deliri culturali

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Maria Luisa ManisCaLCo
ELisa PELizzari
(a cura)
DELIRI CULTURALI
sETTE, FonDaMEnTaLisMi rELiGiosi,
PraTiCHE saCriFiCaLi, GEnoCiDi
Prefazione di GoFFrEDo BarToCCi
ESTRATTO:
INDICE, INTRODUZIONE, AUTORI
L’Harmattan italia (sett. 2016)
via Degli artisti 15 ‒ 10124 Torino
[email protected]
INDICE
Prefazione,
Goffredo Bartocci
Introduzione,
Maria Luisa Maniscalco, Elisa Pelizzari
Il paradigma della violenza nei reati culturali,
simone Borile
Il canto delle sirene. Narrazioni jihadiste,
dinamiche settarie e processi di radicalizzazione,
Maria Luisa Maniscalco
Il sacrificio alle radici della logica religiosa.
Una lettura dell’islam in Africa occidentale,
Elisa Pelizzari
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60
La violenza genocidaria oltre la dimensione culturale.
Il caso dei Guarani Kaiowá del Brasile,
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Maria stefania Cataleta
Tecniche di trascendenza, deliri culturali
e deterioramento dell’Io,
Goffredo Bartocci, Donato zupin
Gli autori
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INTRODUZIONE
Maria Luisa ManisCaLCo, ELisa PELizzari
il volume intende analizzare il tema della violenza culturale, una questione di stretta attualità e dalle molteplici espressioni, spesso oggetto di semplificazioni giornalistiche.
Da tempo, la rilevanza della cultura e del suo potere strutturante sui singoli e sulle comunità viene riconosciuta, nondimeno un’interpretazione del suo ruolo nelle dinamiche
della violenza, della crudeltà e nella “costruzione” del Male
non è ancora giunta a piena maturazione. D’altronde non è
agevole penetrare il senso che la violenza esprime nei suoi
legami con la dimensione culturale e, di conseguenza, la tentazione di “naturalizzarla” si presenta come scappatoia dalle
difficoltà euristiche, quando non addirittura strategia di giustificazione e di occultamento dei suoi significati culturali e
politici.
indipendentemente dalle basi biologiche e istintuali dell’aggressività, la violenza che si manifesta nella vita comunitaria è il prodotto storico della cultura: questa forgia personalità e comportamenti attraverso l’educazione e la socializzazione. specifiche pratiche si comprendono solo sulla base di
precisi codici che vanno contestualizzati e storicizzati; per
esempio, la classica differenziazione tra violenza espressiva
e violenza strumentale – la prima intesa come comportamento che sembra non avere altro fine se non la violenza stessa,
la seconda orientata invece ad uno scopo e volta al raggiungimento di obiettivi predeterminati, come lo status sociale o
il denaro – non ha oggi più molto senso. si pensi ai massacri
compiuti dal terrorismo jihadista: ci si trova in presenza di un
tipo di azione strumentale e, insieme, simbolica, in un complesso campo performativo. Gli aspetti espressivi e comunicativi di una violenza dettata dalla rabbia e dall’ostilità nei
confronti della vittime, con l’obiettivo di umiliarle e di farle
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soffrire, si mescolano con scopi che vanno oltre il danno
emergente dal singolo evento, mirando a produrre instabilità
politica, sociale e morale.
C’è inoltre il desiderio di affermazione, attraverso la paura,
di un nuovo attore collettivo, con una precisa identità culturale che, in luogo di essere in via di scolorimento, intende
mostrare tutta la sua vitalità e il suo desiderio di affermazione. La dinamica non è nuova: un’incertezza identitaria, simile a quella che il jihadismo contemporaneo teme e intende
negare con forza, attraverso il richiamo alle origini e con
l’imposizione sanguinaria delle sue regole, ha giocato un
ruolo importante nelle violenze estreme – etniche e genocidiarie – dei diversi conflitti degli ultimi decenni del XX secolo (si pensi alla regione dei Grandi Laghi in africa, con il
massacro dei tutsi e degli hutu moderati, alle “pulizie etniche” delle guerre balcaniche o alle carneficine tra indù e sikh
in india).
il legame tra la cultura e la violenza appare altresì evidente quando i suoi dettami conducono ai delitti “intimi”, di
prossimità, dove l’esplosione di ordinaria follia che, nelle
nostre società, coinvolge una sola persona, diventa crimine
culturale, cioè azione normata da un codice morale e la cui
responsabilità va oltre il singolo, per presentarsi come scelta
imposta da una comunità.
se pressoché tutte le culture prevedono espressioni precostituite di violenza, all’interno delle quali s’incanalano il
disagio e la distruttività degli individui, talvolta, la violenza
si fa paradigma sociale, ideale formativo del soggetto e, persino, regola etica, come dimostrano alcuni casi discussi nel
volume (e come lo è stato nei totalitarismi che hanno insanguinato il “secolo breve”).
Muovendosi in controtendenza al ricorso a slogan ed etichette preconfezionate, nelle pagine che seguono, ogni autore si sforza di offrire un contributo originale all’argomento
trattato, affrontandolo in un’ottica scientifica, a partire dalla
disciplina che più gli è congeniale. Passando da un capitolo
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all’altro, si spazia dunque dall’antropologia, alla sociologia,
dal diritto alla psichiatria. ovvio, i singoli saggi non pretendono di esaurire la problematica generale ma, più modestamente, di aggiungere un tassello a un mosaico ancora da
completare. Quest’ultimo ingloba eventi recentissimi, sviluppi storici inattesi e un bisogno diffuso di capire, cioè di entrare nella logica di atti (non di rado efferati), commessi nel
nome di Dio, di un’identità etnica o di un’ideologia.
in tale visione, la nozione di DELirio CuLTuraLE emerge
come chiave interpretativa trasversale, capace di riunire prospettive di studio diverse, che si applicano a realtà quali le
sette, i fondamentalismi religiosi, le pratiche sacrificali ed
educative marcate dal confessionalismo, le politiche genocidarie. Da un lato, il termine “delirio” non si riferisce, infatti,
al solo ambito clinico, ma ha una valenza più ampia ed è in
grado di riflettere tutto lo sconcerto che determinati fenomeni suscitano in chi li osserva; dall’altro, il termine “culturale”
rivela la matrice di comportamenti che s’iscrivono in una
dinamica collettiva di appartenenza.
riprendiamo qui di seguito, in maniera sintetica, quanto
ciascun autore ha apportato alla discussione.
nel suo saggio, intitolato iL ParaDiGMa DELLa VioLEnza nEi
l’antropologo Simone Borile apre il dibattito sul piano metodologico, indicando alcuni punti-chiave.
Definisce, in primo luogo, le strutture simboliche cui si
appellano, non sempre in maniera consapevole, gli individui
nel loro agire e spiega come, per azione culturale, “s’intenda
un atto compiuto e realizzato da un singolo, ma che esprime
un passato esperienziale collettivo” tramandato nel seno di
un certo gruppo. Da ciò, “nasce un’azione che trascende il
tempo e lo spazio” e che manifesta “l’attaccamento al proprio
patrimonio culturale”, di solito “congiunto all’opinione
secondo cui gli esterni – i non appartenenti al quadro considerato – si collocano in una posizione di degrado e inferiorità”. È dunque la dialettica dell’incontro/scontro fra culture a
essere in gioco nelle forme di violenza di tipo culturale.
rEaTi CuLTuraLi,
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rispetto a contesti compositi, come quelli della migrazione,
Borile parla poi di “dissonanza cognitiva”, per identificare la
problematica della “non condivisione di schemi valoriali”,
fonte, per il singolo (il migrante, nella fattispecie), di disagio e
“conflitto interno”, al quale questi cerca di sfuggire ricorrendo
ad “azioni volte a reperire soggetti [compatrioti, confratelli
nella fede, compagni di sventura] con cui condividere i propri
assiomi culturali e punire coloro che disattendono modelli ritenuti corretti e doverosi [il mondo circostante, gli infedeli,
ecc.]”. su tale attitudine, volta a “ridurre la dissonanza”, sembrerebbero basarsi i “reati culturalmente orientati”.
nel ricco contributo
iL CanTo DELLE sirEnE. narrazioni
jiHaDisTE, DinaMiCHE sETTariE E ProCEssi Di raDiCaLizzazio-
nE, la sociologa Maria Luisa Maniscalco spiega che, per esaminare certi fenomeni, bisogna ricorrere a modelli multidimensionali, con particolare attenzione allo sfondo ideologico.
Tale esigenza s’impone, con forza, qualora si voglia comprendere, nel seno dell’islam odierno, la corrente del neosalafismo rivoluzionario (da distinguere dal wahabismo pietista) e la nascita di un fantomatico califfato, fra l’iraq e la
siria, ad opera del movimento combattente Daesh.
Qui, la creazione di uno stato confessionale s’identifica non
solo con l’applicazione della sharia, ma con l’ideale assoluto di costruire una “società veritiera”, appoggiandosi su una
dottrina-shock e sulla spettacolarizzazione della violenza.
Elementi apocalittici, aspirazioni escatologiche, esaltazione
del martirio sono sfruttati da una propaganda multilingue che
invita i seguaci, cioè “i musulmani perseguitati del mondo
intero”, a lottare per erigere un territorio a loro misura, in cui
possano finalmente “sentirsi a casa”.
insomma, l’islam radicale ventila ai giovani jihadisti, in
Europa come nel Maghreb e nel Mashreq, “l’acquisizione di
un’identità forte” e al contempo “insofferente al pluralismo
delle credenze”: invita, cioè, ad assumere posizioni di rottura nei confronti di società occidentali e filo-occidentali considerate come malate, per abbracciare un mondo nuovo ed
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esclusivo, quello della umma, che si configurerebbe a immagine e somiglianza (presunte) della comunità fondata dai
primi discepoli del profeta Maometto.
in realtà, per i giovani jihadisti europei, conclude
Maniscalco: “l’esibizione di una personalità potente [quella
del fedele integerrimo] e il fascino per la propria morte [il
martirio cui si votano i combattenti di Dio] nascondono un
inaridimento della soggettività, legato al progressivo smarrirsi dell’identità individuale”.
un altro saggio affronta la delicata questione delle derive
violente legate alla fede musulmana, quello dell’antropologa
Elisa Pelizzari, intitolato iL saCriFiCio aLLE raDiCi DELLa
LoGiCa rELiGiosa. una LETTura DELL’isLaM in aFriCa oCCiDEnTaLE che s’impegna nella complessa analisi di un fenomeno antico e inquietante per la sua ricorrenza: l’immolazione e l’auto-immolazione su base religiosa. nel composito
quadro di alcuni paesi africani, differenti realtà – le scuole
coraniche informali in Mali e in senegal, il movimento jihadista Boko Haram in nigeria – come diverse figure – marabouts, talibés, mujahid e shahiid – risultano accomunate
dalla forza e dal fascino “suscitati dal ricorso ambiguo al
sacrificio in nome di Dio”.
il discorso di Pelizzari, basato su ricerche sul campo condotte per diversi anni, si snoda lungo vari passaggi, ognuno
dei quali ricco di suggestioni. Dopo una definizione teorica
del concetto di sacrificio, questo viene applicato a usanze diffuse nei contesti culturali dell’area sahelo-sahariana. Qui, una
pedagogia della sofferenza a fondamento dei percorsi educativi degli allievi delle scuole coraniche informali e un insieme
di pratiche sacrificali sembrano convivere, senza particolari
attriti, con la diffusione, ormai capillare, dell’islam. Entrambi
sono considerati modalità di accesso al sacro che obbediscono ai principi trascendenti reggenti l’universo. il sacrificio, in
ogni suo aspetto e grado, s’iscrive in una logica di richiesta
di aiuto e trova i suoi officianti in figure carismatiche dotate
di conoscenze esoteriche (i marabouts). i giovani talibés
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(allievi coranici) si sottopongono, con umiltà, a un cammino
doloroso sotto la promessa di ottenere la “benedizione-investitura” dal maestro, di cui temono – tra l’altro – la capacità
di effettuare atti di stregoneria.
siffatto clima culturale si pone alla base della disponibilità
alla seduzione della morte e della vocazione al “martirio”,
inteso come passaggio e come trasformazione. Emergono
“elementi di un inatteso parallelismo fra la visione dell’islam
veicolata in alcune scuole coraniche informali e quella difesa
dai seguaci del salafismo combattente” che permettono di
“leggere l’ingaggio degli (ex) talibés nelle fila di Boko
Haram non tanto in termini di una forzatura esercitata su
menti immature, ma come conseguenza del crescere in un
sistema socioculturale forgiato in un modo che rende, per
certuni, l’opzione del martirio un’insperata occasione di
riscatto”.
La giurista Maria Stefania Cataleta, autrice di La VioLEnza
GEnoCiDaria oLTrE La DiMEnsionE CuLTuraLE. iL Caso DEi
s’interroga sulla possibilità di
applicare il crimine di genocidio al vissuto di una popolazione autoctona del Mato Grosso, vittima – da decenni – di
soprusi, stupri, omicidi efferati a carattere rituale e minacce
da parte di milizie armate, che agiscono su pressione delle
lobbies latifondiste e delle grandi compagnie di sfruttamento
delle materie prime.
a livello della giurisprudenza internazionale, il crimine di
“genocidio” è disciplinato dalla Convenzione del 9-12-1948,
adottata dall’assemblea delle nazioni unite; tale documento
non nomina però l’“aspetto etnico-culturale”; così i massacri
dei khmer rossi in Cambogia e i crimini commessi in Darfur
non sono stati considerati genocidi, ma solo crimini contro
l’umanità “proprio perché le vittime sono state scelte sulla
base della loro caratura sociale e culturale”. si tratterebbe
allora, secondo l’ipotesi avanzata da Cataleta, rispetto al caso
dei guarani kaiowá, d’inserire il tentativo di eliminazione di
questo popolo – minaccia tangibile cui il governo nazionale
Guarani kaioWá DEL BrasiLE
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del Mato Grosso e quello federale del Brasile non sembrano
prestare sufficiente attenzione – nella fattispecie del “genocidio etnico”. resterebbe comunque, sul piano legale, la difficoltà di circoscrivere in modo efficace la nozione di “gruppo etnico” e quella della “volontà di distruggerlo in toto”,
dopo averlo reso oggetto di un processo di lenta e inesorabile “disumanizzazione”.
Già dal titolo del loro contributo, TECniCHE Di TrasCEnDEnza, DELiri CuLTuraLi E DETErioraMEnTo DELL’io, gli psichiatri e psicoterapeuti Goffredo Bartocci e Donato Zupin sottolineano come esista una serie di operazioni mentali e di comportamenti suscettibile di agevolare l’acquisizione di “stati
di coscienza non ordinari”. Gli autori mettono così a fuoco
gli esiti del ricorso a “procedure intra ed extra-canoniche di
distacco dal mondo esterno”. Queste sono talvolta attuate
dagli individui in maniera spontanea oppure vengono addirittura prescritte e regolate, nel loro svolgersi, dalle norme della
cultura di appartenenza.
Purtroppo, lamentano Bartocci e zupin, in ambito clinico,
problematiche del genere non hanno ancora trovato un giusto
approfondimento, nonostante lo studio di tali fattori di ordine religioso, con le relative ricadute sulla psiche umana e sui
comportamenti delle persone, si riveli di stretta attualità.
il loro sforzo di chiarificazione a livello teorico e pratico
appare, dunque, prezioso. i due autori propongono, infatti,
una definizione del concetto di “delirio culturale” che agevola la lettura globale di fenomeni ancora oggetto di controversia fra gli studiosi. scrivono nel loro saggio: “con il termine ‘deliri culturali’, ovvero ‘credenze indimostrabili’, non
convalidabili, immodificabili nonostante la scarsissima adesione alla realtà, ci riferiamo a strutture culturali favorenti la
radicalizzazione di forme estreme di detachment, a cui possono conseguire i deliri propriamente detti, descritti dalla clinica psichiatrica. Le neuroscienze hanno dimostrato come il
nostro cervello non sia un organo statico e immodificabile,
ma risenta delle influenze ambientali e delle esperienze vis15
sute Dal momento in cui la cultura è una delle principali
determinanti del mondo in cui viviamo, alcuni suoi assi portanti vengono interiorizzati a livello psichico e incidono sulla
conformazione dei distretti neurali. La disposizione dei circuiti neuronali costituisce così una sorta di schema preformato, una lente già data attraverso la quale vengono letti i
fatti della vita quotidiana. Gli elementi culturali, in altre parole, svolgono la funzione di una sorta di diapason che può far
prendere alla rappresentazione tinte precostituite”.
i saggi qui presentati, nel comune sforzo di comprensione
e naturalmente, come abbiamo detto, con il patrimonio d’idee, concetti, strumenti e metodi propri delle singole tradizioni intellettuali, bene illustrano la complessità dei legami
esistenti tra la violenza e la forza evocativa della cultura.
Queste due dimensioni appaiono connettersi attraverso una
“causalità circolare”, in cui moventi ed effetti disegnano
complessi sistemi di dipendenza reciproca. Tra logica degli
eventi e logica dei modelli interpretativi, gli scritti evidenziano come credenze, teorie, narrazioni e miti costituiscano elementi performativi di cui è necessario tenere conto, dal
momento che, come mostra drammaticamente l’attualità, la
razionalizzazione sociale e tecnologica non solo non li ha
espulsi dalla vita collettiva, ma ne è stata ibridata, di fatto
potenziandoli fino agli esiti più estremi.
Gli autori del volume si augurano di offrire analisi, riflessioni e suggerimenti utili sia all’approfondimento di fenomeni sui quali è necessario continuare a interrogarci, sia alle
prassi professionali di chi, con molti di questi fenomeni, si
misura quotidianamente.
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GLI AUTORI
Goffredo Bartocci è psichiatra e psicoanalista (roma). Fellow della
organizzazione Mondiale della sanità presso il Tavistock institute
(Londra), ha condotto ricerche sul campo fra i popoli bantu in sudafrica
e gli aborigeni del deserto centrale australiano. Ha pubblicato numerosi
contributi scientifici in italiano e in inglese su volumi e riviste, affrontando da varie angolature le prospettive offerte dalla psichiatria culturale
nella pratica clinica. in italia, ha pubblicato: Psicopatologia, cultura e
pensiero magico (Liguori), Psicopatologia, cultura e dimensione del
sacro (Eur), Il mondo delle intenzioni: l’incontro transculturale fra il
Medicine Man e il doktor Freud (Liguori), Il soffio delle intenzioni: riflessioni in forma di favola sui massimi sistemi, per vivere felicemente con
popolazioni aliene (L’Harmattan italia), ha curato l’edizione in lingua italiana del Handbook of Cultural Psychiatry di Wen shing Tseng (CiC
Edizioni) ed è autore dell’art. “réflexions sur spiritualité, religion et
psychiatrie” apparso sull’Encyclopédie médico-chirurgicale / Psychiatrie
(vol. 10, n. 1, 2013). Ha maturato una notevole esperienza clinica come
direttore dell’unità di Psichiatria Transculturale dell’asL roMa. Come
presidente della sezione speciale di Psichiatria transculturale della
società italiana di Psichiatria, presidente della Transcultural Psychiatry
section della World Psychiatric association e fondatore della World
association of Cultural Psychiatry ha organizzato numerosi convegni
internazionali. attualmente, è presidente dell’istituto italiano di igiene
Mentale Transculturale ed è responsabile della rivista on line Psichiatria
e Psicoterapia Culturale.
Simone Borile insegna antropologia della violenza presso il corso di studi
in Mediazione Linguistica CiELs di Padova. È direttore della scuola
superiore per Mediatori Linguistici CiELs di Padova, Gorizia, Mantova
e Milano. Dal 2013 ricopre la carica di direttore dell’osservatorio
nazionale di antropologia applicata. È presidente della Rivista Italiana
di Antropologia Applicata. Ha pubblicato diversi saggi, articoli e monografie sulla sicurezza sociale e sulla violenza culturale.
Maria Stefania Cataleta, PhD, LLM, è avvocato a roma e presso le giurisdizioni penali internazionali. Ha ottenuto il dottorato in Diritto in
Francia e in scienze Politiche in italia. Laureata, nel 2013, all’université
La sorbonne (Paris) del « Premio per la migliore comunicazione in diritto costituzionale », è stata la prima donna italiana ad essere ammessa tra
gli avvocati della Corte Penale internazionale dell’aia, del Tribunale speciale per il Libano, del Tribunale Penale internazionale per il ruanda,
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nonché delle Camere straordinarie presso le Corti della Cambogia. È
autrice di numerosi articoli scientifici e delle monografie Le Tribunal special pour le Liban et le respect des droits de l’homme (2012), Les droits
de la défense devant la Cour Pénale Internationale (2016).
Maria Luisa Maniscalco, già professore ordinario di sociologia
all’università roma Tre, è direttore di ricerca presso il jean Monnet
Centro di Eccellenza “altiero spinelli” (università roma Tre) e responsabile del settore politico-sociale del Master “sicurezza internazionale,
strategie Globali e Maxi-Emergenze sanitarie” (Facoltà di Medicina,
università Tor Vergata). all’università roma Tre è stata presidente del
corso di Laurea Magistrale in “relazioni internazionali”, coordinatore del
Dottorato di ricerca in “studi di genere” e, per quindici anni, ha diretto il
Master in Peacekeeping & Security Studies. È stata Dean della Facoltà di
security sciences del “Multinational intelligence studies Campus of
Lugano (switzerland)”, consulente scientifico per lo stato Maggiore
dell’Esercito italiano e vice-presidente del Comitato “Diritto umanitario”
della Croce rossa italiana. Ha diretto progetti di ricerca nazionali e internazionali, finanziati da diversi enti, tra cui il Ministero della Difesa e ha
insegnato all’università in italia e all’estero, in scuole Militari e di
Polizia. Membro di numerosi comitati scientifici di fondazioni e istituti di
ricerca, tra cui l’“Euro-arab institute for the Dialogue between Cultures”
(roma-Tunisi), è direttore della collana “Contemporanea. sfide sociologiche e ricerca sociale” presso CEDaM. È autrice di oltre venti volumi e
di circa duecento saggi, alcuni dei quali pubblicati in inglese, francese,
polacco e arabo. Tra i suoi volumi più recenti: Voies et voix de l’islam
européen (2014); Sahel in movimento Nuove soggettività sociopolitiche
tra globale e locale (2014), Answering the Challenges of Dialogue (con
abdouli e Moccia) (2014).
Elisa Pelizzari (Torino, 1963), laurea in scienze politiche all’università
di Torino, Ph.D. in antropologia sociale e etnologia all’École des Hautes
Études en sciences sociales di Parigi (dir. di ricerca: Marc augé).
Coordina dal 1995 la casa editrice L’Harmattan italia (Torino). Ha condotto, fra il 1987 e il 2016, missioni di ricerca in somalia, Etiopia, kenya,
Mali e senegal. È attualmente docente a contratto di “antropologia della
violenza” presso il CiELs (istituto ad ordinamento universitario), sedi di
Milano e Padova. Fra le sue pubblicazioni: Enfance et sacrifice au
Sénégal, Mali, Gabon, (in co-curatela con omar sylla), 2014; La transmission du savoir islamique traditionnel au Mali (in co-curatela con
omar sylla), 2012; “Partecipazione politica e costruzione sociale:
l’africa al femminile”, Inchiesta n. 161, 2008; Possession et thérapie
dans la Corne de l’Afrique, 1997. Collabora col mensile Nigrizia e il quotidiano Il Manifesto.
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Donato Zupin è psichiatra e psicoterapeuta; si è formato a roma, Firenze
e Trieste. Dopo un periodo di approfondimento degli studi di psicopatologia fenomenologica, si occupa ora principalmente di ricerca in psichiatria e psicoterapia culturale. Membro attivo dell’istituto di igiene Mentale
Transculturale e della World association of Cultural Psychiatry, è assistente al direttore nella Rivista di Psichiatria e Psicoterapia Culturale e
tesoriere della sezione Transculturale della società italiana di Psichiatria.
È dirigente medico presso la sC Dipendenze dell’aas2 del Friuli
Venezia Giulia.
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