strutture, che costituiscono la società, sono un elemento nuovo, direi che segnano la specificità della condizione umana […]. L’esistenza del gruppo sociale ha una vita e un funzionamento in qualche modo relativamente autonomo rispetto al funzionamento biologico del singolo individuo. Se vogliamo porlo in termini più teorici, dobbiamo introdurre il concetto di sistema, che oggi va tanto di moda. Ovvero l’insieme di individui che costituiscono una società è un sistema e non una sommatoria di individui. La società non riproduce le caratteristiche dei singoli individui che la costituiscono in termini di sommatoria. È un tutto unico. Se desideriamo usare un linguaggio filosofico, possiamo riferirci al concetto di salto di qualità, secondo il quale il sistema non funziona come i singoli individui, ma funziona in modo autonomo. Potrei farvi un esempio metaforico ma abbastanza esplicativo: anche se avete fatto del1 Kroeber, A.L. 1952: The Nature of Culture, Chicago, University of Chicago Press. I quaderni del CREAM, 2004 - II 7 le facoltà umanistiche, tutti voi sapete che una molecola d’acqua è fatta da un atomo di ossigeno e due atomi di idrogeno. L’ossigeno ha una valenza maggiore, per cui sono i due atomi di idrogeno che si attaccano all’atomo di ossigeno. Benissimo. Il salto di qualità, il passaggio cioè dal livello atomico al livello molecolare, consiste nel fatto che l’ossigeno e l’idrogeno unendosi in un sistema producono una realtà qualitativamente superiore che funziona come complesso, come sistema e come tale va analizzato. Lo stesso vale per le società umane. Le società umane, contrariamente a quanto pensavano gli antropologi positivisti dell’Ottocento, non possono essere interpretate solo come una sommatoria di organismi biologici. Quello che succede nelle società non è un estensione collettiva delle caratteristiche dei singoli individui. La società è un sistema che funziona con proprie leggi e va studiata ad un livello diverso dallo studio della costituzione biologica dei singoli individui che pur la compongono. Questo rapidissimo excursus ci spiega perché le scienze umane hanno la caratteristica epistemologica di doversi collocare a due livelli. Le scienze umane sono ad un tempo scienze che analizzano le caratteristiche biologiche dell’uomo e allo stesso tempo devono considerare le modalità di funzionamento dei sistemi sociali che non possono essere ricavati analizzando le caratteristiche biologiche degli esseri umani. In questo possiamo cogliere la caratteristica di fondo delle scienze umane, il fatto di essere scienze che si collocano a due livelli di organizzazione della materia, quello biologico e quello sociale. Tutte le volte che nel lungo dibattito su questi problemi inaugurati alla fine dell’Ottocento, si è dato troppo peso alle componenti e ai fattori biologici, cadendo nel ‘biologismo’, o tutte le volte che invece si è negato il peso dei fattori biologici, cadendo nel ‘sociologismo’, si è male interpretata la condizione umana. Proprio perché l’unico modo corretto di interpretare la condizione umana è di riuscire a soppesare l’integrazione tra questi due elementi. Detto così sembra tutto molto semplice, ma nella pratica, come potete naturalmente immaginare, le cose sono più complesse. Il problema è ulteriormente complicato dal fatto che la componente minimale, cioè il singolo individuo nella sua realtà biologica, entrando in un sistema sociale non soltanto dà forma, insieme a tanti altri individui, a questo livello superiore di organizzazione, ma ne viene a sua volI quaderni del CREAM, 2004 - II 8 ta condizionato. Sarebbe troppo comodo studiare l’individuo con la biologia e la società con le scienze sociali. In realtà il complesso sistema sociale entro cui il singolo individuo si viene a trovare fin dalla nascita e forse anche da prima, viene a costituire un condizionamento tale per cui non si può più separare nell’individuo ciò che gli deriva dal suo patrimonio genetico individuale, dalle sue caratteristiche biologiche e quello che invece gli viene dalla sua esperienza nel contesto sociale. Questi due livelli si intersecano in modo indistricabile, per cui gli individui che ci troviamo di fronte sono degli individui che hanno una natura biologica (con tutta una serie di esigenze, di problemi, di necessità e potenzialità), dentro un condizionamento che cambia da società a società, proprio perché le società sono diverse. Questo è il problema centrale per la fondazione delle scienze umane, per la fondazione della stessa antropologia e per la fondazione dell’antropologia medica dove, come vedremo, l’integrazione tra il biologico e il sociale diventa particolarmente evidente. A questo punto si possono fare tante variazioni sul tema. Per esempio se volessimo sapere come sarebbe l’individuo senza il condizionamento del sistema sociale […] potremmo consultare un repertorio di circa una ventina di casi di bambini che si sono persi fin da piccolissimi e sono stati poi ritrovati adolescenti o adulti, studiati, analizzati, esaminati a partire dal 1700. Questo è un tema interessante che non possiamo sviluppare in questa sede. Diciamo solamente, per esempio, che questi bambini diventati adulti non riescono ad emettere suoni proprio perché l’apparato della fonazione, che è un apparato biologico, è condizionato dal processo di apprendimento del linguaggio. Se non impariamo a emettere i suoni funzionali ad una lingua in età infantile non ci riusciamo più. Questo, fra l’altro, spiega il perché chi impara una lingua da adulto mantiene l’accento della lingua originale. L’ho sperimentato personalmente perché stando in Brasile e avendo fatto tutte le scuole in Brasile, parlavo il portoghese come i brasiliani, mentre i miei genitori, che pur parlavano il portoghese benissimo, avevano mantenuto l’accento italiano proprio perché avevano appreso la nuova lingua da adulti. Voglio sottolineare che questa interazione tra condizionamento biologico e condizionamento sociale in alcuni campi è particolarmente forte […]. Ci sono alcuni ambiti di ricerca delle scienze umane in cui il I quaderni del CREAM, 2004 - II 9 nodo del rapporto tra il biologico e il sociale è molto stretto. Ne possiamo elencare sostanzialmente quattro. Il primo è quello dell’alimentazione. Non è possibile studiare l’alimentazione senza partire dal principio che è un bisogno biologico comune a tutti gli uomini e che in nessun caso nella storia dell’uomo questo bisogno biologico ha trovato una risposta biologicamente fondata. La risposta al bisogno biologico di alimentazione è sempre stata una risposta di stampo sociale. Ovvero è sempre dipesa dai modi in cui l’uomo ha saputo trasformare la natura in beni utili, cioè dal suo modo di produzione, per cui l’alimentazione di una società agricola, l’alimentazione di una società pastorale o di una società industriale sono profondamente diverse. Anche il clima e una serie di fattori esterni influiscono, ma è la società che, a seconda di come stabilisce il rapporto con il mondo naturale, crea quella che noi possiamo chiamare una tradizione gastronomica, una tradizione culinaria. L’antropologia dell’alimentazione è ormai così sviluppata da doversi quasi chiedere se si mangi anche per nutrirsi. Sul fattore alimentare intervengono, infatti, una tale quantità di fattori simbolici e di ogni altro genere (come gli effetti somatici dei problemi psichici), per cui l’intreccio tra quello che è un bisogno biologico comune a tutti gli animali e a tutte le piante, si intreccia fortemente al fattore sociale. Non si può comprendere l’alimentazione della specie umana senza comprendere in quali contesti sociali si articola la risposta: bisogno biologico con risposta di stampo sociale. Lo stesso lo possiamo dire per la sessualità. Non esiste infatti, a nostra conoscenza, nessuna società nella storia dell’uomo che non abbia reagito a una pulsione che è biologica, la pulsione sessuale, senza costruire regole, canali, inibizioni, proibizioni, tabù. La sessualità di tutte le società umane conosciute non si risolve mai esclusivamente nella sua componente pulsionale biologica perché le società sono sempre intervenute su di essa. Ci troviamo di nuovo in un campo in cui uno studio esclusivamente storico-sociale o solo biologico non avrebbe senso. L’intervento storico-sociale non ci sarebbe se non ci fosse la pulsione biologica, che è legata al problema della riproduzione. Da un lato siamo quindi nell’ambito della biologia, ma questa biologia della specie umana è intercettata continuamente dall’etica, dalla regolarizzazione sociale, dalle strutture parentali, e da una serie di altri elementi che sono produzioni storico-sociali. I quaderni del CREAM, 2004 - II 10 Il terzo esempio, più raffinato se volete, è quello introdotto da Marcel Mauss a proposito delle tecniche del corpo.2 Le tecniche del corpo sono il modo in cui il corpo viene utilizzato nei diversi contesti sociali. Marcel Mauss, per primo, ha dimostrato come ogni società selezioni alcune potenzialità biologiche del corpo umano in funzione dello stile di vita tipico di una determinata società. Queste potenzialità vengono selezionate, addestrate, diventano potenzialità che si trasformano in capacità reali. Nel contempo vengono abbandonate altre potenzialità che in quel contesto sociale non trovano un immediato utilizzo. In occidente abbiamo perso una serie di tecniche corporee che sono invece state coltivate in oriente: pensiamo ad alcune forme di addestramento indiane, alla capacità di invertire il movimento peristaltico o di abbassare il ritmo cardiaco. Il fachiro, trasformato in fenomeno da baraccone, sopravvive dopo essere stato rinchiuso in una cassa per dieci giorni, perché pratica un’auto-ibernazione, fenomeno che in molti animali avviene spontaneamente e che invece per l’uomo è un processo appreso. L’autoibernazione comporta una diminuzione del bisogno energetico di ossigeno e di alimentazione, abbassa il metabolismo ma non lo elimina. Un individuo potrà resistere a simili condizioni solamente per un certo periodo: se riaprissimo dopo un anno la cassa dove il fachiro è stato rinchiuso lo ritroveremmo morto. Tuttavia egli ha una potenzialità corporea che la società occidentale ha sostanzialmente eliminato. Ogni società addestra il corpo secondo certe linee. È stato detto, per esempio, che basta guardare un individuo camminare per capire la sua provenienza o che è sufficiente osservare la sua gestualità per dedurre se viene dal nord anglosassone o da Napoli. Esistono quindi usi e atteggiamenti verso il corpo che cambiano […]. Il quarto nodo che ci interessa è quello del rapporto tra salute e malattia. Noi abbiamo la possibilità di esaminare nell’uomo la dinamica salute-malattia in termini esclusivamente biologici. Tuttavia è emerso sempre più chiaramente che nel decorso e nella cura delle malattie intervengono una serie di componenti psico-culturali e socio-culturali. Oggi siamo sempre più coscienti che anche la patologia non è una que- 2 Mauss, M. 1950: Sociologie et antropologie, Paris, Puf (trad. it. Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1965). I quaderni del CREAM, 2004 - II 11 stione esclusivamente biologica, ma si pone al centro del rapporto immediato fra biologico e sociale. Ecco allora che ci stiamo avvicinando alla definizione dell’antropologia medica perché essa è, se volete, lo studio del versante socioculturale dei processi di salute e malattia. A fronte dei processi di salute e malattia che sono stati esaminati e interpretati in termini prevalentemente biologici da parte di quella medicina occidentale che noi antropologi chiamiamo bio-medicina, cioè quella medicina fondata su una ricerca scientifica prevalentemente concentrata sui fenomeni biologici, si affiancano una serie di altri processi che non sono analizzabili in termini biologici proprio per quello scarto tra livello biologico e livello sociale di cui parlavo prima. Il livello sociale non può essere esaminato con le categorie biologiche. Bisogna esaminarlo con le categorie delle scienze sociali, cioè della sociologia, dell’antropologia, della psicologia, e via discorrendo. La funzione integrativa dell’antropologia medica In una prima definizione di massima l’antropologia medica può dunque essere definita come lo studio del versante sociale dei processi di salute-malattia a integrazione dello studio biologico che di quegli stessi processi viene fatto dalla biomedicina. Come non possiamo studiare l’individuo soltanto da un punto di vista biologico, perché lo stesso decorso degli aspetti biologici dei processi di salute e malattia è socialmente condizionato, così non possiamo analizzarlo solamente da un punto di vista sociale. E allora emerge una questione, che sarà la conclusione a cui voglio arrivare: non è possibile una semplice divisione di campi. Non basta che i medici studino i processi biologici di salute e malattia e che gli antropologi e i sociologi studino i processi storico-sociali, perché in questo modo è come se noi studiassimo da un lato l’uomo biologico e dall’altro l’uomo sociale. Queste due astrazioni non esistono nella realtà, perché i fenomeni si intersecano a vicenda. Quindi quello a cui si dovrà arrivare è una riconsiderazione dei processi di salute e malattia come fenomeni integrati, biologici e storico-sociali. L’affermarsi di un’antropologia medica non comporta semplicemente un’aggiunta del versante sociale dei processi I quaderni del CREAM, 2004 - II 12 di salute-malattia ma una ristrutturazione del discorso, proprio perché non si tratta di aggiungere ma di integrare, visto che lo stesso decorso biologico dei processi di salute malattia è socio-culturalmente condizionato, così come, a sua volta, l’andamento sociale che incide su questi è biologicamente condizionato. Una seconda osservazione che vorrei fare riguarda la nascita di quella che noi chiamiamo antropologia medica, perché la conoscenza dei percorsi storici delle discipline è sempre un momento critico e interessante. Se i medici oggi studiassero di più la storia della medicina avremmo una medicina più ricca, come peraltro accadeva quando i medici si occupavano di una serie di questioni teoriche che si concentravano in una disciplina chiamata ‘patologia generale’, disciplina che esiste ancora, ma che un tempo era concepita proprio come riflessione teorica generale sul concetto di malattia che spalancava le porte ad una serie di ragionamenti. Per l’antropologia medica si potrebbe, tutto sommato, ripetere un discorso che si fa per l’antropologia in generale. Tutte le volte che si legge una storia dell’antropologia si devono sorbire quattro o cinque pagine del tipo: “Fin dall’antichità l’uomo è stato studiato… la riflessione sull’uomo c’è sempre stata, è molto importante… poi nell’Ottocento è cominciato lo studio scientifico”. Per chi legge non è mai ben chiaro se questo pezzo di circa tremila anni di storia, minimizzato in maniera un po’ occidentocentrica in quattro o cinque pagine, faccia parte della storia dell’antropologia, o di qualche altra disciplina […]. È però nell’Ottocento, con il positivismo, che si dice nasca la vera scienza dell’uomo, la vera antropologia. Lo stesso si potrebbe dire per l’antropologia medica perché una riflessione sulla varietà dei costumi medici c’era già in epoca romana. Per esempio Celso, grande medico romano, affermava che non c’è popolo che non avesse elaborato una risposta alle malattie e alle ferite. Potremmo allora dire che sebbene la disciplina sia nata nell’antichità dobbiamo arrivare alla seconda metà dell’Ottocento, quando cominciano i grandi studi sulle medicine. In quest’epoca si costituiscono tutte le ricerche sulle medicine popolari europee. In Italia ci sono grandi indagini e importanti autori, Giuseppe Pitré per la medicina popolare siciliana, Zeno Zanetti per la medicina popolare umbra, una serie di altri che hanno studiato la medicina popolare abruzzese, altri ancora quella modenese, e la medicina delI quaderni del CREAM, 2004 - II 13 l’Appennino marchigiano. Una serie di autori cominciano quindi a raccogliere informazioni su cosa pensavano quei popoli delle malattie, su come reagivano ad esse. Vengono formulate quelle che potremmo chiamare teorie della medicina popolare e allo stesso tempo prendono le mosse i primi studi sulle cosiddette medicine esotiche. Gli antropologi cominciarono ad analizzare le idee che i popoli “selvaggi” avevano sulle malattie, sulle ferite e sulla morte. Dalla seconda metà dell’Ottocento iniziano quindi a venire studiate le medicine dei ‘selvaggi’. Tuttavia non vengono ancora compiuti studi sulla medicina occidentale. Essa viene usata come pietra di paragone: tutte le altre medicine vengono giudicate in base a quanto siano più o meno lontane dall’atteggiamento e dai dati scientifici della medicina occidentale. Se analizziamo le ricerche sulla medicina popolare, che sono molto ricche e che rappresentano, fra l’altro, l’unica seria base che abbiamo oggi per sapere com’era la medicina popolare, possiamo notare come queste medicine popolari venissero giudicate in base a quanto fossero lontane dalla medicina ufficiale. Venivano quindi giudicate superstiziose, carenti di basi scientifiche e per ciò stesso inefficaci. Lo studio di queste medicine doveva servire a documentare quanto indietro fossero alcuni settori della stessa società europea (oltre a tutti i popoli extra-europei) rispetto alla grande civiltà bianca, occidentale, scientifica. Dovevano inoltre servire a documentare quali superstizioni si dovessero eliminare per arrivare ad un atteggiamento scientifico. Non dimentichiamo che quella è l’epoca in cui la medicina ufficiale ha i più giganteschi sviluppi, si scoprono le origini di molte malattie, si individuano i microbi, in rapporto ad essi si individuano i sistemi terapeutici, si sviluppano le vaccinazioni. Assistiamo ad una stagione di progressive vittorie della medicina ufficiale sulle malattie infettive, come mai era avvenuto negli ultimi 2000 anni. A fronte di questo tutte le altre medicine apparivano come pratiche residue e superstiziose di gente ignorante. Se dovessimo fare una valutazione sulla storia dell’antropologia medica, potremmo dire, anche se questo può sembrare paradossale, che l’antropologia medica diventa una scienza solo quando non si limita più a studiare le medicine degli altri, ma inizia a studiare anche quella occidentale. L’antropologia medica diventa una scienza solo quando, inventandosi il concetto di sistema medico, individua in tutte le società l’esistenza di sistemi di interpretazione e di risposta alla malattia come I quaderni del CREAM, 2004 - II 14 sistemi radicati nello sviluppo storico delle singole società, sistemi coerenti con le ideologie e con le concezioni del mondo, con le cosmovisioni, se vogliamo usare questo termine, delle singole civiltà. Ed è così che anche la medicina occidentale diventa uno dei sistemi analizzabili come tutti gli altri. Questo ha scatenato naturalmente l’ira di gran parte dei medici. Io stesso sono stato coperto di insulti in certi congressi di storia della medicina, perché secondo i medici la storia della medicina, l’unica vera, quella occidentale, è una storia di progressivi trionfi, mentre tutte le altre sono solo delle superstizioni sopravvissute. Il problema è complesso perché in effetti la medicina occidentale, la biomedicina che deriva dal pensiero scientifico nasce anch’essa da una certa concezione del mondo. Tuttavia per noi occidentali, come per gli antropologi, la concezione scientifica del mondo non è uguale a tutte le altre. Ovvero, senza un atteggiamento legato a una concezione scientifica dell’uomo non esisterebbero né la medicina, né l’antropologia, dal momento che l’antropologia nasce proprio dall’idea che sia possibile studiare scientificamente la condizione umana. Quindi ci troviamo di fronte ad un paradosso. Da un lato, constatiamo che la biomedicina è un sistema come gli altri, perché ha una sua concezione del mondo, ha una sua struttura sociale, è un’istituzione, è legata ai poteri anche economici (pensiamo al rapporto tra case farmaceutiche e sviluppo della ricerca biomedica). Dall’altro, dobbiamo osservare che la biomedicina partecipa ad una concezione scientifica del mondo, a cui partecipa in fondo anche l’antropologia. Ecco perché il problema è complesso. Bisogna sottoporre la biomedicina ad un esame scientifico e storico-sociale come gli altri sistemi medici, e al tempo stesso non si può non riconoscere che la legittimità epistemologica della medicina si fonda su criteri di esame scientifico del mondo, che sono gli stessi su cui si basa anche l’antropologia. Questo è un grande problema. Se non si analizzasse la biomedicina come un sistema insieme a tutti gli altri, l’antropologia medica cesserebbe di essere un’antropologia scientifica. Assumendo infatti come paradigma unico la produzione di una medicina in Occidente e in Europa, tutte le altre medicine diventerebbero semplicemente confronti rispetto a quel paradigma, il che non è scientificamente accettabile. Anche il problema dell’efficacia delle terapie non può essere soltanto risolto nell’ambito della medicina biologica. I quaderni del CREAM, 2004 - II 15 Ci avviciniamo quindi ad una prima conclusione. Nel tentare di definire cos’è l’antropologia medica abbiamo detto in generale che si interessa del versante sociale dello studio delle dinamiche di salute-malattia. Ora possiamo essere più precisi, e possiamo dire che l’antropologia medica individua due campi specifici dell’analisi di questo versante sociale: il primo ambito riguarda i fattori sociali che incidono sulla salute e sulla malattia; il secondo tratta le modalità con cui nelle varie società si interpretano le malattie. I fattori sociali della salute e della malattia Il primo ambito è molto semplice da definire e riguarda i fattori sociali che incidono su salute-malattia, perché se ci sono fattori sociali che incidono sulle condizioni di salute-malattia, questi fattori, in quanto socialmente prodotti e storicamente determinati, sono tipici di alcune società e non di altre, e non possono essere spiegati in termini biologici bensì in termini storici. Se alcune popolazioni o classi sociali vivono in un certo modo, questo è dovuto alle forme organizzative delle singole società che non sono un fatto biologico, ma un fattore storico-sociale. Ad esempio, nell’esaminare le condizioni di vita dei lavoratori inglesi alla fine del secolo scorso, Engels analizza l’effetto della lavorazione industriale, dell’urbanizzazione e di una serie di elementi che costituiscono la prima fase di sviluppo del capitalismo inglese. Allo stesso modo quando noi analizziamo perché c’è ancora tanto colera in America del Sud e ce n’è poco in Italia, siamo di fronte non solo ad un fatto biologico, ma a una serie di elementi quali il sistema di vita o il sistema di approvvigionamento idrico, che sono fatti storico-sociali e non biologici. Quindi è evidente che c’è un grosso versante di condizionamenti degli stati di salute e malattia che sono prodotti storico-sociali. Se dovessimo articolare questo discorso si potrebbero individuare tre livelli. Il primo livello, che è quello di cui parlavo adesso, riguarda le condizioni di vita, di lavoro, di alimentazione, il tempo libero, fattori che tutto sommato sono parzialmente studiati nelle facoltà di medicina. Ad esempio l’alimentazione, non soltanto come insieme di regole, ma come sistema, viene studiata sempre di più. La medicina del lavoro è lo studio delle condizioni tecniche della lavorazione di un certo numero di I quaderni del CREAM, 2004 - II 16 prodotti che incidono sullo stato di salute e malattia. Oppure numerosi sono gli studi sull’aumento dei tumori in rapporto all’aumentare dell’inquinamento atmosferico legato all’industria e allo scarico delle automobili, e né l’industria né le automobili sono certo fatti biologici ma prodotti sociali. Ci sono poi altri due approcci possibili. Uno riguarda certi eventi storici che hanno avuto una profonda incidenza sullo stato di salute e malattia. Qui si possono fare esempi molto semplici. Il primo caso notissimo riguarda la grande peste del Trecento, epidemia che complessivamente ha ucciso circa la metà della popolazione europea. Descrizioni sulle condizioni delle città italiane alla fine del Trecento ci parlano di città ormai inesistenti, la cui popolazione era quasi tutta defunta dopo pochi anni di epidemia. Una serie di storici datano nella peste del Trecento l’inizio di una serie di dinamiche che devono essere analizzate per capire la storia dell’Europa. La peste del Trecento è un dato biologico, nel senso che è stata causata da un microrganismo che abita nelle pulci che a loro volta si insediano nei topi. Siamo quindi in un terreno tipicamente biologico. Tuttavia l’analisi che è stata fatta da alcuni storici ci dimostra che sono stati i grandi traffici con il Medio Oriente, le navi che andavano e venivano, a portare in Europa i topi infetti. Topi sbarcati in genere dopo le grandi crociate, soprattutto in Sicilia e a Marsiglia, città da cui è partita la grande epidemia. Non si può dire che se non ci fossero state le crociate non ci sarebbe stata la peste. Comunque è certo che un dato storico come le crociate, in quanto grande movimento di gente, ha portato alle grandi epidemie di peste […]. Facendo un esempio ancora più noto, su cui c’è una documentazione molto ampia, potrei ricordare come la scoperta dell’America introdusse la tubercolosi tra gli indiani, che non l’avevano mai avuta, e la sifilide in Europa, dove non esisteva […]. Il terzo caso che volevo sottolineare è quello che è stato meno studiato in medicina, sebbene oggi sia diventato sempre più evidente. Le esperienze che gli individui hanno nella vita sociale si traducono in certi stati psichici, e il fatto di essere pessimista, ottimista, felice, scontento, depresso, ecc… incide sugli stati di salute-malattia. In altre parole siamo di fronte ad un fenomeno che possiamo definire condizionamento da parte della psiche dei sistemi di difesa dalle malattie. Quindi un sistema biologico di difesa dalle malattie, che è il sistema immunitaI quaderni del CREAM, 2004 - II 17 rio, viene condizionato dagli stati emozionali e psichici conseguenti alle esperienze nel sociale. Ora voi capite che qui si apre un gigantesco problema, perché quello che era ovvio nella cultura popolare europea, e che non era invece riconosciuto dagli scienziati, deve venire ripreso in considerazione. Nella cultura popolare europea era diffusa l’idea che il pessimista guariva più difficilmente dell’ottimista; perfino i medici condotti lo sapevano, e quando si diceva “è morto di crepacuore”, “è morto di dolore”, si intendeva proprio dire che un individuo in uno stato di profonda prostrazione può lasciarsi morire o può comunque ammalarsi. Tuttavia quest’idea non era accettata dagli studi accademici. L’esperienza nel sociale si traduce in stati psichici che a loro volta condizionano le strutture di difesa immunitaria. Quest’analisi è un punto fondamentale nello sviluppo dell’antropologia medica, che oggi non abbiamo il tempo di discutere. Chi volesse analizzarlo potrà osservare che dalla fine dell’Ottocento fino a tutto il Novecento, si va progressivamente affermando in modo convergente da tre settori della ricerca scientifica, quello psicologico, quello antropologico e quello biomedico, la dimostrazione che effettivamente gli stati psichici incidono sugli stati di salute-malattia. I primi che se ne occupano sono gli psicologi. Freud già nel 1890 sottolinea il fatto che accanto ai farmaci, l’atteggiamento del paziente verso il suo medico è un potente fattore di guarigione.3 Due anni dopo Charcot, importante psichiatra francese, interviene nel furibondo dibattito di allora riguardo ai miracoli di Lourdes, rompendo l’antagonismo delle due posizioni a favore o contro l’intervento del sovrannaturale, sostenendo che qualsiasi religione può, in certe condizioni collettive, creare una tale attesa di guarigione che può talvolta produrre una reale guarigione.4 In questa sede non possiamo approfondire il discorso che si è sviluppato in antropologia con gli studi sui guaritori francesi di verruche. Pierre Saintyves, un grande antropologo francese, scrive nel 1913 un 3 Freud S., Trattamento psichico (trattamento dell’anima) in Id., Opere, a cura di Musatti, C., vol. I. 1886-1895, Boringhieri, Torino, 1967, pp. 93-111. 4 Charcot, J. M., La foi que guérit, in “La Revue Hebdomadaire”, 7 (dicembre 1892), pp. 112-132 (tr. it. La fede che guarisce, Capaccini, Roma, 1897). I quaderni del CREAM, 2004 - II 18 libro in cui dimostra che effettivamente i guaritori francesi curavano le verruche con le formule magiche: le verruche andavano via.5 Sostenendo che non si trattava di un fatto magico, cercava di dimostrare che era l’attesa di guarigione a creare una situazione di mobilitazione psichica che, badate bene, non cura una malattia psichica, cura le verruche, che sono una malattia virale cioè tipicamente organica. Da lì si sviluppano tutta una serie di altre ricerche che cominciano nel settore delle scienze psichiche, nel settore dell’antropologia, e poi si espandono anche nel settore della biomedicina. Negli anni Trenta un neuro-fisiologo sovietico, Aleskej Speransky, allievo di Ivan Pavlov, scrive un trattato sui fondamenti della medicina e dedica un capitolo al tema riguardante lo stato psichico. Il sistema nervoso influenza il fatto che ci si ammali o meno di malattie infettive di tipo microbico.6 In seguito soprattutto negli Stati Uniti, si sviluppano una serie di ricerche, che hanno premesse anche altrove, sul fatto che certe strutture psichiche favoriscano lo sviluppo di certe malattie, che l’attesa di morte produce morte. Queste riflessioni si collocano su una linea di continuità con il noto saggio del 1926 di Marcel Mauss sull’effetto somatico prodotto dall’idea della morte suggerita dalla collettività.7 Viene indagato il rapporto tra emozioni e patologia, rapporto che riproduce l’idea indigena degli indiani d’America e del resto anche dei contadini italiani, che una grande emozione, un grande spavento possa produrre malattia: in tutta l’America Latina si chiama susto, ma una simile patologia è diffusa in Sicilia con il nome scantu, così come da altre parti. Si arriva poi alla nascita di un’intera nuova scienza biologica e biomedica, che è la Psiconeuroendocrinoimmunologia, la quale sancisce nei termini dello studio molecolare, come il sistema nervoso centrale incida sul sistema immunitario. 5 Saintyves P. La guérison des verrues. De la magie médicale a la psychotérapie, Librairie Critique Emile Nourry, Paris, 1913. 6 Speransky, A. D. Elementy postronija teorii mediciny, VIEM, Moskva, 1935 (tr. it. Fondamenti per una storia della medicina, Einaudi, Torino, 1956). 7 Mauss M., Effet physique chez l’individu d l’idée de la mort suggerée par la collectivité (Australie. Nouvelle Zelande) «Journal de Psicologie Normale et Pathologique» 22, 1926 (tr. it. Effetto fisico nell’individuo dell’idea di morte suggerita dalla collettività (Australia e Nuova Zelanda), in ID, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, 1965, pp.327-347. I quaderni del CREAM, 2004 - II 19 Quindi abbiamo tre filoni, psicologico, antropologico e biomedico, che alla fine del Novecento arrivano a queste conclusioni, aprendo un’area problematica immensa sui fattori sociali della malattia. Per capire l’andamento delle malattie devono essere prese in considerazione le condizioni ambientali, i fatti storici e il rapporto tra psiche e difese organiche. Le modalità con cui le società interpretano le malattie Il secondo campo dell’antropologia medica è quello più classico: studia i sistemi con cui nelle varie società si interpretano le malattie e si risponde ad esse. La bio-medicina è uno di questi sistemi. Tuttavia tutte le società hanno un sistema medico e ogni civiltà possiede una differente interpretazione del perché vengono le malattie e un’insieme di pratiche, di saperi, di organizzazioni, di tecniche di apprendimento professionale per dare risposta ai problemi della malattia in termini sia preventivi che terapeutici. A seconda che ammettiamo l’interpretazione della malattia fondata scientificamente sul modello microbico-virale, o accettiamo invece l’idea che siano le divinità a produrre le malattie, per castigare gli uomini in seguito a colpe o alla violazione di tabù, a seconda del caso verranno utilizzati nella risposta differenti operatori. Alla concezione scientifica corrispondono i medici; alla concezione che sia stato uno stregone che ha rubato l’anima corrispondono gli sciamani; alla concezione che sia una divinità che castiga una persona corrispondono i sacerdoti. Quindi voi capite che in rapporto all’eziologia nascono diversi tipi di professionalità e questo vale in generale. Questi aspetti si intersecano. Anche da noi non esiste solo una visione scientifica. Significativo è il fatto che nei grandi ospedali ci siano delle chiese. Il parente del malato, che va dal medico a informarsi sulle condizioni della malattia, ritiene infatti di poter aggiungere al responso medico, che corrisponde ad una concezione scientifica della realtà, un aiuto che può invece venire, diciamo, dal Padre Eterno o da un Santo, come avviene in tante culture, a dimostrazione che la nostra non è poi tanto diversa dalle altre. I quaderni del CREAM, 2004 - II 20 Un aneddoto divertente che corrisponde all’esperienza di molti operatori sanitari nei paesi cosiddetti tradizionali, racconta che dopo aver tenuto dei corsi per insegnare che i microbi portano le malattie, si trattava di verificare se l’insegnamento fosse stato realmente recepito. Alla domanda “chi porta le malattie?” tutti risposero correttamente “i microbi”. Tuttavia qualcuno si alzò subito dopo a chiedere: “Ma chi manda i microbi?”. Anche in questo caso ci troviamo davanti ad una commistione di interpretazioni. Quindi l’antropologia medica si interessa da un lato ai fattori sociali delle malattie e dall’altro a come le persone e le culture interpretano le malattie e rispondono ad esse. Ne deriva, e qui ci avviciniamo alla conclusione, un dato che è importante quando gli antropologi dialogano con i medici. L’antropologia medica ha introdotto una concezione potremmo dire multi-concettuale della malattia. Visto che questo discorso è cominciato soprattutto con l’antropologia nord-americana, vengono utilizzati dei termini inglesi, che in seguito sono stati utilizzati dagli antropologi in tutto il mondo. Tre sono le parole che indicano la malattia in inglese, e la indicano in maniera non così precisa come in antropologia dove hanno assunto un significato ben preciso e differenziato. Il decorso biologico della malattia viene definito in inglese disease, che vuol dire malattia. Si tratta del livello della concezione biomedica: un’aggressione microbica, un’eziologia, una patogenesi sviluppa la malattia, che viene o non viene curata, e produce il decorso biologico della malattia. Gli antropologi hanno poi aggiunto nel discorso altri due livelli che sono i vissuti psichici della malattia da parte del paziente o dei suoi congiunti, e come lui reagisce, cosa pensa della sua malattia, come la vive. Si tratta non solo di fattori psichici, perché ogni cultura, entrando nella testa degli individui, li orienta a vivere la malattia in un modo o nell’altro. Per esempio, basta che in una cultura ci sia la consapevolezza che la malattia è curabile, che il vissuto psichico cambia; è sufficiente che una cultura consideri vergognosa una malattia che nel vissuto psichico della malattia si introduce il bisogno di nasconderla perché è una cosa sporca. Pensiamo per esempio a quanta gente ha nascosto la propria sifilide perché si vergognava di riconoscerla. Questo secondo livello viene chiamato illness. I quaderni del CREAM, 2004 - II 21 Nell’antropologia si riconosce un terzo livello di analisi della malattia che è chiamato sickness: attiene al cambiamento di statuto sociale che in una certa società il malato attraversa. In altre parole una volta che uno si ammala cosa succede socialmente? Possiamo dire per esempio che nella società italiana, dove per fortuna abbiamo ancora un sistema nazionale sanitario, ogni cittadino malato ha diritto di essere curato. Non è così negli Stati Uniti come in altri paesi. Non era così nel Medioevo dove il malato poteva divenire oggetto di beneficenza in alcuni conventi, ma per il resto era lasciato morire di fame, perché, fra l’altro, si associava il fatto di essere colpito da una malattia alla dimostrazione di aver commesso peccato. Quindi essere malato è, se vogliamo, un dato biologico, ma il cambiamento di statuto sociale del malato è un dato storico-sociale. Questo è stato individuato per la prima volta da uno dei maggiori sociologi contemporanei, Talcott Parsons, il quale ha spiegato che essere malato è una condizione, mentre essere paziente è un ruolo che cambia a seconda dell’organizzazione sociale. Anche per questo Talcott Parsons può essere considerato uno dei fondatori di una moderna socio-antropologia. Gli usi sociali dell’antropologia medica Cercando di concludere questo discorso, vi parlerò di alcuni campi applicativi dell’antropologia medica. Premetto che non tendo quasi mai ad usare il termine ‘antropologia applicata’. Preferisco il termine ‘uso sociale dell’antropologia’. Tutti gli antropologi sanno bene che per alcune ricerche si trovano i quattrini, mentre per altri argomenti non ci sono finanziamenti, per non citare, poi, i casi in cui uno trova i quattrini se anticipa che il risultato della ricerca sarà di un certo tipo: pensiamo ad esempio all’immenso sviluppo della psicologia del condizionamento pubblicitario che ha avuto negli Stati Uniti finanziamenti giganteschi. Oggi noi sappiamo come si aprono le pupille del consumatore nel supermercato di fronte agli oggetti esposti e invece ci sono interi problemi lasciati perdere perché non hanno immediati risvolti di interesse. Dal punto di vista delle questioni applicative, per un’antropologia seria che non si faccia troppo condizionare, un primo settore deriva da I quaderni del CREAM, 2004 - II 22 quello che ho detto prima, e riguarda cioè una maggiore attenzione al rapporto medico-paziente. Su questo tema si sta sviluppando un vasto utilizzo dell’antropologia medica, perché nel momento in cui siamo consapevoli del fatto che il vissuto del paziente è un elemento costitutivo della sua possibilità di guarire o di peggiorare, non si tratta più da parte del medico di essere buono o cattivo, ma diventa una necessità professionale tenere conto dei suoi rapporti con il paziente e considerare lo psichismo del paziente come un elemento centrale, aspetto che Sigmund Freud aveva già individuato nel 1890. Questo è un grosso campo che oggi si sta sviluppando e che ha una serie di correlati. Abbiamo oggi una legislazione che ci viene soprattutto dall’America, molto avanzata e progressista, almeno in apparenza. Dichiara, per esempio, che il malato ha il diritto di sapere la verità sul suo stato, per cui se gli restano tre mesi di vita il medico glielo deve dire. Si tratta, tuttavia, di una problematica complessa. Nel caso italiano nelle facoltà di medicina non viene affrontato questo grosso tema della comunicazione con il paziente, per cui i medici si trovano impreparati, producendo casi di malati fermati nel corridoio dell’ospedale a cui viene comunicato che stanno per morire. Questa tendenza alla comunicazione con il paziente, come tutti gli orientamenti etici, è ulteriormente condizionata e viene giustificata soprattutto nei paesi anglosassoni dove è nata, come diritto di informazione, per cui se devo fare testamento ho il diritto di sapere che sto per morire. In Italia invece c’è una certa resistenza, perché tanti medici che, nei casi molto gravi, hanno sempre dato le informazioni ai parenti, non se la sentono di informare direttamente il paziente. Io non so cosa sia meglio. In un contesto ideale sarebbe forse meglio la consapevolezza. Tuttavia se il medico non sa come dirlo e il suo discorso si tramuta in una forma di terrorismo nei confronti del malato, e questo può provocare, come abbiamo visto, un abbassamento delle difese immunitarie del paziente stesso, ecco allora che il discorso si complica […]. Un altro grande tema, su cui non posso soffermarmi, è l’immigrazione, fenomeno che rappresenta la manna per gli antropologi medici italiani, e che ha fatto sì che i servizi sanitari italiani si siano dovuti confrontare con culture mediche diverse. Noi anche come Fondazione I quaderni del CREAM, 2004 - II 23 Celli8 facciamo una serie di corsi alle ASL e alle aziende ospedaliere sulle concezioni della malattia presso popolazioni diverse, e su quale sia l’atteggiamento che bisognerebbe assumere di fronte a queste differenti concezioni. Le complicazioni sono molteplici, la più eclatante fra le quali, che esce sempre su tutti i giornali, riguarda le mutilazioni sessuali femminili […]. Resta evidente la difficoltà di come calibrare i servizi sanitari alle diverse concezioni di salute e malattia, di come favorire l’accesso di persone con culture diverse ai servizi sanitari occidentali e di come modificare questi stessi servizi a fronte di immigrati che vengono da ogni parte del mondo. Questo è uno dei problemi centrali su cui l’antropologia medica applicata oggi deve lavorare, e da cui nasce tutta una serie di problematiche. Come fare in modo che i nostri servizi sanitari comprendano le concezioni della malattia, le richieste e i bisogni di salute, per esempio dei magrebini? I servizi sanitari dovrebbero essere istruiti. Non essendo possibile istruire tutti i servizi italiani, come soluzione si potrebbe predisporre un certo ospedale in modo da renderlo più adeguato nel rispondere a queste richieste. Ecco che però, in questo modo, si crea un ghetto, perché se c’è un servizio specialistico per gli immigrati, esso verrà considerato un servizio di minor valore. Ci troviamo quindi davanti al problema della calibrazione, dell’uguaglianza e dell’equità. D’altra parte gli antropologi hanno visto anche un risultato negativo del loro lavoro. Noi abbiamo convinto un certo numero di medici ad accettare le concezioni mediche delle altre culture e a dialogare con esse. Abbiamo prodotto medici bravissimi, studiosi di antropologia, che entrano in rapporto con cittadini di paesi dell’America Latina, dell’Africa, delle Filippine, dell’India, ecc… Capita così che quando gli immigrati da questi paesi vengono a chiedere la bio-medicina, questi medici vogliono riproporre loro le medicine tradizionali. Questo è un caso tipico fra i peruviani, che provenendo soprattutto dalle città dove c’è 8 La Fondazione Angelo Celli per una Cultura della Salute, con sede in Perugia, è stata fondata nel 1987 da Alessandro Seppilli e intitolata ad Angelo Celli, insigne igienista dell’Ottocento, noto per la sua attività universitaria e di ricerca e per il suo impegno per una rapida e capillare traduzione sociale delle conquiste della medicina scientifica. La Fondazione ha per scopo la costruzione e l’espansione la più larga possibile di forme di cultura funzionali alla promozione della salute individuale e collettiva, intesa come diritto egualitario e bene indivisibile (vd. http://www.antropologiamedica.it). I quaderni del CREAM, 2004 - II 24 già la medicina occidentale, in Italia chiedono soltanto servizi più efficienti di quelli del loro paese. Succede che questi si trovino di fronte al bravo medico che ha lavorato con gli antropologi e conosce la medicina andina, le pratiche sciamaniche e il susto, e ritiene quindi che la sua apertura consista nel consigliare di lasciar perdere la medicina occidentale e di rivolgersi a quella tradizionale. Adesso sto rendendo la cosa paradossale, ma è stato chiamato ‘complesso di Salgari’. Un medico che respinge la richiesta di medicina occidentale è abbastanza frequente, così com’è frequente il medico che dichiara di essere totalmente aperto alle altre medicine, ma nel trovarsi di fronte ad un caso concreto di un paziente che si comporta in base alle concezioni di altre medicine, si arrabbia terribilmente e lo caccia via. Concludo con il terzo elemento dell’antropologia, diciamo, “applicata”. Si tratta cioè del famoso problema delle medicine internazionali. Fin dagli anni Ottanta l’Organizzazione Mondiale della Sanità sottolineava che in Europa almeno un terzo degli utenti dei servizi medici sociali, o comunque dei servizi medici di tipo occidentale, frequentava anche medici e operatori di medicine non convenzionali. Spesso vengono definite ‘medicine alternative’, ma badate che questo termine è molto fuorviante, perché di solito non sono vissute affatto come medicine alternative, bensì come altre specialità: come c’è l’oculistica o la gastrointerologia, così c’è quello che cura quella certa malattia con le tecniche cinesi, l’agopuntura, ad esempio. Quindi queste medicine non vengono vissute come alternative, ma piuttosto come alternanti: un po’ da questo medico e un po’ da quello. Inoltre questo termine racchiude elementi eterogenei: ci sono parti di grandi sistemi medici come quello cinese o ayurvedico indiano; ci sono pezzetti di risposte magico-religiose di altre culture o grandi sistemi medici come quello tibetano; ci sono anche medicine non convenzionali di origine europea come l’omeopatia, che si è molto sviluppata ultimamente; oppure ci sono medicine non convenzionali di origine europea che non hanno la tradizione biologica dell’omeopatica, i fiori di Bach per fare un esempio. Quando parliamo di medicine non convenzionali intendiamo quindi un insieme di cose diverse su cui è necessario fare chiarezza. La chiarezza comporterebbe innanzitutto affrontare i problemi riguardanti l’efficacia, ed è quello su cui la ricerca è oggi ancora molto indietro. Io ho fatto a Perugia un seminario sullo stato della ricerca, soprattutto in AI quaderni del CREAM, 2004 - II 25 merica, sull’efficacia dell’agopuntura. Sono venute fuori cose molto interessanti. È stata dimostrata l’efficacia in un certo numero di casi, ma solo per l’agopuntura, solo per alcune casistiche e solo negli Stati Uniti. Il problema andrebbe invece approfondito perché bisognerebbe innanzitutto definire cosa si intende per ‘efficacia’, concetto che viene inteso in modo diverso nelle varie culture. Poi bisognerebbe definire come si prova l’efficacia. Un problema paradossale è che quando noi parliamo di efficacia delle medicine sacrali ci imbattiamo in una questione paradossale, che è la questione dell’effetto placebo. Voi sapete che l’effetto placebo è l’effetto terapeutico prodotto da un farmaco che non ha in sé poteri terapeutici. L’esperienza occidentale dimostra che molte volte si arriva a un 20% di efficacia del placebo, il che significa che per autorizzare la creazione di nuovi farmaci bisogna che la dimostrazione della loro efficacia sia superiore a quella dei possibili placebo, altrimenti non occorrerebbe inventare un farmaco nuovo, basterebbe l’acqua distillata, o una pillola in cui non c’è nulla ma che venisse investita da un’attesa di guarigione. Mi sembra tuttavia paradossale che la medicina occidentale utilizzi l’effetto placebo solo per testare l’efficacia di nuovi farmaci e non abbia mai utilizzato l’effetto placebo per fare terapia. Se è vero che l’effetto placebo in condizioni di pura sperimentazione, può arrivare fino al 20% di efficacia, se venisse studiato a fondo, forse consentirebbe di introdurre una componente psichica di terapia che si affianchi a quella farmacologia, chirurgica o di altro genere. E questo ci porta ad un’osservazione finale. Siamo di fronte alla necessità di costruire una nuova medicina, che deve essere una medicina organica e unitaria, che tenga conto di tutti questi aspetti, di tutte le componenti psico-sociali e degli effetti del placebo. Un medicina che consideri l’uomo non soltanto come un essere biologico in cui la malattia è una vicenda biologica, ma l’uomo nella sua integrazione sociale, nella sua cultura, nel suo modo di vivere e negli effetti che questo modo di vivere ha sulla salute. Questo significa una nuova medicina, più ampia, più organica. La critica antropologica alla bio-medicina non è quella di essere troppo scientifica, ma, al contrario, di esserlo troppo poco. Cioè la critica che noi facciamo non è per quel tanto di scientifico, cioè biologico, negli studi di medicina. La critica alla bio-medicina è che lo studio dei fenomeni è fatto solo in base alla biologia e non all’insieme delle scienI quaderni del CREAM, 2004 - II 26 ze dell’uomo. Accanto alla biologia si devono quindi considerare i condizionamenti storico-sociali e quindi la sociologia, l’antropologia, la psicologia ecc… Per questo noi diciamo che la biomedicina non è abbastanza scientifica, perché taglia l’uomo a metà. Non è troppo scientifica ma lo è troppo poco: e da questo punto di vista la critica antropologica ha una propria identità precisa. I quaderni del CREAM, 2004 - II 27 I quaderni del CREAM, 2004 - II 28 ROMANO MASTROMATTEI • ♦ IL GOVERNO OMBRA DEL NEPAL La stampa internazionale – e soprattutto quella occidentale – non ha mai dedicato molta attenzione alle vicende nepalesi: i lettori dei quotidiani spesso ignorano che nel Regno del Nepal, dal febbraio 1996, è incorso una guerra civile e che le truppe e la polizia dell’attuale re Gyanendra controllano di fatto solo una piccola parte del territorio del Regno: la capitale, la valle che la circonda e una serie di città minori.1 In Nepal e in India è possibile acquistare libri, giornali e riviste che trattano ampiamente della situazione politica, economica e militare di un Paese che ha sempre avuto una grande importanza strategica e che potrebbe acquisirne una molto maggiore nel corso dell’attuale conflitto islamico-statunitense, nonché in un futuro confronto tra USA e Repubblica Popolare Cinese. È un peccato che chi scrive queste righe non sia uno storico, un politologo o un economista: si tratta di un antropologo, che può invocare a proprio credito soltanto un’annosa dimestichezza con quelle campagne, • Professore Ordinario di Antropologia Culturale Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. ♦ Vorrei ringraziare dell’aiuto e della collaborazione il professor Prem Khatry, il Generale Chatra Bikram Shah, il N.H. Arjun Jung Shah (USAID), il professor Hamid Ansari e il professor A.Prakash Raj. Ringrazio per il gentile contributo telematico l’ingegner Antonio Della Rocca. 1 Una notevole eccezione è costituita dall’ottimo saggio di Garzilli E., 2003, “Strage a Palazzo, movimento dei Maoisti e crisi di governabilità in Nepal”, in Asia Major, a cura di M. Torri, Bologna, Il Mulino. I quaderni del CREAM, 2004 - II 29 che tanta parte hanno nell’ideologia e nella prassi dei maoisti insorti contro il Governo di Sua Maestà. Nel corso degli ultimi tre o quattro anni, peraltro, è diventato sempre più difficile e rischioso avventurarsi fuori della Valle di Kathmandu, specie se – per motivi professionali – si portano con sé costose attrezzature audio-visive e il denaro liquido necessario per pagare guide e portatori, nonché per acquistare cibo e combustibile. È tuttora possibile seguire le piste classiche del trekking, che vanno da sud a nord, verso le cime sempre meno immacolate dello Himalaya: il forte calo del numero dei turisti – ridotto del 70% secondo stime governative – indica però che anche i trekker temono giustamente possibili incontri spiacevoli lungo il loro cammino, nonostante gli accordi intercorsi tra le agenzie turistiche e i dirigenti degli insorti. Questa situazione generale ha costretto anche gli antropologi meno interessati alla realtà urbana, a lunghe e pensose soste nella capitale, con molto tempo a disposizione e la possibilità di scambiare idee con la gente del posto – dai politici agli accademici, dagli albergatori (preziosa fonte!) ai negozianti, senza escludere i lavoratori di casta o fuori casta. Un mondo – va detto subito – molto, molto diverso da quello delle campagne. Il cibo, il combustibile e altri generi di prima necessità sono tuttora disponibili all’interno della Valle di Kathmandu: negli alberghi e nei ristoranti di lusso, la guerra ha avuto conseguenze quasi impercettibili per i visitatori stranieri – beninteso, per quelli provvisti di valute forti. Del tutto diversa è la situazione dei sudditi nepalesi, usi a nutrirsi essenzialmente di riso, mais, legumi e verdure: la zona agricola più produttiva si trova nel Tarai, la grande pianura lungo il confine con l’India. Attualmente, le vie di comunicazione tra la capitale e il sud sono insidiate dagli insorti e dai banditi, detti dacoit (propriamente: grassatori), che erano già una piaga in tempi più tranquilli. La produzione della Valle, di per sé piuttosto ricca, non può bastare alla popolazione, grandemente aumentata a causa dell’afflusso crescente di profughi provenienti dalle zone controllate dai seguaci dell’ideologia attribuita a Mao tze tung e che si definiscono come “Maobadi”. Di fatto, la popolazione delle campagne, sia nella pianura del Tarai, sia nella fascia mediana collinosa del Paese, è vessata e ferocemente sfruttata non solo dai Maobadi e dai banditi, ma anche dall’esercito e dalla polizia che – come ve- I quaderni del CREAM, 2004 - II 30 dremo più avanti – non esitano a saccheggiare le magre derrate dei contadini. Per comprendere l’attuale stato delle cose, è necessario fare qualche cenno alle origini della guerriglia maoista, che ha dato luogo ad una vera guerra civile – un termine che per lungo tempo non è stato usato dalla pubblicistica nepalese. L’atto di nascita ufficiale dell’attuale ribellione armata porta la data del 13 febbraio 1996, allorché gruppi di guerriglieri attaccarono simultaneamente diversi obiettivi in vari distretti del Regno: nel Distretto di Gorkha (Nepal centrale), i guerriglieri irruppero in una banca statale che finanziava un programma di sviluppo agricolo a vantaggio – reale o presunto – dei piccoli proprietari e distrussero tutti i documenti relativi ai prestiti concessi, per parecchi milioni di rupie, ai piccoli coltivatori, risparmiando invece i titoli di proprietà. Durante questa azione, alcuni guerriglieri arringavano la folla, illustrando le motivazioni politiche e sociali del colpo di mano: a quanto risulta, questa è una prassi che caratterizza molte imprese Maobadi. Lo stesso giorno, i Maobadi attaccavano tre stazioni di polizia, rispettivamente nei Distretti di Rolpa e di Rukun nel Nepal occidentale e nel Distretto di Sindhuli, nel Nepal orientale. I guerriglieri, che a quanto si disse erano abbastanza ben armati, s’impadronirono di nuovi armi ed esplosivi, strappati ai poliziotti, che da parte loro non dovettero opporre una fiera resistenza, poiché non vi furono caduti tra i loro ranghi.2 Anche in queste tre distinte occasioni, i Maobadi non mancarono di indottrinare i poliziotti prigionieri e le loro famiglie con lunghi discorsi sulla “Nuova Rivoluzione Democratica”. Questo atteggiamento didattico e bonario non è affatto tipico delle successive azioni dei Maobadi, che sono state e sono tuttora caratterizzate da un’estrema crudeltà, non molto dissimile dalle rappresaglie dei loro nemici. Sempre lo stesso giorno, altri obiettivi esemplari venivano colpiti: un impianto della Pepsi Cola a Kathmandu, una fabbrica di liquori apparte2 Nell’agiografia rivoluzionaria, figura anche il topos degli insorti che a mani quasi nude strappavano le armi al nemico: ma chi ha osservato, come lo scrivente, il comportamento della polizia nepalese durante la rivoluzione della primavera del 1990, non può che dubitare di tale versione e semmai è incline a pensare che gli insorti avessero segretamente comprato le armi dai poliziotti stessi. I quaderni del CREAM, 2004 - II 31 nente ad un “comprador borghese” (ancora nel Distretto di Gorkha3) e una casa di un noto “feudatario-usuraio” nel Distretto di Kavre nel Nepal orientale. La stessa notte, migliaia di volantini e di manifesti comparivano in ben 60 dei 75 Distretti del Regno: il Partito “si appellava alle masse, affinché marciassero lungo il sentiero della Guerra di Popolo, per schiacciare lo stato reazionario e fondare un Nuovo Stato Democratico”. Questa prova generale rivela una lunga e meticolosa preparazione: fra l’altro, le comunicazioni in Nepal (specie quelle telefoniche) sono state sempre carenti e difficili e nulla può essere improvvisato, tanto meno su scala nazionale. L’annuncio ufficiale dell’imminente nascita della guerriglia risale a tredici giorni prima: consiste in una lettera, datata 4 febbraio 1996, fatta pervenire al Primo Ministro Sher Bahadur Deuba dal Dr. Baburam Bhattarai, per conto del Fronte Unito del Popolo del Nepal. Questa lettera equivale ad una dichiarazione di ostilità, perché è impensabile che il Primo Ministro potesse dare una risposta positiva alle richieste formulate da Bhattarai, nella sua qualità di Segretario del suddetto Fronte Unito. La lettera presenta quaranta istanze ed è pertanto molto secca e laconica, per standard maoisti: lo spazio, tuttavia, c’impedisce di riprodurla integralmente, come sarebbe auspicabile. In ogni caso, l’analisi preliminare della situazione generale del Nepal formulata in apertura è purtroppo molto realistica e ne riporteremo le tesi essenziali. Bhattarai rilevava che sei anni erano trascorsi dalla rivoluzione dell’aprile 1990 o – come altri preferiscono definirla – dal “Movimento Popolare” che aveva posto fine al sistema monarchico autocratico, senza partiti, detto Panchayat. Dal 1990 al momento in cui Bhattarai scriveva, si erano avvicendati al potere quattro governi, sulla base di “un sistema costituzionale, monarchico, multipartitico, parlamentare”. Questa è la definizione dello stesso Bhattarai: inaspettata, perché in Nepal non è mai stata eletta un’assemblea costituente, né è stata nominata dall’alto.4 In ogni caso, 3 A questo episodio non venne data pubblicità, perché –una nota comica in un contesto che diventerà sempre più drammatico –i poliziotti accorsi alla fabbrica non mancarono di servirsi abbondantemente dei prodotti della borghesia compradora. 4 Tutte le costituzioni del Regno del Nepal, passate e presenti, sono state concesse, modificate o revocate dai vari re. I quaderni del CREAM, 2004 - II 32 i risultati raggiunti da questi governi – fossero monopartitici o di coalizione – erano stati disastrosi: “Il Nepal è scivolato al secondo posto fra le nazioni più povere del mondo (dopo l’Etiopia, R.M.); la gente che vive al di sotto del livello di povertà assoluta ha raggiunto il 71%; il numero dei disoccupati ha superato il 10%, mentre il numero delle persone semi-occupate o con occupazioni al nero ha superato il 60%; il Paese è sull’orlo della bancarotta a causa dei sempre più esosi prestiti stranieri e del deficit commerciale; l’infiltrazione economica e culturale del Paese da parte degli espansionisti stranieri, specie Indiani, cresce di giorno in giorno; la forbice tra ricchi e poveri e tra città e villaggi si allarga sempre più”. – Se è lecito aggiungere alcune postille alle parole del Dr. Bhattarai, si può osservare che della rivoluzione da alcuni detta borghese del 1990 hanno beneficiato sopra tutto le caste e sottocaste di mercanti e professionisti di stirpe newar residenti nella Valle di Kathmandu – che peraltro si erano dimostrati coraggiosi e intraprendenti nell’effettiva conduzione del “Movimento”. La città di Kathmandu subì dei vertiginosi mutamenti urbanistici ed economici: l’afflusso di denaro e di merci provenienti dall’estero era vistoso. Il risultato più diretto e immediato fu una forte inflazione ed una continua fuga di capitali, esportati soprattutto a Hong Kong, non ancora annessa alla Cina Popolare. L’arricchimento era – o piuttosto sarebbe dovuto essere – legato in gran parte al turismo: giganteschi alberghi furono costruiti dentro e fuori la città, deturpando senza il minimo scrupolo il paesaggio. Il risultato fu un forte calo del turismo, che precede – si badi bene – di anni l’insurrezione maoista. La Lufthansa cessò il collegamento diretto con Kathmandu, dichiarando ufficialmente che i turisti tedeschi non erano interessati affatto nella nuova realtà nepalese: le immondizie soffocavano la città, l’inquinamento causato dai gas di scarico degli automezzi e da industrie dannose (cemento e lavaggio dei tappeti nelle acque fluviali della Valle) copriva la capitale di una nube tossica e puzzolente; dai rubinetti usciva acqua variamente colorata. Gli abitanti delle campagne, usi a venire in città per vendere al minuto i loro prodotti – essenzialmente verdure e animali da macello – erano schiacciati dalla concorrenza dei nuovi supermercati, dove possono approvvigionarsi soltanto i ristoranti, gli alberghi e gli stranieri provvisti di valute forti. Inoltre, i mercati tradizionali venivano e vengono respinti ai margini della città. L’occupazione al nero, di cui parla Bhattarai, è bene esemplificata dal I quaderni del CREAM, 2004 - II 33 caso dei lavoratori degli alberghi, che ricevono salari assurdamente bassi: l’unico modo di sopravvivere, per questi uomini e queste donne, è di passare le loro notti negli ambienti più inospitali degli alberghi su giacigli improvvisati e di cucinarsi qualcosa su fornellini di fortuna; e tutto ciò, per tutta la vita. Del lavoro al nero nelle fabbriche di tappeti, non è possibile parlare qui: basti dire che i bambini e le bambine ivi impiegati non hanno alcun modo di difendersi dal più spietato sfruttamento e da ogni sorta di maltrattamenti. Queste attività, tipiche della capitale, costituiscono di fatto una vera forma di schiavitù. Il divario tra città e campagne di cui parla Bhattarai si presterebbe ad ulteriori considerazioni: la prima è che per quanto riguarda la possibilità di procurarsi del cibo, la fertile fascia pianeggiante del terai (o Tarai) era la più favorita: la zona mediana collinare, assai meno; e la zona settentrionale montuosa può a malapena offrire dei pascoli stagionali. Prima della guerra civile in corso, riempirsi lo stomaco era senza dubbio più facile per un abitante del terai che non per un cittadino povero: attualmente, a causa dei continui saccheggi – ovvero: “requisizioni” – e dei pericoli connessi con il trasporto su strada delle derrate, è più facile sopravvivere per un abitante della città, sia pure a costo di esercitare attività precarie e umilianti – compreso l’accattonaggio e la prostituzione. Anche nei lunghi anni precedenti la rivoluzione – o come la si voglia chiamare – del 1990, chi voleva svolgere delle indagini antropologiche nell’interno del Paese, lontano dai percorsi clientelari del trekking, doveva acquistare in città cibo sufficiente per sé e per i portatori, perché accadeva spesso di non trovare assolutamente nulla da mangiare nei villaggi della fascia collinare; e la stessa dieta degli agricoltori era di una povertà estrema.5 5 Il pasto-tipo consisteva in una sorta di polenta di mais, con erbe selvatiche e peperoncino –e non certo in quantità sufficiente da sfamare un adulto. Per obiettività, si deve dire che nelle campagne si è creato un circolo vizioso, per cui l’agricoltore denutrito non riesce a lavorare a sufficienza ed è denutrito perché non produce abbastanza. Ciò è particolarmente evidente per chi ha visto lavorare, ad esempio, i contadini della Cina, quale che sia la loro origine etnica. Un altro grave problema in Nepal è costituito dall’assenza del concetto di manutenzione, che ha come conseguenza danni irreparabili agli strumenti di lavoro – inclusi i più semplici – e danni alle abitazioni. L’efficienza dei maschi è molto inferiore a quella delle donne, che si sobbarcano fatiche onerosissime. Un quadro documentato e realistico della situazione generale della donna in Nepal I quaderni del CREAM, 2004 - II 34 La lettera-proclama di Bhattarai prosegue con una denuncia dei partiti parlamentari, che hanno partecipato ai recenti governi e che “hanno dimostrato in vari modi di essere più interessati nel restare al potere con la benedizione dei padroni stranieri imperialisti ed espansionisti, che non nel benessere del Paese e del popolo”. Il testo fa poi riferimento alla cessione, da parte del governo nepalese, dei diritti sulle risorse idriche nazionali agli “espansionisti indiani”. È da notare che nel linguaggio dei Maobadi, gli Occidentali – in particolare, gli Americani – sono detti “imperialisti” e gli Indiani, “espansionisti”. Non v’ha dubbio che questo termine non si riferisca soltanto a una posizione geografica, ma che insegua altresì una qualche lambiccata distinzione. Bhattarai si riconosce esplicitamente nella linea politica e nelle sollevazioni armate dello United People’s Front, denunciando la repressione del governo del re Birendra, che peraltro non è esplicitamente nominato. Il testo in esame si riferisce in modo preciso e specifico all’operazione di polizia (in codice: ROMEO), condotta nel dicembre 1995 nel Distretto di Rolpa (Nepal centro-occidentale) contro i militanti del citato UPF e i “Maoisti”, che – a quanto risulta – non sembravano ancora costituire un movimento organizzato, ma piuttosto un raggruppamento composto da diverse correnti e tendenze. Com’è ovvio, la storia reale e non strettamente documentale di questo movimento non è un libro aperto, ma l’attacco contro i posti di polizia e le banche che si verificò, come s’è detto, il 13 febbraio 1996, dimostra che all’interno del movimento genericamente maoista, doveva esistere una solida infrastruttura organizzativa o – se si preferisce – un “nucleo d’acciaio”. L’operazione ROMEO fu brutale e sanguinosa, messa in atto non solo dalla polizia, ma anche da militanti civili di partiti di centro-destra, diretta di fatto contro la maggioranza della popolazione dei Distretti di Rolpa e di Rukum e caratterizzata da saccheggi e violenze indiscriminate. Le vittime furono centinaia: ciò è confermato dal rapporto di una commissione parlamentare nominata ad hoc per indagare sui fatti. Ma questa indagine non impedì che ROMEO diventasse il modello delle si può trovare in Gautam S., Banskota A. e Marchanda R., “Women in the Maoist Movement in Nepal”, in Tapa D. (a cura di), 2003, Understanding the Maoist Movement of Nepal, Chautari Books Series, Kathmandu, 2° edizione, p. 11. Secondo le autrici citate, il carico di lavoro di una donna è quattro volte superiore a quello di un uomo. I quaderni del CREAM, 2004 - II 35 successive operazioni antiguerriglia: e come vedremo, fu un pessimo modello. Lo Human Rights Yearbook del 1995 riferì che “il Governo diede corso ad una serie di operazioni a livello di terrore di stato. In particolare, i lavoratori appartenenti all’UFPN furono brutalmente perseguitati. Seguendo le istruzioni di membri dei partiti dominanti della zona, la polizia, in undici villaggi del Distretto, ricercò, arrestò e torturò senza alcun mandato. Quasi seicento persone del luogo avevano lasciato i loro villaggi a causa delle operazioni di polizia. Centotrentadue persone furono arrestate senza alcuna garanzia legale: in questo numero, figuravano vecchi di oltre settantacinque anni”. Tutti i detenuti – conclude il documento – subirono torture. Secondo alcuni osservatori, la malaugurata Operazione ROMEO ebbe un peso determinante nella decisione dei Maoisti di lanciare la “Guerra di Popolo”. Quanto è stato sommariamente esposto può dare un’idea dell’avvio del processo meccanico della guerra in corso: per una ricostruzione più approfondita degli eventi, si deve indagare sulla realtà specificamente nepalese, che non può essere ridotta al quadro offerto dalla stampa – sia governativa, sia ispirata dall’opposizione parlamentare – e neanche dalla pur copiosa produzione di documenti e proclami diffusi dai Maobadi. Tutte queste fonti, pur nella loro eterogeneità, hanno in comune la tendenza a prospettare un quadro fortemente snazionalizzato, urbano e partitico di un Paese asiatico, rurale e castale. In Nepal, la tendenza ad adottare formule organizzative di tipo occidentale non trae direttamente origine – né lo potrebbe – dall’Occidente europeo o americano, bensì dall’India post-coloniale. Il re Tribhuvan, che nel 1951 pose fine al dominio dei Rana – un clan aristocratico che nel suo ruolo ricorda gli Shogun del Giappone – mise in atto il suo colpo di stato col pieno appoggio del governo di Nehru; e l’organizzazione partitica del Nepal in parte ricalca, in parte si connette saldamente a partiti e movimenti indiani. Ciò è evidente soprattutto nel caso del Partito del Congresso e dei movimenti che ufficialmente si richiamano all’ideologia ed alla prassi maoiste, ma non certo alla Cina del dopo Mao.6 6 Una buona ricostruzione della storia delle varie correnti all’interno del movimento genericamente maoista nepalese, si trova in Whelpton J., 1994, “The General Elections of May 1991”, in Nepal in the Nineties (SOAS Studies on South Asia), a cura di Hutt M., Delhi, pp. 48-81. Lo scritto di Whelpton ha il pregio di analizzare la storia delle varie correnti maoiste in Nepal anche alla luce degli eventi che precedono la presa del I quaderni del CREAM, 2004 - II 36 Il programma di Bhattarai, che esprime l’orientamento del Comitato Centrale dell’UPF del Nepal, è una singolare mescolanza di progetti utopistici e di richieste sconcertanti per la loro banalità e irrilevanza. Si parla di abrogazione di trattati che sanciscono l’egemonia politica ed economica del potente vicino indiano (Punti 1, 2, 3); si auspica la fine del dominio del capitale straniero nell’industria, nel commercio e nelle finanze del Paese; si parla di una nuova Costituzione, che dovrebbe essere elaborata da rappresentanti eletti dal popolo – se intendiamo bene ciò che non è esplicitamente detto. – “Tutti gli speciali privilegi del re e della famiglia reale dovrebbero essere aboliti”: si allude qui – a nostro parere – all’impunibilità dei membri della famiglia reale rispetto alle leggi nepalesi e all’impossibilità di sottoporli a processo, anche nel caso di reati comuni. Non si parla affatto di abolizione della monarchia: ma il “Nepal dovrebbe essere dichiarato nazione laica” (Punto 18). Quindi, l’induismo non dovrebbe essere più religione di stato e il re non dovrebbe essere più oggetto di un culto divino.7 Quanto al sistema castale – sinora, asse portante della società nepalese nel pubblico e nel privato – leggiamo un riferimento parziale e indiretto: “Il sistema dell’intoccabilità dovrebbe essere eliminato” (Punto 21). Tale espressione in realtà ha ben poco senso, perché l’intoccabilità – si allude ai paria, detti dalit in Nepal – non costituisce affatto un sistema, bensì il corollario di un sistema. Nel primo paragrafo del programma, accanto alla già citata richiesta di abrogazione dei più importanti trattati con l’India, figura quella di vietare “la circolazione di tutti i veicoli a targa indiana” (Punto 3); e al Punto 8 si auspica la messa fuori legge di tutti i “volgari film, video e riviste hindi”. Ci siamo soffermati su questa lettera-proclama – che naturalmente non ebbe risposta – perché segna l’inizio di una guerra civile disastrosa, di cui non si può prevedere la fine. potere da parte di Mao-tsetung in Cina. La tattica e i compromessi del PCC funsero da modello alla condotta e ai programmi dei partiti d’ispirazione maoista del Nepal. 7 Delle valenze e funzioni divine della figura del re del Nepal si è occupata Letizia C., 2003, La dea bambina – Il culto della Kumari e la regalità in Nepal, Franco Angeli, Milano, con ampia e adeguata bibliografía. I quaderni del CREAM, 2004 - II 37 Rammentato e ricostruito il singolo evento che – otto anni fa – ha innescato il processo di disgregazione di un Paese, vediamo ora di rintracciarne, almeno in parte, le cause e le origini. Per avvicinarsi alla comprensione della realtà nepalese, si deve considerare anzitutto la sua tradizionale struttura induista e monarchica, con una forte presenza buddhista ed uno spesso sostrato etnico tibetobirmano, fondamentalmente estraneo alla cultura castale dominante, ma da questa non solo dominato, ma modellato.8 A nostro parere, non è sufficiente tracciare una storia tutta interna dei movimenti e dei partiti di ispirazione marxista per avere un quadro chiaro della situazione verificatasi negli ultimi venti o trent’anni nel Nepal: questa storia, peraltro, ci viene proposta con serietà e competenza da un gruppo di politologi nepalesi e occidentali e può essere ben usata come complemento di un quadro ideologico complessivo di là da venire. Ci si deve anzitutto confrontare con il fatto che la stessa idea di partito è profondamente estranea alla cultura del Nepal, anche se numerosi partiti sono stati presenti – alla luce del sole, in clandestinità o in semiclandestinità – nella Valle di Kathmandu negli ultimi cinquant’anni: ma la capitale e le città satelliti non rappresentano certo il Paese nella sua realtà profonda e totale. Ci permetteremo, pertanto, di offrire una ricostruzione trasversale degli eventi che hanno condotto all’attuale guerra; un’indagine puntuale, che tenesse conto di tutti i conflitti interni e le innumerevoli scissioni verificatesi all’interno di partiti spesso minuscoli sarebbe – noi crediamo – di scarso interesse per il lettore italiano e devierebbe la sua attenzione verso fattori obiettivamente secondari. Una delle opere più documentate e meno inviscate in micropolemiche interne è A Kingdom Under Siege – Nepal’s Maoist Insurgency, 1996-2003 di Deepak Thapa e Bandita Sijapati.9 Il 1996 – anno dell’inizio ufficiale della guerra civile – si colloca in una fase storica di vio8 La letteratura scientifica sul sistema castale induista in lingue occidentali è molto vasta: l’opera fondamentale, immediatamente accessibile al lettore italiano, è: Homo hierarchicus – Il sistema delle caste e le sue implicazioni, Adelphi, Milano 1991, traduzione italiana del testo di Dumont L., 1966, Homo hierarchicus – Le système des castes et ses implications, Editions Gallimard, Paris. I marxisti nepalesi – a qualsiasi partito o gruppo appartengano – rifiutano e condannano il sistema castale, almeno in teoria. 9 Pubblicato da The Printhouse, Kathmandu, 2003; con ampia bibliografía. I quaderni del CREAM, 2004 - II 38 lenza endemica, caratterizzata dalla prepotenza delle caste più alte, dei ceti più abbienti e delle forze di polizia, che hanno costantemente sfruttato e angariato le caste più basse, i fuori casta e i gruppi etnici più deboli, quale che fosse la loro consistenza numerica. L’esercito – che ha sempre avuto grande peso nella politica interna del Nepal – era fedele al re in carica ed è rimasto tale fino al giugno 2001, allorché ha indiscutibilmente appoggiato il nuovo re Gyanendra nella sua sanguinosa presa del potere. Poiché l’attuale movimento di guerriglia ha le sue radici in una peculiare varietà di marxismo asiatico, dedicheremo particolare attenzione a questa linea politica: ma ciò non deve indurre il lettore a credere che questa e solo questa linea mirasse al rovesciamento dell’ordine esistente da secoli in Nepal. Thapa e Sijapati scelgono come paradigma delle violenze che seguiranno il caso del villaggio di Mirul, nel Distretto di Rolpa, Nepal centro-occidentale, abitato dal gruppo etnico Kham Magar.10 Nel 1996, nel villaggio non si vedevano uomini: a quanto sembra, erano quasi tutti simpatizzanti dell’UPF (United People’s Front), che si poteva definire allora come l’ala militante del CPN (Maoist), ovvero del Communist Party of Nepal – Maoist. Questo partito, nonostante la sua etichetta, non sembrava rivelare velleità rivoluzionarie. Gli uomini erano fuggiti per non essere uccisi dai loro nemici locali, appoggiati da un membro del Nepali Congress (evidentemente, un signorotto della zona) e dalle forze di polizia distrettuali. Antiche rivalità tribali sfociarono in una serie di arresti arbitrari e di massacri particolarmente crudeli, che – per obiettività – non possono essere ascritti alla linea del Nepali Congress in quanto partito:11 ma alla linea di comportamento della polizia nepalese, senz’altro sì. Le atrocità commesse da forze che agli occhi degli abitanti del Distretto rappresentavano il potere centrale e la conservazione, spinsero uomini e donne ad aderire al nascente movimento maoista armato. Que10 Vedi de Sales A., “The Kham Magar Country, Nepal: Between Ethnic Claims and Maoism”, in European Bulletin of Himalayan Research, n° 19, Autumn 2000. 11 Di diverso avviso sono i commentatori e gli analisti appartenenti a gruppi e partiti a sinistra del Partito del Congresso: vedi, in particolare, Karki A., Seddon D., “The People’s War in Historical Context”, in Karki A. e Seddon D. (a cura di), 2003, The People’s War in Nepal –Left Perspectives, Delhi. I quaderni del CREAM, 2004 - II 39 sto, da parte sua, non ha mai esitato – eccetto forse il giorno dell’apertura delle ostilità, a commettere atti di estrema crudeltà all’interno di un nuovo quadro ideologico, oltre che nella linea di una tradizione di ostilità castali e tribali. Da una lettura complessiva dei documenti disponibili e di testimonianze, si può affermare che la violenza della polizia era diretta verso persone e comunità prive di potere, escluse – per definizione e non certo per scelta – dal sistema castale e sociale vigente; la violenza dei guerriglieri era sin dall’inizio diretta contro chiunque appartenesse a quel sistema, anche ai livelli più umili o economicamente svantaggiati. Le due forze opposte – per somma disgrazia del Paese – avevano ed hanno tuttora in comune un comportamento, una condotta altamente distruttiva: lo sfruttamento spietato dei civili. La sopravvivenza sia dei guerriglieri, sia delle forze anti-guerriglia, è legata al saccheggio sistematico delle derrate alimentari prodotte dagli agricoltori: il denaro – anche se fosse disponibile – non servirebbe assolutamente a nulla nelle aree rurali, in massima parte montagnose, del Nepal: là dove si combatte la guerra civile, la guerra reale di ogni giorno. Da parte dei guerriglieri, viene praticata un’altra forma di taglieggiamento, di cui ci occuperemo specificamente più avanti: l’estorsione di denaro ai danni di persone abbienti o considerate tali sullo sfondo dell’estrema povertà nazionale. Questo denaro può senz’altro servire a comprare armi e forse medicine: certo, non a comprare cibo là dove non esiste o basta appena alle esigenze dei civili. Precedenti dell’episodio del 13 febbraio 1996 non mancano: ma i loro èsiti furono ben diversi. Se si risale il corso della storia del Nepal degli ultimi cinquant’anni, si possono fissare alcune date importanti: la prima – il 1951 – segna la fine del regime dei Rana, un clan di aristocratici che avevano di fatto esautorato la dinastia Shah nel 1846 e che governavano il Nepal in loro nome.12 Nel ‘51, il re Tribhuvan, rompendo la tradizione dei rois fainéants, fuggiva a Delhi e con l’aiuto del Pandit Nehru, si reimpadroniva del suo legittimo potere, apriva le frontiere, allacciava rapporti diplomatici con Paesi stranieri e faceva del suo meglio per portare il Nepal nel XX secolo. Nelle sue parole, “È nostro desiderio e nostra decisione che il governo del nostro popolo sia d’ora innanzi esercitato secondo 12 Il fondatore di questa dinastia parallela fu Jung Bahadur Rana, scomparso nel 1877. I quaderni del CREAM, 2004 - II 40 una costituzione democratica, presentata da un’assemblea costituente eletta da esso [popolo]”. Questo progetto è restato lettera morta, non ostante che tre re siano succeduti al re Tribhuvan negli ultimi 50 anni: una circostanza che fa riflettere, allorché si sente parlare di diritti costituzionali, di monarchia costituzionale et similia da parte di singoli politici, di partiti e dalla stessa stampa. Il re Tribhuvan, nell’aprile 1951, promulgò una Costituzione ad interim, che sembrava garantire l’esistenza di alcuni diritti civili e creava un potere giudiziario indipendente: il re si riservò, però, il diritto di nominare il Primo Ministro e scelse un rappresentante del Partito del Congresso, che ormai poteva agire ufficialmente, dopo un secolo di potere autocratico dei Rana. Il re, che – giova ricordarlo – era profondamente amato e rispettato dal suo popolo – scelse una figura poco significativa, Matrika Prasad Koirala, che diede le dimissioni dopo neanche un anno. Questa fu la prima manifestazione di una tendenza costante fra i moderni monarchi del Nepal, i quali, pur profondamente diversi tra loro, non hanno mai rinunciato ad esercitare il proprio potere secondo una tradizione tipicamente asiatica. Ciò è ben comprensibile: ma si deve altresì considerare attentamente la corrispondente tendenza dell’opposizione – pur nella varietà di situazioni degli ultimi 50 anni – a mantenere di fatto un canale diretto, un rapporto privilegiato con la Corte – con il Palazzo, per usare l’espressione corrente in Nepal. Questo rapporto può essere inconfessato o anche sconfessato: ma non per questo ci sembra meno reale – anche nelle circostanze attuali – e meno vincolante. Durante il breve regno di Tribhuvan, si verificò la prima rivolta armata che si possa, sia pure tentativamente, mettere in rapporto genetico con l’attuale movimento dei Maobadi: il 20-21 gennaio 1952, un gruppo militarmente organizzato, guidato da K.I. Singh, un politico con qualche esperienza di guerriglia, si ribellò al Governo del re e diede inizio alle ostilità. L’esercito schiacciò subito la rivolta e K.I. Singh fuggì. Il fatto assai singolare fu che il Partito Comunista del Nepal, fondato nel 1949, cercò di assumersi la responsabilità (ed il futuro merito) della rivolta stessa, benché, secondo ogni evidenza, non vi fosse in alcun modo implicato. Ad ogni buon conto, il Governo mise fuori legge il giovane partito, che restò in clandestinità fino all’aprile 1956. Nel marzo 1955, il re Tribhuvan morì e gli succedette il figlio Mahendra, che aveva una concezione molto più autocratica della regalità di I quaderni del CREAM, 2004 - II 41 quanto ne avesse avuta suo padre. Il nuovo sovrano era intimamente convinto che il sistema partitico non fosse adatto al suo Paese: dotato di una forte personalità e di un carattere energico, cercò costantemente di avocare a sé tutti poteri, combattendo sia la nascente democrazia di tipo occidentale e borghese, sia il clan dei Rana, esperti di intrighi e sempre pronti a colpi di stato. Nel 1959, il re Mahendra accettò che fossero indette le elezioni, ma non al fine di nominare un’assemblea costituente, bensì con lo scopo di creare un parlamento, nel quadro di una costituzione che doveva essere concessa dal re, in quanto detentore della sovranità del Paese. Questa costituzione fu promulgata appena una settimana prima delle elezioni e confermava appieno il ruolo assolutamente centrale e decisivo del monarca. Questo ruolo è ben interpretato e descritto da Anne de Sales nel suo saggio The Kham Magar Country.13 Nel quadro di una descrizione della politica interna del re Mahendra, si legge come il re progettasse di “costruire l’unità della nazione e sviluppare il sentimento nazionale. Simultaneamente, nasceva un certo concetto di identità. In uno dei suoi discorsi, il Re Mahendra traduceva la nozione occidentale dell’eguaglianza di tutti i cittadini in termini essenzialmente religiosi (visnuiti). In questa forma di identità, ‘tutti i devoti di Vishnu [hanno] un’identica sostanza sottile che li unisce all’interno del corpo sottile di Vishnu nella forma di Parbrahma’. Pertanto, tutti i Nepalesi sono concepiti come un tutt’uno nella loro devozione verso lo stato-nazione”.14 Il Partito Nepalese del Congresso, il Partito Comunista del Nepal (CPN), decisero di partecipare alle elezioni. Questo atteggiamento del CPN – a nostro giudizio – va interpretato come il primo sintomo della vocazione non necessariamente repubblicana e tantomeno giacobina dei vari partiti e movimenti comunisti del Nepal. Il Partito del Congresso ottenne ben 2/3 dei seggi del neonato Parlamento (74 su 109) e cominciò a promuovere un cauto programma di riforme, relative, ad esempio, 13 In Tapa D. (a cura di), 2003, Understanding the Maoist Movement of Nepal, Chautari Books Series, Kathmandu, 2ª edizione (1a ediz., ibid. 2003), pp. 59-88. 14 A pagina 61 del suo saggio, Anne de Sales riprende queste parole da un contributo di Richard Burghart, “The formation of the concept of Nation-state in Nepal”, in Fuller C.J. e Spenser J. (a cura di), 1966, The condition of listening: Essays on religion, history and politics in South Asia, Delhi: OUP, p. 257. Il re del Nepal è venerato quale incarnazione (propriamente, avatar) del dio Vishnu. I quaderni del CREAM, 2004 - II 42 all’istruzione pubblica e all’assistenza sanitaria.15 Ma il nuovo governo – o per meglio dire, quella componente parlamentare del governo, che doveva fare i conti col Palazzo – incontrò la tenace ostilità dei proprietari terrieri, allorché cercò di promuovere una timida riforma agraria, che mirava a sopprimere l’esenzione dalle tasse sulla proprietà fondiaria, di cui godevano, in particolare, i grandi e i piccoli feudatari.16 Re Mahendra, nel frattempo, continuava ad accogliere suppliche, ad amministrare giustizia e a distribuire fondi dello stato da vero autocrate, in nessun modo soggetto alle regole di un governo di tipo parlamentare. Si deve ricordare che aveva pieno controllo dell’esercito e di una temibile polizia segreta, ereditata dal figlio e attiva almeno fino al 1990.17 Nel maggio 1959, fu formato il primo governo democraticamente eletto nella storia del Nepal. Il Primo Ministro era B. P. Koirala, da non confondersi con il più remissivo Matrika Prasad Koirala, suo fratello maggiore. I rapporti fra il re ed il Primo Ministro furono tesi fin dall’inizio: il 15 dicembre 1960, il re sciolse il parlamento, arrestò Koirala e alcuni membri del suo gabinetto. Questa mossa inaugurò una fase di governo autoritario, per non dire autocratico, che durò ben trent’anni (1960-1990). Il Partito del Congresso nepalese cercò di organizzare una qualche resistenza armata al regime, con l’appoggio segreto del Primo Ministro indiano Jawaharlal Nehru, ma senza successo: nell’ottobre 1962, la Cina maoista tentò di invadere il Sikkim, e il Governo indiano – o i suoi servizi segreti – persero interesse a finanziare una rivolta all’interno di un prezioso stato-cuscinetto come il Nepal. Nel dicembre 1962, il re Mahendra promulgò una nuova costituzione, che aveva a suo fondamento il sistema detto “Panchayat”, definito come “una democrazia senza partiti”. Già nel nome, questo sistema ri15 Sotto il regime dei Rana, l’istruzione era riservata ai membri del clan e ai loro satelliti: ciò non impedì la costruzione di scuole monumentali nella capitale. Quanto all’assistenza sanitaria, essa è tuttora limitata a chi può pagare cure e ricoveri in ospedale: i costi sono proibitivi per un’altissima percentuale della popolazione. 16 Questa esenzione, detta birta, si riferiva originariamente alle proprietà templari e non a quelle private. 17 Questa polizia – ovviamente in borghese – era composta da elementi difficilmente identificabili e da una bassa forza di tipo squadristico, riconoscibile per l’atteggiamento aggressivo e prepotente, tutt’altro che tipico dei civili nepalesi. Parecchi di questi individui – detti “Mandalay” – furono scoperti e linciati dalla folla nell’aprile 1990. I quaderni del CREAM, 2004 - II 43 vela le sue radici castali: si tratta in origine di un comitato di cinque membri (pancaiti) riunito allo scopo di discutere questioni relative alle caste. Data la varietà di etnie, lingue e culture del Nepal, lo stesso concetto di casta era soggetto a variazioni interpretative locali. Nel 1854, il Primo Ministro Jang Bahadur Rana, fondatore della potenza del suo clan, promulgò una legge in cui i sistemi castali dei diversi territori del regno, furono regolati e unificati, con l’esplicito intento di imporre una concezione unitaria del Nepal: in termini occidentali, di fare del Nepal un solo stato-nazione. Nei decenni successivi, il processo di unificazione del sistema castale procedette parallelamente – se non proprio di pari passo – con il processo di unificazione linguistica: il nepali, lingua indoeuropea, era destinato ad imporsi come lingua nazionale sulle altre 98 lingue del Paese.18 Lo spazio e l’occasione ci impediscono di seguire validissimi studiosi nelle loro analisi dettagliate del periodo della Panchayat: proponendo una non facile sintesi, si potrebbe dire che questa forma di governo cercava di conciliare la tradizione culturale, religiosa ed amministrativa del Paese con le spinte endogene ed esogene che aprivano crepe sempre più larghe in un’antica costruzione. Era anche evidente che il monarca si considerava l’unico conservatore legittimo di tale edificio e che cercava di rafforzare e consolidare con tutti i mezzi a sua disposizione la ristretta cerchia dei suoi parenti, dei suoi collaboratori più fidati e dei cortigiani che gravitavano attorno al Palazzo. Un sistema siffatto poteva avere una sua funzionalità se controllato e dominato da un monarca energico e vigile: ma aveva in sé i germi di una corruzione senza fine. Un’analisi dell’esperimento Panchayat andrebbe divisa in due capitoli, corrispondenti a due fasi: durante il regno di Mahendra e dopo la sua morte (31-1-1972). Ma poiché il tema di questo scritto riguarda l’origine e lo sviluppo dell’attuale movimento dei Maobadi, non potremo soffermarci sulla questione dell’effettivo carattere dell’esperimento Panchayat, che è descritto dai suoi più sagaci critici come un sistema che di fatto – non di diritto – ammetteva l’esistenza umbratile e sotter18 I proclami e i documenti dei Maobadi contengono costantemente un riferimento negativo all’uso del nepali come unica lingua nazionale: per quanto ci risulta, tali documenti vengono diffusi esclusivamente in nepali. I quaderni del CREAM, 2004 - II 44 ranea di partiti politici che sulla carta sarebbero stati assolutamente inaccettabili per il monarca.19 Nel corso di quella che abbiamo chiamato “prima fase” della Panchayat, si verificò un evento indiscutibilmente connesso – sia pure assai alla lontana – con il tipo di insurrezione tuttora in corso: la sollevazione armata di Jhapa. Il distretto di Jhapa si trova all’estremità sud-orientale del regno del Nepal ed è separato dall’India solo dal fiume Mechi. Sollevazioni di contadini organizzate da elementi del Partito Comunista dell’India (Marxista), cioè ispirato da Pechino, si erano già verificate nel 1967 nell’area di Naxalbari (Bengala occidentale). Attivisti indiani filocinesi, nel maggio 1971, collaborarono con elementi nepalesi ai fini di una sollevazione armata contro il governo del re Mahendra: riuscirono a uccidere otto “nemici di classe”, prima di essere schiacciati dalle truppe del re. Sette leader del “Comitato di Coordinamento” furono messi a morte e parecchi furono imprigionati. I dirigenti sopravvissuti fondarono, in questa occasione, quella che sarebbe diventata la maggiore organizzazione comunista del Paese: il Partito Comunista del Nepal (Marxista-Leninista Unificato). Nel giugno 1975, rappresentanti del Distretto di Jhapa e di altri Distretti, formarono un Comitato di Coordinamento Comunista pan-nepalese; nel dicembre 1978, fu ufficialmente fondato il CPN-ML. Il tutto, beninteso, in quella elastica condizione di clandestinità che ha caratterizzato per lunghi anni in Nepal le iniziative politiche che non ci sentiamo di definire di sinistra, di centro o di destra: forse, la definizione più realistica sarebbe: “extra-Palazzo”. Il nuovo re Birendra, figlio di Mahendra, per giudizio assolutamente unanime, era ben lungi dall’avere la tempra del padre: ed è anche utile ricordare – prima di immergerci nella cronaca delle gesta dei partiti di orientamento borghese e/o marxista, che i Rana, non più tenuti a bada da Mahendra, avevano nuovamente gettato una solida testa di ponte a Corte, facendo sposare al giovane re e a uno dei suoi fratelli due principesse Rana, scelte con grande oculatezza. In particolare, la giovane regina, Aiswarya Rajya Lakshmi Devi Rana, figlia di un generale, aveva preso molto sul serio il suo ruolo di sposa di un autocrate e si identificava chiaramente col suo clan di origine, rappresentato in 19 Sul regime della Panchayat esiste un’ampia bibliografia: ci riferiamo qui soprattutto all’acuta analisi di Burghart R., “The Political Culture of Panchayat Democracy”, in Hutt M. (a cura di), 1994, Nepal in the Nineties, , SOAS Studies on SouthAsia, Delhi. I quaderni del CREAM, 2004 - II 45 special modo nell’Esercito e nell’alta finanza. Sotto il debole scettro di re Birendra, il sistema della Panchayat era più che mai messo a repentaglio dalle rivalità fra gruppi di potere, con interessi diversi e concorrenti. La situazione spinse – o costrinse, è difficile dirlo – il re a indire un referendum nazionale, che permettesse ai votanti di scegliere tra una Panchayat “riformata” e un sistema multipartitico, che avrebbe inevitabilmente portato all’elezione di un parlamento di tipo occidentale. Com’era da aspettarsi, i partiti, formalmente banditi, vennero allo scoperto e fecero una loro campagna elettorale; ma persero il referendum e la Panchayat fu mantenuta. Si parlò di massicci brogli: certo, l’isolamento e l’inaccessibilità della maggior parte dei piccoli centri abitati del Paese si prestavano all’uso di violenze, soprusi e raggiri ai danni di una popolazione in gran parte analfabeta e direttamente soggetta ai grandi e piccoli signori feudali. Ciò premesso, ci sentiamo di affermare che il sincero attaccamento al sistema della Panchayat era molto diffuso, nei villaggi e nelle città, allora e in epoca assai più recente. Nel 1985, il Partito del Congresso e alcuni gruppi difficilmente identificabili di orientamento comunista, cominciarono a collaborare ai danni della Panchayat: fu un periodo oscuro, punteggiato da una serie di attentati, messi in atto con bombe a tempo, disposte nella capitale: attentati che è ragionevole far risalire ai servizi segreti del Palazzo, piuttosto che ai movimenti partitici. Nonostante che il rapporto tra causa ed effetto sia tutt’altro che chiaro, questo stratagemma terroristico funzionò – come, a suo tempo, in altri Paesi, lontani dal Nepal – e la collaborazione fra un partito di tipo borghese e gruppi di aspiranti rivoluzionari, cessò. La Panchayat potrebbe essere definita come un partito – o almeno un fronte di tipo feudale – anche se questo anacronismo formale può lasciare interdetto uno storico o un politologo occidentali: in ogni caso, all’interno della Panchayat, come suoi qualificati rappresentanti, figuravano uomini politici notoriamente legati ai partiti, messi fuori legge o privi di un vero status legale. Poiché le radici, sia pure lontane, dell’attuale movimento dei Maobadi affondano nell’humus del Partito Comunista del Nepal, è necessario ricordare che questo partito fu fondato ufficialmente il 15 settembre 1949 da Pushpa Lal Shrestha, che tradusse e pubblicò il “Manifesto” di Marx & Engels in lingua nepali, gettando il seme di un messianismo, che produrrà frutti alquanto sorprendenti su una terra induista. Esisteva, I quaderni del CREAM, 2004 - II 46 tuttavia, un importante precedente: nel 1947, Man Mohan Adhikari, membro del Partito Comunista dell’India, aveva capeggiato uno sciopero di lavoratori del settore tessile nel Nepal sud orientale. A M. M. Adhikari toccò, molti anni più tardi, il singolare destino di diventare il primo e sinora unico Primo Ministro comunista del Regno del Nepal, nel 1994-95, sotto lo scettro di re Birendra. Molti osservatori occidentali (tra i quali, sia detto per incidens, anche chi scrive questa nota) credettero che la nomina a premier di un vecchio dirigente comunista avrebbe provocato un colpo di stato, magari guidato da alti ufficiali dell’esercito: ma non fu così e in capo a un anno, il governo di M.M. Adhikari cadde per debolezza intrinseca, fra i compiaciuti lazzi della stampa indiana. Se – come abbiamo visto – il ceppo originario da cui derivano i numerosi partiti nepalesi che si definiscono comunisti è costituito dal vecchio Partito Comunista del Nepal del 1949, si deve considerare che di lì a non molti anni sarebbe esplosa la latente rivalità fra l’URSS – sempre vicina all’India per ragioni geopolitiche – e la Cina Popolare: una rivalità che non poteva non riflettersi sulla politica interna del Nepal. Si può affermare che la politica estera della RPC sia sempre stata favorevole alla casa regnante del Nepal, prima e dopo la morte di Mao: non soltanto perché la monarchia rappresenta un sia pur debole baluardo contro l’espansionismo indiano, ma anche perché negli ultimi 50 anni è nato il problema della resistenza tibetana all’occupazione cinese: qualunque eventuale cambiamento della situazione nepalese, non può non preoccupare gli strateghi di Pechino, che non hanno mai dimostrato alcuna simpatia per i seguaci nepalesi del Mao-tzetung-pensiero. Sempre seguendo il filo rosso – o nero? – delle origini dell’attuale insurrezione armata, possiamo brevemente enumerare le scissioni che hanno portato alla formazione di due schieramenti o almeno di due tendenze principali: una di tipo parlamentare, l’altra, antiparlamentare. Se abbiamo ben compreso lo spirito dei documenti prodotti, entrambe le tendenze non rifiutavano la possibilità di una insurrezione armata – che è ben altra cosa rispetto ad una lunga lotta armata: la discriminante, dunque, non è l’uso delle armi, bensì la sua qualità, la sua durata e l’eventuale coinvolgimento di gruppi numerosi e militarmente organizzati. Ben più difficile è distinguere obiettivi propriamente politici: persino l’opposizione monarchia-repubblica è alquanto sfumata e rivela ciò che I quaderni del CREAM, 2004 - II 47 anche in altri climi e altre latitudini, non può definirsi se non come bronzeo opportunismo. Allorché, nel 1960, il re Mahendra soppresse i partiti, la fazione filomoscovita del CPN, col suo segretario K.J. Rayamajhi, decise di accettare le decisioni del Palazzo; la fazione filocinese si divise in piccoli gruppi e passò alla clandestinità – almeno, in certa misura, “alla nepalese” – e cominciò a operare per proprio conto. A questi gruppi possono essere fatti risalire gli attuali Maobadi, emersi dopo ben 36 anni. Due dirigenti particolarmente radicali, Mohan Bikram Singh – vivente e durissimo critico dei Maobadi – e Nirmal Lama (scomparso nel 2000) indissero un congresso, detto dai partecipanti “IV Congresso” (donde, il nome “Partito Comunista del Nepal-IV Congresso”). Questo nuovo partito esigeva l’elezione diretta di un’assemblea costituente e al tempo stesso auspicava una “lotta di popolo armata”, seppure non con questa precisa etichetta. Non sappiamo come pensassero i militanti di conciliare le operazioni di voto e le operazioni di guerra: resta un problema delicato e tuttora insoluto. Quale che fosse la sua strategia, la dirigenza del IV congresso non si commosse affatto per la sorte dei ribelli di Jhapa, che giudicò: “terroristi semi-anarchici”. Nel 1983, Mohan Bikran Singh formò un nuovo Partito Comunista del Nepal (Masal), che in capo a due anni si scisse in CPN Masal e CPN Mashal. L’attuale “Supremo” dei Maobadi, Pushpa Kamal Dahal, noto anche sotto l’appellativo di Prachanda, ovvero “Il Terribile”, proviene dal Mashal; l’altro dirigente dei Maobadi, il Dr. Baburam Bhattarai, estensore della lettera-documento già citata, restò nel Masal.20 Si deve realisticamente ammettere che nel vuoto e nell’impotenza spesso tipici della clandestinità, le scissioni sono facili e che non disponiamo di documenti attendibili sulla consistenza numerica delle varie formazioni: nessuno poteva impedire a due o tre individui di considerarsi un partito. Nel corso dell’inverno e della primavera 1990, si formò una coalizione segreta fra il Partito del Congresso e sette altri partiti, incluso il c.d. “IV Congresso”, per rovesciare il regime della Panchayat: il Palazzo, tramite la sua polizia segreta e i suoi squadristi, fece assassinare un gran numero di oppositori, reali o presunti, scegliendoli fra le classi più 20 Sia Masal che Mashal significano: torcia. Tra l’altro, la grande maggioranza dei Nepalesi ha difficoltà a distinguere tra il suono s e il suono sh. I quaderni del CREAM, 2004 - II 48 povere e indifese; e arrestò e vessò in ogni modo professionisti, quali avvocati, giornalisti e sopra tutto medici, che raccoglievano un’ampia documentazione, anche fotografica, sui corpi delle vittime.21 A quanto riferisce la nostra fonte preferita – Deepak Thapa22 – il Masal e il Mashal si unirono a quella che abbiamo chiamato “coalizione segreta”, soltanto quando le manifestazioni di massa, organizzate da quest’ultima, divennero incontrollabili e incontenibili da parte della polizia. La causa scatenante della sollevazione fu la chiusura – quanto mai tempestiva – della frontiera da parte dell’India, con conseguente scomparsa di ogni combustibile: le donne nepalesi, impossibilitate a cucinare anche un pugno di riso, costituivano una buona metà dei manifestanti. Il 6 aprile 1990, le truppe, in assetto di combattimento, aprirono il fuoco contro la folla che si dirigeva verso il Palazzo e in pochi minuti uccisero dozzine di persone, i cui corpi furono in massima parte raccolti e frettolosamente bruciati nel crematorio comunale, senza nessuna di quelle cerimonie e di quei riti che tanta parte hanno nella vita degli Indù. Il 9 aprile – dopo tre giorni di coprifuoco, che causò altre vittime – il re Birendra annunciò per radio la legalizzazione dei partiti, che avevano pronti numerosi camion, insegne e bandiere: la presenza di gran lunga più forte era costituita dal Partito del Congresso e dallo United Left Front.23 A nostro giudizio, questa rivoluzione – pur incompiuta e imperfetta – aprì le porte a forze nuove e innovatrici, con dei programmi realistici, anche se ben presto snaturati da un’ineradicabile corruzione: il tipo di governo che s’impose allora, dura formalmente da quattordici anni e la rivolta maoista scoppiò nel suo sesto anno di vita, sotto il regno di Birendra. Nel novembre 1990, fu promulgata una nuova Costituzione, risultato della convergenza programmatica di rappresentanti del Partito del Congresso, della sinistra, della Panchayat, più alcuni indipendenti. Nessuna convocazione di un’assemblea costituente. Quattro partiti, contrapponendosi di fatto a questo raggruppamento – e precisamente il c.d. IV 21 Parte della documentazione è disponibile in un volume pubblicato a Kathmandu dal Forum for Protection of Human Rights nel giugno 1990: Dawn of Democracy – People’s Power in Nepal. 22 Tapa D., “The Maobadi of Nepal”, in Dixit K.M., Ramachandaran S. (a cura di), 2000, State of Nepal, Himal Books, Kathmandu. 23 Osservazione personale dello scrivente. I quaderni del CREAM, 2004 - II 49 Congresso, il Masal ed un gruppo scissionista del Mashal, capeggiato dal Dr. Baburam Bhattarai, si fusero in un Partito Comunista del Nepal, detto anche “Unity Centre”, con Prachanda come Segretario Generale. Bhattarai e il Terribile formano attualmente il duumvirato che è alla testa dei Maobadi. I fatti che sono seguiti dimostrano che questo raggruppamento può operare ora all’interno, ora all’esterno del sistema politico-parlamentare del Nepal. Indette le elezioni generali, uno United People’s Front (UPF) fu presentato come il braccio politico dello Unity Centre, con il Dr. Bhattarai come segretario. Nel primo Parlamento eletto sotto il nuovo regime, l’UPF ottenne 9 seggi, il Partito del Congresso 110 e il Partito Comunista Unificato del Nepal Marxista-Leninista (CPN-UML) ben 69. Nonostante la sua etichetta scarlatta, questo partito è tutt’altro che rivoluzionario: ci sembra che attualmente rappresenti piuttosto gli interessi della prospera e attiva borghesia della capitale, un agglomerato sociale e castale che riesce ancora a galleggiare, pur nella drammatica situazione economica del Paese. Un anno dopo, nel dicembre 1991, lo Unity Centre tenne il suo primo congresso, dichiarando di “voler adottare il Marxismo-LeninismoMaoismo come guida ideologica del Partito e il sentiero della guerra di popolo di lunga durata, implicante la strategia dell’accerchiamento della città da parte delle campagne”.24 Con ciò, il sentiero esplicitamente maoista e potenzialmente guerrigliero cominciò a seguire un tracciato diverso da quello parlamentare del CPN-UML. Cinque anni dopo questa risoluzione, ebbe inizio l’attuale guerra civile: dapprima, definita dalla stampa ufficiale come un fenomeno di banditismo, poi di terrorismo, poi come un’insurrezione via via più estesa. Attualmente, si parla di un conflitto fra l’esercito e la polizia da una parte e i Maobadi dall’altra: il termine è accettato dagli insorti e i giornalisti che lo usano non sono esposti a rappresaglie. La lettura di saggi storici, politici ed economici scritti sopra tutto da autori nepalesi e i contatti con gente di ogni condizione, che non scrive 24 La citazione, arricchita da un notevole commento, si trova alla p. 16 del contributo di Karki A. e Seddon D., “The People’s War in Historical Context”, in Karki A. e Seddon D. (a cura di), 2003, The People’s War in Nepal – Left Perspectives, Adroit Publishers, Delhi. I quaderni del CREAM, 2004 - II 50 affatto, ma che è abbastanza incline a parlare liberamente con gli stranieri, ci permette di ricostruire la genesi di questa guerra: guerra civile o “guerra di popolo”, come la si voglia definire a seconda del proprio orientamento: va da sé che nessun interlocutore, nella zona controllata dal governo, userebbe la seconda definizione. La guerra sembra avere una triplice origine: l’estremo malcontento, antico ed endemico, dei Distretti poveri e montagnosi di Rolpa e di Rukum, abitati da gruppi etnici fortemente discriminati e sfruttati;25 la dinamica azione politica e la formazione di nuovi quadri da parte dei dirigenti e dei militanti dello Unity Centre, collegati – almeno come ispirazione teorica – al Movimento Internazionale Rivoluzionario (RIM), con diramazioni in America Latina e in Europa;26 il malcontento e la frustrazione di strati castali e sociali urbani, delusi dagli èsiti della rivoluzione dell’aprile 1990. Per quanto se ne può sapere, da un punto di vista sociale – non però ideologico – i dirigenti dei Maobadi provengono proprio da quella matrice. Si può aggiungere – con tutta obiettività – che è impossibile non pensare ad un coinvolgimento dei servizi segreti indiani, almeno nella prima fase della guerriglia: con altrettanta obiettività, è difficile pensare che detti servizi si possano unanimemente compiacere degli attuali, macroscopici sviluppi della guerriglia stessa, che rischia di diventare il modello vincente dei forti movimenti maoisti dell’India. I Maobadi, ormai militarmente organizzati e strutturati, hanno bisogno sopra tutto di un regolare afflusso di munizioni, dello stesso tipo e dello stesso calibro: càpita di leggere, nella stampa locale – e non solo in quella – del grande “bazar di armi indiano”, appena al di là del porosissimo confine indo-nepalese; ma chiunque abbia una pur vaga idea della guerra, sa 25 Il malcontento non era certo minore nelle zone pianeggianti del Terai sud-orientale: ma questa è un’area, dove – grazie ad una delle poche strade rotabili del Nepal – è possibile inviare truppe entro ventiquattr’ore. Di grande utilità, per chi voglia approfondire la questione delle radici locali della guerra civile, è l’indagine, disponibile in internet, di Gersony R. Western Nepal Conflict Assessment, pp. 1-101. Questo studio è stato commissionato dall’Autore dal Mercy Corps di Portland, Oregon e rappresenta un vero modello di ricerca applicata. 26 La disamina più completa a noi nota delle reali o presunte radici internazionali del movimento dei Maobadi si trova nell’opera dello studioso e diplomatico indiano Muni S.D., 2003, Maoist Insurgency in Nepal – The Challenge and the Response, Rupa & Co., Delhi. I quaderni del CREAM, 2004 - II 51 che armi disparate, comeprate al bazar, vanno bene per svaligiare una banca o per un colpo di mano, ma non certo per alimentare un annoso conflitto con un esercito regolare. Dopo la dichiarazione delle ostilità, la guerra – agli occhi degli abitanti della capitale – fu per lungo tempo una realtà lontana: i Maobadi controllavano dei Distretti di scarsa importanza economica e politica e si scontravano con poliziotti mal pagati e male armati, condizionando in misura apparentemente accettabile la vita di ogni giorno di Kathmandu. Per la verità, i visitatori stranieri meno distratti si rendevano conto, sin dai primi anni della guerriglia, che i proprietari dei grandi alberghi erano molto tesi e che troppe imprese cambiavano improvvisamente padrone: ma nessuno, ai livelli superiori della società, ammetteva di ricever pressioni da parte dei Maobadi. I piccoli proprietari e i commercianti con un modesto volume d’affari, invece, erano abbastanza inclini a sfogarsi con gli stranieri: non avevano un’immagine sociale da proteggere e spesso erano semplicemente terrorizzati. Nessuno – a nostra conoscenza – pensava di rivolgersi alla polizia, per tema di ritorsioni e per evitare ulteriori richieste di denaro. È difficile dire in quale misura queste richieste provenissero dai Maobadi, ovvero dalla malavita locale, sempre pronta a stampare una falce e martello sulle proprie missive. In ogni caso, come vedremo meglio in séguito, è dubbio che i Maobadi in massa siano degli idealisti che usano il denaro estorto soltanto per la causa. Un buon barometro della situazione politica ed economica, nonché della importantissima vita di tutti i giorni in Nepal, è sempre stato costituito dalla stampa quotidiana e periodica in lingua inglese, destinata agli stranieri – in gran parte asiatici – ed alle élites sociali della capitale: ma, come ricordano i politologi e gli storici da noi citati, la lingua utilizzata dai politici nepalesi è il nepali e tutti i documenti e le dichiarazioni di principio di cui disponiamo sono passati attraverso il filtro della traduzione. Tutti i quotidiani, i settimanali e i periodici in lingua inglese stampati nella capitale – con l’eccezione del Rising Nepal, da sempre emanazione diretta del Palazzo – forniscono notizie precise e fattuali, come può costatare chiunque viva abbastanza a lungo in quel Paese; il riferimento a queste fonti è d’obbligo per chi voglia documentarsi sulla situazione di sempre più grave emergenza che si è verificata negli ultimi otto anni. I quaderni del CREAM, 2004 - II 52 Altra fonte di informazione sul reale svolgimento della guerra, è rappresentata da tempo dalle agenzie di viaggio e di trekking, che sopprimendo o modificando i percorsi turistici, hanno costantemente offerto un quadro attendibile, nelle sue linee generali, dello sviluppo e dell’estensione della guerriglia: con qualche spiacevole sorpresa, però, poiché la tattica dei guerriglieri funziona grazie alla sua imprevedibilità. Le grandi agenzie, collegate alle catene dei grandi alberghi, possono garantire percorsi relativamente sicuri soltanto pagando i dirigenti dei Maobadi, ciò che le piccole agenzie non sono in condizione di fare. Inoltre, nei primi anni della guerra, i Maobadi si muovevano dalle loro basi nel Nepal centro-occidentale – zona tutt’altro che turistica – e non interferivano necessariamente col movimento turistico-alpinistico, che parte dalla capitale e si dirige verso nord. Con l’estendersi della sfera d’azione della guerriglia, la situazione si è modificata: non solo le poche strade rotabili possono essere bloccate, ma anche le comunicazioni per via aerea – il Nepal è pieno di piccoli aeroporti – sono state messe in crisi dagli attacchi dei Maobadi alle sedi locali delle compagnie, dove esiste la certezza di trovare denaro liquido. Per un Paese che – come si dice correntemente – vive in gran parte di aiuti internazionali e di turismo, la guerra causa un danno finanziario difficilmente calcolabile. Tracciare una cronistoria del conflitto, dalla guerriglia a una drôle de guerre, può essere lungo e tedioso: nella linea dell’esposizione sinora seguita, cercheremo di proporre al lettore un taglio tendenzialmente politico. Il fatto che più colpisce l’osservatore, sia straniero, sia nepalese, è il rifiuto da parte del Governo di S.M. di usare l’esercito per combattere i Maobadi: questi per ben cinque anni (1996-2001) si trovarono di fronte soltanto forze di polizia male armate e male equipaggiate, cui inflissero a più riprese gravi e umilianti sconfitte. Nel 2001, le forze di polizia minacciarono di ammutinarsi, perché chiamate a combattere con dei vecchi fucili Enfield le truppe maoiste dotate di un buon numero di armi automatiche.27 Ufficialmente, la riluttanza di re Birendra ad impiegare l’esercito era motivata dalla volontà di non dichiarare la guerra civile; come compromesso esisteva il progetto di militarizzare, specie dal punto di vista dell’armamento, le esistenti forze di polizia. In realtà, la politica dei vari governi succedutisi fra il 1996 e il 2001 oscillò co27 Da interviste personali dello scrivente. I quaderni del CREAM, 2004 - II 53 stantemente fra la ricerca di una soluzione radicale del “problema Maobadi” – cioè lo sterminio dei guerriglieri, etichettati come “terroristi” anche a livello internazionale – e un progetto di addomesticamento dei medesimi, ovvero la loro riconversione in un piccolo partito, con almeno un piede nel Parlamento. Diversa – e non soltanto secondo noi28 – la politica del Palazzo. Il re Birendra e la sua cerchia, secondo ogni ragionevole evidenza, miravano a strumentalizzare indefinitamente il movimento maoista contro il sistema partitico e parlamentare: la democrazia di tipo borghese è fragile nelle situazioni di estrema emergenza e restava in ogni caso da giocare la carta dell’esercito. Quest’ultimo, si sarebbe dimostrato un calcolo tragicamente sbagliato. Il Palazzo appariva del tutto indifferente al destino della popolazione rurale, dissanguata dalla guerra civile. I Maobadi inflissero, tra il ‘96 e il ‘98, una lunga serie di sconfitte alle forze di polizia e cercarono al contempo di istituzionalizzare il proprio potere nei Distretti-base di Rolpa e di Rukum. Riferendosi al recente passato, Prachanda, nel 1999 scrisse quanto segue nel suo saggio “Il terzo turbolento anno della Guerra di Popolo: una valutazione generale”: “…Cooperative popolari, prestazioni di manodopera e attività agricole collettive, costruzione di vie d’accesso rurali, ponti, monumenti ai martiri, registrazione, acquisto e vendita di terre, protezione del popolo, cultura popolare, tribunali del popolo, amministrazione di scuole e altro, divennero l’esercizio preliminare quotidiano del nuovo potere del popolo. La gente di quelle aree [occidentali] si sentì per la prima volta padrona del proprio destino (…) Con qualche differenza quantitativa, anche molte aree nelle zone collinari (del Nepal) centrale e orientale misero in atto le prime forme di autogoverno”.29 L’espansione della guerriglia e la conseguente repressione generarono una pratica tanto diffusa, quanto insensata e crudele: poliziotti travestiti da Maobadi si presentavano nei villaggi e reclutavano a forza gli uomini, quindi li liquidavano come ribelli, facendoli figurare come ne28 La denuncia più energica e documentata degli intrighi fra il Palazzo e i Maobadi proviene dal comunista della prima ora Mohan Bikram Singh: “The Royal Palace Massacre and the Maoist’Pro-King Political Line”, in The People’s War in Nepal – Left Perspectives, cit., pp. 315-374. 29 The Worker, n° 5, 1999. I quaderni del CREAM, 2004 - II 54 mici uccisi; i Maobadi, dal canto loro, facevano morire fra le torture più atroci quei “possidenti” – spesso padroni di pochi acri di terra – che non pagavano prontamente le cifre richieste. Fra le categorie più perseguitate dai Maobadi figuravano e tuttora figurano i maestri di scuola, colpevoli di trasmettere la cultura tradizionale (e quale altra cultura, nel Regno del Nepal?) e in particolare, nozioni di sanscrito.30 Imbaldanziti dai loro successi militari, i Maobadi pensarono di scatenare un attacco generale in occasione del secondo anniversario della “guerra di popolo” (13 febbraio 1998), ma il Primo Ministro Girija Prasad Koirala, dirigente del Partito del Congresso, decise di mettere in atto un vasto e feroce piano repressivo, detto “Operation ‘Kilo Sierra’ Two”. La polizia nepalese ha a lungo negato che tale piano fosse mai esistito, con quella o con altra etichetta, ma lo stesso capo della polizia dei territori occidentali, dichiarò: “Se i Maoisti non rispettano la Costituzione, neanche noi dobbiamo rispettarla, conducendoli dinanzi ad un tribunale”, dando così il suo placet alle esecuzioni sommarie.31 L’operazione “Kilo Sierra Two” fu estesa a tutte le zone rurali del Nepal dove la guerriglia fosse presente e provocò circa 500 vittime, in gran parte civili accusati di aiutare i Maobadi, quasi che fosse possibile rifiutare cibo e occasionale alloggio ai guerriglieri. Impossibile calcolare il numero di stupri di cui furono vittime le donne nei villaggi coinvolti; persino un Ispettore Generale di Polizia, Pradap SJB Rana, dichiarò che il progetto “Kilo Sierra Two” – chiamato questa volta con il suo nome – “aveva iniettato nuove energie nel movimento maoista”.32 La consistenza numerica dei Maobadi e dei loro collaboratori – volontari e non – non può essere facilmente calcolata. Secondo quanto affermato dallo stesso Prachanda, le forze complessive dei Maobadi sono divise in tre formazioni: 1) le forze armate pienamente equipaggiate e addestrate, impiegate nell’attacco; 2) la riserva, per l’appoggio e la di30 La descrizione più esauriente e precisa delle tecniche di tortura usate dai Maobadi si trova a pp. 71 sgg. del saggio di Robert Gersony, cit. a pag. 25. L’Autore pone in relazione storica e critica queste tecniche con quelle impiegate dai Khmer Rossi. Le torture – di norma inflitte in pubblico – servono non solo un fine terroristico, ma altresì politico e pedagogico. Notizia di queste atrocità viene data correntemente dalla stampa quotidiana della capitale. 31 Intervista al Kathmandu Post, 8 luglio 1998. 32 Intervista al Kathmandu Post, 20 maggio 2001. I quaderni del CREAM, 2004 - II 55 fesa; 3) i volontari, ovvero la “milizia del popolo”, reclutata fra gli abitanti dei villaggi disposti a collaborare coi Maobadi. Le unità combattenti, secondo calcoli piuttosto congetturali, sarebbero composte dai cinque agli ottomila fra uomini e donne. I dirigenti maoisti insistono sull’armonia che regna e deve regnare tra quadri politici e quadri militari. Secondo noi, traspare invece dalle loro parole la preoccupazione circa il futuro, nel caso che i politici accettassero delle situazioni di compromesso con il Governo e i Maobadi inquadrati nella formazione militare si rifiutassero di deporre le armi. Nelle parole di Prachanda, “non è un segreto che – per quanto riguarda le armi – il maggior rifornimento proviene dal nemico. Come disse Mao, anche le potenze straniere possono rifornirci attraverso il nostro stesso nemico”.33 Ciò che Mao non ci ha detto, è come i suoi nipoti più o meno legittimi si procurassero armi moderne strappandole alla polizia nepalese, che si lamentava di esserne sprovvista. Il corso politico della guerra ebbe una brusca svolta il 1 giugno del 2001, quando il re Birendra, la regina, il principe ereditario Dipendra e tutti i consanguinei legati alla linea diretta di successione al trono – quindici persone – furono massacrati nel corso di una sparatoria notturna a Palazzo. Ufficialmente, l’unico responsabile della strage, eseguita con diverse armi automatiche, sarebbe stato Dipendra, perché ostacolato da sua madre nel suo sogno di convolare a nozze, giudicate morganatiche, con Devyani Rana – una ragazza di tutt’altro che umili natali. Un solo fatto è assolutamente certo: le numerose guardie del corpo, appartenenti all’esercito, non intervennero in alcun modo per difendere la sacra persona del monarca e i suoi: i corpi furono immediatamente cremati e i militari di ogni ordine e grado, senza batter ciglio, passarono al servizio del fratello del re, Gyanendra. Questa è la circostanza politica di cui si deve tener conto, al di là di ogni congettura criminologica.34 33 Intervista al Washington Times, 14 dicembre 2002. Vedi Misra N., 2001, End of the Line – The Story of the Killing of the Royals in Nepal, Penguin Books, New Delhi. Questo libro, sotto le ingannevoli apparenze di un pessimo romanzetto giallo-rosa, mette in luce le contraddizioni, le incoerenze e le menzogne della versione ufficiale del massacro. Ai fini di una cronaca e di un’analisi obiettive della situazione, si deve aggiungere che Nepalesi colti e tutt’altro che ingenui, credono nella versione dell’improvvisa follia, scatenata anche dall’abuso di alcol e di droghe, manifestatasi in Dipendra; e credono altresì in una sorta di stupor delle guardie del cor34 I quaderni del CREAM, 2004 - II 56 Non mancarono manifestazioni di piazza, che esprimevano rimpianto per il re assassinato: ma furono represse con la consueta brutalità. Birendra era stato – non ostante tutto – un re molto popolare: la responsabilità delle stragi dell’inverno-primavera 1990 erano state addossate alla regina di stirpe Rana; della condotta, tutt’altro che lineare e brillante, della guerra contro i Maobadi, si faceva colpa ai Primi Ministri e ai vari partiti. Tutto ciò, nella coscienza del popolo, fortemente condizionata – con buona pace dei politologi che pubblicano in lingua inglese – dalla valenza sacrale del monarca. Sorprendente, ma non troppo, la posizione ufficiale delle alte gerarchie dei Maobadi. Il Dr. Baburam Bhattarai rilasciò un’intervista al quotidiano in lingua nepali “Kantipur”, che fu pubblicata il 6 giugno 2001, appena cinque giorni dopo la strage: “Perché (…) il Re Birendra e la sua intera famiglia sono stati assassinati proprio adesso? Qual’era il suo principale ‘crimine’ agli occhi degli imperialisti e degli espansionisti? Qualsiasi ideologia abbraccino, tutti i Nepalesi onesti e [di sentimenti] patriottici debbono certamente ammettere che la maggior ‘debolezza’, o il maggior ‘crimine’ di Re Birendra fosse che egli, benché prodotto dalla classe feudale, aveva uno spirito relativamente patriottico e un carattere politicamente aperto. Benché perfino alcuni ‘sacerdoti’ del marxismo ci abbiano chiamati ‘realisti’ (royalists), noi possiamo dire adesso senza esitare che su certe questioni nazionali noi e Re Birendra avevamo vedute simili e che esisteva una non dichiarata unità pragmatica tra Re Birendra e noi su alcuni punti” (corsivo nostro).35 Prachanda, intervistato dal giornalista indiano Neelesh Misra, rivelò che re Birendra aveva inviato un segnale preciso ai Maobadi, un mese prima di essere assassinato. Un fratello minore del re, il principe Dhirendra, aveva incontrato la dirigenza dei Maobadi, in previsione di un futuro contatto diretto con il monarca. “Qualche volta, abbiamo pensato che con lo sviluppo progressivo del movimento maoista, gli si sarebbe potuto chiedere di giocare in Nepal un ruolo po, che ritenevano inconcepibile entrare in un’area del Palazzo, aperta solo ai parenti stretti del re e ai più alti dignitari. 35 L’intervista è ripresa e polemicamente commentata da Mohan Bikran Sing nel suo contributo al volume The People’s War in Nepal, cit. alla n. 28. I quaderni del CREAM, 2004 - II 57 simile a quello del Principe cambogiano (Norodom) Sihanouk. Noi crediamo fermamente che questo atteggiamento morbido e aperto verso di noi e la sua inclinazione per la Cina, piuttosto che per l’India, abbia portato al massacro della sua intera famiglia”.36 Per qualche tempo, i dirigenti dei Maobadi professarono affettuoso rispetto verso il re ucciso e assoluta esecrazione per il nuovo re Gyanendra e per il suo Primo Ministro Girija Prasad Koirala. Come regalo per l’augusto compleanno (7 luglio 2001), non mancarono di ammazzare quarantun poliziotti. Nello stesso mese, nel Distretto di Rolpa, presero altri 69 poliziotti in ostaggio. A questo punto, Koirala mobilitò finalmente l’esercito, ma senza successo. Il fallimento della campagna indusse Koirala a dare le dimissioni. Fu prontamente sostituito da Sher Bahadur Deuba, che dichiarò che il primo problema da risolvere era quello dei Maobadi e come prova di buona volontà, il 22 luglio 2001, ordinò un ‘cessate il fuoco’. Il gesto fu ricambiato dai Maobadi ed ebbe inizio un periodo, in cui sembrò che si potesse passare dalla clandestinità, la guerriglia e le sanguinose imboscate ad una fase di trattative, tavole rotonde e persino di manifestazioni di piazza maoiste autorizzate. Ma una forte tensione soggiaceva a questo strano e inaspettato accordo: i Maobadi, messo un piede nella capitale, avevano cominciato ad estorcere apertamente beni e denaro agli abitanti, che prima avevano conosciuto soltanto le lettere minatorie. Si era passati, insomma, dall’estorsione selettiva all’estorsione di massa. Una politica miope, questa, perché un intero movimento parassitario avrebbe avuto interesse a mantenere in discrete condizioni di salute il suo ospite. Inoltre i Maobadi si erano scoperti una tardiva vocazione repubblicana, ciò che avrebbe escluso dalle trattative il Palazzo stesso. Corse anche voce che il capo dell’ala militare, il “compagno Badal” (al secolo: Ram Bahadur Thapa)37 premesse per la rottura delle trattative in corso. Gli avvenimenti che seguirono sembrerebbero confermare la fondatezza di questa voce. 36 L’intervista, concessa a Neelesh Misra, è riportata alle pp. 191-195 del volume End of the Line, cit. alla n. 34. 37 La fonte è Muni S. D., Maoist Insurgency in Nepal, cit. alla n. 28. Muni si riferisce all’Indian Express del 2 dicembre 2002. I quaderni del CREAM, 2004 - II 58 Le trattative furono rotte il 21 novembre 2001 e immediatamente iniziò una nuova fase particolarmente acuta e sanguinosa della guerra, che durò per ben quattordici mesi, con vere e proprie battaglie e ingenti distruzioni di beni, attrezzature, installazioni e linee di comunicazione. Prima di presentare la cronaca delle operazioni di guerra, è opportuno riflettere sul senso di una campagna così distruttiva ed esiziale per il Paese. Come la storia ci insegna, le guerre si fanno o per vincerle o per perderle – in questo caso, se possibile, salvando l’onore e sperando di trarsi d’impaccio da situazioni politiche ed economiche insostenibili. Nel caso della guerra in Nepal, è comprensibile che il Governo di S.M. volesse sterminare i Maobadi oppure mantenerne in vita una parte per strumentalizzarli a fini di politica interna. Ciò che non si può ragionevolmente credere è che i Maobadi intendessero impadronirsi del potere: per quanto saturi della lettura di testi inneggianti ai trionfi della ‘guerra di popolo’, debbono esser sempre stati coscienti del fatto che una repubblichetta neo-maoista non sarebbe mai stata riconosciuta da nessuno e che – sopra tutto – sarebbe stata strangolata in pochi giorni dalla chiusura della frontiera da parte dell’India. Ciò non ostante, la dirigenza dei Maobadi, o per disegno parapolitico o per forti pressioni interne, decise di attaccare su tutti i fronti, infliggendo gravi perdite alle truppe del re ed enormi danni e sofferenze alla popolazione. L’offensiva dei Maobadi iniziò il 23 novembre 2001 nel Distretto di Dangdeukhuri, nella zona sud-occidentale del Nepal e precisamente nella città di Ghorahi: due dozzine fra soldati e poliziotti furono uccisi e i Maobadi saccheggiarono banche e arsenali, procurandosi, questa volta senz’alcun dubbio, armi e munizioni moderne di chiara origine governativa. Dopo due giorni attaccarono Salleri, capoluogo distrettuale del Solukhmbu, nel Nepal centro-orientale, dimostrando di avere un forte contingente di truppe in una zona ben lontana dalle loro basi principali. Altro eccidio, altro saccheggio e distruzione del locale aeroporto. In questo frangente, le truppe del re combatterono con coraggio e decisione ed evitarono il disastro totale. I quaderni del CREAM, 2004 - II 59 Il 26 novembre 2001, il Primo Ministro Sher Bahadur Deuba, dichiarò lo stato di emergenza – il primo del sec. XXI 38 – sospendendo tutti i diritti civili. Il CPN (Maoist) fu etichettato come “organizzazione terrorista”, nella linea suggerita dal governo di George Bush junior. Dure pene erano previste per chiunque, in qualsiasi modo, assistesse i terroristi nelle loro attività: una forma di ingiusta e feroce persecuzione verso tutti coloro che – specie nei villaggi – erano prima o poi visitati dai Maobadi. Il 3 dicembre 2001, i duumviri Prachanda e Bhattarai rilasciavano una dichiarazione, in cui indicavano nel rifiuto da parte del governo di indire l’eternamente auspicata assemblea costituente, il motivo della rottura delle trattative: “La gente avrebbe potuto scegliere tra monarchia e repubblica (…) Questa proposta è stata rifiutata e la banda fascista al potere ha mobilitato le forze armate in tutto il Paese”.39 Tra il 23 novembre 2001 e il 29 gennaio 2003, si verificarono ben ventisette fra scontri e attentati, con la perdita di 500 uomini da parte governativa. Per dare un’idea del livello degli scontri, si può ricordare che il 17 febbraio a Magalsen, Distretto di Acham (Nepal centro-occidentale), i Maobadi uccisero 107 guardie e il responsabile del Distretto. Impossibile – a nostro giudizio – fare un calcolo attendibile del numero di vittime civili.40 Difficile anche calcolare il danno umano, diretto e indiretto, causato dal reclutamento forzato da parte dei Maobadi, che costringeva, allora come adesso, migliaia di giovani a fuggire dai loro villaggi, trasferirsi nelle città o emigrare in India o nei Paesi del Golfo. In questa situazione, secondo gli autori nepalesi da noi utilizzati, il contributo delle donne all’economia del Paese – noi diremmo, più realisti38 Nel sec. XX, lo stato di emergenza fu dichiarato due volte: nel 1952, in occasione di una rivolta promossa da un gruppo assai poco omogeneo di forze politiche, capitanata da Singh K. I. e ben presto schiacciata dalle truppe di Re Tribhuvan, la seconda volta, fu dichiarata nel 1960 da Re Mahendra. 39 Questo messaggio era inopinatamente diretto ai capi delle missioni diplomatiche, che non ci risulta abbiano avuto mai rapporti diretti e ufficiali con i Maobadi. 40 Ricordiamo un solo episodio: il 22 febbraio 2002, i Maobadi appiccarono il fuoco con una molotov ad un autobus di linea che non aveva rispettato lo sciopero da loro indetto. Cinque persone furono bruciate vive, tra le quali, una bambina di otto anni. I quaderni del CREAM, 2004 - II 60 camente, alla mera sopravvivenza della popolazione rurale – acquisì un’importanza vitale. Purtroppo, questo ruolo – peraltro non nuovo – non garantiva e non garantisce affatto le donne dalle violenze e dalle ruberie praticate dai soldati e dai Maobadi, così come non garantisce dallo sfruttamento i minori, da sempre costretti a un duro lavoro ed ora spesso privati dei genitori e dei parenti dalle vicende della guerra. Le donne, almeno a partire dal periodo dell’emergenza, furono arruolate in gran numero nelle fila dei Maobadi, in parte a séguito di una libera scelta, in parte a viva forza. Questa conseguenza della guerra ha attratto, com’è naturale, il forte interesse di sociologhe di varia ispirazione e di militanti di sinistra e di centro. Poiché in questo contesto dobbiamo limitarci alla questione Maobadi, ci riferiremo soltanto a indagini e dichiarazioni connesse con la guerra in corso: ma il movimento delle donne ha in Nepal origini più antiche, nella stessa società tradizionale e si è manifestato in situazioni storiche e sociali molto diverse dalle attuali.41 Nei documenti ufficiali promulgati dalle alte gerarchie dei Maobadi, la questione della donna è naturalmente appiattita in un pericoloso e ingannevole messianismo, con radici europee ottocentesche: ma i documenti direttamente presentati da donne nepalesi rivelano, al contrario, un drammatico realismo. La legislazione militare del Nepal vietava l’arruolamento di donne nell’esercito42: ma già nei primi anni ‘80, un gran numero di donne faceva parte della polizia ed erano ben presenti e attive, equipaggiate con elmetto, corazza e bastone, nella repressione dei moti della primavera del 1990. Si trattava essenzialmente di donne provenienti dai gruppi etnici più svantaggiati, ansiose di essere alloggiate, nutrite e di ricevere una sia pur modesta paga. Sull’altro fronte, secondo quanto riferisce una qualificata fonte Maobadi, detta “Compagna Parvati”,43 le donne che hanno liberamente aderito alla guerriglia, sono state determinate nella loro scelta da due fattori: primo, la discri41 Una bibliografia adeguata ed un’analisi critica si possono trovare in Napoleoni L., Donne e rivoluzione in Nepal: dal sistema castale indù alla guerriglia maoista, tesi di laurea non pubblicata, Università di Roma II Tor Vergata, anno acc. 2003-2004. 42 Vedi Sezione 10 dell’Army Act del 1960. Questa disposizione sembra essere ora contraddetta da una campagna di reclutamento indetta dall’Esercito e indirizzata alle donne: vedi The Kathmandu Post, 28 novembre 2003. 43 Vedi “Women’s Participation in the People’s War”, in The People’s War in Nepal – Left Perspectives, cit. alla n. 12, pp. 165-182. I quaderni del CREAM, 2004 - II 61 minazione insita de jure nella società nepalese, specie per ciò che concerne le leggi sull’ereditarietà; secondo, “lo scatenato stupro di massa delle donne delle campagne perpetrato dallo stato”. A questi due fattori, noi possiamo senz’altro aggiungerne un terzo: l’atteggiamento ufficiale e dichiarato di condanna da parte dei Maobadi dell’uso di prodotti alcolici, quasi sempre distillati in casa e contenenti di regola sostanze altamente tossiche. In tutti i gruppi etnici da noi osservati, le donne hanno costantemente dovuto supplire col loro lavoro alla ridotta produttività maschile, determinata – fra l’altro – dall’abuso di liquori. Com’è prevedibile, la “Compagna Parvati”, che vive in clandestinità, non formula nessuna critica al movimento in cui milita: ma la sua documentazione delle malefatte del governo del re è preziosa. Molto diverso è l’atteggiamento di Subita Shakya,44 dirigente della All Nepal Women’s Assn., affiliata al CPN (UML). Sempre riferendoci esclusivamente alle conseguenze dirette della guerra e non – come sarebbe auspicabile – al quadro generale della situazione, si può citare la dura e documentata denuncia presentata dalla Shakya dell’effettiva condotta dei Maobadi verso le donne e i minori. I Maobadi reclutano a forza ragazzi sotto i 14 anni e li impiegano come combattenti e come portatori di bombe artigianali, mine e munizioni. La percentuale di donne uccise in combattimento è molto alta rispetto alla loro presenza negli effettivi: “Possiamo dire che i Maoisti impiegano con la forza nelle operazioni di guerra donne non addestrate”. Lo sfruttamento di donne e bambini come portatori e come scudi umani è praticato abitualmente sia dai Maobadi, sia dai corpi antiguerriglia. – “All’interno del partito Maoista, casi di stupro e di sfruttamento sessuale sono – a quanto risulta – comuni e si è sentito parlare di casi in cui le donne sono state stuprate perché professavano una diversa opinione all’interno del partito”. Lo stesso partito dovette riconoscere che un Vice-Presidente del Governo del Popolo – tale Kaile Giri – aveva violentato una bambina. – “Quasi tutte le donne guerrigliere che hanno lasciato il Partito Maoista si sono lamentate di esservi state costrette a séguito di violenza sessuale”. Tutto ciò è drammatico, ma non sorpren- 44 Vedi “The Maoist Movement in Nepal: An Analysis from the Women’s Perspective”, in The People’s War in Nepal, cit., pp. 375-404. I quaderni del CREAM, 2004 - II 62 dente in una cultura che non protegge in alcun modo i deboli, a tutti i suoi livelli, in tempo di guerra e in tempo di pace.45 Durante questa lunga fase di guerra ad oltranza, i Maobadi inflissero un colpo particolarmente pesante al prestigio del Governo di S.M.: il 26 gennaio 2003, uccisero a colpi d’arma da fuoco, nella capitale, l’Ispettore Generale delle Forze Armate di Polizia, Krishna Mohan Shrestha, sua moglie e una guardia del corpo, dimostrando di volere e potere agire in una zona considerata sotto controllo governativo. Per l’osservatore esterno, non è facile mettere a fuoco un qualche disegno politico o strategico dietro una guerra condotta a livello tattico con ottusa e ripetitiva crudeltà: una possibile spiegazione è che esistano fratture orizzontali tra le forze degli stessi Maobadi e che chi vive alla macchia da anni, con un’arma in mano, non s’identifichi con la politica dei dirigenti, siano questi politici o anche militari. Ufficialmente, i duumviri continuavano a tuonare contro “la cricca Gyanendra-Paras” – re e principe ereditario, detestato da tutti per la sua pessima condotta privata46 – e a suo tempo, dopo il massacro del 1 giugno 2001, avevano persino esortato l’esercito a non obbedire agli ordini del nuovo monarca: senza alcun successo, come s’è visto. Ma, al tempo stesso, i dirigenti dei Maobadi sapevano benissimo che non solo al tavolo delle trattative avrebbero trovato in ogni caso un rappresentante del Palazzo, ma che sarebbe stato più facile trovare un accordo con l’emissario del re, che non con i politici di qualsiasi gruppo parlamentare. 45 Lo Himalayan Times del 5 agosto 2004, pubblicò un articolo che documentava 10.247 casi di maltrattamenti di minori nell’arco di sei mesi. I dati erano stati raccolti dal Child Workers in Nepal – Concerned Centre (CWIN), un benemerito ente assistenziale privato, diretto da Gauri Pradhan. Il Ministro per le Donne, i Bambini e l’Assistenza Sociale, Ashta Laxmi Shakya, fece suo il rapporto del CWIN, se ne assunse la responsabilità e lo pubblicò. I casi convenzionalmente detti di abuso o maltrattamento comprendevano assassinii, sparizioni, violenze sessuali, compravendita di bambini, prostituzione forzosa. La guerra civile come tale, nello stesso periodo, condizionò brutalmente l’esistenza di 6.919 bambini: 42 ragazzi e 12 ragazze perirono a causa di esplosioni di bombe e di coinvolgimento accidentale in conflitti a fuoco; due si suicidarono a causa di eventi legati al conflitto, 99 furono feriti, 77 furono arrestati dalle truppe governative e ben 6.986 furono rapiti dai Maobadi per essere coinvolti nelle loro attività. 46 Paras investì e uccise con la sua jeep un noto cantante nepalese, che aveva criticato la condotta del principe in un locale pubblico: soltanto l’immunità di cui godono i membri della famiglia reale lo protesse dalla normale procedura penale. Era poi presente alla strage del 1 giugno 2001, da cui emerse senza una scalfittura. I quaderni del CREAM, 2004 - II 63 Tre giorni dopo l’assassinio dell’Ispettore generale Krishna Mohan Shrestha, il nuovo Primo Ministro Lokendra Bahadur Chand, nominato motu proprio dal re, dopo l’improvviso licenziamento di Sher Bahadur Deuda, i Maobadi e – se così lo si può chiamare – il nuovo governo dichiararono un secondo ‘cessate il fuoco’. Questa decisione, quale che fosse il ruolo e il più che dubbio status dei membri del parlamento, fu presa dal re e dai Maobadi. Se i duumviri, il 6 ottobre 2002, bollavano il monarca quale autore di “un colpo di stato regressivo”, il 24 ottobre lo salutavano come auspicabile partecipante a un dialogo tra le diverse forze politiche, necessario per uscire dall’impasse. I rappresentanti dei partiti, come si può immaginare, non si compiacquero affatto di questa rinnovata, cordiale intesa fra il Palazzo e i dirigenti dei Maobadi e nel maggio 2003 cominciarono, piuttosto tardivamente, ad agitarsi, invocando la ricostituzione del Parlamento – quindi la fine della nuova autocrazia del re Gyanendra. Il 30 maggio 2003, Lokendra Bahadur Chand, uomo dell’ancien régime, diede le dimissioni e fu sostituito da Surya Bahadur Thapa, anch’egli uomo della Panchayat. Il documento a firma di Baburam Bhattarai presentato in data 27 aprile 200347 in occasione del secondo ‘cessate il fuoco’ (29 gennaio 2003), è pressoché identico nella sostanza – e spesso anche nella forma – al documento presentato nel 1996 e da noi ampiamente citato all’inizio di questo scritto. I sette anni di guerra civile non sembrano aver modificato, né tantomeno arricchito l’apparato ideologico dei dirigenti Maobadi; da un punto di vista pragmatico, si propone la formazione di un governo ad interim – con l’immancabile riferimento alla convocazione a suffragio universale di un’assemblea costituente – e si propone altresì la soluzione della democrazia parlamentare, esattamente del tipo che, nello stesso documento, è chiamata sprezzantemente “la democrazia formale britannica”. Nessun cenno alla possibilità di un governo del genere detto “democrazia popolare”. Nel Punto IV del par. b della Sez. E (Agenda della discussione), si propone che “appropriati mutamenti strutturali vengano messi in atto affinché sia creato un esercito nazionale unito, che comprenda il Regio 47 Vedi “Annex V, Summary of the CPN (Maoist) proposal presented for consideration during 2003 ceasefire”, in Thapa D. e Sijapati B., A Kingdom Under Siege, cit., pp. 197-205. I quaderni del CREAM, 2004 - II 64 Esercito e l’Esercito di Liberazione Popolare e che tale esercito nazionale sia posto sotto il controllo dei rappresentanti eletti dal popolo”. Nessuna menzione dei danni e delle sofferenze provocate dai Maobadi alla popolazione civile in sette anni di guerra: ogni responsabilità è addossata alle truppe del re. Com’era prevedibile, le trattative non ebbero esito soddisfacente e nell’agosto 2003 furono riprese le ostilità, secondo un modulo ormai scontato. Il 14 novembre, i Maobadi misero a segno un altro brutto colpo ai danni del Governo di S.M.: nel Distretto – sino a quel momento, relativamente tranquillo – di Makawanpur, a circa 50 Km a SE della Valle di Kathmandu, il Generale di Brigata Sahar Bahadur Pandey fu ucciso con una mina fatta esplodere al passaggio del suo automezzo. Il generale Pandey, che viaggiava con la moglie e con la scorta (tutti periti nell’attentato), è stato sinora l’ufficiale di più alto grado caduto vittima di un attentato organizzato dai Maobadi. L’evento provocò un forte choc alla popolazione della capitale, ormai assuefatta allo stillicidio quotidiano di morti violente di semplici soldati, sottufficiali e civili di modesta condizione.48 Lo choc, però fu presto riassorbito – come era già avvenuto in precedenza – dalla consistenza molle e vischiosa della guerra, che soffoca la popolazione, ma che è ben tollerata dal Palazzo, dai partiti nella loro roccaforte urbana e dalla dirigenza dei Maobadi. Il 17 novembre 2003, il Kathmandu Post pubblicò un’intervista – a cura di Ghanashyam Ojha – al vecchio leader comunista Mohan Bokram Singh, Segretario dello United Front (Masal), dalle cui fila provengono – o direttamente o per clonazione – gli attuali duumviri Maobadi. M.B. Singh – non sappiamo se per scelta o per necessità – vive da clandestino in Nepal, benché non sia indiziato di alcun reato politico. Il suo giudizio sul movimento Maobadi non potrebbe essere più duro: “I Maoisti hanno deviato dalla loro missione di introdurre cambiamenti fondamentali in Nepal. Sono più influenzati da Trotsky che non da Mao, Marx 48 Per la cronaca, quello stesso giorno altri tre poliziotti furono uccisi dai Maobadi a Nepalgunj (Nepal sud-occidentale) e 27 poliziotti feriti – alcuni gravemente – con mine a circuito elettrico. Babita Mandal, di venti anni, Segretaria Distrettuale della Nepal Women Organization (Revolutionary) fu uccisa in uno scontro con le truppe governative (The Himalayan Times, 16 novembre 2003). I quaderni del CREAM, 2004 - II 65 e Lenin. Sono più opportunisti e carrieristi. Esiste un gruppo di ‘proletarivagabondi’ [sic] che ha influenza all’interno del Partito Maoista. La loro ideologia è sbagliata. A differenza di Mao, che non ha mai estorto, i Maoisti in Nepal continuano a estorcere dalla gente e a macellarla, ciò che ha allontanato i ribelli dalla società. The Kathmandu Post: – “Che cosa ne dice del cosiddetto rapporto dei Maoisti con l’India” Singh: –“L’India ha sempre voluto l’instabilità in Nepal: si augura che il Nepal non riesca mai a trovare una soluzione per l’insurrezione Maoista e che sia costretto a invitare qui l’esercito indiano per contenere la violenza. I Maoisti, come altri partiti nel passato, sono diventati la migliore arma a disposizione dell’India ai fini del suo piano. Sono pronti a qualsiasi compromesso, con chiunque, sia l’India, sia la monarchia, pur di arrivare al potere (…)”. The Kathmandu Post: –“Come vede lei il rapporto fra il Palazzo e i Maoisti?” Singh: –“I Maoisti e il Re hanno fatto un compromesso – dichiarato o non dichiarato – per eliminare le conquiste del Movimento Popolare del 1990. Essi hanno ammesso in varie occasioni in passato il loro rapporto con il Palazzo. The Kathmandu Post: –“Lei crede che Prachanda voglia instaurare uno stato repubblicano? Singh: –“Il Naya Satta (Nuovo Regime), di cui i Maoisti sono andati cianciando, non è possibile. Imporranno invece un socialfascismo, con cui tutti più tardi dovremo combattere”.49 A distanza di un anno dagli avvenimenti che abbiamo descritti, non possiamo offrire un quadro che riveli una situazione nuova e promettente: Sher Bahadur Deuba, dirigente del Partito del Congresso e licenziato dal re Gyanendra per incapacità nell’ottobre 2002, viene nominato dallo stesso re nel gennaio 2004 Primo Ministro al posto di Surya Bahadur Thapa, uomo da sempre legato al Palazzo. Questo passaggio dei poteri ottiene il placet – per quello che conta – dei partiti. La guerra civile continua, senza azioni spettacolari, ma con un costante stillicidio di vite umane, di piccole vittorie e di piccole sconfitte. 49 The Kathmandu Post, 17 novembre 2003. Il testo è tradotto alla lettera dall’inglese: l’intervista si è certamente svolta in nepali e ciò ha influito sul lessico e sulla sintassi. I quaderni del CREAM, 2004 - II 66 Ancora una volta si tenta di giocare la carta delle trattative con i Maobadi50: ma ciò non impedisce al P.M. Deuba di recarsi, nel Settembre 2004 in visita ufficiale a Delhi, dove chiede e ottiene un modesto appoggio militare, più l’impegno, da parte del Governo indiano, di addestrare truppe scelte nepalesi ai fini dell’anti-guerriglia. La visita di Deuba è presentata dalla stampa come il prologo di una prossima visita ufficiale del re a Delhi: ciò sembrerebbe indicare – fra l’altro – l’intenzione di garantire un ulteriore afflusso di armi in Nepal.51 La questione delle armi non ha attirato a sufficienza l’attenzione dei politologi nepalesi, non ostante le evidenti implicazioni economiche: non ci risulta che in Nepal si producano armi moderne ed esplosivi e pertanto chiunque acquisti queste merci se le deve procurare attraverso fornitori stranieri: il volume d’affari legato a nove anni di guerra non può non essere rilevante e non può non influire sulla conduzione generale della guerra stessa, sulla sua durata e forse sulle sue cause e motivazioni attuali.52 50 Il 22 settembre 2004, il Kathmandu Post e tutti i principali organi di stampa della capitale, riportano le dichiarazioni del P.M. S.B. Deuba, che da un lato si dice disposto ad avviare – per la terza volta! – trattative con i ribelli, dall’altro, si dichiara alquanto scettico sulla serietà e la coerenza delle loro intenzioni. 51 La partita di armi e sistemi d’arma promessa dal Governo di Delhi comprende tre elicotteri leggeri da combattimento, 35.000 fucili automatici, 5.000 mitragliatrici di vario calibro, 800 fra camion e jeep, più una quantità imprecisata di mine –supponiamo del tipo anti-uomo. (dallo Himalayan Times dell’11 settembre 2004). 52 Molto tardivamente, la stampa nepalese ha cominciato a prestare attenzione a questo specifico problema: vedi “Four-Party Leaders Come Down Heavily on King”, The Himalayan Times, 29 settembre 2004. L’autore anonimo dell’articolo sottolinea come l’importazione di armi vada di pari passo con la militarizzazione – in senso anche giuridico – del Paese e come a tale importazione sia legato un lucroso giro d’affari. I quaderni del CREAM, 2004 - II 67 I quaderni del CREAM, 2004 - II 68 ILDÀSIO TAVARES • LA LITURGIA DELLA SOPRAVVIVENZA NEGRA ♦ Introduzione Le procedure liturgiche e la strutturazione dei precetti nel candomblé1 si orientano verso una strategia di sopravvivenza del culto nella diaspora. Le varianti liturgiche (che furono possibili senza condizionare i fondamenti della religiosità) fanno parte di un processo di adattamento della religione africana a una realtà brasiliana che a seconda del tempo e del luogo, sarà più o meno recettiva e, in alcuni casi e in alcuni periodi estremamente avversa. La dislocazione dei terreiros2, veri e propri quilombos3, lontano dai centri urbani, in zone disboscate nel mezzo della foresta, dislocazione funzionale a una società globale disboscatrice e poco industrializzata, • Poeta e scrittore, Professore di Letteratura presso l’Università di Bahia, ministro di Oxum e uno dei dodici ministri di Xangô. ♦ Titolo originale Oriki Oyê Orukó in Martins, C. e Lody, R. Faraimará – o caçador traz alegria. Pallas Editora, Rio de Janeiro, 2000, pp. 209-220. Tradotto da Andrea Malpeli e Roberto Malighetti. Tutte le note sono a cura dei traduttori. 1 Religione afro-brasiliana che combina le tradizioni africane (jeje, nagô, angola, congo), indigene e cristiane. Jej e nagô, sono termini che indicano rispettivamente le lingue e le tradizioni dei popoli del Dahomei e Yoruba. 2 Insieme di terreni e di case ove hanno luogo le cerimonie religiose nei culti afrobrasliani (Candomblé, Umbanda, Tambor de Mina). 3 Si riferisce ai luogi di fuga degli schiavi (Malighetti, 2004). Anticamente sembra che designasse anche i luoghi delle danze religiose degli schiavi. I quaderni del CREAM, 2004 - II 69 ha permesso una vita autonoma e perfino isolata di alcune delle forme più tradizionali di candomblé, finché il progresso della civiltà non andò integrando poco a poco, le comunità-terreiros nello spazio urbano. La città andò lentamente divorando le zone disboscate al punto da ridurre alcuni terreiros spaziosi e importanti dentro i limiti di una casa. L’inesorabile avanzamento del progresso e il conseguente aumento di complessità delle relazioni sociali vennero a negare alle comunità dei terreiros il tempo per assolvere gli obblighi liturgici compresi nell’esercizio religioso, principalmente i tempi lunghi necessari a compiere i riti di iniziazione.4 Il candomblé dovette adattare i suoi riti alle imposizioni della società globale, compresa la necessità di adattarsi alla legislazione lavorativa. Il calendario delle festività nei terreiros riflette questo processo di integrazione dei culti nella struttura sociale. Nel Ilê Axé Opô Afonjá5 quasi tutte le festività cadevano in giorni consacrati ai santi o di domenica, quando gli schiavi erano a riposo per le feste della religione ufficiale che proibiva il lavoro in quei giorni. Gli schiavi approfittavano di questa tregua liturgica per praticare i loro culti, e i padroni, accorgendosi che i negri erano più contenti se potevano mettere in pratica quello che consideravano come attività festiva, e che lavoravano meglio il giorno successivo, decisero di autorizzare tutto ciò, incentivando il candomblé per propri fini, senza pensare che così li aiutavano a rafforzare le loro identità. Nel Ilê Axé Opô Afonjá di Rio de Janeiro le feste hanno luogo solo di sabato e domenica approfittando della pausa del fine del settimana. Le feste che normalmente cadrebbero nel giorno consacrato a un determinato orixá sono trasferite, a causa degli impegni di lavoro, al sabato o alla domenica. Fare riti di iniziazione a Rio de Janeiro richiede ferie lavorative. L’osservazione rigorosa dei fondamenti del Candomblé in qualsiasi parte del Brasile, a Cuba, ad Haiti e nella stessa Africa condurrà alla conclusione che si tratta della stessa religione. 4 Riti preparatori per incorporare e ricevere le orixás (divinità iourubane, nagô, intermediarie fra Olórun, l’Essere Supremo o il suo rappresentante e figlio, Oxalá, e gli uomini) o altre entità. 5 Ilê Axé Opô Afonjá: nome nagô (iorubà) di una delle case di Candomblé più antiche di Bahia. Ha una specie di filiale a Rio de Janeiro. I quaderni del CREAM, 2004 - II 70 Conobbi un filho do santo6 di Obatalá7, persona di elevata posizione sociale in Messico, la cui iniziazione era stata fatta da un babalorixá8 cubano ma che non era mai entrato in trance sotto l’effetto degli atabaques9. Il suo rituale era fatto con dischi e registrazioni dei canti della santeria10 di Cuba. Portai questo messicano al terreiro Ilê Axé Opô Afonjá e quando entrò nella stanza dell’altare di Xangô, esclamò: “Sono in Vaticano”. Era la prima volta che vedeva la stanza di una divinità con gli accessori liturgici canonici. Tuttavia la religione che lui praticava era fondamentalmente uguale alla nostra. Lui era un iniziato – della santeria come si dice a Cuba – ma non aveva mai partecipato a una Xiré11 (festa) con sequenza di canti dal vivo, danze, atabaques, agogô12, xequerè13. Praticava la sua religione, riceveva la sua eledá14 in condizioni adeguate alla realtà messicana nella quale la musica registrata sostituiva la vivacità della festa. Ma il suo Orixá arrivava ugualmente. Questo è ciò che importa. Alcuni puristi vivono tentando di avviare un processo di ri-africanizzazione del candomblé, prendendo l’Africa attuale come parametro. Questo procedimento è rischioso perché gli aspetti esteriori del culto in Brasile intendevano proteggere i fondamenti segreti della religione e non deformarli. Bisognava prendere in considerazione il pericolo che con il tempo la forza del significante avrebbe potuto distorcere il significato. Ma si dovette correre questo rischio affinché il candomblé sopravvivesse in Brasile, nella diaspora. 6 Iniziato nei culti afro-brasiliani. Obatalá: nome africano di Oxalá, figlio di Olorun, il Dio Supremo. È l’orixá (divinità iorubana) della creazione. 8 Sacerdote responsabile del terriero. 9 Tamburi alti e stretti utilizzati nel candomblé e in generale nei culti afro-brasiliani. 10 Denominazione dei culti afro-brasiliani a Cuba. 11 Ordine in cui sono cantate e danzate le invocazioni alle orixás all’inizio delle cerimonie. 12 Strumento ritmico costituito da due campane in metallo a forma di cilindro percosse da una bacchetta metallo. Fa parte dell’orchestra del candomblé. 13 Zucca lunga cinta da grani di una collana o di un rosario. 14 Divinità che veglia sulla persona, sua protettrice e guida spirituale. 7 I quaderni del CREAM, 2004 - II 71 Il mimetismo attraverso il quale un orixá si camuffava in una divinità cattolica non corruppe l’orixá. Oxóssi15 non sparì a favore di San Giorgio, ma continuò a esistere come Oxóssi. E nemmeno sorse un sincretismo secondo il quale si dice erroneamente che esisterebbe una cosa come Ox-orge o Jor-xossi forse una specie di entità nuova che nondimeno mantenga le caratteristiche delle entità generatrici. Questo mimetismo non deforma la religione come nel caso del sincretismo dell’umbanda16 che creò un’entità nuova che non esisteva nell’Africa, la pomba-gira17 che non può essere interpretata come una femminilizzazione brasiliana di Exu18, entità maschile, fallica, presente in tutta l’Africa. Nella realtà, ci sono una serie di processi sincretistici nel vestiario e negli accessori, i cosiddetti attrezzi degli orixás, senza tuttavia che si abbia una deformazione dell’orixá nella sua essenza intima. In fondo sono adattamenti, riduzioni sociologiche e antropologiche nelle quali si cerca lo stesso significato con significanti differenti. Nella festa di Oxalá in Africa, i negri si coprono di polvere per imbiancarsi. In Brasile, semplicemente ci si veste completamente di bianco. Oxóssi usa un cappello di cuoio e una borsa di cacciatore, e potrà perfino usare un fucile. Ma questi accessori fanno solo riferimento, in una forma brasiliana, alla strumentazione archetipica del cacciatore. Nella danza, nella trance, nei canti, nei tocchi di atabaques, il rituale è puramente africano. Non c’è confusione sull’identità legittima dell’orixá e sulla sua espressione liturgica. La traduzione culturale enfatizza solo la teatralità, costruisce il phisique du role. Al di sotto di qualsiasi apparenza che modifica l’esteriorità del culto, l’essenza liturgica del candomblé rimane la stessa, sia esso Ketu, Je- 15 Divinità iorubana della caccia, protettrice dei cacciatori. Chiamata anche odé, cacciatore. 16 Religione formatasi in Brasile selezionando elementi dai culti africani, indigeni, cattolici e dello spiritismo e dell’occultismo. 17 Divinità femminile nell’umbanda. 18 È una delle figure più controverse del panteon afro-brasiliano. Nel candomblé tradizionale è un messaggero fra divinità e uomini. Elemento dinamico di tutto ciò che esiste è il principio della vita individuale e della comunicazione. Nell’umbanda e nelle tradizioni bantu è identificato con il diavolo dei cristiani. I quaderni del CREAM, 2004 - II 72 je, Angola, o Caboclo19. Può essere identificata e sarà rispettata dai suoi cultori senza nessun purismo. Iemanjà20 di un terreiro tradizionale non è superiore a Iemanjà di un terreiro nuovo. È la stessa orixá alla quale si dedicano procedimenti liturgici equivalenti. Iemanjà è Iemanjà a Bahia a Cuba e nel più sincretistico terreiro di umbanda. Edison Carneiro intravide molto bene questo substrato comune al candomblé in tutto il Brasile, definendo quelli che considerò i lineamenti di base comuni – la possessione, l’individuazione della possessione e la presenza di Exu. Ci sono altre caratteristiche comuni che possono essere identificate dai fedeli, ma quelle citate sono realmente le basilari. Una pluralità di fattori compone il culto del candomblé, al punto da poter difficilmente trovare due case che abbiano calendari uguali, canti uguali, paramenti sacri uguali. Tutte le case antiche hanno attraversato un processo secolare di adattamento. Si modificarono per sopravvivere. Tuttavia, torno ad insistere, le modificazioni sono di facciata, sono risorse e strategie di camuffamento che non rientrano nel dominio degli iniziati di primo livello. Ci vuole tempo perché possano cominciare a capire meglio le cose. Nel candomblé, come in tutte le religioni iniziatiche, si apprende prima per poter capire poi. E all’interno di questa pluralità ci sarà sempre una unità esplicita, principalmente per i cultori che sapranno identificare gli atteggiamenti, i procedimenti e le contestualizzazioni che andranno a comporre il quadro generale della liturgia. Gli affiliati si riconoscono e si identificano. E sanno molto bene chi ne rimane fuori, inutilmente nascosto dietro i suoi gesti plateali con cui pretende legittimarsi. Qualsiasi tentativo di ripurificazione, di recupero di ortodossia, di riafricanizzazione pecca alla radice, principalmente perché una norma fondamentale dell’antropologia dice che l’area più lontana è la più conservatrice, e l’area centrale è la più innovatrice. La lingua ioruba del nostro candomblé è arcaica. Le procedure liturgiche si preservano qui. L’Africa soffrì un bombardamento alienante e non può oggi esser presa come parametro. Ha preso un’altra via: non si tratta pertanto di stabilire gradazioni di qualità. Peggio ancora, se qualcuno si impadronisce di un 19 Si tratta delle tre principali tradizioni di candomblé legate alle provenienze. Il candomblé de caboclo originò a Bahia, utilizzando elementi di origine africana e indigena. 20 Divinità femminile di acqua dolce e salata, orixá dei pesci. I quaderni del CREAM, 2004 - II 73 fondamentalismo africanamente manicheista, secondo cui tutto ciò che si fa in Africa è giusto e ciò si fa in Brasile è sbagliato. No. Insisto. Nei suoi fondamenti e principi, il candomblé è lo stesso in qualsiasi parte del Brasile, dell’America o dell’Africa. I suoi aspetti esteriori variano, conducendo tuttavia sempre allo stesso contenuto. Anche nel candomblé de caboclo nel quale persino la lingua liturgica africana è sostituita da quella portoghese, l’essenza dei rituali è la stessa ed è di origine africana, jejé-nago21 per essere più precisi. Candomblé in Africa, candomblé in America sono due cammini differenti dello stesso modo di vedere il mondo, maniere diverse di amministrare una stessa visione del mondo, non-cartesiana, olistica, integrata, nella quale le frontiere tra il sacro e il profano non possono essere delimitate a partire dalle circostanze o dalle esteriorità. Oriki Oyê Orukó. 22 Traduzione/interpretazione nel contesto di una lingua polisintetica Poste queste questioni introduttive, possiamo passare al tentativo di considerare l’oriki23 nell’universo semantico afro-brasiliano nel quale le diverse distorsioni potranno essere meglio comprese nel momento in cui si metta da parte qualsiasi purismo di ordine regressivo. Così, il concetto di oriki si può estendere da un canto di lode a un orixá (narrativo, invocatorio, e presentificatore) fino a un semplice nome, un orukó nel quale per un processo di agglutinazione comune alle lingue polisintetiche, la caratteristica di base di epiteto dell’oriki può essere fuso al punto da essere irriconoscibile e da eliminare la distinzione fra i due. È necessario indagare, se ridotto l’oriki al suo minimo che sarebbe l’epiteto, nell’essenza della filosofia onomastica ioruba, non sia incisa l’intenzione laudativa – perfino la contiguità fonica oriki/orukó, desta il 21 Designazione data alla cultura e ai rituali religiosi formatisi a Bahia dall’unione delle tradizioni Jeje e Nago. 22 Oriki, Oyê e Orukó, indicano rispettivamente un saluto alle orixá, un titolo onorifico, e il nome di battesimo nel candomblé. 23 Cantico di lode che racconta le qualità e le gesta di un orixá. I quaderni del CREAM, 2004 - II 74 sospetto di una comprensione di un nome come un mini-epiteto, una lode. Oriki e orukó sarebbero allora, secondo questa ipotesi, due facce di una stessa medaglia onomastica nella quale le intenzioni di individuare si estendono a identificare e, perché no, a fare poesia. Solamente per decomposizione metaforica o metonimica si può arrivare a una approssimazione semiotica dei nomi della divinità, gli orukós. Accostarsi agli orikis più lunghi è un rischio, una temerarietà, una trappola che, nonostante ciò, non inibisce i voraci e incauti traduttori che senza una minima iniziazione linguistica invadono una lingua polisintetica per trasportarla alla più esigua polisemia delle lingue analitiche, senza riuscire ad immaginare che fra queste esiste l’ostacolo delle lingue sintetiche. Nessuno può essere traduttore in portoghese senza conoscere il latino. Tuttavia viviamo il tempo delle mistificazioni architettate al computer con ignoranza e mancanza di pudore. Persone che non sanno la lingua ioruba e dominano poco la lingua portoghese vivono traducendo da una all’altra lingua baldanzosamente e pubblicando svergognatamente le loro mostruosità pseudoletterarie nelle quali nemmeno si avvicinano al senso letterale. Già ebbi la curiosa esperienza di convivere con uno ioruba bilingue che parlava inglese come molti della sua etnia, e per di più, medico, laureato in Inghilterra e sposato a una inglese, dotato pertanto di un eccellente padronanza della lingua di Shakespeare. Varie volte mi sono divertito nel vedere lo sforzo di questa persona nel tentare di tradurre frasi, espressioni, orikis dallo ioruba all’inglese. Con la mia discreta conoscenza di questa lingua e il mio artigianato di poeta e traduttore ho potuto aiutarlo varie volte e in due, con un po’ di lavoro, siamo arrivati ad un accordo su tutte le espressioni. Si noti che questo signore per quanto dominasse bene non solo entrambe le lingue ma anche entrambe le culture, aveva difficoltà a trasportare concetti da una all’altra frontiera culturale. Io mi divertivo molto a vederlo rimacinare un concetto in ioruba, a volte tautologicamente, esprimendo qualcosa che sapeva molto bene che cos’era ma che non riusciva a verbalizzare in inglese. Immaginate qualcuno che non conosca non solo i meccanismi più sofisticati dello ioruba, ma anche gli artifici della lingua portoghese. Questa persona sarebbe perduta e si trasformerebbe in un grande architetto di equivoci e sciocchezze. Ma gli arditi traduttori sono lì per perpetuare le I quaderni del CREAM, 2004 - II 75 loro imprudenze, pretese e equivoci, a confondere piuttosto che a chiarire, come un certo presentatore televisivo. Consiglio qualsiasi persona che voglia approfondire l’universo della semiotica verbale di avviare uno studio verticale della linguistica. La linguistica moderna si afferma, giustamente a partire dal fallimento degli strumenti epistemologici tradizionali quando fu necessario studiare certe lingue indigene polisintetiche dell’America. Questo produsse il libro Language, di Edward Sapir, un classico della linguistica moderna che diede impulso alla enfasi descrittiva e alla creazione delle grammatiche strutturali. Chomsky tentò senza successo di invertire questo processo, restando circoscritto a uno sforzo teorico che non aggiunse nulla alla comprensione particolare dei sistemi linguistici differenti o sconosciuti. Tutti questi obbiettivi facevano parte del tentativo riduzionista di Chomsky di creare una grammatica universale che spiegasse tutte le lingue, dell’assurdo sforzo di tornare a prima della Torre di Babele molto al di là delle follie filologiche del metodo storico-comparativo che condussero i grammatici a scrivere romanzi in indoeuropeo. Ipotetici. I processi semantici delle lingue polisintetiche, così come la loro struttura sintattica e morfologica non hanno niente a che vedere con le lingue occidentali, e ancora di meno con le lingue analitiche. L’unico territorio dove lo ioruba si incontra con il portoghese è quello fonetico. Foneticamente le lingue si assomigliano e questo permise confusioni ed equivoci, alcuni comici. In un oriki di Oxum24, lo ioruba dice: “Osun odolá ayabá imulédei”. Alcuni cantano: “Osun odolá ayabá”, “la donna con cui fare l’amore”. Si aggiunge che questo processo di africanizzazione della lingua portoghese a Bahia, spiegata tanto bene da Yeda Pessoa de Castro confonde ancora di più le cose perché ir si trasforma in i in una evidente eresia erotica con Oxum. È necessaria, inoltre una conoscenza linguistica e una intimità con i processi metaforici e metonimici delle lingue polisintetiche perché si possa compiere un accostamento rispettoso degli orikis e orukós, al fine di interpretarli alla luce delle componenti antropologiche relative a un universo simbolico che non è il nostro, e detto di passaggio, che ci può 24 Orixá femminile dei fiumi e delle fonti di acqua dolce, divinità della ricchezza, della maternitá, della bellezza, della sensualità, dell’erotismo. I quaderni del CREAM, 2004 - II 76 condurre a risultati riduttivi o errati. Come si fa a tradurre sostantivi, verbi, aggettivi e avverbi, preposizioni e congiunzioni in una lingua che non ha queste categorie grammaticali? Che non ha categorie grammaticali fisse? Che ha parole-frasi? Forse studiando alcune lingue indoeuropee più remote possiamo trovare prove dell’esistenza di una grommaticalizzazione universale, a partire da parole-frasi o conglomerati verbali significativi come esistono in ioruba. Ignifer in latino significa torciera, letteralmente portatore di fuoco, formata da ignis, fuoco, e fer dal verbo ferre, trasportare, portare; gudafaúhrhts in gotico vuol dire devoto, credente, ma letteralmente che ha paura di Dio, timoroso di Dio, guda della stessa radice da cui deriva Gott in tedesco e God in inglese, faurhts dalla stessa radice da cui deriva paura in italiano, führt in tedesco e fear in inglese. Wairaleiks in gotico vuol dire virile, ma letteralmente che ha corpo di uomo. Si noti che questo processo di metonimizzazione e metaforismo per agglutinazione o congiunzione di parole è presente anche oggi come eredità indoeuropea nella nostra lingua. Opposta rispetto alla espressione gotica ma basata sulla stessa metonimia (ma al contrario) è la perifrasi nel portoghese di Bahia “falso ao corpo” per definire un omosessuale. È nel trattare con questi meccanismi linguistici che possiamo comprendere meglio i concetti ioruba. Si rende tuttavia necessario un maggior approfondimento culturale e religioso per giungere vicino a una comprensione più legittima. Ed è necessario, prima di tutto, stabilire come obiettivo un’interpretazione aperta piuttosto che una traduzione chiusa. Le lingue polisintetiche sono estremamente pertinenti nei culti iniziatici per la loro complessità sonora che può, se mal realizzata, vanificare la presentificazione liturgica e il potere ontofanico della parola. E sotto questo aspetto, il tono svolge un ruolo fonetico fondamentale, che non ha equivalente in portoghese, come invece ancora rimane in alcune lingue slave. È tanto grande la ricchezza sonora della lingua ioruba, e soprattutto nella sua realizzazione nel culto, che i ricercatori seri riducono sensibilmente il corpus per poter capire meglio i processi espressivi della lingua. Conosco un musicologo americano che sta svolgendo una ricerca estensiva soltanto sui canti di Xangô, per studiare le relazioni della scala tonale della lingua con quelle delle canzoni. Non sempre c’è una stretta corrispondenza. La parola più vicina alla nostra alegria è aiò con I quaderni del CREAM, 2004 - II 77 una discesa del tono sulla seconda sillaba, una allegria che scende verso il basso, provando, una volta di più, la visione sussuriana che il segno linguistico è arbitrario. In un canto che si è abituati a intonare nel Ilê Axé Opô Afonjá la melodia ha una curva tonale ascendente che va nella direzione contraria di quella della parola. Tutte queste interazioni, accresciute dall’intricata dialettica del senso occulto, formano un affascinante campo di lavoro. Arrivai ad osservare, negli anni dell’esperienza più diretta del candomblé, questo ricchissimo universo poetico costituito da una onomastica simbolica e /o metaforica-metonimica e una toponimica nella quale le categorie del reale e dell’irreale si fondono come tutte le antinomie. Molti ricercatori nel porsi di fronte al candomblé incorrono in confusioni ed equivoci per non saper distinguere le frontiere tra le varie denominazioni di obblighi, titoli, epiteti, o il semplice nome del santo, nome religioso con il quale l’iniziato fu ribattezzato, l’orukó, segno di individuazione personale e dell’orixá della persona. È comune confondere il tipo di orixá, la qualità, come si dice nel linguaggio del santo, con l’orukó, il nome individuale di quella persona. Quella che sembra una cosa tanto semplice (anche perché c’è un numero limitato e fisso di orixás), frequentemente è distorta al punto che alcuni ricercatori hanno inflazionato il numero dei tipi di orixá confondendoli con gli orukós. Un altro concetto che è anch’esso confuso con orukó è il concetto di oyê, in verità un titolo fisso con il quale l’iniziato si cataloga. In questa condizione si trovano gli obàs25 di Xangô del Ilé Axé Opò Afonjá, per esempio. Essi sono dodici e, quando per la morte di qualcuno renda vacante un posto, colui che arriva riceverà una qualifica, un oyê che erediterà da colui che l’ha preceduto. Ci sono altri oyês nel candomblé che definiscono determinate funzioni, come yabassê, il capo della cucina, o yamorô responsabile dello padê26, cerimonia per Exu precedente alla festa del barracão27. Tutti hanno un oyê relativo al compito, alla funzione che esercitano. L’orukó è individuale e attribuito dal proprio ori25 Termine usato per designare i dodici ministri di Xangô nella tradizione del Axé Opò Afonjá. 26 Rituale propiziatorio, con offerte a Exu, svolto prima dell’inizio di tutte le cerimonie delle religioni afro-basiliane. 27 Sala in cui si realizzano le cerimonie delle religioni afro-basiliane. I quaderni del CREAM, 2004 - II 78 xá al suo affiliato e al suo ogã.28 Oggi sono Otun Obà Aré nel terreiro Ilê Axé Opô Afonjá, pertanto questo è il mio oyê nella casa di Xangô. Prima di essere Obà, io ero ogã di Oxum, ricevetti un orukó che mi fu conferito dalla stessa Oxum, l’Oxum della Mãe Georgette la iakekerê29 della casa. Mi chiamo pertanto Omilarè, questo è il mio nome-de-santo, il mio orukó. Nel pormi e prostrarmi davanti a Xangô, prima di salutarlo, dico chi sono, declino il mio orukó, dichiaro le mie funzioni nella casa, a quale santo appartengo, e altri dettagli della mia personalità. Questo è il mio oriki, che è anch’esso individuale, nella misura in cui definisce chi sono e mi individualizza con precisione di fronte all’orixá, affinché mi riconosca e mi distingua tra tutti gli altri figli della casa. Oriki, oyê e orukó sono aspetti differenti di identificazione e individuazione nel candomblé. Oloyês sono tutti i detentori di qualifiche, che in alcuni casi corrispondono a una qualche funzione e in altri sono soltanto onorifici. Alcune relazioni oriki/orukó Chiariti questi punti, mi piacerebbe riflettere un po’ sulla realtà concreta di alcuni orukós e sulla loro forma sintetica nell’oriki, di epiteti o di saluti agglutinati che in alcuni casi hanno bisogno di una perifrasi perché siano compresi nella loro interezza semantica. Ebbi l’opportunità nel mio libro, Xangô30, di mostrare come il nome degli orixás incorpora una aspetto laudativo, a volte una agglutinazione di parole in una frase descrittiva o narrativa. Così, il nome Onirá, attribuito a una quali- 28 Titolo onorifico dato a uomini di buona condizione economica e di prestigio sociale, scelti dal capo del candomblé o da una divinità incorporata. Hanno la funzione di sostenere e proteggere il terriero. 29 Mãe-de-santo oppure pai-de-santo. Nomi generici per indicare le sacerdotesse o i sacerdoti, responsabili di un terriero. Mãe Georgette è la iakekerê del terriero, sostituta naturale della ialorixá quando quest’ultima non sta presente. Kekerê in yorubá vuole dire piccolo. Iakekerê è la piccola mamma, la Mãe Pequena. Per estensione, la Ialorixá è la mamma maggiore, quella principale. 30 Grande e potente orixá iorubano (nagô), dio del fulmine e del tuono. I quaderni del CREAM, 2004 - II 79 tà di Iansã31, sarebbe una contrazione di Oya wale n’ilu irá e il nome proprio dell’orixá, Yansan, sarebbe una contrazione di Ya mesan orun, in entrambi i casi una riduzione di un oriki in un orukó di lode, di apologia, in un onomastico, nel quale tuttavia resta inciso il carattere apologetico. Alla fine dei conti, un nome deve essere qualcosa di cui una persona possa andare orgogliosa e un nome di un orixá dovrà essere un segno di gloria, un marchio di potere. I più anziani del culto affermarono sempre che i nomi degli orixás sono in realtà orikis. Solamente pochi e in circostanze molto specifiche possono pronunciare i veri nomi degli encantados32 che immediatamente li rendono presenti. Ogni orukó identifica l’orixá del figlio del santo. Chi è di Xangô, sarà Obá; chi è di Omolú33, Iji; di Oxalufan34, Iwin o Olufan e di Oxaguian35, Ajagun; chi è di Oxum sarà Oxum o Omi; se è di Iemanjá, Yá; di Ewa, Ewa; di Obá36, Obá (ma posposto); chi è di Nanã37, Nã; di Yansan, Oyá; di Ogum, Ogum; di Logunedé, Logun; di Iroko38, Loko, di Oxumará39, Dan. Gli orixás nella tradizione Ketu che vengono dallo jeje hanno la loro origine segnata. Dan è la designazione del serpentevodum nello jeje. Loko è il nome di Vodum40. Nanã, si indica con Nã. Nonostante ciò, l’uso dell’orukó varia da casa a casa. Nella casa Ilê Axé Opô Afonjá le persone si rivolgono le une alle altre attraverso gli 31 Divinità femminile, una delle mogli di Xangô, divinità guerriera, del vento, dei fulmini e della tempesta. 32 Designazione delle orixás, spiriti ancestrali, esseri di varia natura, animati o forze sovrannaturali con forma umana. 33 Divinità del vaiolo e delle malattie epidermiche in generale, chiamato anche “medico dei poveri”. 34 Forma vecchia di Oxalá, figlio do Olórun. È il Dio della creazione, patrono della fecondità, della procreazione. 35 Forma giovane e guerriera di Oxalá. 36 Divinità del fiume Obá (Nigeria), guerriera, moglie di Xangô. 37 Divinità il cui culto sembra esser sorto in Brasile. Una delle mogli di Oxalá. Rappresenta la terra fecondata, il fango. Divide con Yemanjá la maternitá degli orixás. Madre di Omolu, Exu, Oxossi, Ewa, Oxumarê e Iroko. 38 Divinità fitomorfa. 39 Divinità dell’arcobaleno che presiede al bel tempo. È rappresentata da un serpente. 40 Nome generico delle divinità jeje,corrisponde alle orixás della tradizione nagô. Loko è il nome di Iroko nella tradizione jeje. I quaderni del CREAM, 2004 - II 80 orukó, e conoscono quelli di tutti, anche quelli della ialorixá41. Nel terreiro Ilê Iaomi Axé Iamassê (Gantois) l’orukó è mantenuto segreto, il che si può essere originato nell’epoca della persecuzione del culto quando era un nome in codice. Ho scoperto l’orukó della Mãe Menininha, che nessuno sapeva, per deduzione, perché al momento di presentarmi a lei nella fila dei Figli di Ghandi42 per i suoi 90 anni, declinai il mio oriki e lei mi disse – “allora tu sei mio padre. Che tu sia benedetto padre mio”. Al momento rimasi gradevolmente sorpreso, ma dopo ragionai e percepii che al di là del fatto che lei era figlia di Oxum, il suo orukó coincideva con quello di mia figlia, la Mãe Georgette, che era composto dal mio oriki. Il mio orukó è Omilarê. Omi indica l’affiliazione a Oxum ed è più pertinente a Ogã. Nel mio caso, sono l’Ogã dell’Oxum più vecchio della casa Ilê Axé Opô Afonjá. Arê può significare disputa conflitto guerra, questione, pendenza giudiziaria, partecipazione alla disputa legale, giudizio. Cercai di conoscere il significato del mio nome e una persona anziana mi disse “l’acqua della felicità”; un’altra, “l’acqua della giustizia” Entrambi gratificanti, qualificando omi, acqua, metafora di Oxum, pacificazione, refrigerio, calma, omi tutu fondamentale per tracciare lo iwa pelé, il cammino di dolcezza, di soavità, di illuminazione. Più tardi conobbi un famoso babalawô43 africano, Wande Abimbollah, che determinò anche il mio odu44 e confermò che il mio orixá fosse Orumilá45. Lo interrogai sul significato del mio nome, essendo uno che aveva per lingua madre lo ioruba. Egli rispose, “l’acqua vince in caso di guerra”. Risvegliando la polisemia dell’acqua nel mio orukó, gli chiesi se non potesse essere “in caso di guerra la calma vince”? Egli scosse la testa. “È questo, ma non è solo questo. È molto di più”. Così finivo per apprendere la mia lezione del battesimo: “Stai calmo che tutto si risolve”. Chi mi conosce e sa come mi agito per tutto, percepirà alla svelta come questo orukó serve bene alla mia crescita. “Stai calmo e lascia 41 Sacerdotessa dirigente di un candomblé. Organizzazione religioso-carnevalesca che svolge i suoi rituali per le strade in occasione de carnevale. 43 Sacerdote di Ifà, dio della divinazione. 44 Responso della divinazione. 45 Nome del Dio Supremo, creatore. 42 I quaderni del CREAM, 2004 - II 81 tutto il resto a Oxum” direbbe un altro saggio, Prof. Agenor, in un’altra epoca. La Mãe Maior di tutti noi e del Brasile, Mãe Stella, a cui rendiamo omaggio, ha come traduzione possibile del suo orukó la frase: il cacciatore porta (o portò) allegria. Che dire se proponessi una tradizione più sintetica: “il nutritore”? L’allegria che il cacciatore porta potrebbe essere interpretata come una caccia che riempie la pancia. Nessun è allegro con la pancia vuota. Il cacciatore porta allegria perché è colui che porta il nutrimento, la sazietà. Questa è la funzione fondamentale del cacciatore in una società primitiva: fornire il nutrimento. Da un altro lato, il cacciatore nel significato più profondo della religione ioruba, non deve soltanto trovare la preda, ma come colui che segue le orme, deve altresì indicare il cammino dell’illuminazione, che è senza dubbio, il cammino dell’allegria che sopravviene dopo uno stato di disorientamento, agonia, tristezza, oscurità – la negazione della tristezza. L’allegria e il cacciatore – nella sua funzione di cercatore di orme – devono essere assunte nel loro senso allegorico – colui che trova il nostro cammino ci porta allegria. La funzione di orientare è, pertanto una funzione archetipica del cacciatore, fondamentale all’inizio di tutte le civilizzazioni. Queste dipesero sempre dai cacciatori per sopravvivere, non solo per il loro arco infallibile, ma per la loro capacità di essere guide, di conoscere i sentieri, le scorciatoie e i ripari che potevano salvare i loro popoli dalle intemperie, dagli attacchi delle belve feroci o dei nemici. Bisogna ricordare che Oxóssi è Oxotankanxoxó, il cacciatore con una sola freccia infallibile e che per questo, come tutti i cacciatori, è un grande guerriero. Il cacciatore sta alla base della piramide della sopravvivenza di qualsiasi popolo scolpito nella memoria degli ioruba. Oxóssi è un orixá primordiale della terra, un eborá46 che marcia davanti a tutti, perché fu Tobi Odé, il primo Oxóssi, Odekomorodé, il cacciatore che non è figlio di cacciatore che forgiò il ferro per la prima volta in questo pianeta e aprì la strada a Irunmalé con il suo coltello nel Igbo, nella selva quando la molle scimitarra d’argento di Obtalá47 si piegò davanti alla durezza 46 Nome degli orixás figli in opposizione ai irunmalés, orixás superiori, orixás padre e madre. 47 Altro nome di Oxalá. I quaderni del CREAM, 2004 - II 82 degli alberi. Per questo, Obtalá e Irunmalés diedero a Tobi Odé l’oyê, il titolo di Olo Irin, Signore del ferro, e gli diedero il privilegio di marciare davanti a tutti gli orixás perché potesse sempre trovare il cammino e rimuovere gli ostacoli. A questo punto, dal cacciatore emerge il fabbro e dal fabbro il guardiano. La metamorfosi de Oxóssi in Ogum simbolizza il passaggio dalla caccia a dalla raccolta verso una maggiore evoluzione sociale attraverso la guerra e l’agricoltura. Odé Kaiode si rimette alle azioni di Tobi Odé, di questo Proto-Oxóssi che portò a Irunmalés la felicità di trovare il loro cammino in mezzo alla foresta. Odé Kayode è un orukó che, di conseguenza, riafferma questa capacità del cacciatore di guidare, di orientare, di liberarsi dalle liane, dai rami, dai cespugli, per trasformare una foresta di inganni, la nostra esistenza, in un cammino che porti l’illuminazione attraverso la luce bianca di Oxalufan, fino alla luce assoluta di Olórum Axé48. 48 Forza dinamica delle divinità, potere di realizzazione, vitalità che si individua in determinati oggetti (piante, pietre, simboli metallici ecc.). Il termine genericamente usato come forma di saluto. I quaderni del CREAM, 2004 - II 83 I quaderni del CREAM, 2004 - II 84 ROBERTO MALIGHETTI E MERGENZA • COME FINE DELLO SVILUPPO . LE ALTERNATIVE DEI FAVELADOS DI RIO DE JANEIRO Antropologia della modernità L’affermazione di una specificità antropologica nell’ambito delle ricerche sullo “sviluppo”, si è costituita intorno all’analisi etnografica dei processi di pianificazione e della costruzione della macchina organizzativa nel contesto della quale si affermano i cambiamenti nelle società del cosiddetto Terzo Mondo. 1 Raccogliendo l’eredità dei teorici della dipendenza e dell’antropologia dinamista,2 gli approcci antropologici analizzano la cause del sottosviluppo e i fallimenti dello sviluppo come il risultato delle relazioni di dipendenza con le società occidentali.3 In particolare mostrano come la configurazione dello sviluppo faccia inesorabilmente parte del processo di espansione del sistema capitalistico mondiale e analizzano la società civile della cooperazione, un’arena eterogenea composta da 10 milioni di organizzazioni no profit locali, 40.000 associazioni internazionali, 30 • Professore Associato di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. 1 Benedict, 1967; Augé, 1972; Grillo, Rew, 1985; Fergusson, 1990; Colajanni, 1994; Crewe, Harrison, 1998. 2 Frank, 1969; Balandier, 1971; Bastide 1971; Stavenhagen, 1971; Malighetti, 2001. 3 L’ultimo rapporto della Conferenza dell’Onu sul Commercio e lo sviluppo (UNCTAD) del 2004 mostra che i paesi poveri meno influenzati dalla globalizzazione sono progrediti maggiormente in termini di reddito procapite. I quaderni del CREAM, 2004 - II 85 milioni di lavoratori e un fatturato di 1.110 miliardi di dollari a rappresentare l’ottava economia mondiale (davanti a Spagna, Russia e Canada).4 Da queste prospettive, lo studio delle teorie e delle pratiche dello sviluppo è considerato un capitolo fondamentale di un’antropologia della modernità,5 tradizione che ha definito l’apparato scientifico disciplinare in modo univoco e totalizzante, sottraendolo all’analisi, così come l’occhio si sottrae allo sguardo. Opponendosi alle limitazioni della disciplina allo studio delle società “premoderne”, l’antropologia ha trasformato la stessa modernità in oggetto di scienza, studiandone la forma di razionalità e la tecnologia come anche le strategie di occultamento della propria culturalità.6 Partendo dal presupposto foucaultiano secondo cui esiste una “struttura antropologica” che sostiene l’ordine moderno e le scienze umane, analizza in quale misura abbia dato origine al regime della modernizzazione e dello sviluppo. Esamina il sapere scientifico e tecnologico, mettendo in luce le modalità fenomenotecniche con cui ha costruito la realtà e mostra altresì come i domini considerati come universali (l’epistemologia, la tecnica e l’economia) siano invece storicamente determinate, legati a specifiche pratiche sociali e politiche. Questa antropologia del rapporto fra “Noi” e gli “Altri” può tracciare una linea di continuità tra l’analisi delle pratiche «occidentalizzanti» di cambiamento pianificato del periodo coloniale e le attuali iniziative per lo sviluppo dei paesi ex-coloniali7. Non esaurisce il passato della disciplina nello sterile meccanismo del disvelamento e con la condanna di un’attività che la successiva evoluzione politica e teorica avrebbe 4 Marcon, 2002:7. Per quanto riguarda la realtà italiana, secondo i dati dell’Istat del 2001, fra più di 200 mila organizzazioni no profit solo 44.000 (circa 20%) impiegavano lavoratori retribuiti e avevano bilanci superiori ai 100 milioni di lire annui. Di queste, il 10% più ricco poteva contare su bilanci annuali da più di 2 milardi di lire (Marcon, 2002:11). 5 Remotti, 1993. 6 Feyerabend, 1975; Ardener 1985; Manganaro, 1990; Latour, 1990; Remotti, 1990; Dumont, 1993. 7 Augé 1972; Cochrane, 1979; Nieuwenhujze, 1983; Latouche, 1984, 1989; Said 1990; Verhelst, 1990; Colajanni, 1994; Malighetti, 2001, 2002. I quaderni del CREAM, 2004 - II 86 “inverato”. Come nota Colajanni,8 sostenere che l’antropologia dell’età coloniale non fu così “perversa” vuole dire aprire uno spazio di riflessione sul fatto che l’antropologia post-coloniale non è così “buona”. Significa garantirsi la possibilità di un’analisi critica che recuperi la storia della disciplina nelle sue potenzialità di suggestione e stimolo. Da un lato Malinowski stesso già nel 1930 diresse l’attenzione non solo sulla realtà locale, ma anche sul “sistema dei bianchi”, analizzando “il progetto mondiale di penetrazione economica europea e l’economia coloniale” e “il caos di una cattiva amministrazione e di una politica predatoria”9. Anche il padre della cosiddetta antropologia coloniale ebbe modo di riflettere sui concetti di sviluppo e di progresso che gli amministratori acriticamente accettavano. Considerando l’elemento tragico del cambiamento indotto dalla presenza europea descrisse molto negativamente il colonialismo come «un sistema che produce inevitabilmente impoverimento, malnutrizione, disorganizzazione, demoralizzazione e graduale decadimento demografico” nonché “spedizioni punitive”, “massacri di massa dei nativi” e “strane rappresaglie” “nel nome della giustizia, del prestigio e dell’onore dell’uomo bianco”10. Nel testo pubblicato postumo, The Dynamics of Cultural Change, si spinse a sostenere l’impegno politico dello scienziato sociale nella difesa dei nativi, ridotti in schiavitù, sterminati e spogliati del loro patrimonio. Sicuramente la critica di Malinowski si limitò a mettere in discussione le modalità con cui il processo di “occidentalizzazione” fu realizzato, non considerando gli elementi strutturali del dominio coloniale, né analizzando i meccanismi di sfruttamento economico, discriminazione razziale e oppressione militare e politica. Lo scopo era di stabilire un “controllo scientifico” della politica coloniale che potesse evitare gli aspetti negativi o quelli che anche oggi, nel linguaggio della cooperazione e in quello politico-diplomatico, vengono chiamati “effetti collaterali”. Il colonialismo è considerato sotto il suo aspetto tecnico-amministrativo, escludendo dall’analisi i processi sociali, economici, politici e storici. Come molti dei suoi allievi Malinowski accettò di fatto la “modernizzazione” del mondo, intesa sostanzialmente come un proces8 Colajanni, 1993:184. Malinowski, [1930] 2001b:84-5. 10 Malinowski [1930] 2001b:411. 9 I quaderni del CREAM, 2004 - II 87 so positivo di civilizzazione che avrebbe consentito il superamento delle forme arcaiche di organizzazione e l’assimilazione a un modo di vita sicuramente superiore. In tal senso operò sostanzialmente all’interno di una prospettiva evoluzionistica, attento ai problemi di adattamento dei cambiamenti imposti dall’Occidente alle istituzioni locali. D’altro canto anche gli antropologi contemporanei impegnati nella cooperazione internazionale, come i loro predecessori coloniali, raramente criticano il sistema. Cercando di vivere “professionalmente in pace”11, convivono, seppur in maniera “riluttante”12 con una politica economica responsabile della drammatica condizione in cui vive gran parte dell’umanità. Nella transizione dall’“incontro coloniale” a quello che Escobar chiama, rifacendosi ad Asad, “l’incontro dello sviluppo”, l’antropologia ha continuato a dare acriticamente per scontato il significato e i contesti delle politiche di cooperazione e di “aiuto umanitario”, rifiutando di considerare seriamente la struttura di potere all’interno della quale sia queste pratiche, sia la stessa disciplina prendono forma.13 Il numero sempre maggiore di antropologi coinvolto nei progetti di cambiamento pianificato lavora all’interno di strutture neo-liberiste, sottratte all’analisi critica, nella convinzione di poter contribuire a migliorare il sistema e renderlo più efficiente. In genere hanno assunto un compito simile a quello che aveva l’antropologia applicata in epoca coloniale, quello cioè di aiutare i tecnici e i pianificatori a rendere più efficaci quegli interventi che non partecipano a definire. Spesso si trovano a studiare, in termini sostanzialmente funzionalistici, gli effetti dei cambiamenti sull’insieme complesso e interrelato del sistema socioculturale delle popolazioni “bersaglio” o le pratiche di quelli che nel linguaggio evocativo delle politiche di cooptazione dell’Indirect Rule 11 Asad 1973:18. James 1973. 13 Escobar, [1995] 2001:298. Citando Said, Escobar sottolinea come la recente letteratura antropologica abbia generalmente evitato di riferirsi all’intervento imperiale statunitense nelle sue articolazioni economiche, militari, politiche, culturali e umanitarie (Escobar, 1995:214). Edward Said (1990:32) esplicitamente considera le strutture di potere globale contemporaneo come un prolungamento dei residui culturali e ideologici del colonialismo, sostenendo che le tattiche e le strategie dei grandi imperi, smantellate dopo la prima guerra mondiale, furono utilizzate dagli Stati Uniti. Cfr. Ulin 1991. 12 I quaderni del CREAM, 2004 - II 88 vengono chiamati “omologhi”.14 Il development encounter riproduce così il dilemma etico dell’antropologia coloniale fondato sulla difficile scelta fra la sterile critica degli impatti negativi dei progetti, che non incide sulla loro realizzazione e la partecipazione diretta alle attività che mette a rischio l’integrità morale della disciplina15. Nonostante il differente modo in cui le società sono incorporate nel sistema economico mondiale, attraverso un’indipendenza politica che si è rivelata solo formale, anche nella contemporaneità si può cogliere ciò che Asad16 considera la “precondizione strutturale per l’antropologia”, e cioè le relazioni di potere fra dominanti e dominati. Anche oggi l’antropologia è parte di un sistema globale di relazioni economiche, politiche e sociali fortemente asimmetriche. Le importanti analogie fra il contesto strutturale dell’odierna antropologia dello sviluppo e quello dell’antropologia coloniale consistono, fondamentalmente, nel fatto che è sempre l’interesse del committente a dominare il campo degli interventi, modello di riferimento unilaterale assoluto e principio di “occidentalizzazione del mondo”.17 La professionalizzazione e l’istituzionalizzazione dello “sviluppo”, ha prodotto un insieme di conoscenze e di forme di dominio congruenti con gli interessi economici e politici dei gruppi dominanti occidentali o delle elites negli stati ex-coloniali.18 I principali attori della cooperazio14 Rossetti, 1979; Burton, 1992; Malighetti 2002. Gulliver 1985:50; Scudder 1988:373, Bennet, Bowen 1988:21; Grillo, Rew, 1985:24; Pigg 1992. 16 Asad 1973.17 17 Grillo, 1985:20; Latouche, 1989; Burton, 1992:185. 18 Se consideriamo la provenienza delle INGO (International Non Governmental Organizations) l’Europa conta il 50% del numero di sedi, della densità dei militanti e della nazionalità dei responsabili esecutivi contro il 10% degli USA, che destinano la parte più consistente delle donazioni private alle charities locali (solo 1,2% spettano a ONG che sostengono cause internazionali). Tra le prime 19 nazioni nella classifica delle INGO nel 2000 c’erano solo due paesi in via di sviluppo (India 12° posto e Nigeria 18°) (Anheier, Glasius, Kaldor, 2001:283; Pech, Padis 2004:42). Sebbene i locali stessi diventino protagonisti della creazione e funzionamento di Ong, tuttavia lo fanno all’interno di meccanismi di cooptazione generalmente controllati da istituzioni esogene. I loro intermediari, formati nei paesi del Nord (i Chicago boys in America Latina, la Berkeley mafia in Indonesia) spesso occupano posizioni importanti all’interno dei ministeri delle finanze locali e delle banche centrali. Spesso sono coloro che si spartiscono i divi15 I quaderni del CREAM, 2004 - II 89 ne internazionale sono pesantemente condizionati dalle priorità dei finanziatori che decidono della destinazione dei fondi in vista dei propri orientamenti, ideologici, economici e politici.19 Spesso i programmi di aiuto sono vincolati all’obbligo da parte dei paesi che li ricevono di usare tecnologie o aziende dei cosiddetti donors, ostacolando le capacità di sviluppo locali compromesse dall’immissione sul mercato di merci drogate dall’assistenza esterna.20 Questo ha portato differenti autori21 a considerare le pratiche dello sviluppo come forme di neo-colonialismo e imperialismo, definite altresì come un triplo processo di “decivilization”, “depolitization” e “depossession”22 a causa del loro carattere verticistico ed ignorante delle conoscenze e della pratiche locali (“they-have-the-problem-we-havethe-solution-approach”).23 Espandendo il potere burocratico statale, costituiscono una “macchina anti-politica” che alimenta il fatalismo, il clientelarismio e l’assitenzialismo.24 Imprigionano i progetti alternativi e neutralizzano le potenzialità di resistenza e innovazione native, considerando le questioni politiche della terra, delle risorse, dell’occupazione o dei salari come problemi esclusivamente “tecnici”.25 L’antropologia, specie nella sua articolazione applicativa, può dunque continuare a definire il proprio ambito come lo studio del cambiamento e delle trasformazioni che si accompagnano con i tentativi di instaurare un sistema economico mondiale globale, trattando problemi di dendi della subordinazione, degli investimenti nelle infrastrutture, degli aggiustamenti strutturali voluti da FMI e Banca Mondiale (Traoré, 2002). 19 Minear, Smillie 2003; Duffield 2001; Pech, Padis 2004. 20 L’analisi dell’Ocse (Organizzazione Internazionale per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) della politica di cooperazione italiana stima che circa il 92% degli aiuti italiani siano vincolati all’obbligo per i paesi che li ricevono di usare tecnologie o ditte italiane per realizzare i progetti (La Repubblica, 4 ottobre 2004). 21 Leach, 1982:50; Escobar 1995:5; Sachs 2000:5-12. 22 Fairhead 2000. 23 Arnfred, 1998:77. 24 Fergusson, 1990. 25 I progetti raramente vengono finanziati quando cercano di smarcarsi dal sistema produttivo globalizzato per trovare alternative conformi alle aspirazioni dei beneficiari (Rahnema 2003:268). I quaderni del CREAM, 2004 - II 90 integrazione e di rifiuto, le spinte centripete e centrifughe, gli scarti e le necessità di mediazioni fra sistemi socio-culturali. Il/la fine dello “sviluppo” I fallimenti delle iniziative, la resistenza imprevista di popoli e dei sistemi culturali alla pressione sviluppista, hanno prodotto un generale ripensamento del concetto di “sviluppo” e una serie di studi critici che hanno unito al giudizio storico-politico sulle responsabilità occidentali, un’analisi antropologica sulle caratteristiche dell’ideologia e della pratica dei cambiamenti pianificati.26 Differenti lavori hanno decostruito, il “discorso dello sviluppo”, presentandolo come una “narrativa” dell’egemonia occidentale27 relativizzandone la presunta portata universale e riportando in luce la sua natura di prodotto culturale storicamente determinato.28 Lo sviluppo è stato così considerato come un’impresa etnocentrica, verticistica e tecnocratica, ancorata ad una prospettiva evoluzionistica unilineare e alla categoria illuministica di progresso. Identificato con la crescita, intende teleologicamente il cambiamento come graduale e necessaria trasformazione verso forme più perfette, identificate con lo sviluppo tecnico-scientifico ed economico occidentale o, meglio, dei suoi gruppi egemonici e dominanti. Le prospettive post-moderne e foucaultiane hanno chiarito come il discorso sullo sviluppo, costituitosi all’indomani del secondo conflitto mondiale nel momento in cui il potere statunitense è subentrato al colonialismo Britanico e Francese, sia rimasto il principale strumento di legittimazione dell’interventismo “civilizzatore”. In piena Guerra Fredda funzionò per prevenire l’adesione al campo sovietico, privando nel contempo i popoli dell’opportunità di definire autonomamente le proprie 26 Asad, 1973; Bonfil Batalla, 1982; Apthorpe, Krahl, 1986; Rist, Sabelli, 1986; Mathur, 1990; Whyte, 1991; Sachs, 1992. 27 Escobar 1991, 1994; Nieuwenhujze, 1983; Ferguson, 1990; Verhelst, 1990; Roe, 1991; Hobart, 1993; Fairhead, 2000. 28 Horowitz, 1980; Latouche, 1989; Sachs, 1992; Escobar, 1995:10; Gardner e Lewis, 1996; Rist, 1996. I quaderni del CREAM, 2004 - II 91 forme di vita economica politica e sociale.29 Successivamente si è coniugato con nuove categorie come quella di “globalizzazione” e di “emergenza”, continuando a sostenere la struttura delle relazioni di dominio fra i cosiddetti Primo e Terzo Mondo, sempre ridotte a due modelli asimmetrici semplici (sviluppati-sottosviluppati, semplici e complessi, Noi e Loro, Occidente e Terzo mondo, tradizionali e moderni). Le dinamiche “evolutive” sarebbero innescate sulla base dell’ipotesi che il trasferimento di beni, la fornitura di servizi e di assistenza tecnica e la costruzione di infrastrutture determinerebbero automaticamente lo “sviluppo”, indipendentemente dalla considerazione del contesto globale e della realtà socio-culturale dell’area di progetto, sottovalutata fino al momento in cui diventa inevitabilmente attuale e si presenta con tutta la sua potenzialità destrutturante.30 Lo iato incolmabile, ma efficacemente rimosso, fra i programmi delle varie agenzie per lo “sviluppo” e l’attualità delle pratiche sociali “reali”, concepito nel gergo della cooperazione come “conseguenze non previste”, ha comunque prodotto un efficiente strumento di potere. Si manifesta in termini sia “egemonici”, nei confronti delle popolazioni “bersaglio”, sia “prestigiosi”, capitalizzando riconoscimenti e risorse finanziarie, da spendere politicamente e economicamente all’interno dei paesi “sviluppatori”. L’evidenza scientifica ha chiarito come nel corso delle decadi dello “sviluppo”, inaugurate negli anni Sessanta dalle Nazioni Unite, gli unici paesi a svilupparsi siano stati quelli dei “benefattori”. Gli altri, al contrario, sono stati “sottosviluppati”, in conseguenza alle specifiche relazioni politico-economiche fra nazioni industrializzati e nazioni del Terzo Mondo. Analizzando le prove empiriche, in effetti, si può facilmente notare che gli approcci al cambiamento pianificato non solo si sono dimostrati empiricamente insostenibili, teoricamente insufficienti e incapaci di stimolare un reale processo di “sviluppo” nel Terzo Mondo. Soprattutto hanno partecipato all’ampliamento del gap tra i paesi dell’Occidente industrializzato e paesi del Terzo Mondo, producendo sempre più gravi contraddizioni interne (fame, violenza, povertà) e dipendenza esterna. 29 30 Esteva, 2000:352. Malighetti, 2000. I quaderni del CREAM, 2004 - II 92 Diverse prospettive, comprese quelle di Joseph Stiglitz, Premio Nobel per l’economia, capo della Banca Mondiale, o dell’analista finanziario George Soros, concordano nel sostenere che sono i poveri ad aiutare i ricchi. La maggior parte delle somme date o prestate sono spese nei paesi donatori o vi fanno ritorno: rimborso del debito, fuoriuscita di capitali, trasferimenti illeciti di profitti, fuga di cervelli, acquisti di beni e materiali.31 Già il Primo Rapporto Mondiale sullo Sviluppo Umano pubblicato dal United Nation Development Program nel 1990,32 aveva eloquentemente rilevato come nella situazione iniqua che domina le relazioni internazionali, il trasferimento netto di 49 miliardi di dollari dai Paesi ricchi verso i Paesi poveri, attuato nel 1980-82 avesse prodotto, negli anni 1983-89 un corrispondente indebitamento da parte dei secondi di 242 miliardi di dollari. Nel 2001 ai 29 miliardi di dollari di sovvenzioni accordati ai paesi in via di sviluppo, fanno riscontro i 138 miliardi di dollari ripartiti verso i paesi creditori come rimborso del debito.33 Negli ultimi anni, malgrado la crescita considerevole della ricchezza prodotta nel mondo, le ineguaglianze sono esplose: lo scarto fra il 20% dei più poveri e i 20% dei più ricchi era da 1 a 30 nel 1960 mentre oggi è da 1 a 80. Recentemente la Banca mondiale ha ammesso che l’obiettivo di dimezzare il numero di persone che vivono nella povertà assoluta entro il 2015 non potrà essere raggiunto. Queste cifre continuano a dilatarsi, come eloquentemente mostrano i dati che eccezionalmente riempiono le pagine dei giornali in occasione degli inadempienti vertici mondiali, come quello di Cancun, fallito a causa dell’arroganza delle grandi potenze USA e UE, risolute nel mantenere – nonostante gli impegni presi a Dohan due anni prima e a discapito delle narrazioni “neo-liberiste” – forme di protezionismo e di assistenzialismo su cui fondano le loro politiche agricole. Per favorire una lobby che rappresenta il 2% della popolazione la UE ha negato l’accesso ai mercati europei dei prodotti dei contadini poveri, ribadendo la sua volontà di continuare a invadere, nel contempo, quelli dei cosiddetti PSV (Paesi in Via di Sviluppo) attraverso la svendita delle eccedenze, tenute sottocosto (grano UE e cereali USA) grazie alle sovvenzioni sta31 Millet, Toussaint, 2002; Sogge, 2004. UNDP, 1990:51. 33 Sogge, 2004. 32 I quaderni del CREAM, 2004 - II 93 tali. Gli agricoltori dei paesi ricchi (circa il 2% della popolazione) ricevono 300 miliardi di euro di sussidi all’anno. Ogni agricoltore europeo riceve annualmente 17.000 Euro di sovvenzioni per far fronte a un mercato che non può essere affrontato con la semplice “tecnologia” progredita. A fronte di una popolazione di circa 3 miliari di persone che vive con meno di 2 dollari al giorno, i giornalisti ogni tanto si ricordano di farci sapere che una mucca Europea è sovvenzionata con 2,5 dollari al giorno e una mucca giapponese con 7 dollari. Da Cancun è diventato di dominio pubblico il caso emblematico del cotone, risorsa vitale per 4 dei paesi più poveri del pianeta (Benin, Burkina Faso, Ciad e Mali) che ricavano da esso circa il 60% delle esportazione e il 10% del Pil. Gli USA si sono rifiutati di abbassare i sussidi ai propri produttori (circa 20% del cotone mondiale), superiori all’intero prodotto interno del Burkina Faso. L’eliminazione dei sussidi produrrebbe un aumento del prezzo del cotone del 26%, costituendo uno straordinario aiuto ai 10 milioni di contadini che vivono di questa risorsa. In generale il dumping praticato dall’Occidente a vantaggio dei propri prodotti (dai cereali alla carne, all’industria tessile), ha annullato, il sostegno offerto alle produzioni locali nel quadro dei programmi di aiuto:34 la Banca Mondiale ha calcolato che la fine del protezionismo UE e USA salverebbe 144 milioni di persone dalla povertà. La crisi delle teorie dello sviluppo, annunciata negli anni ’80 da diversi autori che ne propongono l’abolizione o l’utilizzo solamente per le realtà socio-economiche dominanti,35 si è ormai diffusa anche negli ambienti internazionali come il Fondo monetario internazionale (Fmi), la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc). All’ultimo forum di Davos, la cosa non è stata neanche menzionata, rivendicata solamente dalle organizzazioni non governative che di essa vivono.36 Come sostiene Latouche, lo sviluppo è vittima più del suo successo nei paesi del Nord che del suo fallimento nei paesi del Sud a dimostra34 Sogge, 2004. Fergusson, 1990; Escobar, 1994. 36 Cabedoche, 1990; Latouche, 2001. Emblematica è l’affermazione di un contadino guatemalteco raccolta da Gras (2003:249): “Lasciate in pace i poveri e non parlate più di sviluppo”. 35 I quaderni del CREAM, 2004 - II 94 zione della sua non universalizzabilità. 37 La finitezza del pianeta renderebbe la diffusione generalizzata dello sviluppo impossibile ed esplosiva, aumentando la competizione su risorse sempre più scarse, il degrado ambientale, le guerre economiche (soprattutto per il petrolio e per l’acqua), l’emarginazione e la miseria. 38 Tenendo conto dei limiti del pianeta, lo sviluppo dei più poveri implicherebbe la rinuncia allo sviluppo illimitato dei ricchi in opposizione al processo di accumulazione capitalistica e ai suoi obiettivi imperialisti e finanziari.39 Se lo sviluppo è la continuazione della colonizzazione con altri mezzi, la globalizzazione è, a sua volta, il tentativo di prosecuzione dello sviluppo, fondato sulla dittatura dei mercati organizzata da quegli stessi stati-nazione del Nord, che si erano già fatti più discreti con il passaggio dalla colonizzazione all’indipendenza, e ora si nascondono dietro al mercato e ai piani di aggiustamento strutturale imposti dal loro strumento di gestione, il Fmi.40 Come ebbe modo di rilevare Joseph Stiglitz, « aujourd’hui, la mondialisation, ça ne marche pas pour les pauvres du monde. Ça ne marche pas pour l’environnement. Ça ne marche pas pour la stabilité de l’économie mondiale».41 Emergenza come inveramento dello “sviluppo” Nonostante i tentativi di riformulazione (alternative development; self-reliance development; grass rooted development; participatory development; human development; sustainable development)42 e a discapito degli esiti fallimentari, le pratiche di cooperazione internazionale continuano a fondarsi su una visione unilineare dell’evoluzione del tut37 Latouche, 2001; Harribey 2002. Latouche, 2001. 39 Secondo Latouche (2001, 2003) è necessario pensare a una società della “decrescita”, rimettendo in discussione il dominio dell’economia su tutti gli altri ambiti della vita, nella teoria come nella pratica. 40 Latouche, 2001 41 Le Monde Diplomatique, Septembre 2002; Stiglitz, 2002. 42 La proliferazione di sviluppi “particolari” è notevole: “autocentranti”, “endogeni”, “comunitari”, “integrati”, “autentici”, “autonomi e popolari”, “equi”, “locali”, “micro”, “endo” e “etno” (Poncelet, 1994; Latouche, 2001). 38 I quaderni del CREAM, 2004 - II 95 to analoga a quella che in passato aveva legittimato le pratiche coloniali. L’ultima formulazione divenuta dottrina ufficiale delle Nazioni Unite, lo sviluppo sostenibile, insiste nel sostenere che la ricerca di un’improbabile crescita economica infinita sia compatibile con il mantenimento degli equilibri naturali e la soluzione dei problemi sociali.43 Nella difficile ricerca di determinarsi, le politiche dello “sviluppo” tentano di resistere all’usura di un significato che si sfalda a contatto con la realtà coniugandosi ad aggettivi che convincano della nobiltà della causa e promettano rinnovati impegni e nuovi obiettivi. Tuttavia tali aggettivi non rimettono in discussione le cause strutturali del sottosviluppo, aggiungendo, al più, inefficaci e contraddittorie preoccupazioni di carattere sociale o componenti ecologiche alla crescita economica, allo stesso modo in cui si era aggiunta in passato una dimensione culturale.44 In tal senso lo sviluppo si articola in veri e propri ossimori,45 come nel caso del sintagma “ingerenza umanitaria” un’ingegnosa alleanza di parole contraddittorie a giustificazione di paradossali unioni fra la violazione del diritto internazionale, la violenza e il conflitto, con la compassione; la legge del più forte con l’assistenza ai più deboli; la pace con la guerra; la scorta armata con il carattere neutro delle azioni; la crescita con l’ambiente; lo sviluppo con la riduzione delle disuguaglianze; la partecipazione con il controllo.46 L’apparato dello sviluppo si inscrive così in un sistema caratteristico della modernità occidentale che permette di legittimare azioni ingiu43 Georgescu-Roden, 1995; Latouche, 1997. Lo sviluppo sostenibile, così com’è definito dal rapporto Brundtland, non si accontenta di continuare con il ritmo di crescita attuale, ma intende promuoverne l’accelerazione. Per questo è diventato uno slogan caro anche alle multinazionali ed agli ambienti dell’alta finanza e ha spianato la strada alla progressiva apertura del movimento ambientalista al cosiddetto “realismo d’impresa” (Khan, 2002). 44 Latouche, 2001. 45 Secondo Rist (1994) e Latouche (2003) il concetto di sviluppo costituisce un caso particolare di ossimoro in sé perché rinvia a pratiche e promesse che raramente sono confermate. 46 Rist 1993, Perrot, Sabelli, Rist, 1994:55. La risoluzione 46/182 dell’ONU stabilisce che l’aiuto umanitario deve essere fornito conformemente ai principi di umanità di neutralità e di imparzialità, rispettando la sovranità, l’integrità territoriale, e l’unità nazionale in conformità alla Carta delle Nazioni Unite. L’aiuto umanitario deve essere fornito con il consenso del paese in oggetto e, in principio, su richiesta di quel paese. I quaderni del CREAM, 2004 - II 96 stificabili richiamandosi a valori universali indiscutibili (in realtà etnocentrici nella concezione e soprattutto nell’applicazione molto selettiva) generalmente legati a presunti diritti giusnaturalistici di individui astratti. Attraverso il principio di ingerenza umanitaria, supera il fondamento del diritto internazionale, perseguendo strategie politico-diplomatiche miranti all’eliminazione di tutti gli ostacoli, innanzitutto gli Stati, che impediscano al potere economico di realizzare il suo programma neoliberista di globalizzazione.47 Negli ultimi venticinque anni, i meccanismi dell’aiuto internazionale hanno contribuito a indebolire la sovranità statali e a delegittimare i poteri pubblici e la nozione stessa di politica pubblica.48 Da un lato i donatori preferiscono rivolgersi a società private, organizzazioni non governative o strutture costruite ad hoc. Dall’altro le autorità nazionali rispondono ai donatori più che ai cittadini. Uno degli esiti dell’aiuto internazionale è un profondo deficit democratico che sostiene il potere economico e politico di vere e proprie caste locali di oligarchi mafiosi, come è avvenuto nell’ex Unione sovietica. Recentemente la categoria “emergenza” ha modificato, o, meglio hegelianamente “inverato”, la mitologia e la pratica “sviluppista”, risolvendo le contraddizioni e i paradossi. Le azioni emergenziali, che stanno assorbendo gran parte delle già scarsissime risorse destinate alla cooperazione internazionale49, sottraggono tout court gli interventi di 47 Bettati, Kouchner, 1987, Bettati 1991, Sabelli 1994, Piguet 1994, Rist 1994, Perrot 1994. Eppure, l’aiuto internazionale storicamente si è costruito su altre basi. Emblematica è la riuscita del piano Marshall dopo la seconda guerra mondiale in ragione della sua ispirazione keynesiana fondata sulla regolamentazione pubblica e sugli investimenti sociali. Promosso dagli Stati uniti fu gestito direttamente dagli europei senza nessuna richiesta da parte di Washington di rinunciare a proteggere le industrie, di deregolamentare i propri mercati finanziari, né di saldare immediatamente i debiti (Sogge, 2004). 48 In molti dei paesi che hanno ottenuto aiuti si è assistito al deteriorarsi dei servizi di base (scuola, sanità ecc.). È una realtà che viene riconosciuta, ad esempio, da un rapporto del 2000 dell’Ocse sulle politiche di aggiustamento strutturale e di privatizzazione a vantaggio una classe di nuovi ricchi legati agli interessi occidentali in Mali. 49 L’aiuto di emergenza coinvolge cifre superiori a quelle degli aiuti regolari o a lungo termine. Si è moltiplicato per 6 negli ultimi 10 anni fino a raggiungere una media di quasi 10 miliardi di $ all’inizio degli anni 2000 (Puligny, 2000). Per quanto riguarda il governo italiano, bisogna aggiungere che sempre secondo l’analisi dell’OCSE la percentuale di aiuti allo sviluppo nel 2003 è scesa allo 0,17% del PIL, rispetto allo 0,20 del 2002. Per il 2005 la percentuale dovrebbe ulteriormente scendere allo 0,15%, tenendo I quaderni del CREAM, 2004 - II 97 cambiamento pianificato alla sostenibilità e alla partecipazione e in generale all’analisi e al confronto con i risultati del medio e lungo termine, generalmente fallimentari, quasi sempre rimossi e comunque poco tele-visibili. Gli interventi di emergenza si caratterizzano per il fatto di entrare in azione dopo l’avvenimento che li legittima, spesso nella fase più acuta della crisi, mettendo in gioco un enorme dispositivo umanitario gestito sempre più direttamente dall’apparato militare e da meccanismi garanti l’ordine, la stabilità e la sicurezza. In una sorta di «pronto soccorso mondiale»,50 le organizzazioni non governative e umanitarie si trovano a doversi appoggiare operativamente a quelle stesse forze armate che hanno invaso un territorio straniero a volte contro la volontà dello Stato in questione. Spesso sono costrette a svolgere un ruolo ausiliario alle azioni militari di occupazione, dovendo ripulire le macerie e avviare i programmi di ricostruzione.51 La filosofia e le pratiche di tali interventi di emergenza rappresentano la definitiva standardizazione delle procedure trasferibili immediatamente dove le strategie politiche lo richiedano. La configurazione che ne risulta articola modelli organizzativi fondati sulla performatività e sull’efficacia in maniera totalizzante, eliminando tutte le altre possibili modalità di intervento. L’intensa attività, sotto la pressione dell’urgenza, si fissa come non negoziabile, escludendo ogni forma di riflessione conto dei tagli del governo di 250 milioni di euro ai fondi della cooperazione, pari a una riduzione del 70% delle risorse destinate alle ONG (50 milioni di euro) e della cancellazione di 55 milioni di euro promessi agli organismi Onu. L’Italia si distingue anche per essere l’unico paese a non aver versato il suo contributo di 100 miloni di euro per il 2004 al Global Fund contro Aids, malaria e tbc. Ha congelato i 10 milioni di euro destinati all’emergenza Darfur insieme alle iniziative per l’Africa sub-sahariana (La Repubblica, 4 ottobre 2004). 50 Hours, 1998. 51 Nell’ottobre 2001, Colin Powell così sottolineava l’importanza delle ONG, durante una sessione delle Ong statunitensi in occasione dell’operazione Enduring Freedom: “un vero moltiplicatore delle forze… una parte importante delle nostre forze di combattimento” (Citato da Brauman, Salignon 2003:275). Le posizioni delle ONG (alcune delle quali nate proprio sui campi di battaglia: la Croce Rossa a Solferino nel 1859, Greenpeace durante la Guerra in Vietnam, Medici senza Frontiere nella Guerra del Biafra del 1968. Vd. Pech, Padis, 2004:13; Boli, Thomas 1999) di fronte alle guerre più recenti sono molto articolate e in contrasto fra loro (Kaldor 2001:132; Blanchet 2003; Brauman, Salignon 2003; Pech, Padis 2004:32). I quaderni del CREAM, 2004 - II 98 critica sulle cause dei problemi come anche l’attenzione contestuale alle particolarità, alle differenze socio-culturali e ai risultati nel medio e lungo termine. Pensa al sottosviluppo e alle tragedie della fame e della guerra in termini apolitici, meccanici e naturali, come semplice risultato di esplosioni sporadiche legate a stati endemici di warfare tribalistica o ad una storia ritenuta, questa volta, rigidamente locale e mai globale. Trascura l’interazione evidente fra attività umane e catastrofi naturali come anche fra catastrofi naturali e problemi politici e rimuove gli effetti determinati dai cosiddetti “equilibri internazionali”e le competizioni su risorse in continua diminuzione. La fine dell’emergenza produce la sospensione dell’attenzione dei media, l’immediata interruzione dell’intervento, il trasferimento della macchina organizzativa in altri scenari emergenti dello scacchiere geo-politico.52 L’apparato dell’emergenza apre un campo politico che si legittima attraverso la semiotica dell’immagine e la retorica della compassione e della necessità dell’azione. Viene alimentata da un’ostentata e fortemente censurata visibilità, accecante nella sua vacuità, secondo un registro molto più sensibile alla drammatizzazione dell’evento umanitario e molto meno alla miseria ordinaria.53 Queste dinamiche costringono le ONG a rincorrere affannosamente le emergenze per sopravvivere e a mettere in campo un imponente apparato in grado di affrontare la competizione per la raccolta dei fondi pubblici o privati.54 Le mutazioni del capitalismo determinate dalla crisi del welfare state keynesiano e dall’apertura dei mercati al neo-liberismo, hanno portato le ONG ad entrare a far parte di un sistema di relazioni con le istituzioni politiche, economiche e gli attori privati. Dal 52 Boltanski, 2000; Pandolfi, 2002. Piguet 1994:77; Sabelli 1994:135; Dalton 2003; Darcy 2003; Dauvin, Siméan 2003; Forster, Messica 1989; Minear, Smillie 2003. 54 In Europa nelle seconda metà anni Novanta i fondi pubblici coprivano il 42% delle risorse (a cui bisogna aggiungere gli aiuti indiretti soprattutto fiscali) a disposizione delle ONG contro un 42% dei fondi privati e un 16% di autofinanziamento. Il Comitato per lo sviluppo dell’Ocse calcola che i finanziamenti alle ONG sono passati da 2,9 milioni di $ nel 1970 a 1 miliardo nel 1996 (Commissione europea 2002, p.13). La Banca Mondiale include un numero sempre crescente di ONG all’interno dei suoi programmi: fra il 1987 e il 1995 il 33% dei suoi programmi era gestito da ONG. (Pech, Padis 2004: 25; Pinter 2001: 203). Nel 1997 il 50% dei progetti della Banca erano gestiti da ONG (Pech, Padis 2004:25; Banca Mondiale, 1997). 53 I quaderni del CREAM, 2004 - II 99 crollo del sistema westfaliano delle relazioni internazionali fondato sulla sovranità degli Stati e dal definitivo affossamento dell’ONU dopo l’11 settembre, hanno assunto un ruolo crescente di rappresentanza, partecipando a importanti processi decisionali, grazie allo statuto consultivo conferito loro da varie istituzioni internazionali. Molte organizzazioni intervengono direttamente nei mercati, intrecciando rapporti con le multinazionali, con fondi di investimento, agendo come organismi bancari di microcredito alle imprese familiari e con operazioni commerciali di vasta portata sul modello del commercio equo.55 Il clima di concorrenza non va solo a discapito delle popolazioni colpite ma può produrre gravi danni etici per le stesse organizzazioni. La diffusione dell’informazione, determinata dalle regole di mercato, costringe a manipolare, a fini di lucro, le azioni umanitarie e a produrre eventi mediatici a colpi di dichiarazioni e di immagini dal forte carattere emotivo per evocare l’indignazione, la compassione e la “necessità morale” dell’azione. In alcuni casi servono a sollevare le reticenze del pubblico alle azioni intraprese in palese violazione delle elementari norme del diritto. Gli organismi internazionali e transnazionali agiscono sul territorio come ciò che Agamben,56 utilizzando un concetto di Appadurai,57 chiama “sovranità mobili”, realtà che si spostano nel mondo imponendo regole e imperativi, legittimati, sotto la bandiera di valori proclamati etnocentricamente come universali. Coniugano l’ideologia del sansfron55 Nel 2001 quasi 14 milioni di persone hanno beneficiato di prestiti di microcredito (Pech, Padis 2004:72; Yunus,1998). In America Latina su 85 istituzioni di microfinanza 8 sono costituite da banche classiche, 12 da cooperative di credito e 65 ONG (Santino, 2003). Fra le realtà che si occupano di commercio equo Max Havelaar rappresenta la principale azienda. Distribuisce prodotti pilota (caffé, cioccolato, tè ecc.) per una cifra d’affari di 112 milioni di franchi svizzeri nel 2003 (+ 33% rispetto a 2002). Occupa una posizione centrale nel Fairtrade Labelling Organizations, un’entità che definisce i criteri del commercio equo. Ha altresì stipulato contratti con McDonald’s (140 ristoranti svizzeri si impegnano a servire solamente il caffè Max Havelaar) e con Coop, Migros, Carrefour (Roozen 2003). Fra le organizzazioni che collaborano con multinazionali, Pech e Padis (2004) riportano i casi di Secours Populaire che collabora con Coca Cola; Fidh con Carrefour; Wwf con Lafarge, Canon, Mitsubishi, Altria, Unilever, Du Pont de Nemours; Care con Havas. 56 Agamben, 1997; Pandolfi, 2002. 57 Appadurai, 1996b. I quaderni del CREAM, 2004 - II 100 tierismo degli anni Ottanta e Novanta con il neoliberismo e l’antipolitica, appoggiandosi al potere mediatico, a quello dei mercati e alle guerre “giuste”. Comunità di esperti e di poteri coercitivi si mobilizzano così per disaggregare le reti di influenza, concependo nuove alleanze e confondendo le strategie d’autorità dei poteri locali. Promuovono forme di dominazione che Pandolfi designa come “sovra-coloniali” in quanto cercano di sovrapporsi ai poteri già esistenti, esercitando strategie globali di controllo del territorio che violano la sovranità degli stati.58 Tali organismi designano competenze, distribuiscono ruoli e integrano gruppi ed elites locali nel circuito internazionale, promuovendoli al ruolo di negoziatori di forme di governance deteritorializzate e delocalizzate, spesso senza riuscire a sostituirsi efficacemente alle sovranità pre-esistenti. Agamben mostra come le “sovranità mobili” si fondino su un concetto di sovranità simile a quello che Carl Schmidt definisce come il potere di proclamare lo stato di eccezione, di sospendere legalmente la validità della legge esercitando una sovranità arbitraria senza alcuna mediazione.59 Determinano una situazione paradossale al di là dei confini dell’ordine giuridico, una forma di esclusione che si materializza spazialmente anche nei paesi occidentali nei campi dei rifugiati, degli immigrati, dei clandestini, delle vittime, dei prigionieri di guerra, degli uomini e delle donne trafficati, traumatizzati. Questi luoghi sono popolati da esseri umani che diventano entità astratte pronte a essere censite, contate e quantificate, catalogate, etnicizzate e in ogni caso identificate da poteri alieni. Mentre la legge classica pensa in termini di individui e di società, cittadini e stato, questo potere, che Agamben definisce foucaultianamente come biopotere, ragiona in termini di corpi indistinti e delocalizzati, da nutrire, sfamare, vestire, curare, secondo le strategie e le categorie diagnostiche dell’amministrazione umanitaria esportabili in tutti i contesti.60 58 Pandolfi, 2002. Agamben, 1997; Pandolfi, 2002. 60 Agamben, 1997; Pandolfi, 2002. 59 I quaderni del CREAM, 2004 - II 101 Le voci degli esclusi: il lavoro del CCAP di Rio de Janeiro In un panorama che la cultura egemonica cerca di imporre, con qualche evidente difficoltà, in termini omologanti e totalizzanti, le voci degli esclusi riescono tuttavia a farsi sentire. Contraddicono i poteri dominanti e i tentativi di promuovere un’ideologia felice e “rappacificata” della globalizzazione e dello sviluppo come qualcosa di inevitabile e soprattutto di già compiuto. Incalzati dal bisogno di trovare alternative, per paura di essere eliminati dalla violenza neo-liberista e dalle “nuove” forme di aiuto umanitario, la scommessa politica dei gruppi “subalterni”, consiste nella capacità di contrapporsi agli assiomi del capitalismo e della modernità nella loro forma egemonica.61 Si fonda sulla difesa del locale come prerequisito per impegnarsi nel globale e la valorizzazione dei bisogni e delle opportunità economiche in termini diversi da quelli del profitto e dello sviluppo modernizzante. Superando le dicotomie del discorso modernista (globalità-localismo, modernità-tradizione, centro-periferia ecc.) sostituiscono all’idea di processi che dovrebbero rimpiazzare il moderno al tradizionale, l’idea di una modernità ibrida, intesa come un insieme di realtà negoziali prodotte essenzialmente dalla “coappartenenza” della modernità e della tradizione, del globale e del locale.62 Le “articolazioni”63 e “traffici di culture”64 impongono di ripensare le “culture tradizionali” nel con61 Significativo è il fatto che sia stato il delegato del Botswana ad abbandonare per primo il tavolo delle trattative a Cancun, seguito dalla delegazione del gruppo Africa, Caraibi e Pacifico. La novità Cancun è il nuovo fronte dei paesi più poveri del Sud (che rappresenta il 90% della popolazione contadina del pianeta) unitamente alla nascita di una coalizione di paesi guidato da Cina, India e Brasile. Questo gruppo non solo ha saputo tenere testa a Europa e USA, ma è riuscito a collocare la questione dello sviluppo sull’agenda politica e non su quella semplicemente tecnica. 62 Già dal punto di vista triadico di Malinowski 1940 (2001:110), il sistema mondiale non era considerato portatore di un’omogenità culturale globale quanto piuttosto di una total contact situation, precipitato di “un nuovo tipo di civilizzazione umana”. Questo “tertium quid”, nato dall’inedita situazione, non era pensata come una “mescolanza”, bensì un nuovo fenomeno di contatto” in cui “l’insieme differisce in sé dalla somma dei singoli elementi che lo compongono”. 63 Clifford, 1997. 64 Fabietti, 2000. I quaderni del CREAM, 2004 - II 102 testo del loro coinvolgimento trasformativo con la modernità, non in termini omologanti, ma come società vernacolari65 nate dall’interrelazione fra antico e nuovo. Le “sozzure” sarebbero, cioè, fertilizzanti per nuove sintesi ed “emersioni” culturali e sociali.66 Nei panorami contemporanei il cosiddetto Terzo Mondo ha contributi unici da apportare alle configurazioni e agli sforzi politici e intellettuali. La risurrezione e la ricostituzione delle soggettività segnate da tradizioni molteplici offrono reali possibilità di organizzare nuovi spazi al di là delle strategie convenzionali di sviluppo che rifiutano di perire. Come sostiene Escobar, la dispersione delle forme sociali causata dall’economica informatica deterritorializzata consegna opportunità inaspettate ai gruppi marginali per costruire visioni e pratiche alternative allo sviluppo. Le culture ibride o i “sé rifiutati” si trovano a poter elaborare un differente senso della direzione rispetto alle tendenze della ciber-cultura dominante del Primo Mondo.67 In questo contesto si può collocare l’esperienza del Centro de Cooperação e Atividades Populares (CCAP) di Rio de Janeiro, un’organizzazione composta elusivamente da favelados che opera dall’inizio degli anni Ottanta nella realtà dimenticata e incredibilmente violenta delle favelas.68 Svolge la maggior parte della sua attività nell’insieme delle 13 favelas che compongono la favela di Manguinhos (55.000 abitanti) una delle più povere di Rio.69 65 Latouche 1997:112. Clifford 1993:28; Agier, 2001. 67 Escobar, 1994. 68 Su una popolazione di 5.851.914 abitanti Rio de Janeiro ha 620 favelas con una popolazione di circa 1.092.958 abitanti, pari al 19% popolazione (Instituto Brasileiro de Geografia e Estatística, IBGE 2000). 69 Ho avuto modo di fare ricerca sul campo, abitando nella favela di Manguinhos nei mesi di febbraio e marzo 2003. Secondo i dati IDH (Indice Sviluppo Umano) del 2001 Manguinhos registra il 155° posto fra i 161 quartieri della città. Fra i dati elaborati dalla Secreteria Municipal da Saude i seguenti sono piuttosto significativi: il tasso disoccupazione supera il 30% fra i giovani dai 18 ai 24 anni; il mercato informale occupa circa il 45% della popolazione; il reddito pro capite è intorno a R$148,00 (pari a poco più di 40 Euro). Circa il 30% delle abitazioni sono considerate irregolari, provvisorie e a rischio: circa il 20% non è rifornito di energia elettrica; circa 20% non possiede una rete fognaria e acqua potabile. Secondo i dati della scuola nazionale di Salute Pubblica della Fondazione Oswaldo Cruz del Ministero della Salute Federale, 80% dei decessi di gio66 I quaderni del CREAM, 2004 - II 103 La situazione è caratterizzata dai conflitti con armi da guerra fra gruppi di narcotrafficanti che controllano il territorio e fra trafficanti e forze di polizia. Queste ultime, particolarmente corrotte, adottano pratiche di esecuzioni sommarie e aggressioni alla popolazione civile, promuovendo un clima di terrore congruente con le proprie strategie di concussione. Unica forma della presenta statale in favela, le forze dell’ordine accreditano presso la popolazione la concezione delle istituzioni come poteri arbitrari, corrotti e violenti. In generale, i numeri delle vittime della violenza in favela sono comparabili con quelli dei conflitti più conclamati e televisti che hanno mobilitato l’apparato dell’emergenza. Comparazione fra numeri di morti in combattimento in conflitti moderni e morti per arma da fuoco a Rio de Janeiro 1997-2000.70 1997 1998 1999 2000 Comparazione fra numeri di morti in combattimento in conflitti recenti e morti per arma da fuoco a Rio de Janeiro 71 Colombia Angola Sierra Ex Jugo- Afghani- Uganda Israel Rio de Leone slavia stan Janeiro 500-1.000 ------>2.000 --85-250 2.241 1.000.1.500 >1.000 <1.500 1.000-2.000 >2.000 >800 150 2.399 >1.000 >10.000 >6.000 1.000-3.000 >2.000 --100 2.410 >1.000 >1.000 ---->3.000 --325 2.646 1964-2000 1998-2000 1991-1999 1998-2000 1991-1999 1994-1998 1948-1963 >39.000 >11.000 >11.000 2.000-5.000 >12.000 >3.000 >13.000 1978-2000 1998-2000 1991-1999 1998-2000 1991-1999 1994-1998 1979-2000 Rio de Jameiro 49.913 7.465 23.480 7.465 23.480 12.404 48.813 All’interno di questa drammatica situazione il CCAP dall’inizio degli anni Ottanta cerca di stimolare un processo endogeno di cambiamento, sforzandosi di far interagire la popolazione della favela con dif- vani fra i 15 e i 18 anni sarebbero dovuti a armi da fuoco (Relatório de Desenvolvimento Humano do Rio de Janeiro, 2001). 70 Dowdney, 2003. 71 Tratto da Dowdney, 2003, pp. 80-119. I quaderni del CREAM, 2004 - II 104 ferenti istituzioni della società civile nazionale e internazionale e a mobilitare gli organismi politici. Si adopera per articolare le proposte della società civile locale, ritagliandosi il ruolo di coordinazione delle strutture di base autonome e autogestite, in contrapposizione alle Associazioni degli Abitanti, controllate dal narcotraffico. Articola sinergicamente in un sistema a rete, attività autonome e indipendenti in differenti aree strategiche: economia, educazione, comunicazione, diritto, risparmio e credito. Le attività sono iniziate nel 1983 con la costituzione di un sistema di commercializzazione di prodotti di base che ha integrato i consumatori delle favelas con i produttori rurali. I risultati mostrano il potenziale delle attività popolari alternative al mercato, riducendo la precarietà alimentare, migliorando la qualità dei prodotti, generando posti di lavoro (per circa 81 persone) e funzionando come regolatore dei prezzi all’interno della comunità.72 Le attività economiche si coniugano con attività educative finalizzate alla realizzazione di un mercato locale solidale, indirizzate sia ai consumatori (educazione alimentare, diritti del lavoro, diritti dei consumatori, formazione amministrativo-contabile e organizzativa del personale, produzione di documenti e materiale informativi e divulgativi) sia ai piccoli agricoltori (amministrazione, commercializzazione, vendita). In generale partecipano al sostegno delle iniziative degli altri settori, in particolare l’educazione e la formazione. Queste ultime, in un contesto segnato dall’analfabetismo,73 sono intese dal CCAP come elementi strategici per processi di cambiamento “dal basso”. Sono finalizzate a contribuire al superamento dell’emarginazione sociale che si manifesta, prioritariamente, nell’esclusione dal sistema educativo. A fronte del ridotto numero di quadri e della loro scarsa formazione, CCAP cerca di rendere gli attori sociali soggetti attivi e promotori autorevoli di processi di cambiamento. 72 Il programma ha rifornito di circa 200 prodotti biologici di qualità, circa 3.000 famiglie, offrendo un risparmio di circa il 20% del prezzo del mercato tradizionale e incrementando del 25% il guadagno dell’agricoltore. 73 La media degli anni di scolarità da parte della popolazione delle favelas di Rio è di circa 4 anni. L’analfabetismo tocca circa un terzo della popolazione adulta. Circa il 15% dei ragazzi fra 7 e i 14 anni è fuori dal sistema scolastico. In Manguinhos (55.000 abitanti) ci sono solamente 4 scuole elementari (fino alla quarta elementare) e nessuna scuola media (Relatório de Desenvolvimento Humano do Rio de Janeiro, 2001). I quaderni del CREAM, 2004 - II 105 Le azioni in questo senso sono formative in senso generale, inglobando la scuola materna e il sostegno scolastico,74 l’insegnamento superiore,75 e differenti attività culturali, specialmente a sostegno del riscatto dell’identità afro-discendente. A partire dal 1990 CCAP ha integrato tali attività con la realizzazione ed esibizione di film e documentari, a cui si è successivamente affiancata la creazione di una televisione comunitaria via cavo e di un sistema semiclandestino che sfrutta abusivamente un segnale dal satellite per trasmettere un telegionale comunitario. Tali operazioni si collocano nel contesto delle attività informative, divulgative e educative miranti a stimolare la coscienza critica della comunità, sensibilizzare la società sulla realtà delle favelas, facilitare il dialogo della popolazione con i poteri pubblici. Gli obiettivi ambiziosi intendono realizzare un esperimento di democratizzazione dei mezzi di informazione in opposizione al monopolio delle grandi reti televisive e di controinformazione per divulgare le rivendicazioni sociali e la realtà della vita della favela. I documentari di denuncia, esibiti anche in Europa, hanno avuto modo di sensibilizzare i poteri pubblici locali (in particolare il Governo dello Stato di Rio de Janeiro, il Gabinetto per la Sicurezza Istituzionale 74 Il Centro de Educação Tia Zilda, fondato nel 1993 dal CCAP, è un’associazione senza fini di lucro che offre insegnamento infantile a circa 105 alunni fra i 3 e 6 anni e attività di sostegno scolastico (approvata dal governo municipale) per 80 studenti iscritti alle scuole municipali. Le attività del Tia Zilda sono finanziate autonomamente per circa il 70% (di questi circa il 50% proviene da rette pagate dalle famiglie; 20 R$ mensili contro i R$ 35 delle altre scuole; circa il 15% è prodotto da attività serali di recupero scolastico; circa il 5 % dal Ccap). Il restante 30% viene dalle donazioni (nazionali e internazionali). Il successo del Centro de Educação Tia Zilda, divenuto un punto di riferimento per le entità che lavorano con l’educazione infantile in altre favelas è deducibile da una serie di fattori come l’aumento delle richieste di iscrizione, la pressoché assenza di abbandoni, i buoni risultati degli alunni nelle scuole della rete pubblica elementare, il riconoscimento da parte degli abitanti della comunità e del Potere Pubblico. 75 Il CEPSEM (Corso preparatorio agli esami di scuola media) funziona dal 2001 in cooperazione con l’Universidade do Estado di Rio e la SUAM (Sociedade Universitária Augusto Mota) che forniscono i docenti. Nell’anno scolastico 2001-2 tutti i 41 alunni sono stati promossi e il Cepsem è stato Premiato con una borsa di 980R$ dalla Fundaçao Roberto Marino. Il finanziamento delle attività è a carico del CCAP. I quaderni del CREAM, 2004 - II 106 della Presidenza della Repubblica) promuovendo diversi interventi in favela.76 In collaborazione con varie organizzazione giuridiche di Rio de Janeiro che raggruppano avvocati e istituzioni per la difesa dei diritti umani, CCAP ha elaborato una Banca dati sugli omicidi dolosi a Rio de Janeiro e istituito un Servizio di Assistenza Giuridica gratuita coordinato da avvocati e giovani tecnici giuridici e tirocinanti dell’Università Statale di Rio. Tale servizio, operativo dal 1996, è diretto ptrincipalmente alle donne e ai bambini e in generale alle persone che non riescono ad accedere al potere giudiziario per cultura (il diritto consuetudinario è determinato dal narcotraffico) e per mancanza di danaro (l’impossibilità di affrontare anche solo i costi dei trasporti pubblici). L’obiettivo è di educare i favelados alla cultura del diritto e della cittadinanza, sottraendone il monopolio al narcotraffico e agli abusi della Polizia, e di costringere i poteri pubblici al rispetto dei diritti costituzionali. Mostrando che il potere giudiziario può essere promotore di diritti, intende costruire organizzazioni della società civile in grado di promuovere nuove relazioni con gli organismi istituzionali e di realizzare azioni di responsabilità civile contro lo Stato per obbligarlo a rispettare le norme costituzionali. Compimento di tutte le attività economiche ed educative è stata l’istituzione di un fondo di solidarietà che articola, dal 2000, attività di microcredito e di auto-aiuto finanziario con una carta di credito popolare. L’iniziativa rappresenta un’esperienza di economia popolare che verte sulla solidarietà. Fornendo piccoli crediti a microimprenditori esclusi dal mercato formale, insieme alla formazione in campo economico, finanziario e culturale, intende favorire la cultura del risparmio e la concentrazione dei consumi all’interno delle favelas. Incentivando l’associativismo e fornendo strumenti formativi sia tecnici (economia, 76 Un indicatore dell’importanza della attività viene dalle richieste di produrre pubblicità per eventi, commercianti, gruppi sportivi della comunità che costituiscono la principale fonte di sostentamento. La produzione è stata oggetto di interesse da parte di diverse istituzioni. I documentari sono stati esibiti in differenti circostanze, fra cui il Festival “Favela no Cinema” del Centro Cultural Banco do Brasil (Rio de Janeiro e São Paulo); il Congresso Internazionale di Promozione della Salute (Paris): il Centro Cultural de Ciências e Tecnologia Universidade do Federal do Rio de Janeiro; il festival di video Hybrid Vídeo Track, a Zurigo (Svizzera). I quaderni del CREAM, 2004 - II 107 finanza) sia culturali (identità, autostima, riflessione sulla realtà), mostra le possibilità endogene di miglioramento.77 Questa esperienza rappresenta un modello molto interessante che si colloca in realtà che non si possono semplicemente considerare marginali, ordinabili e circoscrivibili in ghetti dai confini ben definiti e conchiusi. Al contrario le favelas di Rio mostrano tutta la loro “centralità” urbana, collocandosi a ridosso delle zone più ricche, come Copacabana, Ipanema, la Barra di Tijuca. Determinano la quotidianità di tutti i cittadini della metropoli non solo dal punto di vista dell’ordine pubblico ma anche e soprattutto da quello ecologico, economico, sociale, culturale e politico, sollecitando l’interesse di trovare una soluzione ai problemi creati dall’esclusione e dalla povertà. Avvertono che l’alto tenore di vita di cui crede di beneficiare la maggioranza degli abitanti dei paesi del Nord è strutturalmente legato al malessere delle popolazioni del Sud e da questo minacciato. L’incremento delle spese per acquistare beni e servizi mercantili, va di pari passo con l’aumento degli “effetti collaterali” dello sviluppo legati al degrado della qualità della vita in termini di sicurezza, ambiente e salute.78 Laboratori di forme di umanità e di produzione culturale come il CCAP fanno riflettere sulle possibilità aperte ai “punti di vista dei nativi”, “degli esclusi”, dei “marginalizzati” per costruire visioni e pratiche innovative per pensare e realizzare le economie, per trattare i bisogni fondamentali, per formare gruppi sociali. Portano avanti pratiche di cambiamento sociale, culturale, economico e politico, che si sottraggono ai meccanismi della dipendenza e del dominio.79 Riannodano il filo di una storia interrotta dalla modernizzazione, dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione selvaggia, riappropriandosi di un’identità culturale propria e recuperando le tecniche e i saperi tradizionali insieme all’onore perduto. Superano i fallimentari approcci assistenzialistici, i 77 Dopo un anno di attività con 19 cellule, non si era registrato nessun caso di inadempienza nella restituzione del prestiti. 78 Latouche, 2003. Herman Daly ha compilato un indice sintetico, il “Genuine Progress Indicator” (Gpi) che rettifica il Prodotto interno lordo tenendo conto dei costi dovuti all’inquinamento e al degrado ambientale. A partire dal 1970, per gli Stati uniti l’indice del “progresso genuino” è stagnante, o addirittura in regresso, mentre quello del Prodotto interno lordo continua registrare aumenti (Cobb, Halstead, Rowe, 1995a, 1995b). 79 Houtart 2001; Pech, Padis 2004. I quaderni del CREAM, 2004 - II 108 frammentari interventi emergenziali e le compassionevoli e contraddittorie azioni umanitarie, a favore di iniziative integrate e multisettoriali fondate sul protagonismo e le potenzialità alternative delle risorse umane locali. Liberati dai vincoli economicistici e sviluppisti cercano modi di crescita collettiva che non privilegino un benessere materiale devastante per i legami sociali e per l’ambiente, rompendo con quell’impresa di distruzione che si perpetua in nome dello sviluppo e della globalizzazione. Come sostiene Latouche, sono queste creazioni originali, di cui possiamo scorgere qua e là qualche fremito iniziale, ad aprire le porte alla speranza di un dopo-sviluppo.80 80 Latouche, 2001. I quaderni del CREAM, 2004 - II 109 Bibliografia Afwerki I., “Somalia: Outlines of a Succesful Mission”, International Herald Tribune, October 12, 1993. Agamben G., 1997, Homo Sacer. Le pouvoir souverain et la vie nue, Paris, Seuil. Agier M, 2001, Aux bords du monde, le réfugiés, Paris, Flammarion. Amselle J.L., 2001, Branchements. Anthropologie de l’universalité des cultures, Paris, Flammarion; trad. it. Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture, Torino, Bollati Boringhieri, 2001. 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Entrambe le prospettive si basavano, infatti, su una concezione della storia ascensionale e progressiva, di natura teleologica (Colajanni, 1994, p. 33). Opponendosi a questa tradizione, gli studi di Foucault sulle dinamiche del discorso e del potere nella rappresentazione della realtà sociale hanno, invece, permesso di relativizzare la presunta portata universale dello sviluppo, riportando in luce la sua natura di prodotto culturale storicamente determinato (Escobar, 1995, p. 10). Lo sviluppo , però, non può essere semplicemente considerato come una forma astratta di ideologia, poiché esiste tangibilmente e può essere concretamente studiato, nel momento in cui si traduce in un insieme articolato di pratiche promosse da varie istituzioni, fondate su norme e valori specifici, noto come apparato o configurazione dello sviluppo (Tommasoli, 2001, p. 23). Le attività che distinguono l’operato di queste istituzioni, tra cui possiamo annoverare la stessa FAO (Food and Agriculture Organization), non vanno solo a modificare le condizioni materiali del vivere sociale, ma contribuiscono a veicolare una rap• Dottoranda in Antropologia culturale presso l’Università degli studi di Milano Bicocca. I quaderni del CREAM, 2004 - II 119 presentazione della realtà coerente con le aspettative e i valori del modello culturale dominante. Tale produzione socioculturale (Escobar, 1995, p. 107) può divenire oggetto di indagine antropologica non solo attraverso la comprensione delle concrete interazioni che avvengono “sul campo” durante un intervento di mutamento pianificato, ma anche attraverso un’analisi etnografica dei documenti prodotti dalle istituzioni stesse. Questa metodologia di ricerca può essere considerata come un ulteriore strumento per antropologizzare l’Occidente (Rabinow, 1986, p. 241), mostrando quanto sia peculiare la sua costruzione della realtà. Secondo gli etnometodologi, infatti, i documenti prodotti dalle organizzazioni vanno interpretati in relazione agli obiettivi e agli usi dell’istituzione, nonché al loro contesto di produzione (Garfinkel, 1967). Piuttosto che un sistema di azione razionale, la base documentaria rappresenterebbe un modo per oggettivare la conoscenza, rendendo “ovvie” e universali alcune particolari interpretazioni della realtà. Il processo di “iscrizione” degli eventi in una forma testuale non può essere considerato neutrale, poiché la percezione stessa dei fatti, nonché il modo di ordinarli significativamente, sono condizionati dallo schema discorsivo che struttura l’operato dell’istituzione (Escobar, 1995, pp. 108-109). Dalla prospettiva dell’institutional ethnography (Escobar, 1995), dunque, più che il contesto dell’azione locale, diventa importante comprendere i “discorsi” veicolati attraverso la produzione di documenti costruiti in un processo di continua “negoziazione dei significati” (Fabietti, Malighetti, Matera, 2002). Tali testi sono sostanzialmente autoreferenziali, tanto che non sembrano scritti per illuminare un problema dato, ma per assicurare il loro inserimento in un flusso incessante di testi organizzativi (Escobar, 1995, p. 112). Come osserva giustamente Escobar, le procedure documentarie rappresentano una dimensione significativa, ma trascurata, nelle analisi critiche di quelle pratiche attraverso le quali il potere viene esercitato nella vita quotidiana (Escobar, 1995, p. 109). Per l’antropologia, il concetto di cultura rimanda ad un insieme relativamente sistematico ed integrato di istituzioni, valori, credenze, tecniche e costumi posseduto da una società e trasmesso alle generazioni successive attraverso canali formali o informali. La cultura di un gruppo rappresenta, dunque, un patrimonio collettivo e non individuale e I quaderni del CREAM, 2004 - II 120 nessuno, in questo senso, può essere definito privo di “cultura” (Fabietti, Malighetti, Matera, 2002; Colajanni, 1994, pp. 20-22). In particolare, il modo di concepire la natura e di rapportarsi ad essa è parte integrante di questo patrimonio ed è definito dalle relazioni sociali e dalle strutture di potere e dominazione. Lo sviluppo, d’altro canto, è il prodotto delle relazioni di potere tra stati, i quali usando capitale, tecnologia e conoscenza, alterano la cultura e la società di particolari gruppi di persone (Adams, 1990, p. 83-84). Può essere, quindi, legittimo ipotizzare che gli interventi attivati da un’istituzione preposta al perseguimento dello sviluppo interagiscano anche con questo peculiare aspetto della cultura che è il rapporto con la natura, modificandolo profondamente. Tale cambiamento non va, però, considerato come un “effetto perverso” delle politiche di sviluppo, ma rappresenta una trasformazione necessaria e funzionale alla diffusione dello sviluppo stesso, soprattutto quando tali politiche focalizzano la propria attenzione su un settore come l’agricoltura, attività primaria della FAO, così strettamente connesso con il mondo naturale. In genere, nelle agenzie di cooperazione, lo sviluppo viene considerato separatamente dalla cultura, come se fossero due diversi ordini di realtà (Tommasoli, 2001), ma, soprattutto, non viene riconosciuto il significato culturale e simbolico della natura. Il concetto stesso di “ambiente”, al pari di qualsiasi altra categoria che permette di ordinare significativamente la realtà, deve essere riconsiderato proprio a partire dall’idea che esprima qualcosa di ovvio, di autoevidente. In particolare, secondo Sachs, la natura si trasforma in “ambiente” quando diventa oggetto di politiche e pianificazione (Sachs, 1998, p. 55) e viene quindi ridotta a premessa non problematica dell’azione. Sotto lo sguardo occidentale, la natura è trasformata in risorsa, in un senso molto diverso da quello che si intravede nell’etimologia latina della parola, che risale al verbo surgere. In questa accezione originaria la risorsa era intrinsecamente sinonimo di abbondanza, intesa come qualcosa che “ri-sorge” con continuità (Shiva, 1998). Tale vitalità e creatività attribuite alla natura si sintetizzano nella definizione, comune a molte culture, di “Terra Madre”, fertile e generosa, fonte di timore e rispetto per l’abbondanza che accorda agli uomini che sottostanno alle sue leggi (Shiva, 2002). Finché venne considerata come un unico organismo vivente, ogni atto distruttivo contro di essa poté essere I quaderni del CREAM, 2004 - II 121 condannato come una violazione delle norme etiche di comportamento (Merchant, 1988, p. 40). Una netta cesura nel modello organicista si ebbe, nel contesto occidentale, con l’affermazione del dualismo tra spirito e materia (Barbour, 1998; Shiva, 2002), da cui deriva anche la scissione tra cultura e natura. La metafisica di Cartesio pone le basi della scienza proprio nella distinzione tra sostanza estesa (res extensa) e sostanza pensante (res cogitans): l’ideale scientifico cartesiano scinde, quindi, una concezione meccanicistica del mondo corporeo da una concezione spiritualistica dell’uomo. Questa demarcazione netta tra corpo e anima, se, da una parte, legittima la costruzione della natura come oggetto della conoscenza scientifica, dall’altra, la trasforma in “ambiente”, inteso come puro contorno materiale alla centralità dell’uomo “spirituale”, e, quindi, come qualcosa di totalmente separato dall’uomo stesso (Shiva, 2002). Il metodo sperimentale di Bacone ha fornito un’ulteriore legittimazione all’interpretazione meccanicistica della natura. Questa, divenuta materia morta e manipolabile, non viene più percepita olisticamente come un tutt’uno, ma si frammenta in componenti, comprensibili secondo modelli matematici (Barbour, 1998, p. 87). Si può, dunque, affermare che la storia del concetto di natura è segnata dalla progressiva divaricazione tra significato scientifico e significato morale: «la natura reificata, ridotta a mera res extensa, esaurita dalla sola dimensione quantitativa, resta priva di legami di origine e significato con la soggettività, la res cogitans» (Tallacchini, 1998, p. 11). L’economia capitalista ha contribuito a legittimare un’immagine mercificata della natura, trascurando di considerare come importante ciò che non costituisse una fonte di immediata utilità per l’uomo: le “risorse naturali” sono percepite unicamente come input per la produzione industriale (Shiva, 1998, p. 261). Un approccio puramente riduzionista porta a scomporre l’ambiente in una serie di settori liberamente manovrabili, valutati e sfruttati a prescindere dalle interrelazioni che le parti intrattengono tra loro. Questo tipo di “ambientalismo” rappresenta una concezione meccanicistica e strumentale che tende a ridurre la natura a un «deposito di risorse» (Bookchin, 1986, p. 49), dove l’interesse alla conservazione è subordinato al «valore d’uso» (Pearce, Turner, 1991) che riveste per le attività umane. La riconcettualizzazione della realtà come macchina, anziché come organismo vivente, ha decretato la “morI quaderni del CREAM, 2004 - II 122 te della natura” e sancito il dominio incondizionato dell’uomo (Merchant, 1988, p. 42). Le origini filosofiche di questa scissione tra uomo e natura non bastano però a spiegare la peculiarità che caratterizza la nostra epoca. Le relazioni che l’uomo intrattiene con l’ambiente sono state, infatti, sempre più prepotentemente strutturate dai nuovi ritrovati della tecnologia occidentale, che, nell’immaginario collettivo, si è costituita come la prova tangibile della superiorità umana sulla natura. L’ottimismo positivista ha coniato il termine “pianificazione”, ritenendo implicitamente di poter definire a tavolino le modalità del mutamento sociale, legittimando al tempo stesso l’ingerenza del mondo occidentale nei cosiddetti Paesi in Via di Sviluppo. La pianificazione ridefinisce la vita sociale secondo i criteri e il bagaglio culturale dei pianificatori, nonché la loro idea di razionalità ed efficienza (Escobar, 1998). Il mutamento storico che si innesca con un intervento di questo genere non può che essere anche, e necessariamente, un mutamento ecologico. Dicotomizzare natura e cultura non rende giustizia all’interazione dinamica tra ecosistemi naturali e culturali (Merchant, 1988). La gestione delle risorse non è certo una novità nella storia dell’uomo. Quello che è nuovo, e che caratterizza l’apparato dello sviluppo, è l’idea di “gestione scientifica”, attraverso la definizione di modelli, validi ovunque e stabiliti a tavolino dagli esperti occidentali, per mezzo dei quali si impone implicitamente la propria idea di “ambiente”, definito come oggetto da sfruttare e di cui aumentare la produttività, trascurando il significato culturale che la natura assume presso le popolazioni su cui si desidera attivare un progetto. Ogni intervento sull’ambiente viene considerato come un gesto puramente tecnico, privo di implicazioni ideologiche, mentre, in realtà, le visioni ecologiche introdotte dalle agenzie di sviluppo interagiscono fortemente con le forme di costruzione dell’identità connesse alle modalità di socializzazione della natura (Van Aken, 2001, p. 138). Alla base di questi meccanismi di professionalizzazione e di istituzionalizzazione caratteristici delle grandi agenzie per lo sviluppo vi è una “logica problematizzante”, per cui le realtà sociali vengono definite unicamente come problemi, ad esempio la povertà o lo stesso ambiente, e, in quanto tali, richiedono quasi necessariamente una gestione esperta attraverso il ricorso ad un sapere tecnico in grado di fornire soluzioni specialistiche (Tommasoli, 2001, p. 83). I quaderni del CREAM, 2004 - II 123 Se qualsiasi processo di etichettamento è un atto di valutazione che coinvolge pregiudizi e stereotipi (Wood, 1985, p. 348), allora l’ambiente può essere considerato come una particolare etichetta tra le molte che contribuiscono a definire il discorso “sviluppista”, poiché rappresenta una nozione «costruita per sottrazione di caratteri individuanti» (Tallacchini, 1998, p. 2), che veicola un’immagine della natura funzionale agli aziendalistici criteri del profitto. “Ambiente” nasce quindi come nozione avalutativa, vocabolo tecnico che deve indicare un sapere rigoroso e neutrale sulle tematiche ecologiche, in modo da isolare e definire i contorni di ogni singola questione – inquinamento, conservazione delle risorse, crescita demografica – evitando le complicazioni di un approccio globalistico. (Tallacchini, 1998, p. 14) In una prospettiva utilitaristica, le uniche forme di relazione con l’ambiente sono l’uso e la gestione: la natura, in un mondo industrializzato, non contribuisce alla rappresentazione identitaria degli attori sociali. Questo assunto, esteso acriticamente a qualsiasi gruppo sociale, finisce però per trascurare che, a volte, una risorsa naturale può rappresentare un importante connotato sociale che demarca un confine di identità (Van Aken, 2001, p. 137). La prospettiva gestionale è, dunque, sicuramente, la chiave di lettura con la quale i sostenitori dello sviluppo hanno interpretato il problematico rapporto tra ambiente e sviluppo. Il managerialismo ambientale rappresenta, infatti, un approccio costruito sull’idea che una risposta tecnica, basata su una metodologia quantitativa, sia la risposta più efficace ai problemi ambientali (Zappacosta, 1995, pp. 57-58). Questo tipo di modalità gestionale, definita «ingegneristica» da Sachs (1998, p. 57) e Pellizzoni (2001, p. 17), presuppone l’idea che esista un livello ottimale nell’uso delle risorse, per cui il problema diventa il raggiungimento di tale punto di equilibrio attraverso la migliore combinazione di tecnologie disponibili in un dato momento storico (Zappacosta, 1995). Secondo una prospettiva neomalthusiana, infatti, ogni ecosistema può sostenere un numero massimo di individui di una data specie. Superato tale limite assoluto, espresso dal concetto di carrying capacity, si può generare, in breve tempo, il collasso dell’intero sistema (Zappacosta, 1995, p. 34). Questa impostazione del problema non sembra tenere, però, adeguatamente conto del fatto che la definizione stessa di tale ipoteI quaderni del CREAM, 2004 - II 124 tico punto di equilibrio rappresenta una scelta arbitraria, fondata su valutazioni caratterizzate da una forte componente soggettiva. Per cercare di capire se, e come, la FAO abbia contribuito a diffondere tale cultura dell’ambiente e se questa si sia modificata nel tempo, è stato necessario analizzare come questa istituzione si sia rapportata al cosiddetto processo di greening dello sviluppo, che ha segnato la progressiva acquisizione di una sempre maggiore consapevolezza circa il ruolo dell’ambiente nel cambiamento economico e sociale, fino ad affermare la necessità di integrare questo fattore nella definizione delle politiche per lo sviluppo (Adams, 1990). Questa graduale trasformazione è cominciata ufficialmente con la Conferenza di Stoccolma del 1972, primo appuntamento nella storia dell’ecodiplomazia (Ziparo, 1996, p. 62), ed è culminata con il Vertice della Terra di Rio de Janeiro del 1992. In questa occasione, in particolare, si è cercato di dare una definizione operativa del concetto di “sviluppo sostenibile”, attraverso i programmi promossi da Agenda 21, documento programmatico elaborato con l’intento di fornire un’esaustiva panoramica dei problemi, e delle relative possibili soluzioni, che si sarebbero dovuti affrontare nel ventunesimo secolo. Rispetto ad eventi di tale portata, la FAO ha dovuto necessariamente prendere posizione e per questo risultano particolarmente rilevanti ai fini del tipo di analisi proposta. In queste occasioni di confronto internazionale la risposta trovata ai problemi della Terra è, comunque, assolutamente “tradizionale”. Secondo Sachs il dibattito si basa sempre su una fondamentale distorsione, poiché si orienta verso un ampliamento gestionale, senza prendere in considerazione un’intelligente autolimitazione (Sachs, 1998a, p. 56). Il vero obiettivo non sembra tanto essere proteggere l’ambiente, quanto, piuttosto, perseguire lo sviluppo, definito come «ciò a cui tutti miriamo nel tentativo di migliorare la nostra sorte in questa dimora» (Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo, 1987, p. 18). In tale accezione del termine “sviluppo” si sottolinea una tensione verso generici cambiamenti qualitativi, che permette di applicare il concetto tanto ai paesi considerati più avanzati tanto a quelli definiti “arretrati” (Bresso, 1996, p. 76). Tale approccio, secondo Ziparo, fa parte di un vero e proprio filone, da lui definito “Sustainable Growth Management”, che si caratterizza, dunque, per la sostanziale adesione al modello socio-politico che ha I quaderni del CREAM, 2004 - II 125 prodotto gli attuali disastri sociali ed ecologici, nonostante l’introduzione di alcuni correttivi. In questa prospettiva, il problema della sostenibilità viene ridotto a questioni di regolazione, che nella sostanza non vanno ad inficiare il presupposto che l’Occidente, con i suoi sistemi politici democratici e un’economia prevalentemente capitalistica, rappresenti, oggi, l’unica area geografica caratterizzata da condizioni socioeconomiche “vivibili”. Secondo i sostenitori di questo modello, la risposta al “problema” della mancanza di sviluppo va affrontata estendendo su scala planetaria la forma di assetto sociale prevalente (Ziparo, 1996, pp. 60-61). La fortuna dello “sviluppo sostenibile” è derivata anche da una certa ambiguità nel suo significato, che ha prodotto diverse interpretazioni. Sono, comunque, prevalsi due orientamenti fondamentali. Da una parte, un’accezione “debole” del concetto di “sostenibilità”, secondo la quale l’elemento rilevante è il solo benessere della specie umana, il cui perseguimento legittima la sostituibilità tra capitale naturale e capitale prodotto. Dall’altra, l’idea di una sostenibilità “forte”, che si basa sulla necessità di lasciare alle generazioni future lo stesso stock di capitale naturale, ritenendolo non rimpiazzabile dal capitale costruito (Bresso, 1996, p. 79). Per gli ecologisti, tale interpretazione ha sancito l’impegno a rispettare un volume di produzione economica sopportabile per l’ecosistema: quello che va preservato non è tanto lo sviluppo, ma il mantenimento della vita sul pianeta, in tutte le sue forme (Rist, 1997, p. 195). In un’accezione strettamente economica la sostenibilità viene intesa come una strategia di massimizzazione della crescita vincolata alla non diminuzione del capitale produttivo complessivo (Zappacosta, 1995, p. 73). A questo proposito risulta particolarmente significativo un commento pubblicato nel Technical Background Document che ha accompagnato il Report finale del World Food Summit del 1996 in cui si afferma: There has been considerable progress since 1992 in defining sustainable development in operational terms. A particularly useful notion is the division of total capital to be maintained (or enhanced) within and between generations into four separate components: capital from nature, human capital, institutional capital and social capital. This concept… accepts that the components may change in size, so that it is legitimate to allow (in a wise way) capital from nature to be spent in order to build, for example, human or institutional capital… I quaderni del CREAM, 2004 - II 126 Sustainable agricultural development therefore assumes that actions taken must enhance the total sum of capital components, even though their relative proportions may change. (FAO, 1996) Questa interpretazione rischia, però, di trascurare il fatto che la natura, non è solo fonte di risorse ma, per il solo fatto di esistere, produce anche una serie di rappresentazioni e di significati, vere e proprie “esternalità culturali”, che possono contribuire a definire, più o meno consapevolmente, l’identità e la cultura di un gruppo sociale. La natura possiede, dunque, un “valore aggiunto” difficilmente quantificabile secondo i rigidi canoni economici del mercato. Scialabba (2000), che nella FAO si occupa di agricoltura biologica (organic agriculture nella definizione inglese adottata dall’organizzazione), sottolinea come le varie risorse non possano essere considerate totalmente sostituibili tra loro. Vanno più correttamente considerate complementari, poiché la perdita, anche parziale, di una risorsa naturale non verrà mai pienamente compensata dalla risorsa prodotta dall’uomo. La valutazione della sostenibilità può avvenire facendo riferimento alla somma complessiva delle risorse del sistema solo quando il grado di uso, scambio e commercializzazione delle risorse stesse risulterà commisurato al valore attribuito a ciascuna, poiché il loro grado di sostituibilità dipende, in ultima istanza, dall’accettabilità sociale del nuovo equilibrio che si viene a creare. La FAO, accettando completamente il principio della sostituibilità tra le risorse, in particolare rispetto allo sviluppo agricolo, conferma, invece, l’adesione ad un’idea di sostenibilità “debole”, che aveva già trovato una definizione compiuta e articolata nel concetto di SARD, acronimo di Sustainable Agriculture and Rural Development, nato ufficialmente in occasione della Conferenza su Agricoltura e Ambiente (Conference on Agriculture and Environment) organizzata dalla stessa FAO nel 1991 (FAO, 1991) e definito in maniera più precisa nel quattordicesimo capitolo di Agenda 21 (UN, 1992). Il problema chiave delineato da questo concetto non sembra essere tanto rendere l’agricoltura compatibile con l’ambiente, quanto piuttosto creare le condizioni perché quest’ultimo sia in grado di sostenere un aumento del volume produttivo del comparto agricolo. In quest’ottica, la protezione dell’ambiente non ha un valore intrinseco ma è funzionale al mantenimento, e al potenziamento, della base fisica necessaria a rispondere alle esigenze alimentari di una popolazione costantemente in I quaderni del CREAM, 2004 - II 127 aumento. È la FAO stessa a precisare che le risorse naturali «are used and managed by people to safeguard their well-being, not simply for the sake of conservation» (FAO, 1992, corsivo nostro). Una delle prime critiche a questo tipo di impostazione del problema risale al lontano 1949, quando Aldo Leopold, naturalista americano, propose il concetto di land ethic, proprio per affermare la necessità di tutelare qualsiasi membro della “comunità biotica”, a prescindere dal suo potenziale valore economico, poiché solo in questo modo è possibile garantire l’integrità, e quindi la stabilità, della Terra (Leopold, 1998, p. 135). La posizione di Leopold finisce per avere, comunque, ricadute positive anche sull’uomo, che di questa “comunità biotica” fa evidentemente parte e del cui equilibrio non può che giovarsi. A queste considerazioni di ordine prettamente ecologico si affianca, oggi, anche il riconoscimento di altri valori, che «esistono nella natura stessa dell’oggetto e che non sono associati al loro uso attuale o a quello potenziale» e che per questo sono detti “intrinseci” o “di esistenza”: il diritto ad esistere di una specie minacciata così come di un intero ecosistema, in quest’ottica, prescinde dal beneficio che ne può trarre l’essere umano (Pearce, Turner, 1991, p. 136). La sostenibilità, nozione contraddittoria e al tempo stesso pregnante, diventa, comunque, un frame da cui è impossibile prescindere per chiunque intenda affrontare le problematiche connesse al conflittuale rapporto tra ambiente e sviluppo. Tutte le grandi agenzie internazionali, come la FAO, sono state costrette a rivedere i propri obiettivi e le proprie pratiche alla luce di questa nuova parola-chiave. L’adozione diffusa del concetto di “sviluppo sostenibile” sembrava garantire l’effettiva realizzazione di un processo di greening delle istituzioni di assistenza allo sviluppo. Rimane da chiedersi, però, quanto tale processo di internalizzazione delle problematiche ambientali sia sintomo di reale cambiamento o rappresenti solo una sottile modifica del linguaggio (Zappacosta, 1995, pp. 71-72). Lo sviluppo non può, infatti, svincolarsi dai concetti fondamentali che lo definiscono, cioè “crescita” “evoluzione”, “maturazione” (Esteva, 1998) e, quindi, per quanto “aggettivato”, qualificandolo come “sostenibile”, in modo da indicare la compatibilità tra attività economiche e ambiente naturale (Bresso, 1996), la sua portata innovativa non potrà mai essere radicale. Per Esteva, “l’invenzione” dello “sviluppo sostenibile” è solo un modo per sostenere lo “sviluppo” I quaderni del CREAM, 2004 - II 128 stesso, cooptando all’interno di questo regime discorsivo ogni forma di dissenso (Esteva, 1998). La logica del “produttivismo” competitivo rimane indiscussa, mentre ci si muove verso nuovi livelli di controllo e monitoraggio amministrativo (Sachs, 1998), comportandosi «come se» (Rist, 1997, p. 232) fosse davvero possibile per il pianeta sopportare nel Sud del mondo lo stesso consumismo, e gli stessi rifiuti, del Nord (Sachs, 1998). A questo proposito, la posizione della FAO non lascia dubbi: sustainable development in developing countries should therefore be sought within an overall framework of growth so that the development measures adopted can maintain a momentum towards the goal of a more effective, stable and productive agricultural sector. (FAO, 1992, corsivo nostro) Il primato della crescita economica e la soluzione gestionale proposti dalla Commissione Bruntland erano elementi già consolidati da quarant’anni di impegno nel campo dello sviluppo. Adottato ufficialmente dalla FAO nel 1989, il concetto di “sviluppo sostenibile” ricalca quasi testualmente la definizione proposta in Our Common Future: …the management and conservation of the natural resource base, and the orientation of technological and institutional change, in such a manner as to ensure the attainment and continued satisfaction of human needs for present and future generations… (FAO, 1992, corsivo nostro) L’analisi della documentazione prodotta in occasione dei vari incontri promossi dall’ecodiplomazia internazionale ha evidenziato come, in realtà, non sia corretto chiedersi quanto la FAO abbia modificato la sua cultura dell’ambiente in rapporto agli stimoli provenienti dal dibattito internazionale, poiché è proprio in queste occasioni di confronto che continua ad essere promosso un approccio puramente gestionale alle problematiche inerenti il complesso rapporto tra ambiente e sviluppo. Il managerialismo ambientale, funzionale alle esigenze produttive e basato su un’ottica fortemente antropocentrica, ha contribuito a ridefinire profondamente le caratteristiche del comparto agricolo. La grande espansione demografica che si verificò nel secondo dopoguerra venne malthusianamente interpretata come un importante fattore di rischio per l’equilibrio tra uomo e risorse: la natura sembrava non essere più in grado di provvedere al sostentamento di tutti gli abitanti del pianeta. La I quaderni del CREAM, 2004 - II 129 sua “inefficienza” divenne un concetto quasi assiomatico così come la necessità di migliorarla, ottimizzandone la produttività attraverso una serie di pratiche innovative, come l’impiego di fertilizzanti e pesticidi abbinato a sementi selezionate in laboratorio. L’impatto di questi cambiamenti sulla produzione agricola, in particolare in India, fu straordinario ed ebbe grande risonanza sia nell’opinione pubblica, sia tra gli addetti ai lavori, tanto che nel 1968 un amministratore della U.S. Agency for International Development (USAID) scrisse nel suo rapporto annuale che sembrava di assistere ad una “Green Revolution” (Borlaug, 2002), termine con il quale si è soliti designare ancora oggi il processo di modernizzazione dell’agricoltura. Non si vuole certo affermare che l’uomo, da essere “innocente”, si sia improvvisamente macchiato di una “colpa” fino ad allora sconosciuta: ogni singola selezione vegetale attuata dai coltivatori attraverso gli innesti delle piante o la ricerca di nuove razze animali, effettuata grazie a progressivi incroci, sono tutti elementi che testimoniano come, specialmente nel settore agricolo, la manipolazione della natura sia sempre stata una componente essenziale della vita umana. Tali usi progettati di fenomeni biologici (Cerroni, Borrelli, 2003, p. 148) hanno permesso all’uomo di tentare di trarre dalle componenti naturali il maggior beneficio possibile. Non c’è, dunque, davvero nessuna differenza tra l’agricoltura “non sviluppata” e il moderno “agro-business” o più in generale tra i due modi di rapportarsi alla natura che presuppongono? La risposta ovviamente non è né univoca, né universale, ma merita una certa attenzione. Si potrebbe, forse, affermare che l’agricoltura “tradizionale”, i cui saperi sono fortemente contestualizzati, mirava a migliorare la resa delle potenzialità offerte dalla natura, manipolandola, sì, ma ex post, in un processo di progressivo adattamento alle esigenze imposte dall’esterno. Non bisogna dimenticare, poi, i molteplici significati culturali associati a particolari varietà vegetali, la cui importanza può essere solo relativamente, o per nulla, legata alla produttività (Van Aken, 2001). Quando la genetica, sapere che si propone come oggettivo e universalmente applicabile, fa la sua comparsa nel mondo agricolo, questo schema pare ribaltarsi: la manipolazione della natura avviene ex ante, dentro le mura di un laboratorio, senza che l’esperimento abbia l’effettiva possibilità di rapportarsi al contesto naturale in cui verrà inserito I quaderni del CREAM, 2004 - II 130 (Carson, 1963). La natura non viene semplicemente manipolata, ma piuttosto ricreata secondo parametri umani, primo fra tutti l’efficienza, termine economico che, applicato al settore agricolo, determina una certa ambiguità, richiamando più le esigenze del profitto che quelle della sussistenza. La FAO (1996), abbastanza recentemente, ha definito la Rivoluzione Verde come «a technology package», sottolineando la necessità di fornire, insieme alle varietà di semi selezionate geneticamente, un complesso di input quali concimi, antiparassitari, erbicidi, acqua d’irrigazione, macchinari tecnologicamente avanzati. Tali input, se utilizzati singolarmente, hanno effetti trascurabili se non addirittura negativi, mentre se impiegati contemporaneamente manifestano effettivamente una forte sinergia, garantendo una superiorità produttiva. D’altro canto, il venir meno, di anche uno solo di essi rende frequentemente le varietà selezionate molto meno produttive di quelle tradizionali (Zappacosta, 1995, p. 120), poiché gli alti rendimenti non sono intrinseci ai semi modificati, ma sono subordinati alla disponibilità degli input necessari (Shiva, 2001, p. 45), per cui è evidente che l’esclusione dalla Rivoluzione Verde di regioni meno dotate di risorse e particolarmente povere non è stata una tendenza tacita o non voluta, ma ha rappresentato piuttosto una selezione necessaria (Shiva, 2002; Zappacosta, 1995). La Rivoluzione Verde ha, dunque, cercato di risolvere l’inefficienza della natura promuovendo delle pratiche agricole che fossero in grado di garantire più raccolto su un’estensione minore di terra, aumentando la produttività dell’agricoltura. Si è verificata, però, una situazione quasi paradossale, per cui queste innovazioni, presentate come chiave per sconfiggere la fame nelle aree più svantaggiate del pianeta, hanno finito per avvantaggiare, invece, quelle regioni la cui situazione di partenza già presentava delle caratteristiche più favorevoli sia sotto il profilo ambientale che economico, aspetto fondamentale dato il notevole costo degli input. Le nuove tecnologie agricole non hanno rimesso in discussione la distribuzione, altamente concentrata, del potere economico, specialmente rispetto all’accesso alla terra. L’aumento nel volume complessivo di cibo prodotto non sembra corrispondere ad un affettivo e proporzionale miglioramento nella sicurezza alimentare (Rosset, Collins, Moore Lappé, 2000). I quaderni del CREAM, 2004 - II 131 La riflessione intorno al concetto di sostenibilità, pur con tutti i suoi limiti, ha, comunque, permesso di evidenziare molte problematiche a lungo trascurate. Come sottolineato in un articolo apparso nel 1993 su Ceres, una pubblicazione bimestrale della FAO, i delegati che nel 1992 parteciparono alla Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo were forced to admit that crop yields are stagnating or even declining in many countries, rural poverty is increasing and the natural resource base in far too much of the world is being seriously degraded. (Haverkort B. et al., Ceres 144, 1993) Il pacchetto tecnologico della Rivoluzione Verde aveva condotto ad una situazione difficilmente conciliabile con l’agricoltura sostenibile e lo sviluppo rurale promossi a Rio de Janeiro. È proprio in questa sede che venne, infatti, affermata ufficialmente la necessità di attuare aggiustamenti in campo agricolo, ambientale e macroeconomico in vista di questi nuovi obiettivi (Haverkort B. et al., Ceres 144, 1993). L’utilizzo della biotecnologia in agricoltura, punto focale dell’auspicata Seconda Rivoluzione Verde, sostenuta dalla FAO, oggi rappresenta il naturale proseguimento di questo percorso, senza che vi sia discontinuità alcuna rispetto al sistema di pensiero che aveva legittimato i metodi della Prima Rivoluzione Verde, portandolo piuttosto alle estreme conseguenze: inizialmente si dipendeva dal materiale ereditario per ottenere vantaggi genetici, con la Nuova Rivoluzione Verde si utilizzano, invece, nuove fonti di materiale ereditario per aumentare la produttività attraverso la manipolazione genetica. Secondo Donna Haraway (1991) siamo in presenza di una forma di Reinvenzione Postmoderna della Natura, cioè un nuovo regime discorsivo in cui viene legittimata la costruzione della natura attraverso le più diverse biopratiche, possibili grazie alle nuove forme di scienza e tecnologia. Rifkin (1998) si serve di un neologismo, la parola algenia, per indicare la biotecnologia, pensata come una sorta di nuova alchimia in grado di cambiare l’essenza della natura. L’algenia rappresenterebbe il tentativo di realizzare la perfezione della natura attraverso una seconda genesi artificiale della natura stessa, delle cui conseguenze non siamo pienamente consapevoli (Cerroni, 2003). I quaderni del CREAM, 2004 - II 132 La tutela della natura è spesso posta dal il paradigma dominante in contrasto con il soddisfacimento dei più elementari diritti umani, tra cui, ovviamente, quello ad un’alimentazione adeguata. Proponendo un tale conflitto tra le esigenze dell’uomo e quelle della natura è evidente che gli squilibri ecologici causati dalla Rivoluzione Verde diventano giustificabili in nome di un più alto obiettivo, quale è la sconfitta della fame nel mondo. Tale prospettiva, però, non può essere considerata oggettiva e ovvia, perché pratiche troppo “aggressive” vanno a minare la produttività complessiva della natura, ripercuotendosi, in ultima istanza, sull’uomo stesso. Le grandi potenzialità offerte dalle nuove specializzazioni del sapere scientifico hanno creato l’illusione di un controllo totale sui processi naturali, sottovalutando, spesso, le conseguenze a medio e lungo termine di alcune scelte dettate dall’entusiasmo suscitato da nuove scoperte. Come osserva giustamente Shiva, «sulla base dell’assunto che la natura è inefficiente, ne stiamo rapidamente minando la produttività» (Shiva, 2002, p. 155). Agenda 21 ha avuto il pregio di definire un framework di riferimento che, pur non essendo vincolante, ha stabilito nel dibattito su ambiente e sviluppo delle priorità non più trascurabili. Aumentare le capacità produttive di un territorio non è un elemento sufficiente per stabilire la riuscita di un intervento: ciò che diventa importante è mantenere le condizioni della riproducibilità nel tempo del sistema considerato, sia sotto il profilo ambientale che sociale. Osservando il problema dalla prospettiva della più recente economia dell’ambiente, l’utilizzo di tali tecniche agricole di tipo capital-intensive crea anche un’evidente distorsione nel mercato, perché la produzione si basa su un’esternalizzazione di costi sociali e ambientali che non vengono contabilizzati, gonfiando artificialmente anche l’effettiva portata dei profitti. Il dibattito sulla questione è divenuto prioritario, anche all’interno della FAO, proprio all’indomani del Vertice della Terra di Rio de Janeiro. Nel 1995, su Ceres n.154 vengono raccolte tutte le posizioni più autorevoli e rappresentative in materia, il che sottolinea l’importante ruolo di questa organizzazione come forum di confronto, anche mediatico, su questioni di grande rilevanza. Nonostante il quadro sia piuttosto complesso e vi siano molte sfaccettature diverse nelle argomentazioni, si possono comunque individuare due posizioni fondamentali: da un lato, coloro che ritengono sia solo necessario riformare dall’interno le carenI quaderni del CREAM, 2004 - II 133 ze dimostrate da un paradigma sostanzialmente valido, che anzi, pur con le dovute modifiche, merita di essere riproposto come “New Green Revolution”; dall’altro, coloro che ne criticano radicalmente le premesse teoriche e culturali, auspicando un vero e proprio “cambio di paradigma” che possa aprire la strada ad una “Real Green Revolution”, basata non solo su un globale ripensamento del rapporto uomo-natura, ma anche su una revisione nella gerarchia dei saperi, ridiscutendo la centralità della scienza occidentale. Il cauto riformismo proposto dai sostenitori della Rivoluzione Verde è sicuramente più consono alla linea tenuta dalla FAO in merito a questo fenomeno, essendo stata fin dall’inizio tra i più decisi promotori di questa tipologia di rinnovamento in agricoltura. Non bisogna dimenticare che la Rivoluzione Verde discende direttamente dal paradigma “sviluppista” e ne condivide gli aspetti fondamentali, come la centralità accordata alla crescita economica, il tecnicismo, la superiorità della scienza occidentale e dei suoi esperti: tutte caratteristiche che hanno segnato anche l’esperienza della FAO. Il World Food Summit del 1996 è stato un momento fondamentale per definire alcuni elementi chiave nel dibattito su agricoltura, ambiente e sviluppo, ma anche per rielaborare in maniera propositiva, ma sostanzialmente coerente con il passato, le istanze critiche formulate in occasione del Vertice di Rio, che rischiavano di mettere in discussione in maniera troppo radicale l’operato dell’organizzazione. In questa occasione la FAO auspica apertamente un’evoluzione del paradigma originario che sappia raccogliere le sfide lanciate dall’ecologia e dalle scienze sociali, mobilitate nella critica all’approccio settoriale e tecnocratico della Prima Rivoluzione Verde (FAO, 1996). Al centro del dibattito rimane la necessità di avviare «the rapid transfer of appropriate and new technology», tra le quali le più rilevanti e innovative sono proprio le tanto controverse biotecnologie (FAO, 1996, Punto 5,7). Nadia Scialabba, osserva, invece, che «sustainable agriculture development needs a paradigm shift from segregation to integration, that is a move from focusing on single, isolated parts of agricultural systems (disciplinary reductionism) to perceiving all parts in their full context (interdisciplinary holism)» (Scialabba, 2000, corsivo nostro). In linea con queste posizioni, Miguel Altieri ritiene che il concetto di agricoltura sostenibile potrebbe rivelarsi utile solo se prima l’agricoltura stessa I quaderni del CREAM, 2004 - II 134 venisse correttamente interpretata come risultato della “co-evoluzione” del sistema socioeconomico e dei sistemi naturali. Una più vasta comprensione del contesto agricolo richiede uno studio più approfondito delle relazioni che intercorrono tra le pratiche agricole, l’ambiente e i sistemi sociali, mentre si tende sempre a privilegiare la valutazione delle componenti tecnologiche. Perché venga soddisfatta l’esigenza di garantire la sicurezza alimentare, conservando al tempo stesso la base di risorse naturali, è necessario non solo attuare profondi cambiamenti nelle strategie d’azione, ma rivoluzionare completamente il tradizionale approccio allo sviluppo rurale (Altieri, 1995, Ceres 154). A questo proposito, sia Scialabba che Altieri, seppur in forme diverse, sostengono le potenzialità dell’agricoltura biologica non solo come possibilità di coprire una marginale nicchia di mercato, ma anche di attuare un vero e proprio cambio di paradigma che permetterà “the Real Green Revolution” (Parrott, Marsden, 2002). La peculiarità di questo approccio vuole essere, prima di tutto, culturale, poiché si propone un più globale ripensamento proprio del modo di rapportarsi alla natura e, di conseguenza, all’agricoltura. La natura deve essere considerata, al tempo stesso, instrument and aim (Scialabba, Hattam, 2002, Capitolo 2) e al coltivatore è, quindi, richiesta una strategia preventiva, ex-ante (Zappacosta, 1995), volta a massimizzare la stabilità complessiva dell’agroecosistema, molto diversa da una strategia sintomatica di correzione, ex-post, caratteristica della prospettiva manageriale (Zappacosta, 1995). La sola eliminazione degli inputs sintetici non consente di definire “organico” un modello agricolo, essendo necessario avviare anche una serie di attività sinergicamente connesse tra loro, secondo un approccio olistico e sistemico, in assenza del quale si può incorrere in un’effettiva diminuzione dei livelli di produttività ed accelerare una degradazione complessiva dell’ambiente (Scialabba, Hattam, 2002). I metodi organici non vogliono semplicemente offrire garanzie sulla qualità di una merce, ma proporre piuttosto una revisione dell’intero ciclo produttivo, come riconosciuto dalla stessa FAO, che afferma: «organic is a process claim rather than a product claim» (FAO, 1999a, corsivo nell’originale). L’ecosistema rappresenta il principale “input” produttivo, per questo è necessario «to work with nature to protect crops, rather than to submit to or subdue it» (Scialabba, Hattam, 2002, Capitolo 1, corsivo nostro). I quaderni del CREAM, 2004 - II 135 Allevamento degli animali e coltivazione di diverse tipologie di piante sono considerati ugualmente importanti perché parte di un ciclo virtuoso che arricchisce la biodiversità e diversifica la produzione, in netto contrasto con le monoculture della Rivoluzione Verde che avevano portato a separare nettamente queste due attività. Secondo l’IFOAM, International Federation of Organic Agriculture Movements, il principale obiettivo dell’agricoltura biologica è gestire, secondo un approccio”bio-intensive” piuttosto che “chemio-intensive”, un’azienda agricola diversificata, ma considerata come fosse un organismo vivente, un’entità individuale, all’interno di un sistema chiuso (FAO/IFOAM, 1998, p. 6,7). Hervé La Prairie, che dell’IFOAM era presidente, evidenziò come l’agricoltura biologica «cannot be considered only as a technique, but as a whole way of living and a means to increase food and quality of life» (IFOAM/FAO, 1998, p. 4). Risulta, dunque, particolarmente felice la scelta di Scialabba e Hattam, che l’hanno definita «new agrarian ethic» (Scialabba, Hattam, 2002, Abstract, corsivo nostro). Fino agli anni ‘90 la FAO non si era mai pronunciata ufficialmente in materia, sostanzialmente disinteressandosi del fenomeno. Le critiche espresse nel corso del Summit di Rio de Janeiro avevano rischiato, però, di incrinare l’immagine di questa istituzione, che, nelle sue attività aveva sempre dato pieno sostegno ai metodi, ora sotto accusa, della Rivoluzione Verde. Il tentativo di avvicinamento dell’IFOAM, avvenuto proprio in questa occasione, venne accolto, quindi, favorevolmente, sia pure con una certa cautela. I sostenitori dell’agricoltura biologica speravano, infatti, che il coinvolgimento diretto da parte di importanti agenzie internazionali, prima fra tutte la FAO, portasse al riconoscimento del grande potenziale di questo approccio alternativo nel risolvere una serie di problemi fortemente interrelati tra loro, in modo che, a lungo termine, anche gli stati nazionali si sentissero incentivati a promuoverne la diffusione (Parrott, Marsden, 2002, p. 99). La FAO, da parte sua, attraverso questa collaborazione, ebbe l’occasione per estendere la sua funzione normativa anche su questo settore, inizialmente trascurato, aumentando il proprio prestigio e migliorando la sua immagine internazionale. In generale, la centralità assunta dai risvolti economici dell’agricoltura biologica ha portato a trascurare completamente le più profonde motivazioni etiche e sociali di questo approccio. Molti sostenitori del I quaderni del CREAM, 2004 - II 136 biologico, infatti, rifiutano non solo un sistema agricolo, ma un intero modello culturale, quello stesso modello, basato sulla centralità della produttività e del profitto, che ha legittimato i metodi della Rivoluzione Verde (Shiva, 1998, 2001, 2002). La FAO, ovviamente, non raccoglie queste istanze più critiche, limitandosi a considerarla come «one of the alternatives for sustainable agriculture» (FAO/IFOAM, 1998, p. 4). Non un cambio di paradigma, dunque, ma solo una delle possibilità per ottemperare alle nuove esigenze ambientali espresse a Rio de Janeiro. Questo nuovo approccio, infatti, non viene proposto tanto come strumento veramente innovativo, in grado di garantire direttamente il sostentamento della popolazione tramite una produzione alimentare sostenibile e di qualità, ma come un’opportunità che solo indirettamente garantisce la sicurezza alimentare, poiché permette ai produttori di avere a disposizione un surplus di reddito, derivante dai prezzi maggiorati dei prodotti biologici, che può essere speso nell’acquisto di cibo. La sicurezza alimentare, infatti, non è necessariamente equiparata ad una forma di autosufficienza, ma può essere garantita anche attraverso delle entrate adeguate che permettano l’acquisto di beni primari. Il processo di istituzionalizzazione dell’agricoltura biologica può essere, dunque, interpretato come una forma di cooptazione del dissenso entro strategie d’azione consolidate, basate su standards restrittivi, funzionali alle esigenze del mercato. La burocratica definizione di regole e procedure diventa l’aspetto prioritario, contribuendo a legittimare, in questo modo, l’esistenza stessa di una grande istituzione internazionale come la FAO, preposta al ruolo di garante imparziale, nonostante il suo operato sia evidentemente coerente rispetto al dominante paradigma “sviluppista”, di stampo occidentale. L’agricoltura biologica si riduce a mero problema tecnico, senza che venga colta la radicale alterità di questa prospettiva olistica, basata sulla stretta interconnessione tra uomo e natura. La FAO, quindi, sembra concepire questo approccio come un insieme di strategie gestionali, che, utilizzate contemporaneamente, garantiscono i benefici di un marchio distintivo sul mercato, ma che, in alternativa, possono essere anche combinate con i metodi convenzionali. La certificazione dei prodotti rappresenta, dunque, un momento molto delicato e importante, perché è solo attraverso questo strumento che si può garantire un incremento nel valore del prodotto organico, premiato dal prezzo di vendita, ma può anche costituire una barriera inI quaderni del CREAM, 2004 - II 137 sormontabile all’ingresso nel mercato di molti produttori. Secondo la FAO, il riconoscimento internazionale del suo Codex Alimentarius Guidelines for the Production, Processing, Labelling and Marketing of Biologically Produced Foods, approvato nel giugno 1999, poi aggiornato nel 2002, permetterebbe di stabilire un’equivalenza tra gli standards delle diverse nazioni, armonizzando la situazione internazionale (FAO, 2000). Una maggiore omogeneità nelle regole ha, certo, risvolti positivi, ma, in generale, equiparare la risoluzione delle problematiche ambientali alla sola definizione di limiti e standards comuni non è sufficiente, né auspicabile. L’ambiente, secondo questo approccio, continuerebbe ad essere riproposto solo come problema tecnico di competenza degli esperti, privo di implicazioni sociali e culturali più profonde. Secondo Bresso il mondo occidentale è vittima di un’assuefazione perversa alla dominanza assoluta del prodotto interno lordo, di cui occorre liberarsi prima di tutto sul piano culturale. La sfida della sostenibilità non si gioca, quindi, solo sul piano economico-produttivo, ma implica, soprattutto, una modifica profonda della cultura e degli stili di vita, cioè delle relazioni che si stabiliscono tra gli uomini e tra questi e il resto del mondo vivente. L’obiettivo deve essere, dunque, costruire un sapere condiviso, meno funzionale alla produzione di beni e più attento ad assicurare il consolidamento di relazioni simmetriche tra tutti le componenti dell’ecosistema (Bresso, 1996, p. 82). In questo modo si realizza quella “sostenibilità forte” che non significa solo garantire ai posteri un livello di benessere materiale pari a quello sperimentato nel momento attuale, come afferma chi sostiene un’idea “debole” di sostenibilità, ma significa, soprattutto, allargare il concetto di “responsabilità” alle altre specie viventi, riconoscendone anche il solo valore di esistenza (Bresso, 1996, p. 79). Non si vuole negare l’importanza di attuare opportuni approfondimenti su aspetti particolari di questa complessa problematica, ma la divisione dell’ambiente in singoli settori di intervento, focalizzando l’attenzione separatamente su acqua, suolo o foreste, legittima un’immagine frammentaria di ciò che, invece, è intrinsecamente un tutt’uno, comprendente anche l’uomo stesso. L’artificiosa separazione tra uomo e natura non permette di cogliere allo sguardo “disincantato” (Latouche, 1999) dell’esperto occidentale l’importanza che talune categorie ecologiche assumono nella cultura di I quaderni del CREAM, 2004 - II 138 molti gruppi sociali (Van Aken, 2001). A questo proposito il sapere antropologico potrebbe offrire un contributo interessante per capire i significati attribuiti dalle persone al mondo naturale di cui hanno esperienza, analizzando anche come tali categorie ecologiche, nel contatto forzato che avviene durante un progetto di sviluppo, si trasformino in seguito all’influenza esercitata dalle categorie della scienza occidentale, che trasforma la “natura” nel neutro e funzionale concetto di “ambiente”. L’obiettivo pare essere, dunque, la ricerca di un equilibrio parziale, in continua ridefinizione, tra le regole imposte dall’ecomanagement globale e la considerazione delle peculiarità culturali e ambientali dei singoli contesti locali. Non bisogna, infatti, dimenticare che la definizione di limiti e standards si basa su valutazioni che hanno un’ineliminabile componente soggettiva, in quanto ogni esperto è in grado di vedere solo quello che il suo paradigma teorico gli permette di considerare rilevante. I problemi, anche se definibili in termini scientifici, non possono essere risolti esclusivamente entro tale ambito. Le questioni ambientali, infatti, sono il prodotto di un’intricata e complessa rete di relazioni tra fenomeni fisici e azioni antropiche (De Marchi, 2001, p. 68). Bibliografia Adams W.M., 1990, Green development. Environment and sustainability in the Third World, London, New York, Routledge. Altieri M., 1995, Escaping the treadmill, in Ceres 154, The green revolution revisited: new needs, new strategies, vol.27, n. 4. http://www.fao.org/docrep/v6640e/v6640e00.htm Barbour I. G., 1998, Ambiente e Uomo, in Tallacchini M. (a cura di), Etiche della terra, Milano, Vita e Pensiero (ed. or. 1978, Environment and Man, in Warren T, Reich (ed. in chief) The Encyclopedia of Bioethics, New York-London, The Free Press, Collier Mac Nillan, pp. 366-74). 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