Gennaio-Giugno 2010 • Vol. 40 • N. 157-158 • Pp. 1-45 editoriale Malattie rare e farmaci non orfani Infettivologia (a cura di P.-A. Tovo) Malattie infettive emergenti in età pediatrica: uno scenario in continua evoluzione Volume 40 157-158 Gennaio-Giugno 2010 Ricadute pratiche della resistenza agli antibiotici dei più comuni patogeni respiratori Nuovi markers di infezione batterica: utilità clinica in età pediatrica Ematologia (a cura di R. Galanello) Recenti progressi in ematologia pediatrica Le neutropenie congenite in pediatria. Novità e aggiornamenti Nuovi farmaci ferrochelanti e nuove strategie di ferro chelazione nella talassemia major Frontiere (a cura di A. Cao, L.D. Notarangelo, A. Iolascon) Il ritardo mentale associato al cromosoma X Pacini Editore Medicina Periodico trimestrale POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 conv.in L.27/02/2004 n°46 art.1, comma 1, DCB PISA Aut. 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Via Gherardesca, 1 56121 Pisa Tel. 050 313011 - Fax 050 3130300 [email protected] Volume 40 157-158 Gennaio-Giugno 2010 Stampa Industrie Grafiche Pacini, Pisa Invio gratuito per i Soci SIP. Abbonamenti Prospettive in Pediatria è una rivista trimestrale. I prezzi dell’abbonamento annuo sono i seguenti: Italia € 54,00; estero € 68,00; istituzionale € 54,00; specializzandi € 30,00; fascicolo singolo € 28,00 Le richieste di abbonamento vanno indirizzate a: Prospettive in Pediatria, Pacini Editore S.p.A., Via Gherardesca 1, 56121 Pisa – Tel. 050 313011 – Fax 050 3130300 – Email: [email protected] I dati relativi agli abbonati sono trattati nel rispetto delle disposizioni contenute nel D.Lgs. del 30 giugno 2003 n. 196 a mezzo di elaboratori elettronici ad opera di soggetti appositamente incaricati. I dati sono utilizzati dall’editore per la spedizione della presente pubblicazione. 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Pacini Editore Medicina INDICE numero 157-158 Gennaio-Giugno 2010 editoriale Malattie rare e farmaci non orfani Alberto G. Ugazio....................................................................................................................................................................................... 1 Infettivologia (a cura di Pier-Angelo Tovo) Malattie infettive emergenti in età pediatrica: uno scenario in continua evoluzione Stefania Bezzio, Chiara Bertaina, Pier-Angelo Tovo................................................................................................................................... 3 Ricadute pratiche della resistenza agli antibiotici dei più comuni patogeni respiratori Nicola Principi, Susanna Esposito........................................................................................................................................................... 10 Nuovi markers di infezione batterica: utilità clinica in età pediatrica Marta Cellai Rustici, Luisa Galli, Elena Chiappini, Maurizio de Martino................................................................................................... 15 Ematologia (a cura di Renzo Galanello) Recenti progressi in ematologia pediatrica Paolo Moi, Simona Campus .................................................................................................................................................................... 21 Le neutropenie congenite in pediatria. Novità e aggiornamenti Marina Lanciotti, Michaela Calvillo, Sonia Bonanomi, Tiziana Coliva, Fabio Tucci, Piero Farruggia, Marta Pillon, Baldo Martire, Roberta Ghilardi, Ugo Ramenghi, Daniela Renga, Giuseppe Menna, Angelica Barone, Giovanni Palazzi, Gabriella Casazza, Francesca Fioredda, Carlo Dufour........................................................................................................................................................... 28 Nuovi farmaci ferrochelanti e nuove strategie di ferro chelazione nella talassemia major Raffaella Origa, Renzo Galanello ............................................................................................................................................................ 35 Frontiere (a cura di Antonio Cao, Luigi D. Notarangelo, Achille Iolascon) Il ritardo mentale associato al cromosoma X Patrizia D’Adamo, Daniela Toniolo.......................................................................................................................................................... 41 Gennaio-Giugno 2010 • Vol. 40 • N. 157-158 • Pp. 1-2 editoriale Malattie rare e farmaci non orfani Nel 1997 si verificò una grave carenza di immunoglobuline umane per via endovenosa (IVIG). Colpì soprattutto il mercato statunitense ma finì col coinvolgere anche i Paesi europei e, in misura dal più al meno rilevante, tutti i continenti. Le immunoglobuline umane erano state introdotte in terapia nel 1952 da Ogden Bruton che aveva descritto quell’anno il primo deficit primitivo dell’immunità, l’agammaglobulinemia di Bruton o XLA (X-Linked Agammaglobulinemia). Bruton non si limitò a osservare che questi pazienti non sono in grado di produrre gammaglobuline; riuscì anche a sostituirle iniettando un emoderivato che qualche anno prima, nel 1946, Edwin Cohn aveva ottenuto mettendo a punto il frazionamento alcolico del plasma: la frazione IIa, ricca appunto di gammaglobuline. Il trattamento con immunoglobuline umane rimane a tutt’oggi l’unico in grado di garantire la sopravvivenza dei soggetti affetti da agammaglobulinemie congenite, un gruppo di malattie rare che comprende, oltre alla XLA, altre malattie genetiche accomunate dalla incapacità del sistema immunitario di produrre anticorpi. Perché si verificò la crisi del 1997? Anzitutto era andata gradualmente aumentando la domanda di IVIG. Era diventato evidente che molti pazienti sottoposti a trapianto di cellule staminali ematopoietiche o a terapie immunosoppressive avevano bassi livelli di immunoglobuline sieriche e che li si poteva proteggere con la somministrazione di IVIG. Non solo. Nel 1981, Imbach aveva dimostrato che nei pazienti con porpora trombocitopenica idiopatica (PTI), la somministrazione di alte dosi di IVIG portava ad una rapida normalizzazione del numero di piastrine circolanti. Ma al contempo si era verificata l’epidemia di HIV, si era manifestata la pericolosità dell’HCV e della variante umana della malattia di Creutzfeld Jakob, tutte trasmissibili con il sangue e gli emoderivati. Le autorità regolatorie statunitensi reagirono imponendo una serie di misure precauzionali per la produzione e il controllo degli emoderivati che fecero salire notevolmente i costi di produzione. Molti produttori chiusero gli impianti e la crisi divenne inevitabile. Si risolse nel giro di qualche anno grazie alla evoluzione tecnologica dei metodi di produzione che passarono dal classico frazionamento di Cohn al frazionamento cromatografico facendo salire la resa da 3-3,5 g a 4-4,5 g di immunoglobuline per litro di plasma; un aumento di produttività superiore al 25% che permise di ridurre i costi di produzione e di far fronte alla crescita della domanda. Perché occuparsi oggi di questa vicenda ormai vecchia e apparentemente superata? Perché nel corso di questi ultimi anni la domanda ha continuato a crescere. Sono aumentate le indicazioni ed è cresciuto di conseguenza anche il timore che si finisca col non disporre delle immunoglobuline indispensabili per la sopravvivenza dei bambini agammaglobulinemici. Cresce la domanda perché le IVIG si stanno dimostrando efficaci nel trattamento di un numero crescente di malattie infiammatorie – basti per tutti l’esempio della Malattia di Kawasaki – e soprattutto nel trattamento di un gran numero di malattie neurologiche. Efficaci lo sono senz’altro nella terapia della Sindrome di Guillain-Barré e di altre polineuropatie e neuropatie motorie. Ma a suscitare le migliori speranze – e simmetriche preoccupazioni – sono i risultati ancora limitati e contraddittori ma certamente promettenti del loro impiego nel trattamento della Sclerosi Multipla e del morbo di Alzheimer. Mentre per la Sclerosi Multipla i risultati degli studi più recenti sembrano ridimensionare le aspettative iniziali, per l’Alzheimer vanno accumulandosi risultati molto promettenti. Nel 2011 si concluderà uno studio di fase III che dovrebbe fornirci prove di efficacia conclusive o quanto meno molto significative. Se questi studi dovessero provare l’efficacia delle IVIG nel trattamento dell’Alzheimer, la domanda andrebbe incontro a una impennata senza precedenti e ci troveremmo di nuovo a fare i conti con un grave problema di scarsità. È bene che lo si affronti fin d’ora anche perché il precedente del 1997 non è per nulla tranquillizzante: di fatto, le autorità sanitarie trascurarono il problema e la scarsità di immunoglobuline mise a repentaglio la vita di molti bambini – per giunta con documentate iniquità sociali – mentre proseguiva sostanzialmente inalterato un impiego anche inappropriato delle IVIG. Da tempo sono state prodotte numerose linee guida sul corretto uso delle IVIG, ad esempio nella PTI, ma è ben noto che vengono troppo spesso disattese e che il ricorso improprio a questo farmaco è molto diffuso. In vista di una possibile crisi, le autorità sanitarie debbono predisporre fin d’ora un piano di allocazione delle risorse basato sulle evidenze 1 EDITORIALE disponibili e su principi di equità. È necessario al contempo (non soltanto per le IVIG!) che a tutti i livelli della rete assistenziale vengano resi operanti gli strumenti informatici necessari per favorire e verificare l’applicazione delle linee guida. Purtroppo il livello di informatizzazione della nostra rete sanitaria è in grave ritardo rispetto all’evoluzione sociale e tecnologica della “information society”. Lo è anche rispetto a quello degli altri Paesi industrializzati. La mia convinzione è che troppo tempo e troppe risorse vengano dedicati alla stesura di nuove linee guida, spesso inutilmente ripetitive. Sarebbe meglio preoccuparsi della loro applicazione. 2 Alberto G. Ugazio Presidente della Società Italiana di Pediatria Gennaio-Giugno 2010 • Vol. 40 • N. 157-158 • Pp. 3-9 infettivologia Malattie infettive emergenti in età pediatrica: uno scenario in continua evoluzione Stefania Bezzio, Chiara Bertaina, Pier-Angelo Tovo Dipartimento di Scienze Pediatriche e dell’Adolescenza, Università di Torino Riassunto Le malattie infettive emergenti hanno un peso rilevante nell’ambito della sanità pubblica. Vengono qui analizzate alcune forme il cui scenario, in ambito pediatrico, è sensibilmente mutato in anni recenti in italia. Mentre il numero di gravide HIV+ non si è sostanzialmente ridotto, il rischio di trasmissione madre-bambino del virus è andato progressivamente diminuendo dalla seconda metà degli anni ‘90 in seguito all’utilizzo di una serie di misure preventive. Inoltre, grazie all’impiego precoce delle nuove terapie antiretrovirali la progressione della malattia si è sensibilmente attenuata. Nello stesso arco di tempo, anche l’incidenza dell’infezione perinatale da virus dell’epatite C è diminuita, ma per il minor numero di gravide infette, mentre non sono disponibili interventi preventivi. La tubercolosi ritorna in primo piano, soprattutto per i crescenti flussi migratori da paesi endemici; per quanto riguarda il suo trattamento, aumentano i ceppi di micobatteri resistenti ai farmaci tradizionali. In espansione nel nostro paese la sifilide, anche con casi di forme congenite. È quindi necessario mantenere (o riattivare) lo screening universale delle gravide per sifilide. I casi di Chikungunya osservati in Italia sono un esempio di globalizzazione di agenti infettivi e loro vettori. Aumenta il numero di bambini immunodepressi (sottoposti a trapianti d’organo o di cellule staminali o trattati con chemioterapia o con anticorpi monoclonali o farmaci biologici); con conseguente incremento delle problematiche infettive connesse; la loro gestione richiede una stretta collaborazione fra specialisti e pediatri di libera scelta. Summary Emerging infectious diseases (EIDs) represent a significant burden on global public health. Here we will consider a few EIDs whose scenario in infants and children has changed substantially in recent years in Italy. The number of HIV+ parturients has not significantly changed over time. However, the motherto-child HIV transmission rate has fallen dramatically in the last 15 years, thanks to a variety of effective preventive measures; furthermore, HIV disease progression in children has progressively decreased after the introduction of early highly active antiretroviral therapy. The incidence of perinatal HCV infection has also been decreasing, due to the lower number of infected pregnant women rather than to preventive interventions which are not available as yet. Tuberculosis has become a relevant problem in our country, following immigration flows from endemic areas and because of the increasing number of multi-drug-resistant strains. Syphilis cases have markedly increased in the new millenium, making universal screening in pregnant women, to avoid congenital syphilis, necessary. Epidemics of Chikungunya in a few Italian regions is an example of globalisation of infectious agents and their vectors. The number of children who undergo organ or stem cell transplantation or are treated with chemotherapy or immunosuppressive drugs, such as monoclonal antibody or biological drugs, has increased. This has led to a rise in the number of severe or unusual infectious diseases that need a close collaboration between specialists and family paediatricians. Introduzione Con il termine malattie infettive emergenti (emerging infectious diseases – EID) si definiscono non solo patologie infettive di recente identificazione, ma anche quelle sostenute da agenti invasivi noti che hanno mutato le loro caratteristiche usuali. Il quadro delle EID è articolato e complesso; oltre a nuovi microorganismi (ad es. febbre Lassa, Ebola, HIV, SARS) comprende anche germi rinvenuti in aree geografiche diverse da quelle originarie o di provenienza animale, ma che hanno nell’uomo un nuovo ospite. Altri ancora sono diventati resistenti ad antibiotici ai quali erano tradizionalmente sensibili (ad es. Tubercolosi, Stafilococchi, Streptococchi). Rientrano anche malattie con incidenza in marcato incremento per alterazione di fattori ambientali o comportamentali, nonché patogeni che hanno sviluppato una diversa virulenza. Le EID hanno un peso rilevante nell’ambito nella sanità pubblica. La loro frequenza è aumentata nella seconda metà del XX secolo, raggiungendo il picco negli anni ‘80, verosimilmente a seguito della diffusione dell’HIV. A partire dalla seconda guerra mondiale il 60% delle EID descritte (> 300) sono zoonosi, più di un terzo delle quali è dovuto a patogeni presenti nell’ambiente rurale; rispetto a precedenti valutazioni, che ritenevano i virus i maggiori responsabili, in oltre la metà degli eventi gli agenti etiologici sono risultati batteri o rickettsie (Jones et al., 2008). Oltre alle mutazioni e ricombinazioni dei microorganismi, altri fattori hanno sensibilmente influenzato l’evoluzione delle EID; fra questi rientrano la globalizzazione e la crescita demografica, l’urbanizzazione e lo sfruttamento del territorio. I cambiamenti ambientali, quali le variazioni nella piovosità, temperatura ed umidità, che hanno determinato ad es. la tropicalizzazione del clima alle latitudini intermedie, hanno ampliato l’habitat di alcuni patogeni. Obiettivo della ricerca Essendo dispersivo e di scarso interesse analizzare tutte le malattie infettive emergenti o ri-emergenti, prenderemo qui in considerazione solo alcune di quelle con maggiori implicazioni in ambito pediatrico, soprattutto quelle che hanno recentemente mostrato variazioni significative nel nostro paese. Metodologia della ricerca La ricerca degli articoli rilevanti sulle EID in età pediatrica è stata effettuata utilizzando diversi motori di ricerca: 3 S. Bezzio et al. • PubMed: parole chiave “emerging infection disease and children”. Sono stati utilizzati i seguenti filtri “all child” e “publication from 1/01/2005 to present”. • Per le linee guida sull’HIV è stato utilizzato il sito internet www. aidsinfo.nih.gov. • Per le linee guida sulla TBC è stato utilizzato il sito internet www. who.int/en/. • Per i dati epidemiologici italiani è stato utilizzato il sito internet www.ministerosalute.it. Infezione perinatale da hIV A circa 30 anni dalla scoperta dell’AIDS, il rischio di contrarre l’infezione da HIV è ancora elevato in tutto il mondo. Ciò è dovuto al fatto che l’attenzione al problema si è ridotta ovunque, mentre cresce drammaticamente il numero di contagi da persone infette non diagnosticate. A fronte dell’incremento di nuove infezioni, si registra una costante diminuzione dei casi di AIDS. Il miglior controllo della progressione della malattia è dovuto alla disponibilità delle nuove terapie antiretrovirali combinate, che hanno trasformato la malattia in una forma ad andamento cronico, cosa valida anche in età evolutiva (Chiappini et al., 2009). In Italia, il quadro delle persone a rischio di infezione si è sensibilmente modificato nel corso degli anni: inizialmente erano i tossicodipendenti la maggior categoria a rischio, oggi questi rappresentano poco più di un quarto dei sieropositivi, mentre la trasmissione avviene principalmente per via sessuale, sia etero (44%) che omo/bisessuale (22%) (www.ministerosalute.it). Il numero totale di bambini segnalati al Registro Italiano per l’infezione da HIV in età pediatrica dal 1984 al 2008 è stato di 9186; di questi, 8939 (97,3%) sono nati da madre sieropositiva e fra di loro 1.481 sono risultati infetti. Da notare che, mentre il numero di partorienti sieropositive si è mantenuto costante o è aumentato in anni recenti, i bambini con infezione perinatale sono nettamente diminuiti a partire dal 1994. Ciò è dovuto soprattutto all’implementazione di misure preventive in grado di bloccare la trasmissione verticale del virus. Il tasso di trasmissione dell’HIV da madre a figlio si è infatti progressivamente ridotto: dal 16,7% negli anni antecedenti il 1994 a meno del 2% negli ultimi anni. Questo fenomeno va attribuito ad una serie di misure preventive quali: 1. Il trattamento antiretrovirale durante la gravidanza. Viene oggi consigliato un regime con almeno tre farmaci, indipendentemente dalla carica virale e dal numero di linfociti CD4+. Le donne in terapia prima della gravidanza devono continuarla. La profilassi con solo zidovudina (ZDV) è controversa, ma può essere presa in considerazione quando la viremia materna è inferiore a 1,000 copie/mL. 2. Il trattamento antiretrovirale al parto. è indicata l’infusione di ZDV endovena (2 mg/kg nella prima ora indi 1 mg/kg/ora sino al termine del parto) in tutte le donne, incluse quelle in terapia antiretrovirale con tre farmaci. 3. Il taglio cesareo elettivo. La procedura è raccomandata alla 38esima settimana a tutte le gravide con viremia >1000 copie/ml (Perinatal HIV Guidelines Working Group, 2009), mentre è dubbio il beneficio qualora la viremia materna sia indosabile al parto. 4. Il trattamento antiretrovirale del neonato. È indicata una profilassi di 6 settimane con ZDV per os iniziata appena possibile dopo la nascita (Tab. I). In alcune situazioni (donne viremiche al parto oppure che hanno assunto terapia antiretrovirale solo durante il parto o in caso di resistenze virali non note) alcuni suggeriscono una profilassi con tre farmaci nel neonato (Working Group of Antiretroviral Therapy and Medical Management of HIV-infected children, 2009). 5. L’allattamento artificiale. La trasmissione post-natale del virus attraverso il latte materno è responsabile, in caso di allattamento prolungato, del 9-15% delle infezioni materno-infantili (Jackson et al., 2009). Nei paesi dove i latti formulati sono sicuri e facilmente reperibili e dove non vi è rischio di utilizzo di acqua non Tabella I. Profilassi con Zidovudina in bambini nati da madre HIV positiva. Età gestazionale mg/kg/dose per os mg/kg/dose e.v. Frequenza Settimane ≥ 35 settimane 2 1.5 Ogni 6 ore 6 30 > settimane < 35 2 1.5 Ogni 12 ore per le prime 2 settimane indi ogni 8 ore 6 < 30 settimane 2 1,5 Ogni 12 ore per 4 settimane indi ogni 8 ore 6 Tabella II. Criteri da valutare per l’inizio della terapia antiretrovirale in età pediatrica. Età <12 mesi Criteri Indipendentemente dai sintomi clinici, dai parametri immunologici o della carica virale 1-5 anni AIDS conclamato o sintomi moderati o gravi HIV correlati* > 5 anni Trattare Asintomatico o sintomi lievi* e CD4 > 25% e HIV RNA> 100.000 copie/ml Considerare il trattamento Asintomatico o sintomi lievi* e CD4 > 25% e HIV RNA< 100.000 copie/ml Non trattare** AIDS conclamato o sintomi moderati o gravi HIV correlati* Trattare CD4 < 350 cellule/mm Trattare Asintomatico o sintomi lievi* e CD4 > 350 cellule/mm3 e HIV RNA> 100.000 copie/ml Considerare il trattamento Asintomatico o sintomi lievi* e CD4 > 350 cellule/mm3 e HIV RNA< 100.000 copie/ml Non trattare** Centers for Disease Control and Prevention, 1994. Rivalutare i criteri clinici e laboratoristici dopo 3-4 mesi. ** 4 Trattare Trattare CD4 < 25% (indipendentemente dai sintomi o dalla viremia) 3 * Raccomandazioni Malattie infettive emergenti in età pediatrica potabile per la preparazione, c’è l’indicazione all’allattamento artificiale. In alcuni paesi in via di sviluppo, viste le scarse condizioni igienico-sanitarie e socio-economiche, si preferisce invece consigliare comunque l’allattamento materno (John-Stewart et al., 2009). Come accennato, grazie all’efficacia delle nuove terapie antiretrovirali, iniziate sin dalle prime epoche di vita (Tab. II), la progressione della malattia si è sensibilmente attenuata, con morbilità e mortalità nettamente diminuite (Chiappini et al., 2009; Working Group on Antiretroviral Therapy and Medical Management of HIVInfected Children, 2009). I dati del Registro italiano stimano una sopravvivenza a 13 anni del 95% nei bambini nati dopo il 1996. Il regime terapeutico consigliato include 2 inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa associati ad un inibitore delle proteasi o a un inibitore non nucleosidico della trascrittasi inversa (Working Group on Antiretroviral Therapy and Medical Management of HIV-Infected Children, 2009). Infezione perinatale da HCV Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel mondo vi sono circa 170-200 milioni di soggetti con infezione da epatite C (HCV). In Italia, la prevalenza degli infetti aumenta progressivamente con l’età e procedendo da Nord a Sud. La distribuzione per età suggerisce un probabile effetto coorte, per cui oggi osserviamo gli esiti di un’epidemia avvenuta tra gli anni ’50 e l’inizio degli anni ’80. Successivamente, l’incidenza dell’infezione da HCV è andata progressivamente riducendosi nel nostro paese; passando da 5 a 0,5 per 100.000 abitanti tra il 1985 e il 2002 (www.ministerosalute.it). Tale riduzione è attribuibile a diversi fattori: introduzione dello screening obbligatorio nei donatori di sangue dal 1992; impiego di dispositivi medici monouso; adozione di pratiche più sicure nelle procedure a rischio di contaminazione ematica (con contributo determinante derivato dalle campagne anti-AIDS). Anche in campo pediatrico si è assistito ad una diminuzione dell’incidenza di infezione da HCV. Dopo la scomparsa dell’infezione per via trasfusionale, la trasmissione madre-bambino è diventata la principale via di contagio. Sebbene siano stati individuati alcuni fattori di rischio per la trasmissione verticale del virus (Tab. III), nessuno di questi è a tutt’oggi modificabile; motivo per cui non viene raccomandato lo screening sistematico delle gravide. Anche se mancano evidenze a supporto, quando possibile, pare comunque prudente evitare l’amniocentesi, l’utilizzo di strumenti invasivi al parto e la rottura prolungata delle membrane nelle gravide infette. Contrariamente all’HIV, il tasso di trasmissione madre-bambino dell’HCV è rimasto costante negli anni (3-6%). Da notare che la trasmissione verticale è associata alla carica virale materna, ma non esistono valori soglia al di sopra o al di sotto dei quali si possa prevedere o escludere l’infezione del nascituro. Dal punto di vista diagnostico va ricordato che solo un terzo dei bambini infettati sono viremici alla nascita, mentre a 3 mesi l’80-90% risulta PCR positivo. I bambini con infezione perinatale da HCV sono asintomatici alla nascita e per lo più rimangono tali nella prima decade di vita, con una crescita regolare. Il danno epatico può però accentuarsi nel corso degli anni. La diminuzione dei bambini infetti in anni recenti risente, quindi, anzitutto del blocco della trasmissione attraverso emoderivati; questo ha comportato un minor numero di donne infette in età fertile e quindi un minor numero di neonati esposti. Inoltre, la co-infezione materna con HIV aumenta il rischio di trasmissione verticale dell’HCV; l’attuale trattamento antiretrovirale delle donne HIV+/HCV+ può contribuire a ridurre anche la trasmissione del virus epatitico. Tabella III. Fattori di rischio per la trasmissione materno fetale dell’HCV. Fattore di rischio Sì Evidenza di associazione Elevata Elevata carica virale materna Sì Sufficiente Taglio cesareo No Sufficiente Parto vaginale No Sufficiente Allattamento al seno No Sufficiente Sesso femminile Sì Sufficiente Amniocentesi ? Insufficiente Tossicodipendenza ? Dati antitetici Indici di citolisi in gravidanza Sì Insufficiente Monitoraggio fetale invasivo Sì Insufficiente Utilizzo di forcipe Sì Insufficiente Lacerazioni perineali e vaginali al parto Sì Insufficiente Episiotomia No Insufficiente Rottura prolungata delle membrane Sì Insufficiente Fumo di sigaretta No Insufficiente Assunzione di alcolici No Insufficiente Età meterna No Insufficiente Genotipo di HCV No Insufficiente Numero di gravidanze No Insufficiente Prematurità No Insufficiente Background genetico Sì Insufficiente Variabile Coinfezione HCV/HIV Parallelamente, è cambiata anche la frequenza relativa del genotipo virale dei bambini con epatite, con una maggiore prevalenza dei genotipi 3 o 4 rispetto all’1 (tipicamente associato al contagio per via ematica) (Bortolotti et al., 2005). I risvolti terapeutici non sono marginali, visto che il 3 e il 4 sono genotipi maggiormente sensibili all’interferon; inoltre, il genotipo 3 ha maggiori possibilità di clearance spontanea nei primi anni di vita. La terapia con Peg-interferon più ribavirina è oggi ampiamente utilizzata in adulti con infezione cronica da HCV e più segnalazioni supportano tale trattamento anche in bambini (Kowala-Piaskowska et al., 2007; Jara et al., 2008). Recentemente (Dicembre 2008) la FDA ha approvato l’utilizzo di tale terapia nei bambini HCV+ di età superiore a 3 anni. Tubercolosi Nonostante sia una malattia prevenibile e curabile, la TBC costituisce una delle emergenze sanitarie più drammatiche nel mondo, con notevole carico assistenziale, economico e sociale. L’incremento negli ultimi anni è imputabile all’aumentata prevalenza di soggetti sieropositivi per HIV, guerre e carestie nei paesi del terzo mondo, migrazioni di massa, aumento dei fenomeni di farmaco-resistenza, mancanza di adeguati programmi di screening e prevenzione (World Health Organization, 2006). Nei paesi ad elevata endemia tubercolare la percentuale di malattia in età pediatrica risulta elevata, favorita soprattutto da disagiate condizioni socio-economiche e dalla malnutrizione. Nei paesi industrializzati la TBC pediatrica ha mostrato un trend in discesa a partire dagli anni ’50; nell’ultimo decennio si è però registrata un’inversione di tendenza, con stabilizzazione o addirittura incremento dei casi (Dwight et al., 2006). In questi paesi, considerati “a bassa preva- 5 S. Bezzio et al. lenza”, la TBC nei bambini è più frequente nelle minoranze etniche socialmente ed economicamente svantaggiate. In generale, va detto che la prevalenza di TBC in età evolutiva è sottostimata, in quanto solo in una minoranza di bambini la tubercolosi attiva è bacillifera. L’attuale situazione epidemiologica in Italia è caratterizzata da una bassa incidenza nella popolazione generale, dalla concentrazione della maggior parte dei casi in alcuni gruppi a rischio, in alcune classi di età e dall’emergere di ceppi tubercolari farmaco-resistenti. Tra i giovani (15-24 anni) l’incidenza di TBC è in leggero seppur costante aumento (9 casi/100 mila nel 2007). Resta stabile, invece, nella classe d’età 0-14 anni, con un’incidenza di 2-3 casi/100 mila nei bambini 0-4 anni (www.ministerosalute.it). Esiste una stretta correlazione epidemiologica tra TBC infantile e dell’adulto. L’emergenza e la diffusione dei ceppi resistenti a isoniazide e rifampicina (MDR-TBC) rappresenta un problema sempre più rilevante, sia in chiave terapeutica che preventiva. Un recente studio europeo (Migliori, 2009) ha stimato un’incidenza annuale di 510.000 nuovi casi di MDR-TBC, in particolare provenienti dall’Est Europa. L’incidenza maggiore si verifica, però, nell’Africa Sub-Sahariana. Il fallimento del trattamento dei ceppi MDR contribuisce alla diffusione di ceppi cosiddetti XDR (extensively drug-resistant), resistenti a più farmaci di prima e seconda linea (MMWR, 2006). Le segnalazioni di multifarmaco-resistenza nella popolazione pediatrica sono anedottiche (Migliori, 2007), ma la frequenza con cui sono giunti alla nostra osservazione questi casi negli ultimi anni suggerisce che il fenomeno sia sottostimato. Sifilide Con un’incidenza annuale di 12 milioni di nuovi casi nel mondo, la sifilide è, dopo l’Aids, l’infezione sessualmente trasmessa con più alto tasso di mortalità. Nei Paesi industrializzati l’incidenza della sifilide ebbe una drastica riduzione dopo la Seconda guerra mondiale, grazie alla disponibilità di nuovi metodi diagnostici e al trattamento con penicillina. Nelle ultime decadi la sua incidenza è di nuovo in aumento, specie nei Paesi in via di sviluppo e nell’Est Europa. Ogni anno nel mondo circa un milione di donne gravide è affetta da sifilide. Le conseguenze sono devastanti: 460.000 aborti o morti endouterine, 270.000 casi di sifilide congenita e 270.000 nati con basso peso o prematuri. Altre fonti parlano di almeno 500.000 bambini nati con la sifilide congenita. La prevalenza di donne infette varia sensibilmente nei singoli paesi (Chakraborty et al., 2008). Trattandosi di una malattia a trasmissione sessuale, l’aumentata incidenza implica un incremento anche fra le donne in età fertile e quindi dei casi di sifilide congenita. Vista la possibilità di eliminare facilmente il rischio di trasmissione materno-fetale tramite l’identificazione e la cura della madre infetta entro le prime 20 settimane di gestazione, la sifilide congenita non dovrebbe essere presente nel nostro Paese, ma così non è. Tutte le gravide dovrebbero eseguire i test sierologici per la lue alla prima visita prenatale (Tab. IV); tali esami dovrebbero eventualmente essere ripetuti a 32-36 settimane o al parto. Tutte le donne che partoriscono prematuramente dopo le 20 settimane dovrebbero essere testate per la sifilide ed in generale nessun neonato dovrebbe lasciare l’ospedale se lo stato sierologico materno non è stato definito (Wolff et al., 2009). Queste raccomandazioni non sono però seguite da tutti i colleghi ostetrici e neonatologi (Riva et al., 2006). La lue congenita non sempre è riconoscibile alla nascita, poiché il bambino infetto può essere asintomatico e la sierologia talora non dirimente (Chakraborty et al., 2007). Le manifestazioni cliniche della sifilide congenita vengono distinte in precoci (< 2 anni) e tardive e vanno ricordate nelle diagnostica differenziale con varie malattie che possono presentare quadri simili (Tab. V). Nel neonato esposto, asintomatico, è necessario ricorrere alla diagnostica di laboratorio (Tab. VI). La ricerca degli anticorpi è complicata dalla presenza delle IgG materne, che scompaiono ad un’età variabile fra 3 e 15 mesi. Data la complessità della diagnosi, visto il diffondersi della lue fra donne in età fertile, è essenziale alzare nuovamente “la guardia” attraverso lo screening universale delle gravide, ricordandosi che non solo le donne immigrate da zone ad alta endemia sono a rischio di patologie sessualmente trasmesse. Tabella IV. Test sierologici per la diagnosi di sifilide in gravidanza. Test non treponemici (poco costosi, di rapida esecuzione, utilizzabili come screening, utili per valutare la risposta alla terapia) VDRL/RPR Positivo: (a partire da 3-4 settimane dopo l’infezione) → titolo > 16 quasi sempre specifico → titolo < 16: a. falso positivo (gravidanza, patologia del connettivo, infezione) b. cicatrice sierologica di infezione pregressa trattata c. sifilide latente Negativo Attenzione a falsa negatività per lue secondaria o latente precoce (fenomeno prozona*) Test treponemici (specifici, persistono per anni, non utili per valutare reinfezioni o risposta alla terapia) - TPHA/TPPA - Ig (IgG + IgM) EIA: test di screening - FTA ABS (IgM) o WB IgM: casi selezionati; la presenza di IgM è indicative di infezione recente VDRL = Veneral Disease Reference Laboratory RPR = Rapid Plasma Reagine Ig EIA = Enzime Immuno Assay TPHA = Treponema pallidum Hemagglutination Assay FTA ABS = Treponemal Antibody Absorption Test WB = Western Blot * eccesso di anticorpo 6 Malattie infettive emergenti in età pediatrica Tabella V. Segni e sintomi delle sifilide congenita precoce e tardiva. Età Sifilide congenita precoce Apparato Segni Sistemici Mucose Distress neonatale Anemia, piastrinopenia, ittero Epatosplenomegalia, adenopatia Polmonite Glomerulonefrite Mucosite (rinite) Cute Mucose Sistemici Osso Rene SNC Occhio Rash, lesioni ulcerose Rinite ostruttiva Epatosplenomegalia, adenopatia Epatite, ittero Anemia, piastrinopenia, Osteite, osteocondrite (metafisi ossa lunghe, pseudoparalisi di Parrot) Periostite (palato e setto nasale) Sindrome nefrosica Leptomeningite, idrocefalo, paralisi nervi cranici (III, IV, VI, VII), anomalie del liquor Interessamento VIII nervo Corioretinite, glaucoma Neonato 2 settimane - 3 mesi Sifilide congenita tardiva Dopo 2 anni (nel 40% dei bambini) Osso Occhio Denti Cute SNC Articolazioni di Clutton (tumefazione simmetrica ginocchio); facies atipica; gambe a sciabola Cecità, cheratite parenchimatosa Denti di Hutchinson Ragadi periorali Tabella VI. Esami sierologici per diagnosi di sifilide congenita. - IgM (FTA, WB): se positivo → infezione congenita se negativo → ripetere per escludere infezione o sieroconversione tardiva La presenza della zanzara tigre in alcune aree del nostro paese è un esempio di come la globalizzazione possa interessare anche i vettori di infezione. Infatti, essa giunse in Europa negli anni ’90 insieme a generi di consumo trasportati in aereo dall’Asia e trovò ecosistemi favorevoli anche alle nostre latitudini. - VDRL o RPR: infezione congenita se titolo > 4 volte il titolo materno - TPHA: utile per valutare la sieroreversione al follow-up. VDRL = Veneral Disease Reference Laboratory RPR = Rapid Plasma Reagine TPHA = Treponema pallidum Hemagglutination Assay FTA ABS = Treponemal Antibody Absorption Test WB = Western Blot Test non treponemici = VDRL e RPR Test treponemici = TPHA/TPPA, FTA IgG/IgM Chikungunya La Chikungunya è una malattia causata da un alfavirus appartenente alla famiglia Togaviridae che viene trasmesso tramite un vettore, la zanzara Aedes albopictu (zanzara tigre). È caratterizzata da febbre elevata, rash, artralgia severa, soprattutto a carico delle articolazioni delle dita delle mani e dei piedi. Non esiste alcuno specifico trattamento e la terapia è sintomatica. È da tenere presente che è stato osservato anche un meccanismo di trasmissione materno-fetale nel periodo perinatale con un elevato tasso di morbidità (Ramulf et al., 2007). A partire dal 2004 si sono verificate una serie di epidemie in paesi tropicali ed in India. Proprio da un viaggio in India tornò il caso indice che, nell’estate 2007, fu identificato all’origine dell’epidemia di Chikungunya in Emilia Romagna, ove furono descritti 205 casi tra le province di Ravenna e Cesena-Forlì in un periodo in cui vi erano molte zanzare tigre nell’area del delta del Po (Rezza et al., 2007; Seyler et al., 2008). Infezioni in immunocompromessi Le infezioni sono una delle maggiori cause di morbilità e mortalità nei pazienti con deficit immunitario. Il numero di bambini con compromissione dei poteri di difesa a causa della malattia di base o della terapia praticata (trapianti di cellule staminali, trapianti d’organo, chemioterapia, farmaci immunosopressori, inclusi anticorpi monoclonali e farmaci biologici) è cresciuto sensibilmente negli ultimi anni. Tali pazienti sono ad alto rischio di malattie infettive gravi, sia da patogeni comuni che, talora, da saprofiti. Altro problema rilevante, in questa categoria di pazienti, è la sempre maggior presenza di foci epidemici da germi multiresistenti, causata dall’utilizzo estensivo (a volte improprio) degli antibiotici. L’insorgenza di complicanze infettive può determinare ritardi nell’ideale successione dei cicli di terapia, causare effetti collaterali tossici e peggiorare la qualità di vita dei pazienti, oltre ad incrementare i costi dell’assistenza sanitaria. Le manifestazioni cliniche possono differire sensibilmente dai quadri usuali e infezioni gravi possono esordire in modo paucisintomatico. È pertanto essenziale riconoscere precocemente le patologie infettive e trattarle in maniera appropriata. Il problema viene ad investire non solo i centri specialistici (Rubio et al., 2009; Simon et al., 2008. Pinon et al., 2009; Wallis et al., 2009), ma anche i pediatri di libera scelta. Onde garantire una gestione ottimale di questi pazienti diventa sempre più necessaria una stretta collaborazione dei pediatri del territorio con i centri specialistici. 7 S. Bezzio et al. Box di orientamento Che cosa si sapeva prima Il trattamento con antiretrovirali in gravidanza, il taglio cesareo elettivo e l’allattamento artificiale riducono il rischio di trasmissione madre-bambino dell’HIV. La sifilide congenita era un riscontro eccezionale nelle ultime decadi del secolo scorso in Italia, così come la tubercolosi nei bambini era una malattia rara che rispondeva ai protocolli terapeutici tradizionali. Le infezioni in bambini immunocompromessi erano una problematica che investiva in modo pressoché esclusivo i centri specialistici. Cosa sappiamo adesso L’infezione da HIV va sempre più diffondendosi per via sessuale fra le donne in età fertile. Varie sono le misure preventive in grado di ridurre la trasmissione madre-bambino del virus; la loro adozione permette di abbattere al 1-2% il rischio di infezione perinatale. Il trattamento precoce con antiretrovirali dei bambini infetti blocca la progressione dell’HIV. Per quanto attiene la trasmissione verticale del virus dell’epatite C, non vi sono interventi preventivi, ma, dopo l’introduzione dello screening dei donatori di sangue, si è ridotto il numero di gravide infette. L’infezione perinatale da HCV ha un decorso generalmente lieve nella prima decade di vita. La tubercolosi è tornata una malattia relativamente frequente; con un numero crescente di casi da micobatteri farmaco-resistenti. Anche la sifilide è in sensibile aumento, specie fra donne immigrate da zone ad alta endemia e la sifilide congenita ritorna una realtà da tenere in considerazione. Aumentano i bambini trattati con farmaci immunosopressori e quindi le problematiche infettive connesse. Quali ricadute sulla pratica clinica L’identificazione della gravida sieropositiva per HIV e l’utilizzo delle varie misure preventive vanno applicati in modo sistematico. Bambini con infezione da HIV vanno trattati precocemente. Data la mancanza di possibili interventi preventivi non è consigliato lo screening delle gravide per l’HCV. Va invece ripristinato lo screening universale della sifilide in gravidanza e nessun neonato dovrebbe essere dimesso senza conoscere la condizione materna per la sifilide. La tubercolosi deve essere tenuta presente nella diagnostica quotidiana; non va trascurato l’emergere di ceppi resistenti ai farmaci tradizionali. L’aumento dei bambini sottoposti a trapianto d’organo o di cellule staminali oppure in chemioterapia o in terapia immunosoppressiva richiede una conoscenza delle problematiche infettive connesse anche da parte dei pediatri di libera scelta e una loro stretta collaborazione con i centri specialistici. Bibliografia Bortolotti F, Resti M, Marcellini M, et al. Hepatitis C virus (HCV) genotypes in 373 Italian children with HCV infection: changing distribuition and correlation with clinical features and outcome. Gut 2005;54:852-7. Centers for Disease Control and Prevention (CDC). Emergence of Mycobacterium tuberculosis with extensive resistance to second-line drugs -worldwide. MMWR 2006;55:301-5. Centers for Disease Control and Prevention (CDC). Revised classification system for human immunodeficiency virus infection in children less than 13 years of age. MMWR 1994;43:1-20. Chakraborty R, Luck S. Managing congenital syphilis again? The more things change… Curr Opin Infect Dis 2007;20:247-52. * Revisione sulla problematica emergente della sifilide in gravidanza e della forma congenita, con indicazioni sulla terapia raccomandata nei diversi paesi. Chakraborty C, Luck S. Syphilis is on increase: the implications for child health. Arch Dis Child 2008;93:105-9. Chiappini E, Galli L, Tovo PA, et al. Five-year-follow-up of children with perinatal HIV-1 infection receiving early highly active antiretroviral therapy. BMC Infect Dis 2009;9:140. * Conferma che la terapia precoce con antiretrovirali garantisce una prognosi migliore a breve-medio termine nei bambini con infezione perinatale da HIV. Dwight AP, Garrett HW. Tuberculosis in children: an up-date. Adv in Pediatr 2006;53:279-322. ** Dettagliata analisi del problema tubercolosi in età evolutiva. Vengono esposti i dati epidemiologici ed i maggiori risvolti clinico-terapeutici. Jackson DJ, Goga AE, Doherty T, et al. An update on HIV and infant feeding issued in developed and developing countries. JOGNN 2009;38:219-99. Jara P, Hierro L, de la Vega A, et al. Efficacy and safety of peginterferonalpha2b and ribavirin combination therapy in children with chronic hepatitis C infection. Pediatr Infect Dis J 2008;27:142-8. John-Stewart GC. Strategic approaches to decrease breast milk transmission of HIV-1: the importance of small things. J Infect Dis 2009;200:1487-9. Jones KE, Patel NG, Levy MA, et al. Global trends in emerging infectious diseases. Nature 2008;451:990-3. ** Accurata valutazione dei vari elementi che condizionano l’insorgenza e/o il diffondersi delle patologie infettive emergenti, con analisi della letteratura a partire dal 1944 e sintesi ponderata dei maggiori fattori di rischio connessi. 8 Kowala-Piaskowska A, Słuzewski W, Figlerowicz M, et al. Early virological response in children with chronic hepatitis C treated with pegylated interferon and ribavirin. Infection 2007;35:175-9. Migliori GB, D’Arcy Richardson M, Sotgiu G, Lange C. Multidrug-resistant and exstensively drug-resistant tuberculosis in the West Europe and United States: epidemiology, surveillance and control. Clin Chest Med 2009;30:637-65. * Viene affrontata in modo approfondito la crescente problematica dei ceppi di micobatteri resistenti ai farmaci antitubercolari tradizionali nei paesi Occidentali ed i risvolti clinico-terapeutici associati. Migliori GB, De Iaco G, Besozzi G, et al. First tuberculosis cases in Italy resistant to all tested drugs. Eurosurveillance 2007;12:20. Perinatal HIV Guidelines Working Group. Public Health Service Task Force Recommendations for use of antiretroviral drugs in pregnant HIV-Infected women for maternal health and interventions to reduce perinatal HIV transmission in the United States. 2009: 1-90. Available at http://aidsinfo. nih.gov/ContentFiles/PerinatalGL.pdf. ** Linee guida aggiornate con descrizione dettagliata delle varie misure profilattiche atte a ridurre la trasmissione madre-bambino dell’HIV. Pinon M, Bezzio S, Tovo PA, et al. A prospective 7-year survey on central venous catheter-related complications at a single pediatric hospital. Eur J Pediatr 2009;168:1505-12. Ramulf D, Carbonnier M, Pasquet M, et al. Mother-to-child transmission of Chikungunya virus infection. Pediatr Infect Dis J 2007;26:811-5. Rezza G, Nicoletti L, Angelini R, et al. Infection with Chikungunya virus in Italy: an outbreak in a temperate region. Lancet 2007;370:1840-6. Riva C, Alice A, Lazier L, et al. Increasing number of pregnancies at risk for congenital syphilis in the new millenium in Nothern-Central Italy. Ital J Pediatr 2006;32:201-7. Rubio PM, Sevilla J, Gonzales-Vicent M, et al. Increasing incidence of invasive aspergillosis in pediatric hematology oncology patients over the last decade: a retrospective single centre study. J Pediatr Hematol Oncol 2009;31:642-6. Seyler T, Rizzo C, Finarelli AC, et al. Autoctonus Chikungunya virus transmission may have occurred in Bologna, Italy, during the summer of 2007. Eurosurveillance 2008;13:1-3. Simon A, Schidgen O, Schuster F. Viral infections in paediatric patients receiving conventional cancer chemotherapy. Arch Dis Child 2008;93:880-9. Sudeep AB, Parashar D. Chikungunya: an overview. J Biosci 2008;33:443-9. Wallis RS. Infectious complications of tumor necrosis factor blockade. Curr Opin Infect Dis 2009;22:403-9. Malattie infettive emergenti in età pediatrica Wolff T, Shelton E, Session C, Miller T. Screening for syphilis infection in pregnant women: evidence for the U. S. preventive services task force reaffirmation recommendation statement. Ann Intern Med 2009;150:710-6. *Viene ribadita l’utilità dello screening universale per sifilide delle gravide ai giorni nostri anche in paesi a bassa endemia. World Health Organization. Guidelines for the programmatic management of drug-resistant tuberculosis. 2006. Available at http://www.who.int/tb/ publications/2008/programmatic_guidelines_for_mdrtb/en/index.html *Linee guida sulla gestione terapeutica derivante dell’emergenza di ceppi di micobatteri resistenti agli antibiotici di prima scelta (MDR-TB). Working Group on Antiretroviral Therapy and Medical Management of HIVInfected Children. Guidelines for the use of antiretroviral agents in pediatric HIV infection. 2009:1-139. Available at http://aidsinfo.nih.gov/ContentFiles/ PediatricGuidelines.pdf. *Linee guida dettagliate sulla terapia antiretrovirale e sulle misure preventive dell’HIV in età pediatrica. Corrispondenza Pier-Angelo Tovo, Dipartimento di Scienze Pediatriche e dell’Adolescenza, piazza Polonia 94, 10126 Torino. Tel. +39 011 3135800. E-mail: [email protected] 9 Gennaio-Giugno 2010 • Vol. 40 • N. 157-158 • Pp. 10-14 infettivologia Ricadute pratiche della resistenza agli antibiotici dei più comuni patogeni respiratori Nicola Principi, Susanna Esposito Dipartimento di Scienze Materno Infantili, Università di Milano, Fondazione IRCCS “Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico”, Milano Riassunto Nel tempo le caratteristiche di sensibilità dei batteri agli antibiotici sono inevitabilmente destinate a mutare, di solito con la progressiva emergenza di resistenze. L’emergenza di resistenze agli antibiotici ha variabile impatto sull’esito della terapia antibiotica usualmente considerata di scelta per le diverse patologie batteriche. Predire le conseguenze e il rischio di fallimento terapeutico non è sempre semplice, specie quando più germi tra quelli che possono determinare una malattia presentano resistenze contemporaneamente. Per evitare rischi, il pediatra deve attenersi alle raccomandazioni degli esperti, seguendo linee guida codificate e adeguatamente sperimentate. In questa revisione, per comprendere l’impatto delle resistenze agli antibiotici nella pratica clinica vengono trattati esempi che riguardano patogeni (Streptococcus pneumoniae, Streptococcus pyogenes, Haemophilus influenzae) e malattie (otite media acuta, rinosinusite, polmonite di comunità, sepsi, meningite) di frequente riscontro nel bambino, oltre che le classi di farmaci (beta-lattamici, macrolidi) più usate nei primi anni di vita. Summary During the years, the characteristics of bacterial susceptibility to antibiotics are changing, usually with the emergence of antimicrobial resistance. The emergence of antimicrobial resistance among the different pathogens may have a variable impact on the outcome of antibiotic treatment considered as first line in different bacterial diseases. To predict the consequences and the risk of treatment failures is not always easy, especially when several pathogens among those which may cause a disease could show antimicrobial resistance. In order to avoid the risk of treatment failure, the pediatrician has to consider experts’ recommendations and has to follow evidence-based guidelines. In this review, the impact of antimicrobial resistance in clinical practice is presented with examples that regard pathogens (e.g., Streptococcus pneumoniae, Streptococcus pyogenes, Haemophilus influenzae) and diseases (e.g., acute otitis media, rhinosinusitis, community-acquired pneumonia, sepsis, meningitis) which are common in childhood as well as antimicrobial classes (beta-lactams, macrolides) frequently used in the first years of life. Introduzione Nel tempo le caratteristiche di sensibilità dei batteri agli antibiotici sono inevitabilmente destinate a mutare, di solito con la progressiva emergenza di resistenze. Due sono le modalità con le quali un batterio può divenire resistente (van de Sande-Bruinsma et al., 2008). La prima è legata a fenomeni naturali, quali la comparsa di mutazioni genetiche che conferiscono al batterio proprietà biochimico-metaboliche inizialmente non presenti e tali da consentire la possibilità, positiva per il batterio, di interferire sulle modalità di azione di una o più classi di antibiotici. La seconda è, invece, strettamente dipendente dall’uso stesso degli antibiotici e rientra nel cosiddetto problema della pressione di selezione esercitata da questi farmaci sui batteri. È chiaro, infatti, che, usando un antibiotico, si elimineranno i batteri sensibili mentre verranno conservati quelli resistenti che potranno moltiplicarsi senza alcuna interferenza e rendere evidenti tutte le loro caratteristiche di patogenicità. La selezione secondaria all’utilizzo è, senza alcun dubbio, il problema maggiore perché da un lato è inevitabile, dato che l’uso degli antibiotici è indispensabile per far fronte ad un alto numero di malattie altrimenti non guaribili, dall’altro è, però, reso enormemente più rilevante dal fatto che questi farmaci sono usati troppo e male. Ciò comporta una pressione di selezione assai più elevata del dovuto, una rapida emergenza di resistenze e, in ultima analisi, anche la rapida perdita di efficacia di farmaci che, con un uso più oculato, avrebbero potuto essere prescritti con successo molto più a lungo (Goossens, 2009) . La segnalazione dell’emergenza di resistenze fa pensare ad inevitabili ricadute negative sull’efficacia degli antibiotici e tende a portare il clinico a modificare gli schemi terapeutici fino a quel momento 10 usati, sostituendo gli antibiotici per i quali sono presenti problemi con altri non ancora coinvolti nello stesso fenomeno (Macgowan AP BSAC Working Parties on Resistance Surveillance, 2008). In realtà, ciò non è sempre necessario e vi sono numerosissime segnalazioni che per molti batteri e per molte forme morbose l’impatto delle resistenze è molto inferiore a quello che si poteva presumere. Per comprendere questo fenomeno bisogna capire la differenza tra resistenza in vitro, cioè in laboratorio, e resistenza in vivo, cioè nella pratica clinica. In vitro la presenza di resistenza è rivelata dal fatto che il quantitativo di un certo antibiotico necessario ad ottenere il blocco della moltiplicazione batterica (minima concentrazione inibente – MIC) o la morte stessa di un microrganismo (minima concentrazione battericida – MBC) è aumentato ed è diventato superiore alle concentrazioni che questo stesso antibiotico raggiunge nel sangue dopo somministrazione di dosi standard. Su questa base il microbiologo segnala al clinico che vi sono probabilità che la risposta alla terapia non sia più quella di prima e che, quindi, questa debba essere rivalutata e, se del caso, modificata. Ciò non significa che questo sia realmente obbligatorio perché in vivo i rapporti tra antibiotico e batterio non sono gli stessi che si realizzano in laboratorio. Nell’organismo le concentrazioni di farmaco che raggiungono il germe sono condizionate dalle caratteristiche dell’individuo, dalla sede dell’infezione e dalla cinetica dell’antibiotico (Alpuche C et al., 2007). Inoltre, non poca importanza nel condizionare le ricadute cliniche della resistenza ha anche il meccanismo che porta all’aumento di MIC e MBC (Sahm et al., 2008). è possibile che per peculiari caratteristiche cinetiche o per particolari sedi di infezione, un antibiotico raggiunta presso il batterio concentrazioni assai più alte di quelle presenti nel Antibioticoresistenza e patogeni respiratori sangue e che, quindi, un eventuale aumento della MIC e della MBC abbia scarso o nulla significato. Ovviamente, è anche possibile che proprio per il peso della cinetica e delle peculiare caratteristiche degli organi piccole variazioni della MIC e della MBC abbiano, invece, conseguenze drammatiche. A complicare la situazione pratica sta, poi, il fatto che non raramente più batteri tra quelli che causano la stessa malattia possono sviluppare contemporaneamente resistenze diverse (Cornaglia et al., 2009). Ciò finisce per rendere ancora più difficile decidere quale sia la terapia più corretta e, parallelamente, sottolinea come assai spesso il clinico debba affidarsi più che al suo ragionamento alle decisione di esperti quando deve prescrivere un antibiotico ad un paziente. Obiettivo della revisione Questa revisione cercherà di dare informazioni utili a comprendere l’impatto delle resistenze agli antibiotici nella pratica clinica. Gli esempi forniti riguarderanno i patogeni e le malattie di più frequente riscontro nel bambino, oltre che le classi di farmaci più usate nei primi anni di vita. Metodologia della ricerca bibliografica effettuata È stata condotta una ricerca bibliografica sulla banca bibliografica Medline, utilizzando come motore di ricerca PubMed e come parole chiave “antimicrobials”, “antibacterials”, “antibiotics” e “respiratory pathogen”. Sono stati posti i seguenti limiti: l’età dei pazienti (“infant”, “children” e “adolescent”), la presenza di dati sull’impatto clinico delle resistenze agli antibiotici (“respiratory infections” e “in vivo resistance”) e gli anni di pubblicazione (2005-2009). Dati salienti emersi dagli studi considerati La resistenza di Streptococcus pneumoniae ai beta-lattamici Una delle migliori dimostrazioni di come l’impatto clinico delle resistenze batteriche possa essere diverso a seconda della sede dell’infezione è dato da quanto vale per S. pneumoniae (Dagan, 2009; Jacobs, 2008). È questo un patogeno capace di dare sia patologie semplici ma molto frequenti come otite media acuta (OMA), rinosinusite o polmonite di comunità (CAP), sia malattie molto gravi, anche se relativamente rare, come sepsi e meningiti. Per tutte queste patologie, fino a quando l’entità delle resistenze emergenti non ha raggiunto percentuali consistenti, tutti gli esperti erano concordi nell’affermare che l’uso di un beta-lattamico era certamente sufficiente ad assicurare la guarigione clinica del paziente nella stragrande maggioranza dei casi. In particolare, le linee guida seguite in passato per queste patologie indicavano l’amoxicillina per via orale a 50 mg/kg/die come farmaco di scelta per le forme respiratorie e il ceftriaxone a 100 mg/kg/die per via endovenosa per sepsi e meningiti. Quando i microbiologi hanno rilevato il progressivo aumento delle MIC dello pneumococco e hanno indicato la presenza, oltre ai classici stipi sensibili alla penicillina con MIC largamente inferiori a 1 µg/mL, anche di pneumococchi con MIC superiori a 1 µg/mL e addirittura a 4 µg/mL, la prima reazione dei clinici è stata quella di cambiare le strategie terapeutiche, prendendo in considerazione altri farmaci con minore rischio di resistenze. In realtà, gli studi clinici di efficacia delle vecchie terapie nelle nuove condizioni e l’analisi delle caratteristiche farmacocinetiche e farmacodinamiche degli antibiotici applicate alle diverse sedi di infezione e alle possibili differenze di MIC dello pneumococco resistente hanno chiaramente messo in evidenza che la necessità di cambiare gli schemi usati fino a quel momento non valeva per tutte le malattie ma doveva essere attuata solo in casi particolari. Per esemplificare quanto sopra ricordato si consideri il problema delle infezioni respiratorie da pneumococco. Nel caso dell’OMA e della rinosinusite, l’innalzamento delle MIC, pur se relativamente modesto, ha un certo grado di ricaduta sugli schemi terapeutici anche se non provoca la sostituzione con l’amoxicillina con altri farmaci (Block et al., 2007; Esposito et al., 2008; Greenberg et al., 2008). Ciò dipende dal fatto che l’amoxicillina ha una penetrazione solo discreta nell’orecchio medio o nei seni paranasali così che le concentrazioni raggiunte dopo la somministrazione di dosaggi standard sono appena sufficienti a determinare in sede di infezione le concentrazione di antibiotico utili a superare le MIC dei germi definiti sensibili. Se queste si elevano, i dosaggi tradizionali non sono più sufficienti ma basta aumentarli, circa raddoppiandoli, per determinare il raggiungimento nell’orecchio medio o nei seni paranasali di livelli di farmaco utili ad eradicare anche pneumococchi con MIC più elevate e, quindi, tali da essere definiti dai microbiologi come resistenti. Ciò spiega perché le più recenti linee guida suggeriscono che là dove esistano dimostrate percentuali di resistenza di S. pneumoniae alle penicilline si debbano usare dosaggi di amoxicillina di 70-90 mg/kg/die (American Academy of Pediatrics, 2004) (Tab. I). Completamente diverso è, invece, il caso della CAP per la quale il problema della difficoltà del raggiungimento in sede di infezione di concentrazioni elevate di antibiotico non è presente. Il polmone è, infatti, largamente irrorato e il passaggio dei beta-lattamici nel secreto bronchiale molto attivo al punto che nei bronchi si raggiungono livelli di antibiotico anche superiori a quelli dimostrabili nel sangue. Le concentrazioni determinate dagli usuali 50 mg/kg/die di amoxicillina sono, di conseguenza, molto elevate e, quasi costantemente, sufficienti ad eradicare anche pneumococchi definiti resistenti. Qualche difficoltà terapeutica può aversi solo quando siano presenti batteri con MIC ≥ 4 µg/mL, evenienza questa estremamente rara. D’altra parte, la mancanza di segnalazioni di evoluzione negativa di CAP da pneumococchi con MIC elevata trattati con beta-lattamici utilizzati a dosaggio standard ne è la dimostrazione migliore (Grant et al., 2009; Lynch et al., 2009; Peterson, 2006). Ancora differente è, per certi aspetti, il problema della terapia delle sepsi e delle meningiti. Per quanto riguarda le sepsi, in cui la localizzazione batterica è esclusivamente ematica, non vi sono problemi di sorta anche con bassi dosaggi di antibiotico se somministrati per via endovenosa (Benito-Fernandez et al., 2007). Nel caso delle meningiti, invece, la barriera ematoliquorale rappresenta un ostacolo estremamente difficile da superare e né la via endovenosa, né l’innalzamento del dosaggio permettono di raggiungere nel liquor livelli utili ad eradicare S. pneumoniae in caso di MIC più alte di quelle dei germi definiti sensibili. In queste situazioni, per assicurare la protezione del paziente a fronte di una malattia estremamente grave, il Tabella I. Terapia antibiotica dell’otite media acuta. Farmaco di prima scelta Amoxicillina (70-90 mg/kg/die in 2-3 dosi per 10 giorni) Farmaci di seconda scelta (per bambini definiti “a rischio”) Amoxicillina – acido clavulanico (70-90 mg/kg/die in 2-3 dosi per 10 giorni) Cefalosporine Macrolidi 11 N. Principi, S. Esposito Tabella II. Terapia antibiotica ragionata della meningite batterica. Età Batteri più spesso causa di meningite Terapia di prima scelta <1 mese Streptococcus aglactiae, Escherichia coli, Listeria monocytogenes Ampicillina più cefotaxima 1-3 mesi Streptococcus pneumoniae, Neisseria meningitidis, Streptococcus agalactiae, Eschrichia Ampicillina più vancomicina, più ceftriaxone coli, Listeria monocytogenes o cefotaxima 3-23 mesi Streptococcus pneumoniae, Neisseria meningitidis, Streptococcus agalactiae, Haemophi- Vancomicina più ceftriaxone o cefotaxima lus influenzae, Escherichia coli 2-18 anni Streptococcus pneumoniae, Neisseria meningitidis classico ceftriaxone viene affiancato dalla vancomicina, antibiotico per il quale rischi di resistenze di S. pneumoniae praticamente non esistono (Tzanakaki et al., 2007; Weisfelt et al., 2007) (Tab. ii). La resistenza di Streptococcus pneumoniae e di Streptococcus pyogenes ai macrolidi I macrolidi hanno per anni rappresentato la seconda scelta, dopo i beta-lattamici, nella terapia delle infezioni respiratorie sostenute da S. pneumoniae e nel trattamento delle infezioni da Streptococcus pyogenes (SBEA), sia a livello faringotonsillare sia cutaneo. Purtroppo, negli ultimi 15 anni, almeno in alcune aree geografiche tra cui l’Italia, sono comparse resistenze di entrambi questi patogeni, con valori che hanno raggiunto, come nel nostro Paese, livelli prossimi al 50% (Mazzariol et al., 2007; Jenkins et al., 2008; Karlowsky et al., 2009). È interessante sottolineare come tra i possibili meccanismi di resistenza, i due principali, quello basato sul meccanismo di efflusso codificato dal gene mef(A) e quello legato ad una modificazione del target ribosomiale codificato dal gene erm (B) abbiano un impatto pratico assai diverso (Tab. III). Il primo determina, infatti, una elevazione relativamente contenuta delle MIC di S. pneumoniae e di SBEA, mentre il secondo le innalza di oltre 100 volte. Questo diverso livello di resistenze impatta in modo assai differente sulla efficacia della terapia antimicrobica nella patologia respiratoria sostenuta da questi batteri considerando che i macrolidi hanno tutti la capacità di concentrarsi in modo molto rilevante proprio nelle vie aeree, raggiungendo nelle varie sedi concentrazioni molto più alte di quelle dimostrabili nel sangue. Il problema della resistenza di Haemophilus influenzae ad alcuni beta-lattamici Come per S. pneumoniae, anche per H. influenzae non vi sono stati problemi di resistenza per molti anni. Anche per questo batterio, però, a partire dalla fine degli anni ’80 si è assistito alla comparsa di resistenza all’amoxicillina (Harrison et al., 2009). In questo caso il meccanismo di resistenza ha subito escluso che vi fosse la possibilità, come osservato per alcune malattie da S. pneumoniae, di superare il problema attraverso un aumento di dosaggio perché si è visto che la resistenza dipendeva essenzialmente dall’assunta capacità del batterio di elaborare beta-lattamasi, enzimi capaci di distruggere l’antibiotico una volta che questo fosse venuto a contatto con il patogeno. In questo caso l’emergenza di resistenze ha portato alla sostituzione dell’amoxicillina come farmaco di scelta con penicilline protette da inibitori delle beta-lattamasi o con cefalosporine beta-lattamasi resistenti. Lo studio delle caratteristiche di attività di questi farmaci, insieme alla valutazione della loro capacità di raggiungere i focolai di infezione ha, tuttavia, chiaramente dimostrato che il superamento delle resistenze poteva risultare assai più facile con alcune rispetto ad altre molecole. Molto interessante a questo proposito è quanto elaborato da Pichichero et al. (2008) che han- 12 Vancomicina più ceftriaxone o cefotaxima no calcolato, sulla base dei riscontri microbiologici ottenuti in 233 bambini con OMA e in 5.000 simulazioni delle curve cinetiche di 10 beta-lattamici, quali farmaci fossero in grado di assicurare le maggiori probabilità di successo nel trattamento dell’OMA sostenuta da H. influenzae. Il problema delle resistenze multiple Come ricordato, talora possono emergere contemporaneamente resistenze di germi diversi, tutti capaci di dare le stesse patologie. È questo il caso di alcune malattie più volte citate come OMA, rinosinusiti e CAP per le quali sono oggi segnalate resistenze sia di S. pneumoniae che di H. influenzae (Barkai et al., 2009; Bradley et al., 2008; Elliott, 2008). Come visto le due forme di resistenza richiedono approcci diversi, cosa che non creerebbe problemi se fosse possibile in ogni caso isolare il patogeno in causa ed adattare la terapia alle nuove esigenze da questo richieste. In pediatria ciò è praticamente eccezionale perché il bambino poco collabora e l’isolamento del materiale da coltivare è spesso, se non sempre, impossibile. In un lavoro nel quale sono state considerate contemporaneamente tutte le variabili relative ai diversi patogeni potenzialmente in causa nel determinismo dell’OMA, Fallon et al. (2008) hanno sottolineato i vantaggi derivanti dall’impiego di amoxicillina-acido clavulanico. Opinione personale e interpretazione degli studi considerati La resistenza di Streptococcus pneumoniae ai beta-lattamici Il problema della resistenza di S. pneumoniae ai beta-lattamici rappresenta una delle evenienze più comuni che il clinico deve affrontare. Nel caso dell’OMA e della rinosinusite, abbiamo sopra spiegato perché raddoppiando i dosaggi di amoxicillina è possibile raggiungere nell’orecchio medio o nei seni paranasali concentrazioni di farmaco utili ad eradicare anche pneumococchi resistenti. Anche noi, quindi, concordiamo con le più recenti linee guida che suggeriscono che là dove esistano dimostrate percentuali di resistenza di S. pneumoniae Tabella III. Minime concentrazioni inibenti (MIC) verso i macrolidi di S. pneumoniae in rapporto al meccanismo di resistenza. ERM B MIC 90 Range MEF E MIC 90 RANGE Eritromicina Claritromicina > 32 0,25-> 32 > 128 0,25-> 128 8 0,5-> 32 4 0,06-> 8 Antibioticoresistenza e patogeni respiratori alle penicilline si debbano usare dosaggi di amoxicillina di 70-90 mg/kg/die. Per la CAP, invece, non sono necessarie modifiche di quanto stabilito prima dell’emergere delle resistenze, grazie al fatto che i beta-lattamici si concentrano in modo ottimale a livello polmonare e anche con dosi standard di antibiotico è possibile superare le resistenze più comuni. In caso di sepsi, invece, se la terapia è fatta per via endovenosa, le concentrazioni raggiunte anche con bassi dosaggi sono sufficienti, quale che sia la MIC dello pneumococco in causa, per risultare efficaci; al contrario, se ci si trova di fronte ad una meningite, viene esasperato quanto già visto per l’OMA e la rinusinusite e non basta nemmeno aumentare i dosaggi ma è necessario addirittura associare un secondo antibiotico al trattamento di scelta. La resistenza di S. pneumoniae e di Streptococcus pyogenes ai macrolidi L’emergenza di resistenze sia di S. pneumoniae sia di SBEA ai macrolidi è bene dimostrativa di quanto giochi, oltre che la sede di infezione, anche il tipo e l’entità delle resistenze nel condizionare l’impatto clinico dell’informazione derivante dal laboratorio. Infatti, se una patologia respiratoria è sostenuta da un batterio resistente per meccanismo da efflusso la terapia standard ha grandissima probabilità di essere egualmente efficace, mentre l’opposto si verifica in caso siano in gioco batteri con resistenza su base costitutiva. Sul piano pratico, purtroppo, questa netta distinzione, che porterebbe a diversificare la terapia solo in una parte dei casi, ha, tuttavia, poco valore perché nel singolo paziente non è mai disponibile l’informazione sul tipo di resistenza in atto, cosicché il clinico, se non vuole correre rischi, deve scegliere in ogni caso un farmaco diverso dalla classe che con molta probabilità risulta resistente, indipendentemente dal meccanismo con cui si estrinseca la resistenza stessa. Il problema della resistenza di Haemophilus influenzae ad alcuni beta-lattamici Un buon esempio della possibilità che l’emergenza delle resistenze agli antibiotici porti ad un drastico cambiamento di terapia è dato da quanto si riferisce a H. influenzae. Eliminato H. influenzae tipizzabile dalla vaccinazione di massa con vaccino esavalente, oggi la patologia da H. influenzae è tutta legata alla forma non tipizzabile. È questo un batterio cosiddetto di superficie perché eccezionalmente causa forme invasive, mentre solitamente si limita a causare malattie respiratorie per contatto diretto sulla mucosa. Parte rilevante di OMA e di rinosinusiti sono dovute, infatti, a H. influenzae non tipizzabile. I dati raccolti proprio nei bambini con OMA indicano che cefpodoxima, ceftibuten a l’associazione amoxicillina-acido clavulanico hanno la maggiori probabilità di superare in vivo le resistenze di questo germe all’amoxicillina. Il problema delle resistenze multiple In caso di resistenze multiple, il pediatra non potrà che scegliere la soluzione che consente di coprire tutti i rischi possibili. Ciò spiega perché a fronte di un caso di OMA, di rinosinusite o di CAP che si manifesti in un’area geografica ad alta incidenze di resistenze a più antimicrobici da parte di diversi patogeni, in assenza di qualsiasi informazione microbiologica, si finisca per utilizzare una terapia capace di coprire contemporaneamente il rischio delle resistenze di S. pneumoniae e quello delle resistenze di H. influenzae. Poiché l’amoxicillina resta il migliore anti-pneumococco e l’associazione amoxicillina-acido clavulanico copre bene H. influenzae, è quest’ultima che trova in molte aree geografiche la massima utilizzazione in pediatria. Conclusioni e prospettive per il futuro L’emergenza di resistenze agli antibiotici ha variabile impatto sull’esito della terapia antibiotica usualmente considerata di scelta per le diverse patologie batteriche. Predire le conseguenze e il rischio di fallimento terapeutico non è sempre semplice, specie quando più germi tra quelli che possono determinare una malattia presentano resistenze contemporaneamente. Per evitare rischi, il pediatra deve attenersi alle raccomandazioni degli esperti, seguendo linee guida codificate e adeguatamente sperimentate. Il lavoro dei prossimi anni dovrà essere quello di continuare a mantenere un’attenta sorveglianza clinico-epidemiologica della circolazione dei patogeni respiratori, monitorando l’antibioticoresistenza in rapporto alle singole patologie così da identificare meglio le implicazioni pratiche di questo fenomeno. Inoltre, sarà fondamentale utilizzare un approccio comune a livello Europeo che associ i dati microbiologici alle linee guida sui trattamenti di scelta e che permetta di migliorare le prescrizioni di antibiotici. Dichiarazioni finali Gli autori non hanno alcun conflitto di interesse da dichiarare che possa avere influito nella preparazione del testo. NP e SE hanno pensato alle tematiche da sviluppare; SE si è occupata della ricerca bibliografica; NP ha steso una prima versione del testo e SE lo ha completato e rifinito. Box di orientamento Che cosa si sapeva prima La segnalazione dell’emergenza di resistenze dei patogeni respiratori ai comuni antimicrobici fa pensare ad inevitabili ricadute negative sull’efficacia degli antimicrobici e tende a portare il clinico a modificare gli schemi terapeutici fino a quel momento usati, sostituendo gli antibiotici per i quali sono presenti problemi con altri non ancora coinvolti nello stesso fenomeno. Cosa sappiamo adesso È stato dimostrato che per molti batteri e per molte forme morbose l’impatto delle resistenze è molto inferiore a quello che si poteva presumere. Questo dipende dal fatto che la resistenza in vitro, cioè in laboratorio, non sempre corrisponde alla resistenza in vivo, cioè nella pratica clinica. Quali ricadute sulla pratica clinica Predire le conseguenze e il rischio di fallimento terapeutico non è sempre semplice, specie quando più germi tra quelli che possono determinare una malattia presentano resistenze contemporaneamente. Per evitare rischi, il pediatra deve attenersi alle raccomandazioni degli esperti, seguendo linee guida codificate e adeguatamente sperimentate. 13 N. Principi, S. Esposito Bibliografia Alpuche C, Garau J, Lim V. Global and local variations in antimicrobial susceptibilities and resistance development in the major respiratory pathogens. Int J Antimicrob Agents 2007;30 (Suppl. 2):S135-8. Revisione sull’aumento di prevalenza della resistenza agli antimicrobici di Streptococcus pneumoniae, Moraxella catarrhalis e Haemophilus influenzae. 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Interessante rassegna sui meccanismi di resistenza dei batteri alle diverse classi di antibiotici, sull’epidemiologia e la diffusione dell’antibioticoresistenza, sui fattori di rischio per l’acquisizione e la diffusione di ceppi batterici resistenti agli antimicrobici, sull’impatto clinico dell’antibioticoresistenza e sulle strategie per limitare la resistenza agli antimibiotici dei più comuni patogeni respiratori. Macgowan AP, BSAC Working Parties on Resistance Surveillance. Clinical implications of antimicrobial resistance for therapy. J Antimicrob Chemother 2008;62 Suppl 2:ii3-14. Mazzariol A, Koncan R, Bahar G, Cornaglia G. Susceptibilities of Streptococcus pyogenes and Streptococcus pneumoniae to macrolides and telithromycin: data from an Italian multicenter study. J Chemother 2007;19:500-7. Peterson LR. Penicillins for treatment of pneumococcal pneumonia: does in vitro resistance really matter? Clin Infect Dis 2006;42:224-33. 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Revisione della letteratura sui principali patogeni causa di meningite batterica e sulla loro suscettibilità agli antibiotici. Van de Sande-Bruinsma N, Grundmann H, Verloo D, et al. Antimicrobial drug use and resistance in Europe. Emerg Infect Dis 2008;14:1722-30. * Interessante studio svolto in 21 paesi europei dal 2000 al 2005 che ha dimostrato una correlazione tra utilizzo degli antibiotici nella pratica ambulatoriale e resistenze antimicrobiche di Streptococcus pneumoniae ed Escherichia coli. Weisfelt M, de Gans J, van de Beek D. Bacterial meningitis: a review of effective pharmacotherapy. Expert Opin Pharmacother 2007;8:1493-504. Revisione sui principali patogeni causa di meningite batterica e sull’approccio terapeutico di scelta. Corrispondenza Nicola Principi, Dipartimento di Scienze Materno Infantili, Università di Milano, Fondazione IRCCS “Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico”, via Commenda 9, 20122 Milano. Tel. + 39 02 57992498. E-mail: [email protected] 14 Gennaio-Giugno 2010 • Vol. 40 • N. 157-158 • Pp. 15-20 Infettivologia Nuovi markers di infezione batterica: utilità clinica in età pediatrica Marta Cellai Rustici, Luisa Galli, Elena Chiappini, Maurizio de Martino Dipartimento di Scienze per la Salute della Donna e del Bambino, Università di Firenze Riassunto La diagnosi differenziale tra infezioni virali e batteriche in corso di febbre è complessa in età pediatrica. I tradizionali marcatori di infiammazione non permettono di identificare l’eziologia della flogosi e correlano poco con la gravità dell’infezione. Sarebbe, quindi, di grande utilità l’identificazione di uno o più marcatori per la diagnosi precoce delle infezioni batteriche, allo scopo di intraprendere quanto prima una terapia antibiotica. I marcatori più frequentemente utilizzati e sui quali esistono un maggior numero di studi sono rappresentati dalla conta dei globuli bianchi (GB) e dalla proteina C reattiva (PCR). Il dosaggio della procalcitonina e di alcune citochine, quali l’IL-6, l’IL-8 ed il TNF-alfa, sono attualmente in studio come marcatori precoci di infezione batterica in età pediatrica. In questa revisione sono state valutate le prove più recenti sull’utilità clinica dei nuovi marcatori di infezione in età pediatrica. Summary Differential diagnosis between viral and bacterial infection in children may be challenging. Traditional laboratory tests poorly correlate with the severity of microbial invasion and do not differentiate the aetiology of inflammation. White blood cells count and C-reactive protein dosage are the most frequently used and studied markers of infection in children. Currently a marker for the early recognition of bacterial infection that could guide antibiotic treatment is not yet available. Therefore, evaluation of procalcitonin, IL-6, IL-8 and TNF-alfa in serum or plasma are under investigation as early markers of bacterial infection in pediatric population. In this review we consider the most recent studies about clinical utility of these new markers of infection in pediatrics. Introduzione Nel caso di un bambino con febbre senza segni di localizzazione, la precoce diagnosi differenziale tra infezione batterica o virale sulla sola base clinica resta difficile. Le indagini microbiologiche non sempre sono in grado di identificare rapidamente l’agente in causa. I lunghi tempi di attesa della risposta microbiologica fanno sì che spesso la scelta di iniziare o meno una terapia antibiotica dipenda, oltre che dalla clinica e dall’età del bambino, dai livelli ematici dei marcatori di infezione. La conta dei GB, il numero assoluto dei neutrofili e il valore della PCR sono tradizionalmente utilizzati come indici di fase acuta e marcatori di infezione batterica. Nella diagnosi di infezioni batteriche invasive, i risultati disponibili suggeriscono una sensibilità ed una specificità dei GB (per valori compresi tra 15.000 e 17,100/μL) variabili, rispettivamente, tra 20% e 76% e tra 58% e 100%. La capacità diagnostica del valore assoluto dei neutrofili (≥ 10.000 cellule/μL ) avrebbe una sensibilità e specificità rispettivamente del 50-71% e del 76-83%. Le più recenti linee guida internazionali, pertanto, raccomandano di utilizzare dei valori riferimento di GB ≥ 15,000 cellule/μL e di neutrofili ≥ 10,000 cellule/μL come fattori discriminanti fra bambini che possono essere rivalutati nel tempo e bambini che necessitano di una terapia antibiotica immediata. Dato il basso valore predittivo di questi parametri, nell’85-90% dei casi il pediatra sceglie di utilizzare una terapia antibiotica anche quando non sia necessaria (Andreola, 2007). Questo comportamento contribuisce allo sviluppo di antibiotico resistenza, tossicità, reazioni allergiche e all’aumento dei costi. La PCR è stato il marcatore di flogosi fino ad ora più largamente utilizzato (Sanders, 2008). I livelli ematici di PCR aumentano nettamente in corso di infezione batterica, ma anche in altre condizioni infiammatorie, quali le malattie intestinali croniche infiammatorie (MICI), le artriti, le malattie autoimmuni o le miocarditi. La PCR, inoltre, può essere elevata in certe infezioni virali, quali quelle da adenovirus, e non sempre consente una diagnosi precoce di infezione, poiché inizia ad innalzarsi dopo 12 ore dall’esordio del processo infiammatorio infettivo (Scirè, 2006). Uno studio recente ha riportato che, in corso di infezione batterica grave, la sensibilità della PCR varia dal 68% al 92%, a seconda che il dosaggio ematico sia stato rilevato nelle prime 12 ore di febbre o successivamente (Pratt, 2007). Poiché i tradizionali marcatori di infezione non danno informazioni sulla causa dell’infiammazione e correlano poco con la severità dell’infezione, negli ultimi anni sono stati valutati altri marcatori di infezione batterica, in particolare la procalcitonina (PCT) e alcune citochine, quali l’interleuchina 6 (IL-6), l’interleuchina 8 (IL-8) ed il tumor necrosis factor (TNF-α) (Pratt, 2007). La PCT è il preormone della calcitonina; è normalmente secreto dalle cellule C della tiroide in risposta all’ipercalcemia ed in condizioni fisiologiche è indosabile nel sangue (Sakr, 2008). In corso di infiammazione la sua produzione da parte del fegato o di cellule mononucleate tissutali sembra essere stimolata dal rilascio di citochine o lipopolisaccaride (Sakr, 2008). La PCT è stata studiata per la diagnosi delle infezioni batteriche e la sua accuratezza diagnostica varia nei diversi studi (Andreola, 2007). Alcuni autori la considerano un marcatore eccellente nel discriminare le infezioni virali dalle batteriche, altri concludono invece che la sua utilità diagnostica è simile a quella dei tradizionali marcatori e che il suo dosaggio sierico ha un utilità clinica limitata (Andreola, 2007; Olaciregui, 2009). In corso di infiammazione, l’IL-6 e l’IL-8 vengono prodotte prevalentemente da monociti, macrofagi e cellule endoteliali, ma particolari condizioni come l’ipossia possono portare alla produzione di IL-6 e IL-8 anche da parte di altre cellule (Caldas, 2008). Queste citochine sono state utilizzate di recente come marcatori precoci di infezione 15 M. Cellai Rustici et al. correlare con la gravità dell’infezione e, quindi, potrebbero essere utili sia per scegliere una terapia antibiotica mirata che per verificarne l’efficacia (Verboon-Maciolelek, 2006). Valore predittivo dei marcatori di flogosi nella diagnosi differenziale tra infezioni batteriche e virali Nella diagnosi differenziale tra infezioni batteriche e infezioni virali la PCT e la PCR hanno una capacità diagnostica superiore rispetto alla conta dei globuli bianchi ed al numero assoluto di neutrofili (Verboon-Maciolelek, 2006). Questi marcatori se comparati ai GB e ai neutrofili ai loro valori soglia tradizionali (GB ≥ 15.000 cellule/μL; N ≥ 10.000 cellule/μL) hanno una maggiore sensibilità e un maggior valore predittivo negativo per infezione batterica invasiva (Andreola, 2007; Verboon-Maciolelek, 2006; Galetto Lacour, 2008). Molti studi riportano una più alta sensibilità (88% vs. 75%) e specificità (81% vs. 67%) della PCT rispetto alla PCR nella diagnosi differenziale tra infezioni batteriche e virali (Verboon-Maciolelek, 2006). Altre indagini suggeriscono che elevate concentrazioni sieriche di PCT, TNF-α, IL-6 ed IL-8 abbiano una sensibilità e una specificità maggiore rispetto alla proteina C reattiva, la conta dei GB e dei neutrofili nell’identificazione precoce di sepsi batteriche (Tab. I) (Caldas, 2008; Maciolelek, 2006; Galetto Lacour, 2008). In particolare, il riscontro di elevati livelli di IL-6 e IL-12 nel liquido cerebrospinale di bambini con sospetta meningite sembra correlare con la diagnosi di meningite batterica (Caldas, 2008). La PCR sembra avere una sensibilità superiore rispetto alla PCT nella diagnosi di infezioni batteriche sistemiche, confermandosi, oltre che un buon marcatore di infezione batterica, il marcatore più conveniente dal punto di vista economico (Tab. II) (Andreola, 2007). In una recente meta-analisi in età pediatrica, la PCT da sola sembra avere una scarsa capacità diagnostica di batteriemia (Tab. III) (Jones, 2007). In uno studio su bambini al di sotto di 3 mesi con febbre senza segni di localizzazione, il dosaggio combinato di PCT, PCR e GB aumenterebbe la capacità diagnostica di tali marcatori e se alle analisi di laboratorio si aggiunge l’osservazione clinica l’accuratezza diagnostica aumenta ulteriormente (Tab. IV) (Olaciregui, 2009). Uno studio recente di Galetto Lacour et al. su bambini con febbre senza segni di localizzazione porta gli autori a suggerire l’utilizzo di uno score Figura 1. Incremento di alcuni mediatori della flogosi dopo iniezione di endotossina in soggetti sani. Studio che valuta il ruolo di PCT, IL-6, IL-8 e PCR nella diagnosi precoce delle sepsi neonatali ad insorgenza tardiva. batterica, specie di sepsi in epoca neonatale (Caldas, 2008). Peraltro, il loro ruolo nella diagnosi differenziale tra infezioni batteriche e virali è tuttora dubbio. In alcuni esperimenti, condotti su volontari sani in cui è stata iniettata la tossina di Escherichia coli, è stato dimostrato che le concentrazioni sieriche di PCT, IL-6, IL-10 e TNF-α iniziano ad aumentare precocemente (entro le prime 2 ore) e si normalizzano nel momento in cui la PCR raggiunge il picco massimo, ovvero entro 24-48 ore dall’inizio della terapia antibiotica (Fig. 1) (Scirè, 2006). Pertanto, rispetto alla PCR che inizia ad aumentare solo dopo 6 ore dall’inizio del processo infiammatorio la PCT e le IL-6 e IL-8 offrirebbero un vantaggio nel monitoraggio a breve dell’infezione e della risposta alla terapia antibiotica in caso di infezione batterica (Scirè, 2006; Verboon-Maciolelek, 2006). Inoltre tali parametri sembrerebbero Tabella I. Sensibilità, specificità, valore predittivo positivo (VPP) e negativo (VPN) dei singoli dosaggi di procalcitonina (PCT), proteina C reattiva (PCR), interleuchina 6 (IL-6), interleuchina 8 (IL-8) e tumor necrosis factor (TNF-α) nella diagnosi di sepsi neonatale. Marcatori di infezione % Sensibilità (95% IC) % Specificità (95% IC) VPP (95% IC) VPN (95% IC) * ° * ° * ° * ° PCT 69 (51-3) - 82 (63-94) - 83 (64-94) - 68 (49-83) - PCR 65 (47-80) 79 (66-100) 52 (33-71) 87 (74-100) 63 (46-78) 91,7 54 (34-72) 70,0 IL-6 68 (50-82) 77 (65-90) 76 (56-90) 87 (73-100) 78 (60-91) 91,2 64 (46-80) 69,0 IL-8 84 (68-94) - 52 (33-71) - 72 (53-82) - 74 (48-89) - - 74 (60-87) - 82 (66-98) - 86,7 - 66,7 TNF-α * Valori soglia: PCR> 14 mg/L, PCT >0.5 μg/L, IL-6> 60 pg/mL, IL-8 > 50 pg/mL8 ° Modificato da Caldas JPS, J Pediatr 2008 16 Nuovi markers di infezione batterica: utilità clinica in età pediatria Tabella II. Sensibilità, specificità, Likelihood ratio positivo e negativo dei singoli dosaggi di proteina c reattiva (PCR), procalcitonina (PCT), conta dei globuli bianchi (GB) e neutrofili (N) nella diagnosi precoce di infezioni batteriche invasive in bambini e lattanti febbrili. Parametri e Valori soglia % Sensibilità (95% IC) % Specificità (95% IC) Likelihood Ratio (95% IC) Likelihood Ratio (95% IC) 73,4 (63,3-82,0) 76,4 (71,3-81,0) 3,10 0,35 8,3 (80,0-94,0) 60,8 (55,2-66,3) 2,25 0,19 GB (10.470/mm3) 51,6 (41,0-62,1) 75,5 (70,3-80,2) 2,11 0,64 N (6.450/mm3) 29,9 (20,5-40,6) 78,4 (73,3-82,9) 1,38 0,89 PCT (>0,5 ng/mL) PCR (>20mg/L) Tabella III. Sensibilità e specificità della procalcitonina (PCT) secondo la meta-analisi di Jones del 2007 nella diagnosi di batteriemia. Studio per primo autore Anno Numero di bambini Sensibilità (%) (95% IC) Specificità (%) (95% IC) PCT cut off (ng/mL) Fleischhack 2000 Lacour 2001 110 56,3 (33,2-76,9) 87,2 (79,0-92,5) 0,5 91 100,0 (51,0-100,0) 60,9 (50,4-70,5) 0,9 Han Lacour 2003 90 87,1 (71,1-94,9) 49,2 (36,8-61,6) 0,5 2003 88 75,0 (30,1-95,4) 52,4 (41,8-62,7) 0,5 Prat 2004 65 100,0 (81,6-100,0) 83,3 (70,4- 91,3) 2,0 Ciaccio 2004 54 89,7 (73,6-96,4) 16,0 (6,4-34,7) 0,5 Tabella IV. Sensibilità, specificità e valore predittivo positivo (VPP) e negativo (VPN) del dosaggio combinato di procalcitonina (PCT), proteina c reattiva (PCR), conta dei globuli bianchi (GB) nelle infezioni batteriche invasive e nelle sepsi in bambini di età < 3 mesi. Parametri e Valori soglia % Sensibilità (95% IC) % Specificità (95% IC) VPP (95% IC) VPN (95% IC) Infezioni batteriche invasive: GB (5000-15000), PCR (< 30 mg/L), PCT (< 0,5ng/mL), buone condizioni generali, stick urine negativo 96 (88-99) 35 (29-42) 32 (25-38) 96 (92-100) Sepsi: GB (5000-15000), PCR (< 30 mg/L), PCT (< 0,5ng/mL), buone condizioni generali, stick urine negativo 100 (74-100) 29 (24-35) 6 (3-9) 100 (96-100) diagnostico di laboratorio, composto dal dosaggio di GB, PCR, PCT e stick urine, unitamente ad uno score clinico, basato sulla Infant Observation Scale, nella diagnosi precoce di infezioni batteriche invasive e come indice di terapia antibiotica. Il punteggio dello score di laboratorio variava tra 0 e 9 in base ai dosaggi dei marcatori considerati e alla negatività od alla positività dello stick urine. I pazienti con score maggiore erano a maggior rischio di infezioni batteriche invasive e necessitavano di una terapia antibiotica immediata (sensibilità; 94%, specificità; 81%) (Galetto Lacour et al., 2008). Bouadma et al., sulla base di in uno studio in adulti ricoverati in terapia intensiva hanno proposto un algoritmo diagnostico che considera il dosaggio sierico di procalcitonina come indicatore di infezioni batterica severa e discriminante nell’utilizzo della terapia antibiotica (Bouadma, 2010). Da sottolineare che i dati della letteratura sono stati ottenuti prevalentemente in adulti, sarebbe quindi necessario condurre indagini in pazienti pediatrici. Sepsi neonatale L’utilizzo della PCT come marcatore precoce di sepsi è influenzato in età neonatale da diversi fattori (Lopez Sastre, 2007). In prima giornata di vita ci può essere un aumento fisiologico della PCT in bambini sani nati a termine o pretermine. La PCT dovrebbe pertanto essere dosata a scopo diagnostico dopo la 48a ora di vita e diversi studi concordano sulla necessità di utilizzare diversi valori soglia di PCT nel pretermine e nel neonato. Inoltre, neonati con asfissia perinatale, emorragie intracraniche, pneumotorace o che siano stati rianimati possono avere valori di PCT che non si differenziano da quelli di neonati settici dopo 48 ore dalla comparsa della sintomatologia. L’ipossiemia potrebbe essere responsabile, da sola, dell’aumento della PCT. La somministrazione di antibiotici in epoca prenatale, perinatale e postnatale può inficiare la relazione tra PCT ed infezione (Lopez Sastre, 2007). Considerate queste variabili, la PCT appare un valido supporto nella diagnosi precoce di sepsi neonatale (Sanders, 2008; Olaciregui, 2009). In aggiunta al dosaggio della PCT, studi recenti suggeriscono l’importanza del dosaggio sierico precoce di IL-6 e IL-8 nella diagnosi e come indicatori di severità nelle infezioni sistemiche da Streptococcus piogenes, e più in generale, nelle sepsi in età neonatale (Verboon-Maciolek, 2006). Inoltre, nelle sospette sepsi precoci (entro le 72 ore di vita) il dosaggio combinato dell’IL-8 e della PCR sembrerebbe poter discriminare i neonati che devono essere sotto- 17 M. Cellai Rustici et al. posti a terapia antibiotica immediata rispetto a quelli che possono essere osservati nel tempo (Caldas, 2008). Purtroppo i costi di tali dosaggi sono elevati e non tutti gli ospedali sono in grado di eseguirli (Verboon-Maciolek, 2006). Infezioni delle vie urinarie Nei bambini circa il 5% delle infezioni batteriche è rappresentato da infezioni delle vie urinarie. La febbre, i brividi, il dolore al fianco, l’incremento dei livelli di PCR e di velocità di eritrosedimentazione (VES) e dei GB sono i criteri tradizionali utilizzati nella diagnosi di infezione delle alte vie urinarie, anche se il loro ruolo nella diagnosi precoce di pielonefrite è dubbio (Huang, 2007). La sensibilità della PCR nella diagnosi di pielonefrite varia dall’84% al 94% (per valori rispettivamente > di 20mg/L e > di 40 mg/L), mentre la sua specificità risulta bassa (dal 31% al 55%). I GB, in base ai pochi studi pubblicati, sembrano avere minor sensibilità (62%) e maggior specificità (63%) della PCR (Huang, 2007). Negli ultimi due anni molti autori si sono concentrati sul ruolo della procalcitonina e delle interleuchine 6 e 8 come marcatori precoci di pielonefrite in bambini con sospetta infezione delle vie urinarie. La PCT sembra essere più utile della PCR, dei GB e della VES nella distinzione tra pielonefriti e infezioni delle basse vie urinarie (sensibilità 70,3-94,1%; specificità 82,6-89,7%) (Mohkam, 2008). In altri studi, elevati livelli sierici di PCT, IL-6 e di IL-8 sembrano un fattore predittivo negativo per lo sviluppo del danno renale (Mantadakis, 2009). Inoltre, il dosaggio urinario di IL-6 e IL-8 potrebbe essere utilizzato come test non invasivo nel monitoraggio delle infezioni delle alte vie urinarie e della risposta al trattamento (Mohkam, 2008). Infezioni delle vie respiratorie La diagnosi microbiologica delle polmoniti acquisite in comunità e la distinzione tra polmoniti da batteri tipici ed atipici e polmoniti virali è difficile. A tale proposito, sono stati fatti molti sforzi per valutare il significato dei risultati clinici, radiologici e dei marcatori infiammatori aspecifici (Don, 2009). In corso di infezioni delle vie respiratorie è stato studiato sia il dosaggio singolo che combinato di GB, neutrofili, PCT, VES e PCR. Secondo Don et al. né il dosaggio singolo né la loro combinazione sono aiuto nella diagnosi differenziale tra polmoniti batteriche e virali. Valori più elevati di tali indici di flogosi sembrerebbero correlare con la presenza, alla radiografia del torace, di infiltrato alveolare e con una maggior compromissione clinica generale, sebbene anche l’associazione tra marcatori di flogosi (PCR, PCT, VES e GB) e radiografia del torace non sia dirimente nella diagnosi differenziale tra polmoniti batteriche e virali (Don, 2009). Altri autori hanno suggerito che la PCR da sola è un indice di polmonite batterica migliore rispetto alla conta dei GB e dei neutrofili, dimostrandosi significativamente più elevata nelle polmoniti batteriche rispetto alle virali. Al contrario, secondo Khan e coll. la PCT avrebbe una maggior accuratezza della PCR nella diagnosi precoce di polmoniti batteriche acquisite in comunità (sensibilità rispettivamente 89% vs. 79%) (Khan, 2010). In altri studi, invece, la procalcitonina e la PCR sembrano offrire le stesse informazioni rispetto diagnosi eziologica delle infezioni delle vie respiratorie (Don, 2009). Per quanto riguarda il ruolo di alcune interleuchine, l’aumento dei livelli sierici di IL-4 e IL-8 sembrerebbe correlare con infezioni virali severe, in particolare quelle da Adenovirus (Moro, 2009). Infezioni ossee ed articolari Nella diagnosi delle infezioni ossee ed articolari il gold standard è rappresentato dall’isolamento del microrganismo responsabile 18 dell’infezione direttamente dalla biopsia ossea o dal liquido sinoviale. La sensibilità di questo esame in età pediatrica varia però dal 30% al 90% (Faesch, 2009). La febbre, la presenza di elevati livelli di PCR e VES associati a valori di GB >13.000/mm3 possono essere di aiuto nella diagnosi di queste infezioni, ma non sono sufficientemente specifici. I GB possono infatti risultare nella norma in circa l’80% dei pazienti. Negli ultimi anni sono stati condotti due studi nel tentativo di definire il ruolo di altri marcatori sierici, fra i quali la PCT, nella diagnosi delle infezioni ossee ed articolari. Il primo studio, condotto da Butbul-Aviel ha evidenziato che la PCT in corso di osteomieliti aveva una sensibilità del 43,5% e una specificità del 100% dimostrandosi un buon supporto nella diagnosi differenziale tra osteomieliti e artriti settiche (Pediatr Emerg Care 2005). Il secondo studio riporta che il dosaggio della PCT non era di nessun aiuto nella diagnosi delle osteomieliti (Faesch, 2009). Tuttavia, gli studi fino ad ora condotti non sono sufficienti a definire con chiarezza il ruolo della PCT come marcatore di infezioni ossee ed articolari (Faesch, 2009). Infezioni nei bambini immunodepressi Nei pazienti neutropenici la febbre è definita come una singola misurazione orale della temperatura maggiore di 38,3°C od una temperatura maggiore o uguale a 38°C per più di un ora (Sakr, 2008). La presenza di febbre non è però specifica per infezione, né indicativa della sua eziologia e può essere causata o influenzata dall’assunzione di alcuni farmaci o da situazioni non infettive (Sakr, 2008). Un’infezione nei pazienti neutropenici può pertanto essere molto difficile da diagnosticare ed il trattamento antibiotico empirico deve essere iniziato precocemente per evitare la rapida evoluzione verso complicanze o il decesso (Sakr, 2008). Studi su adulti neutropenici hanno dimostrato che essi sono in grado di produrre elevate quantità di PCT in caso di infezioni batteriche acute e che l’attività della malattia oncologica sottostante, il danno tissutale indotto dai chemioterapici e la neutropenia non inducono alcun aumento della PCT. Tuttavia, secondo studi recenti i livelli sierici di PCT e PCR aumenterebbero in corso di trasfusione di granulociti, graft-versus-host-disease (aGvHD) ed utilizzo di anticorpi monoclonali (per es. Alemtuzumab) (Dornbusch, 2008). Sakr in una recente revisione su pazienti neutropenici ha suggerito che la PCT potrebbe essere più utile della PCR nella diagnosi differenziale delle sepsi rispetto alle cause non infettive di febbre (Sakr, 2008). Al contrario Santolaya et al. in un studio multicentrico hanno evidenziato che in pazienti febbrili di età ≥ 12 anni neutropenici il riscontro di valori di PCR ≥ 90 mg/L e di IL-8 ≥ 200 pg/mL sono buoni indicatori di sepsi non clinicamente evidente nelle prime 24 ore di ospedalizzazione (Santolaya et al., 2008). Il riscontro di valori elevati di PCT, IL-6 e IL-8 entro 24-48 ore dalla comparsa della febbre in bambini immunocompromessi sembra quindi un indice affidabile di infezione batterica. Gli studi in età pediatrica non sono però sufficienti a stabilire con certezza il ruolo della PCT e delle citochine nell’identificazione precoce di sepsi batteriche in bambini neutropenici (Santolaya, 2008). Ruolo della procalcitonina in condizioni di flogosi non infettiva L’incremento dei valori sierici di PCR, PCT è stato osservato anche in condizioni infiammatorie non indotte da infezioni batteriche (Scirè, 2006; Dornbush, 2008). Un’elevata concentrazione di PCT, IL-6, IL-8, TNF-α e INF-γ è stata infatti osservata nella sindrome da risposta infiammatoria grave o severe systemic inflammatory response syndrome (SIRS) in assenza di sepsi batterica (Scirè, 2006). Gli studi sono scarsi nelle vasculiti. Due lavori in età pediatrica sull’andamento della PCT nella malattia di Kawasaki (MK) sono con- Nuovi markers di infezione batterica: utilità clinica in età pediatria trastanti. Per alcuni autori la PCT sarebbe il miglior indice predittivo della formazione di aneurismi coronarici in corso di malattia, mentre per altri non avrebbe alcun significato predittivo (Okada, 2004; Catalano-Pons 2007). Secondo Okada et al. su una casistica di 25 bambini la PCT sarebbe un indice utile per la diagnosi differenziale della MK da infezioni virali e da altre patologie autoimmuni. ma non da infezioni batteriche (Okada et al., 2004). Nelle malattie sistemiche autoimmuni (come per esempio il lupus eritematoso sistemico e l’artrite reumatoide), la PCT è stata valutata solo su pazienti adulti e sembra elevarsi solo in caso di sovrainfezione batterica (Scirè, 2006). Vi sono pochi lavori sul ruolo della PCT nelle MICI e le diarree di altra natura in bambini. Da tali studi emerge che la PCT e la PCR sono molto più elevate in caso di diarrea di origine batterica che in corso di riacutizzazione di MICI (Korczowski, 2004). Il valore sierico di PCT risulta sovrapponibile nella diarrea di origine virale e nella riacutizzazione di MICI. Peraltro, in uno studio su adulti, era stato proposto l’utilizzo della PCT come marcatore sierologico di attività della malattia. Attualmente, nella diagnosi di riacutizzazione di MICI la PCR risulta essere il marcatore più utile, in quanto è un predittore di riacutizzazione e, in caso di rettocolite ulcerosa, è un fattore prognostico negativo per colectomia (Moscandrew, 2009). Conclusioni I valori di GB, neutrofili e PCR sono i parametri di laboratorio attualmente più utilizzati in pediatria nella diagnosi di infezione batterica in un bambino febbrile senza segni di localizzazione. La PCR e la PCT sembrano essere marcatori di infezione batterica più sensibili e specifici rispetto alla conta dei GB ed il valore assoluto dei neutrofili. Nelle infezioni batteriche invasive senza apparenti segni di localizzazione la PCR da sola non è in grado di identificare i bambini con sepsi (Sanders, 2008). Molti studi su neonati e bambini sottolineano che l‘incremento dei livelli sierici di PCT è predittivo di infezione batterica grave e che la sensibilità e la specificità di questo marcatore sono più elevate rispetto alla PCR nella differenziazione tra infezioni batteriche e virali (Verboon-Maciolek, 2006; Galetto Lacour, 2008). Il dosaggio isolato della PCT risulta però avere una scarsa capacità diagnostica per infezioni batteriche localizzate o sistemiche (Jones, 2007). In particolare, nelle prime il dosaggio della PCT non sembra apportare ulteriori informazioni diagnostiche rispetto ai tradizionali marcatori di infezione. Il suo valore predittivo aumenta solo in caso di condizione invasiva, come osservato in corso di infezioni delle vie urinarie, in cui elevati livelli sierici di PCT sembrano correlare con la presenza di danno renale. Gli studi sul ruolo delle interleuchine, in particolare IL-6 e IL-8, nella diagnosi precoce di infezione batterica, suggeriscono che il loro impiego potrebbe essere utile in corso di pielonefrite e sepsi in epoca neonatale. I dati sono però ancora insufficienti per definire l’importanza di questi marcatori nella diagnosi di infezioni batteriche. A causa degli elevati costi e del tipo di metodica non tutti gli ospedali possono inoltre beneficiare di tali indagini. Nei pazienti immunocompromessi elevati livelli di PCT, PCR, IL-6 ed IL-8 entro 24-48 ore dalla comparsa della febbre sembrano essere un indice affidabile di infezione batterica, sebbene siano necessari ulteriori studi al riguardo (Dornbusch, 2008). Il marcatore di laboratorio in grado da solo di guidare la diagnosi e la scelta terapeutica in bambini febbrili non è ancora stato identificato. L’osservazione clinica resta di fondamentale importanza nella diagnosi precoce di infezione batterica. Il dosaggio combinato di diversi marcatori di infezione, fra cui la PCT e la PCR, potrebbe tuttavia essere utile, soprattutto nella diagnosi precoce di sepsi nei neonati e nei lattanti (Okada, 2004). Nello studio di Galetto Lacour e coll., l’utilizzo di uno score diagnostico di laboratorio associato ad uno score clinico nella diagnosi precoce di infezioni batteriche invasive e come indici di terapia antibiotica ha dato buoni risultati. Recenti studi in adulti hanno proposto il dosaggio sierico di PCT come discriminante nell’inizio della terapia antibiotica ed il monitoraggio della risposta alla terapia in corso di infezione batterica sistemica. Sarebbero utili ulteriori approfondimenti in età pediatrica. Nuovi potenziali candidati come marcatori di infezione batterica sembrerebbero essere la lattoferrina, le mieloperossidasi, la neopterina e le prostaglandine. Lo scarso numero di studi in adulti e bambini e il ristretto numero di pazienti osservati non permette di valutare il ruolo di questi parametri ai fini diagnostici. Box di orientamento Cosa si sapeva prima Nei bambini febbrili la conta dei globuli bianchi, la PCR e il numero assoluto di neutrofili sono i marcatori di laboratorio più utilizzati nella diagnosi di infezione batterica. Questi marcatori non sono in grado di dare informazioni sull’eziologia dell’infiammazione e sulla gravità dell’infezione. Cosa sappiamo adesso La PCR e la PCT sono marcatori di infezione più accurati rispetto alla conta dei globuli bianchi e al valore assoluto dei neutrofili nella diagnosi di infezione batterica in età pediatrica. Il dosaggio combinato di questi markers offre una maggior performance diagnostica in bambini con sospetta sepsi, soprattutto in epoca neonatale. I dosaggi delle interleuchine 6 e 8 potrebbero essere di supporto nella diagnosi precoce di sepsi neonatale e nel monitoraggio del decorso clinico in presenza di pielonefriti e sepsi. Cosa fare nella pratica clinca L’utilizzo combinato di GB, neutrofili e PCR offre un buon supporto diagnostico alla clinica in bambini con febbre senza segni di localizzazione. Il dosaggio della PCT in aggiunta a questi parametri è utile in fase precoce di infezione ed in condizioni particolari come le unità di terapia intensiva neonatale e i dipartimenti pediatrici di emergenza di fronte a neonati e lattanti febbrili. Dati i costi elevati dei dosaggi sierici delle interleuchine e la scarsità di dati in letteratura non è ancora possibile determinare il ruolo di questi parametri nella diagnosi di infezione batterica. 19 M. Cellai Rustici et al. Bibliografia Andreola B, Bressan S, Callegaro S, et al. Procalcitonin and c-reactive protein as diagnostic markers of severe bacterial infections in febrile infants and children in the emergency department. Pediatr Infect Dis J 2007;26:672-7. ** Studio relativo al valore predittivo di PCT, PCR, GB e neutrofili in corso di infezioni batteriche gravi in bambini di età compresa tra 7 giorni e 36 mesi con febbre. Bouadma L, Luyt CE, Tubach F, et al. Use of procalcitonin to reduce patients’ exposure to antibiotics in intensive care units (PRORATA trial): a multicentre randomised controlled. Lancet 2010;375:463-74. * Vedi testo (studio commentato). Butbul-Aviel Y, Koren A, et al. Procalcitonin as a diagnostic aid in osteomyelitis and septic arthritis. 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Corrispondenza Maurizio de Martino, Dipartimento di Pediatria, Università di Firenze Diparimento di Medicina Pediatrica, Ospedale Pediatrico Anna Meyer, viale Pieraccini 24, 50139 Firenze. Tel. +39 055 5662494 - +39 055 418211. Fax +39 055 4221012. E-mail: [email protected] 20 Gennaio-Giugno 2010 • Vol. 40 • N. 157-158 • Pp. 21-27 Ematologia Recenti progressi in ematologia pediatrica Paolo Moi, Simona Campus Dipartimento di Scienze Biomediche e Biotecnologie, Università di Cagliari, Ospedale Regionale per le Microcitemie Riassunto Tra le novità in ematologia pediatrica emerse nella letteratura recente abbiamo scelto di presentare i progressi nell’identificazione di geni regolatori dell’emoglobina F culminati con la scoperta del ruolo chiave svolto dal fattore Bcl11A. Studi funzionali hanno evidenziato che BCL11A agisce da repressore dell’espressione γ-globinica e regola lo switching delle emoglobine, imponendosi come il principale modificatore della gravità clinica della β-talassemia e dell’anemia falciforme. Tra le altre novità segnaliamo i progressi nella diagnosi delle delezioni estese del cluster α-globinico resi possibili dalla messa a punto della tecnica MLPA e l’identificazione di patologie talassemiche da difetti genici in trans generalmente codificanti per fattori di trascrizione. Importanti progressi si sono realizzati anche nella scoperta di nuove anemie microcitiche genetiche associate o meno a turbe del metabolismo del ferro ed emocromatosi. Per completezza abbiamo incluso nella revisione anche alcuni difetti genetici descritti solo in modelli animali che ci attendiamo anticipino la descrizione della corrispondente patologia umana. Summary Among the most recent advances in the field of pediatric hematology, we selected to report the identification of genes that regulate the expression of hemoglobin F. We highlighted the discovery of the crucial role played by BCL11A, a repressor of the γ-globin gene expression that regulates the hemoglobin switching and appears to be the most important modifier of the clinical severity of β-thalassemia and sickle cell disease. We next report recent progresses in the diagnosis of large deletions of the α- and β-globin gene clusters made possible by the development of the Multiplex Ligation-dependent Probe Amplification (MLPA) assay. Further advances have been made in the identification of regulatory genes that are responsible for thalassemias not linked to the β-globin gene cluster. Finally, we present the discovery of novel genetic microcytic anemias with or without hemochromatosis that were possible only after the discovery of the corresponding defect in animal models. Novità nel campo della β-talassemia e delle emoglobinopatie Identificazione dei più importanti regolatori dell’emoglobina fetale modificatori genetici della β-talassemia e dell’anemia falciforme La β-talassemia è caratterizzata da notevole variabilità nell’espressione clinica. È noto che la gravità clinica della malattia è influenzata oltre che dal tipo di difetto genico anche da condizioni genetiche in grado di compensare lo sbilanciamento della sintesi globinica indotto dalla talassemia. La coereditarietà dell’α-talassemia e/o la persistenza ereditaria di emoglobina fetale (HPFH) sono gli esempi più noti di miglioramento clinico attribuibile al compenso dello squilibrio globinico. Nello sforzo di identificare nuovi geni modificatori, gli studi principali sono stati per decenni rivolti all’individuazione di fattori regolatori dell’espressione dell’emoglobina fetale. Fino a 2 anni fa, queste ricerche avevano condotto all’identificazione di numerosi fattori di trascrizione, ma non avevano (Camaschella et al., 2007) consentito di scoprire nuovi geni modificatori della β-talassemia. Negli ultimi 2 anni, approcci di genetica di popolazione hanno invece portato alla scoperta di alcuni fattori regolatori dell’emoglobina fetale che sembrano spiegare gran parte della variabilità clinica sia della talassemia che dell’anemia falciforme. Studi genetici In un primo studio d’associazione su scala genomica condotto su una popolazione d’individui distinti in alti o bassi produttori di cellule contenenti emoglobina fetale (F cellule), il gruppo della Thein in Inghilterra ha evidenziato che polimorfismi del gene BCL11A, appartenente alla famiglia degli Zn finger, erano fortemente associati con variazioni nel numero di F cellule circolanti (Menzel et al., 2007). Nello stesso studio si confermava anche l’associazione tra numero di F cellule e una regione intergenica tra i geni HBS1L-MYB, mentre un terzo locus con forte associazione sul cluster dei geni globinici era probabilmente da riferire al polimorfismo XmnI sul promotore γ-globinico, già noto per la sua influenza sulla produzione di emoglobina fetale. Quasi contemporaneamente l’associazione del gene BCL11A con la quantità di emoglobina fetale è stata confermata sulla popolazione sarda in uno studio d’associazione su scala genomica molto più ampio (Uda et al., 2008). In questo studio la significatività più alta dell’associazione era con polimorfismi del gene BCL11A e si confermavano le precedenti associazioni sul cluster globinico e sulla regione HBS1L-MYB. Evidenze su modelli cellulari e murini Utilizzando RNA interferenti BCL11A-specifici, Sankaran et al. hanno dimostrato che l’azione fisiologica di BCL11A è quella di sopprimere la produzione di catene γ-globiniche e quindi dell’emoglobina fetale (Sankaran et al., 2008). In uno studio più recente (Sankaran et al., 2009), gli stessi autori confermavano in vivo la funzione repressiva di BCL11A sui geni γ-globinici in modelli murini ottenuti dall’incrocio di topi knock out deficienti in BCL11A con topi transgenici contenenti l‘intero cluster β-globinico umano (β-YAC). Nei topi composti genetici β-YAC /BCL11A null non si verificava il normale evento della commutazione delle emoglobine da fetali ad adulte (hemoglobin switching) e si osservava una persistenza elevata di emoglobina fetale nell’età adulta. Queste osservazioni, oltre che chiarire uno dei misteri più affascinanti della regolazione dell’emoglobina, gettano le basi per una possibile futura terapia della β-talassemia e dell’anemia falciforme con antagonisti o inibitori della proteina BCL11A. Evidenze cliniche Infine, l’importanza dei geni BCL11A e MYB è stata consolidata da osservazioni cliniche in soggetti umani. In Sardegna, polimorfismi del 21 P. Moi, S. Campus gene BCL11A hanno mostrato un’associazione fortemente significativa con la diversa evoluzione clinica della β-talassemia (Uda et al., 2008). Infatti, la variante omozigote C/C del polimorfismo intronico di BCL11A è stata rinvenuta nel 19% delle forme attenuate (talassemia intermedia), ma solo nel 4% delle forme gravi (talassemia major). La distribuzione asimmetrica sicuramente non casuale (p = 6,49 x106) in gruppi omogenei per le altre variabili genetiche note, supporta un chiaro effetto migliorativo della variante genica sulla gravità della malattia. L’associazione di polimorfismi BCL11A con l’elevata emoglobina fetale è stata confermata in una coorte di 1242 soggetti afro-americani con anemia falciforme (Uda et al., 2008). In una coorte ancora più estesa comprendente individui brasiliani con anemia falciforme, i polimorfismi dei geni BCL11A, MYB e XmnI erano fortemente associati con la riduzione della frequenza degli episodi dolorosi attribuibili a crisi falcemiche (Lettre et al., 2008). Considerando che il numero di episodi dolorosi è strettamente correlato con la gravità della malattia, la presenza dei polimorfismi genetici può essere utilizzata per la predizione della gravità dell’anemia falciforme. In Sardegna uno studio simile, condotto su individui β-talassemici, ha dimostrato che la combinazione di polimorfismi protettivi dei geni BCL11A, HBS1L-MYB e dell’α-talassemia spiega l’evoluzione favorevole che si osserva nella maggior parte dei soggetti sardi con talassemia intermedia, rendendo conto del 75% della variabilità fenotipica osservata (Galanello et al., 2009). Ciò induce a ipotizzare che, anche in questo caso, la caratterizzazione genotipica sarebbe d’ausilio al clinico nella decisione spesso difficile riguardo all’inizio della terapia trasfusionale nei soggetti talassemici con evoluzione clinica a cavallo tra la forma intermedia e la major. Le analisi genetiche e cliniche fin qui effettuate inducono a ritenere che i geni regolatori fetali recentemente scoperti siano i più importanti determinanti della variazione genetica nella quantità di emoglobina fetale e che la rimanente quota di varianza genetica non ancora spiegata sia da distribuire tra numerosi altri geni contribuenti ciascuno con piccoli effetti. Anemie microcitiche genetiche di recente caratterizzazione Le cause più frequenti di anemia microcitica sono la carenza di ferro e lo stato di portatore di α- o β-talassemia. Più raramente l’anemia microcitica è attribuibile a difetti genetici che interferiscono con il metabolismo del ferro o dell’eme. Questi difetti, pur riconosciuti da tempo come entità cliniche distinte, solo recentemente sono stati chiariti nei loro meccanismi molecolari. La recente accelerazione nella conoscenza della patogenesi di queste malattie è stata possibile solo dopo che il gene responsabile è stato identificato in modelli animali pre-esistenti o artificialmente creati dall’uomo con l’inattivazione genica per ricombinazione omologa. I difetti genetici che causano anemie microcitiche sono strettamente interconnessi con i difetti del metabolismo del ferro che è riassunto schematicamente in Figura 1. Per un approfondimento sulle anemie microcitiche genetiche si rimanda all’esaustiva e aggiornata revisione pubblicata su Haematologica (Iolascon et al., 2009). Talassemie atipiche β-talassemia maior o intermedia da interazione β-eterozigosi/ duplicazione del cluster dei geni α-globinici (αααα/ααα o αααα/αα) Le anemie microcitiche con fenotipo β-talassemico rappresentano da sempre un capitolo estremamente affascinante e complesso dell’ematologia pediatrica. 22 Tabella I. Anemie microcitiche genetiche di recente definizione molecolare. A. Talassemie atipiche • β-talassemia da interazione β-eterozigosi/ quadruplicazione cluster geni α-globinici • Talassemie da difetti in geni regolatori o modificatori –– β-talassemia eterozigote da difetto GATA-1 –– β-talassemia eterozigote da difetto EKLF/KLF1 –– β-talassemia eterozigote da difetto TFIIH –– Malattia da emoglobina H da difetto ATR-X –– α-talassemia da difetto del gene AHSP B. Anemie emocromatosiche sideroblastiche • Difetto di ALAS • Difetto ABCB7 • Difetto di Glutaredoxina 5 C. Anemie emocromatosiche non sideroblastiche • Difetto DMT1 • Difetto mitoferrina* D. Anemie sideropeniche genetiche • • • • • Difetto TMPRSS6 (IRIDA) Difetto di Efestina* Difetto STAT5A/B* Difetto Sec15L* Difetto di IRP2* * Fenotipo descritto solo in modelli animali Classicamente le β-talassemie sono causate da mutazioni autosomiche recessive nel gene che codifica per le catene β-globiniche dell’emoglobina con deficitaria produzione di emoglobina adulta α2β2 (HbA) e conseguente eritropoiesi inefficace. La ridotta o assente produzione di catene beta determina uno sbilanciamento del rapporto esistente tra catene alfa e beta prodotte a livello di precursori eritroidi con eccesso relativo di catene alfa (α/β > 1). Quest’ultime, essendo altamente instabili, tendono a precipitare già allo stadio di eritroblasti determinando un danno di membrana e conseguente eritropoiesi inefficace. L’entità dello sbilanciamento, variabile da soggetto a soggetto, condiziona il fenotipo, estremamente variabile, dei pazienti affetti da β-talassemia. Accanto allo stato di portatore asintomatico (talassemia minor) si ritrovano le forme con lieve-moderata anemia non trasfusione-dipendente (talassemia intermedia) fino ad arrivare alle forme classiche con anemia grave trasfusione-dipendente (talassemia major). L’estrema eterogeneità fenotipica riscontrata nelle sindromi talassemiche può essere spiegata dai molteplici meccanismi molecolari implicati, purtroppo solo in parte noti, che sono in grado di influenzare il rapporto di produzione tra catene alfa e non alfa. Il fatto di co-ereditare un’α-talassemia o, al contrario, una triplicazione dei geni alfa e/o di presentare un aumento dell’emoglobina fetale (HbF) consentirebbe così di attenuare o aggravare il fenotipo atteso, sulla base del solo genotipo al locus beta. Negli ultimi anni, l’avvento di metodiche di biologia molecolare ad alta risoluzione come la Multiplex ligation-dependent probe amplification (MLPA) ha permesso di spiegare perché alcuni pazienti che risultavano essere “semplici” eterozigoti per la β-talassemia potessero presentare un fenotipo intermedio o major. Nel 2008 veniva riportato il caso di un paziente con trait β-talassemico che presentava un fenotipo intermedio di gravità inaspettata, tale da richiedere regolari emotrasfusioni (Harteveld et al., 2008). Le indagini Recenti progressi in ematologia pediatrica molecolari al locus alfa avevano permesso di identificare un riarrangiamento con triplicazione dei geni α-globinici che, in associazione alla condizione di eterozigosi β°/β, non poteva tuttavia giustificare un quadro clinico così severo. È noto infatti, come l’eccesso di un singolo gene α, sia in grado solo di generare un’anemia lievemente più pronunciata nel paziente eterozigote per β-talassemia (TraegerSynodinos et al., 1996). La disponibilità dell’MLPA, ha consentito l’identificazione nello stesso paziente di una duplicazione segmentale estesa, con quadruplicazione dei geni alfa, sull’altro cromosoma 16 (αααα/ααα). Il contributo di 3 geni α-globinici sovrannumerari, consentiva così di spiegare l’elevato sbilanciamento biosintetico tra le catene globiniche prodotte. Nel 2009, sempre grazie all’impiego dell’MLPA, è stato possibile di- mostrare che alcuni pazienti sardi eterozigoti per β-talassemia, ma affetti da talassemia intermedia, avevano un cluster alfa duplicato associato con un normale cluster alfa sull’altro cromosoma (αααα/ αα) (Sollaino et al., 2009) e non un’interazione β°/β silente come fino ad allora ritenuto. In questi individui la maggior gravità dello squilibrio biosintetico si attribuisce alla maggior estensione della duplicazione del cluster α-globinico che include anche le regioni enhancer (HS40) a monte dei geni α. La doppia dose di stimolo dell’enhancer duplicato sui geni α-globinici a valle potrebbe spiegare la talassemia major con soli 6 geni α in luogo dei 7 geni α descritti nei pazienti precedenti. Ai fini della consulenza genetica è importante sottolineare che questa combinazione genetica comporta la possibilità di trasmissione autosomica dominante della β-talassemia con Figura 1. Omeostasi sistemica del ferro e regolazione dell’espressione dell’epcidina. Il ferro è assorbito per opera del trasportatore divalente di metalli 1 (DMT-1) dagli enterociti duodenali col concorso della ferroreduttasi Steap-3 ed esportato nel plasma dalla ferroportina col concorso della ferrossidasi Efestina. Nel plasma il ferro viaggia legato alla transferrina (Tf) e viene captato dal recettore della transferrina1 (TfR1) da tutti i tessuti incluso il midollo osseo, dove è utilizzato per l’eritropoiesi. Gli eritrociti senescenti vengono captati dai macrofagi della milza e il loro ferro riciclato nel plasma. Il ferro plasmatico in eccesso rispetto alla capacità legante della transferrina si deposita nel fegato. L’epcidina, un ormone peptidico secreto dal fegato, regola l’assorbimento enterico, il riciclo e la mobilizzazione del ferro macrofagico legandosi alla ferroportina e determinandone la internalizzazione e degradazione nei lisosomi. Il gene HAMP, che codifica per l’epcidina, è attivato in risposta all’eccesso di ferro o da citochine infiammatorie quali IL6. L’aumento del ferro e della transferrina plasmatica determinano la stabilizzazione del recettore transferrinico 2 (TfR2) dovuta alla traslocazione della proteina dell’emocromatosi (HFE) dal TfR1 al TfR2. Il complesso TfR2-HFE si associa con l’emojuvelina (HJV), un corecettore di proteine morfogenetiche dell’osso (bone morphogenetic proteins, BMPs) facilitandone l’attivazione della via segnale BMPR/R-SMAD/ SMAD4 che conduce alla stimolazione dell’espressione del gene HAMP. Alcune BMPs attivano la via segnale indipendentemente dall’azione del complesso HFE/HJV/TfR2. La riduzione della concentrazione di ferro stimolerebbe le proteasi TMPRSS6/matriptasi-2 o furina alla digestione della HJV e al conseguente distacco della forma solubile di emojuvelina (sHJV) che blocca il recettore BMP. L’espressione di epcidina è possibile per una via alternativa in cui IL6 o altre citochine, interagendo con il recettore IL6R, fosforilizzano e attivano STAT3 (signal transducer and activator of transcription 3). 23 P. Moi, S. Campus un meccanismo finora sconosciuto in quanto entrambi gli alleli determinanti la talassemia possono provenire dallo stesso genitore. Sono infatti conosciuti casi di individui affetti da talassemia major nati con la trasmissione ereditaria appena descritta da coppie in cui un membro aveva talassemia intermedia e l’altro era ematologicamente normale. Talassemie da difetti in geni regolatori o modificatori β-talassemia eterozigote da difetto GATA1 (associata a porfiria eritropoietica e piastrinopenia) La porfiria eritropoietica congenita (congenital erythropoietic porfiria, CEP) è una rara patologia a trasmissione autosomica recessiva causata da difetti dell’enzima Uroporfirina-sintasi (UROS). Il difetto conduce ad accumulo intraeritrocitario e tessutale di un metabolita alternativo chiamato uroporfirina I (URO I) responsabile del quadro clinico di anemia emolitica e fotosensibilità. Nella maggior parte dei difetti UROS, l’analisi molecolare del gene ha permesso l’identificazione di mutazioni puntiformi intrageniche. Nel 2001 è stata descritta anche la presenza di mutazioni puntiformi a livello del promotore eritroide-specifico del gene URO-sintasi (Solis et al., 2001) in pazienti con fenotipo classico di CEP semplici eterozigoti per le mutazioni classiche. Le nuove mutazioni del promotore occorrevano in siti di legame di consenso di GATA-1, il fattore di regolazione più importante dell’eritropoiesi. Sulla base della precedente osservazione, nel 2007 è stato descritto un caso di CEP ancora più interessante (Phillips et al., 2007). In un soggetto di sesso maschile con fenotipo classico di CEP (dermatite bollosa fotosensibile e aumento delle porfirine urinarie), ma con un’anemia microcitica ipocromica con fenotipo talassemico e piastrinopenia, in luogo dell’usuale anemia emolitica, si è scoperto che la mutazione non era sul gene UROS, né sui geni globinici, ma era in trans nello Zn finger del gene GATA-1 (R216W). β-talassemia eterozigote da difetto EKLF/KLF1 Recentemente, un’anemia diseritropoietica precedentemente idiopatica è stata attribuita ad una mutazione eterozigote non conservativa, Glu325Lys, nello Zn finger del fattore di trascrizione eritroide specifico EKLF (Singleton et al., 2009). L’anemia associata è di tipo normocromico normocitico con esordio precoce ed è di severità tale da richiedere trasfusioni regolari. Nel sangue periferico si riscontrano inclusioni atipiche eritrocitarie e la persistenza delle globine embrio-fetali (ζ, ε e γ) con 40% di HbF. La mutazione riduce notevolmente l’espressione del gene β-globinico senza modificare il legame di EKLF al DNA. Oltre che in fattori di trascrizione eritroide specifici quali GATΑ-1 e EKLF, difetti di fattori di trascrizione responsabili di anemie microcitiche talassemiche sono stati precedentemente descritti in altri 2 fattori di trascrizione che, pur essendo espressi ubiquitariamente, esercitano un controllo preferenziale sui geni α- o β-globinici. Il primo è il difetto del gene ATRX (α-thalassemia mental retardation syndrome x-linked) che associa un quadro sindromico di ritardo mentale ad una malattia da emoglobina H (Gibbons et al., 1995). Il secondo è il difetto del gene TFIIH che determina tricotiodistrofia e un quadro clinico di β-talassemia minor (Viprakasit et al., 2001). Infine è stata recentemente descritta anche una forma di α-talassemia umana legata al difetto nel gene modificatore AHSP (Pissard et al., 2009), una proteina chaperone con funzioni stabilizzatrici sulle catene α-globiniche. Un difetto missenso Val56Gli allo stato omozigote determina instabilità della proteina AHSP, riduzione di 2-3 volte dell’affinità per le catene α-globiniche e anemia emoli- 24 tica di tipo microcitico ipocromico. Paradossalmente, il difetto in un gene modificatore produce un’anemia più severa dei difetti strutturali dei geni α-globinici. Anemie emocromatosiche sideroblastiche Le anemie sideroblastiche sono caratterizzate da ipocromia periferica con emocromatosi e sideroblasti ad anello nel midollo osseo evidenziabili con la colorazione al Blu di Prussia (Camaschella, 2008; Sheftel et al., 2009). Il patognomonico anello che contorna i nuclei degli eritroblasti è formato da mitocondri infarciti di ferro. I sideroblasti sono la conseguenza di difetti in proteine mitocondriali che regolano il metabolismo del ferro o delle protoporfirine (Fig. 2). L’anemia sideroblastica legata all’X è provocata da difetti della prima tappa biosintetica delle protoporfirine, il difetto di δ-aminolevulinico sintasi 2 (ALAS2), l’isoforma eritroide specifica situata sul cromosoma X. Sono noti sia un modello di zebrafish (sauternes, sau) (Brownlie et al., 1998), che un modello murino (Yamamoto and Nakajima, 2000). L’anemia è di tipo microcitico ipocromico con sideroblasti midollari ad anello che, paradossalmente, si producono quando residua una debole attività enzimatica, ma non nel difetto totale. Il ferro non incorporato nella protoporfirina si deposita sotto forma di ferritina nei mitocondri perinucleari generando specie di ossigeno altamente reattive (Reactive oxygen species, ROS) e morte cellulare precoce (Cazzola et al., 2003). L’età d’esordio è variabile e, non trattata, conduce a morte il soggetto in giovane età per emocromatosi di grado elevato sproporzionata rispetto al numero di trasfusioni ricevute. In caso di splenectomia sono presenti in circolo siderociti. Poiché le mutazioni geniche sono spesso situate nel dominio d’interazione con il cofattore piridossalfosfato, una parte di queste anemie sideroblastiche risponde al trattamento con piridossina (Cotter et al., 1999). Anemia sideroblastica con atassia legata all’X Questa sindrome è dovuta al difetto del gene trasportatore ABCB7 (Allikmets et al., 1999), implicato nel trasporto dei cluster ferro-sulfurici dal mitocondrio al citosol. L’anemia ipocromico-microcitica è per lo più modesta ed è quasi sempre preceduta dall’atassia progressiva truncale legata a degenerazione spino-cerebellare. Il ferro si accumula nei mitocondri e la protoporfirina libera aumenta nel siero (Bekri et al., 2000). Per analogia con l’atassia di Friedreich, responsiva alla terapia ferrochelante (Boddaert et al., 2007), si ritiene che l’accumulo di ferro sia la probabile causa della degenerazione neuronale. Anemia sideroblastica da difetto di Glutaredoxina Le glutaredoxine sono piccole proteine dei cluster ferro-sulfurici con attività disulfide ossidoreduttasica. Il difetto di glutaredoxina 5 (GRX5) comporta accumulo di ferro mitocondriale e di ROS. La sua assenza nel modello shiraz di zebrafish, determina una grave anemia ipocromica, blocco dell’ematopoiesi definitiva e letalità embrionaria (Wingert et al., 2005). Nell’unico caso umano finora descritto, il paziente presentava anemia microcitica sideroblastica progressiva con l’età fino alla trasfusione-dipendenza (Camaschella et al., 2007). L’anemia era parzialmente responsiva alla terapia ferrochelante con desferroxiamina. Anemie emocromatosiche senza sideroblasti Difetti del trasportatore DMT1 Il difetto del gene DMT1 è stato inizialmente descritto nel modello murino mk (Fleming et al., 1997) e nel ratto belgrade (Fleming et al., Recenti progressi in ematologia pediatrica Figura 2. Localizzazione subcellulare delle proteine i cui difetti determinano anemie genetiche microcitiche negli esseri umani o in modelli animali (*). Sono rappresentati i vari percorsi del ferro intracellulare: l’assorbimento intestinale, l’esporto e il legame alla transferrina, la riduzione a ferroso e l’ossidazione a ferrico, la cattura della transferrina dal TfR1, l’ internalizzazione di TrF1 e Tf, il trasferimento del ferro alla ferritina o ai mitocondri e il riciclo dellaTf e TfR1. La localizzazione di DMT-1 nei microvilli e di efestina sulla membrana basale è specifica degli enterociti. Negli epatociti, la ceruloplasmina (non visualizzata) sostituisce l’efestina nella funzione di ossidoriduzione del ferro ferroso esportato dalla ferroportina. Nella figura è anche schematizzato la regolazione operata dalle IRP tramite legame alla 5’UTR che inibisce la traduzione o il legame agli IRE della 3’UTR che stabilizza l’mRNA e aumenta l’espressione deI RNA bersaglio. I difetti associati ad emocromatosi sono sottolineati. Abbreviazioni: TfR1: Transferrrin receptor 1; Tf: Transferrina; GRX5: glutaredoxina 5; DMT-1: Divalent metal transporter 1; Stat5a/b: Signal transduction and activation of transcription 5; Steap-3: Transmembrane epithelial antigen of the prostate 3; TMPRSS: Type 2 transmembrane serine protease 6; IRP2: Iron responsive protein 2;ALAS: delta-Amino-Levulinic-Acid Synthase; CFS: Cluster ferro-sulfurici. 1998). Entrambi i modelli hanno un difetto dello stesso codone proteico e la stessa mutazione G185R che cade nel dominio transmembranoso della proteina trasportatrice. Il conseguente blocco dell’assorbimento intestinale e del riciclo del ferro macrofagico determina in entrambi gli animali una grave anemia microcitica e ipocromica. L’anemia microcitica da difetto DMT1 esiste anche in zebrafish che, come d’uso nei difetti ematologici in questo modello di pesce, prende il nome di un vino (chardonnay, cdy) (Donovan et al., 2002). Il difetto DMT1 è stato finora descritto in soli 3 soggetti umani. Nei difetti genici gravi, l’anemia è presente fin dalla nascita con microcitosi e marcata ipocromia (Mims et al., 2005). L’anemia è paradossalmente associata ad aumento degli indici di sovraccarico di ferro con saturazione della transferrina e ferritina elevate ed emocromatosi epatica precoce. L’anemia risponde alla terapia con eritropoietina (Pospisilova et al., 2006), ma non alla ferro-chelazione. Il meccanismo del sovraccarico marziale non è stato ancora chiarito. Il difetto di mitoferrina non è stato ancora identificato in patologia umana e verrà descritto nella sezione successiva sui modelli animali. Anemie sideropeniche genetiche Difetto del gene TMPRSS6 (IRIDA) TMPRSS6 o matriptasi-2 è una proteasi serinica transmembranosa prodotta principalmente nel fegato. Il difetto umano è stato recentemente descritto sulla scia della definizione del corrispondente modello murino (Du et al., 2008), il topo Mask, che associa un’anemia microcitica ad alopecia truncale del manto pilifero. Anche nei pazienti umani (Finberg et al., 2008), l’anemia è di tipo ipocromico microcitico, ma a differenza del topo mask è totalmente refrattaria alla terapia con ferro solfato orale (IRIDA, iron refractory iron deficient anemia) e solo parzialmente responsiva alla terapia marziale per via parenterale (Melis et al., 2008). Il marcatore biochimico di questa condizione è il paradossale incremento dell’epcidina pur in presenza di basse concentrazioni plasmatiche di ferro. L’inibizione dell’epcidina operata dal TMPRSS6 è dominante su tutti gli altri segnali di stimolo della sua espressione. L’effetto TMPRSS6 sull’epcidina non è diretto, ma mediato da altri fattori ancora sconosciuti. L’insufficiente 25 P. Moi, S. Campus risposta alla terapia parenterale è verosimilmente attribuibile alla difettosa gestione del ferro macrofagico indotta dal difetto TMRSS6 (Beshara et al., 1999). Anemie sideropeniche in modelli animali Alcune anemie genetiche sono tuttora riconosciute solo in modelli animali naturali o artificiali. La scoperta delle corrispondenti malattie umane ancora ignote può essere favorita dalla conoscenza dei fenotipi animali. L’Efestina è una ferrossidasi della membrana degli enterociti che catalizza la conversione del ferro ferroso esportato dalla ferroportina in ferro ferrico destinato al legame con la transferrina (Fig. 2). Il topo sla (sex-linked anemia) deficiente in Efestina sviluppa anemia ipocromica microcitica. La cattura del ferro transferrinico circolante ad opera dei precursori eritroidi è facilitata da una ferroreduttasi endosomica (Steap3, 6-transmembrane epitelial antigen of prostate) che fa l’operazione inversa rispetto all’efestina convertendo il ferro ferrico in ferroso. Difetti del gene Steap3 provocano un’anemia microcitica ipocromica simil-sideropenica nel modello murino naturale nm1054. Un altro gene orfano di malattia umana è STAT5A/B, che stimola l’espressione del recettore della transferrina 1 (TrR1) e quindi la cattura del complesso ferro-transferrina da parte di tutte le cellule dell’organismo. Il difetto STAT5A/B nel topo è anch’esso causa di anemia ipocromica microcitica di origine genetica. Il processo esocitosico della transferrina libera è invece mediato dal complesso della esocisti, costituito da 8 proteine aderenti alla membrana plasmatica o alla vescicola endosomica che mediano il traffico di vescicole Golgimembrana. Il difetto nella proteina vescicolare Sec15L è responsabile di un’anemia microcitica da ridotto riciclo della transferrina in un modello murino di anemia ipocromica microcitica (hbd, hemoglobindeficit). Il ferro emico, proveniente dal riciclo endosomico dei globuli rossi degradati, è trasferito dalla proteina DMT1 della vescicola endosomiale nel citoplasma e da qui esportato dalla ferroportina nella circolazione generale (Fig. 1) o traghettato dalla mitoferrina (SLC25a37) nei mitocondri per essere incorporato nell’eme o nei cluster ferrosulfurici. Il difetto della mitoferrina nel modello di anemia frascati in zebrafish impedisce l’incorporazione del ferro nella protoporfirina IX e determina una grave anemia ipocromica microcitica con arresto differenziativo allo stadio di eritroblasti. Infine una ulteriore anemia microcitica murina è causata da difetti del gene IRP2 (Iron Regulatory Protein 2). La proteina IRP2 è un regolatore post-trascrizionale della concentrazione del ferro intracellulare. L’aumento della concentrazione del ferro induce la degradazione proteasomica di IRP2. Il legame di IRP2 (o dell’omologa IRP1) agli elementi responsivi (IRE, Iron Responsive Elements) posti sull’ RNA dei trascritti genici in 5’ inibisce l’espressione genica, il legame agli IRE in 3’ ha invece attività stabilizzante l’RNA e quindi stimolante la produzione di quella proteina. L’assenza di IRP2 per difetto genetico simula un’inesistente aumento concentrazione di ferro con deviazione del metabolismo verso la riduzione del suo assorbimento, captazione e utilizzazione cellulare, determinando un’anemia sideropenica reattiva. Box di orientamento Geni regolatori dell’emoglobina fetale Dopo anni di ricerche sono stati finalmente identificati i principali geni regolatori della produzione dell’emoglobina fetale. La scoperta rende possibile lo sviluppo di farmaci modulatori della sua espressione che avrebbero utilità terapeutica nella talassemia e nell’anemia falciforme. L’analisi dei genotipi dei geni regolatori dell’HbF consente già oggi di formulare previsioni sull’evoluzione clinica della talassemia e dell’anemia falciforme e assiste nella difficile decisione sull’eventuale inizio della terapia trasfusionale nella β-talassemia clinicamente border line tra intermedia e major. Talassemie atipiche Classicamente le β-talassemie sono causate da mutazioni del gene β-globinico trasmesse con modalità autosomica recessiva. La disponibilità di metodiche di biologia molecolare ad alta risoluzione (MPLA) ha permesso di definire la patologia molecolare di condizioni talassemiche prima inspiegabili e di comprendere come pazienti semplici eterozigoti per la β-talassemia potessero presentare un fenotipo da moderato a grave in relazione al sovrannumero di geni α-globinici (αααα/ααα o αααα/αα). La scoperta apre problematiche nuove nella consulenza genetica per β-talassemia quando un membro della coppia sia affetto da talassemia intermedia o major con difetto in un solo gene β-globinico. In questo caso non è possibile escludere a priori il rischio di talassemia major nei figli per la possibile trasmissione della β-talassemia con 2 alleli recessivi ereditati da un solo genitore. Talassemie da difetti in geni regolatori Per lungo tempo è stata ipotizzata l’esistenza di talassemie da difetti in trans ai geni globinici. Negli ultimi anni sono state identificate le prime condizioni talassemiche, generalmente sindromiche, attribuibili a difetti in geni che codificano per fattori di trascrizione sia eritroido-specifici (GATA1 e EKLF) che ubiquitari (ATRX e TFIIH). Ancora più recente è la descrizione di una condizione di α-talassemia da difetto in un gene modificatore (AHSP). Nuove anemie microcitiche genetiche Sulla scia della definizione di difetti genici responsabili di anemie in modelli animali sono stati individuati i corrispondenti difetti genetici per un discreto numero di malattie umane a fenotipo eritropoietico. Queste scoperte hanno contribuito a chiarire nuove tappe del metabolismo del ferro e la patofisiologia di alcune anemie ipocromiche microcitiche. Abbiamo incluso per completezza anche una breve descrizione dei difetti animali che sono tuttora orfani della corrispondente malattia umana. 26 Recenti progressi in ematologia pediatrica Bibliografia Allikmets R, Raskind WH, Hutchinson A, et al. Mutation of a putative mitochondrial iron transporter gene (ABC7) in X-linked sideroblastic anemia and ataxia (XLSA/A). Hum Mol Genet 1999;8:743-9. Bekri S, Kispal G, Lange H, et al. Human ABC7 transporter: gene structure and mutation causing X-linked sideroblastic anemia with ataxia with disruption of cytosolic iron-sulfur protein maturation. Blood 2000;96:3256-64. Beshara S, Lundqvist H, Sundin J, et al. Pharmacokinetics and red cell utilization of iron(III) hydroxide-sucrose complex in anaemic patients: a study using positron emission tomography. Br J Haematol 1999;104:296-302. Boddaert N, Le Quan Sang KH, Rotig A, et al. Selective iron chelation in Friedreich ataxia: biologic and clinical implications. Blood 2007;110:401-8. 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E-mail: [email protected] 27 Gennaio-Giugno 2010 • Vol. 40 • N. 157-158 • Pp. 28-34 ematologia Le neutropenie congenite in pediatria. Novità e aggiornamenti Marina Lanciotti1, Michaela Calvillo1, Sonia Bonanomi2, Tiziana Coliva2, Fabio Tucci3, Piero Farruggia4, Marta Pillon5, Baldo Martire6, Roberta Ghilardi7, Ugo Ramenghi8, Daniela Renga8, Giuseppe Menna9 , Angelica Barone10, Giovanni Palazzi11, Gabriella Casazza12, Francesca Fioredda1, Carlo Dufour1 Gruppo Neutropenie, CSS Insufficienze Midollare dell’AIEOP (Associazione Italiana Ematologia Oncologia Pedaitrica) Unità di Ematologia, Dipartimento Emato-Oncologia Pediatrica, Istituto G. Gaslini, Genova; 2Clinica Pediatrica Università di Milano “La Bicocca”, Monza; 3Unità di Emato-Oncologia, Ospedale Pediatrico Meyer, Firenze; 4Unità di Emato-Oncologia, Ospedale Pediatrico G. Di Cristina, Palermo; 5Clinica Pediatrica di Emato-Oncologia, Università di Padova; 6Dipartimento di Pediatria, Università di Bari; 7Clinica Pediatrica De Marchi, Università di Milano; 8Unità di Ematologia, Dipartimento di Pediatria, Università di Torino; 9Unità di Ematologia Pediatrica, Ospedale Pausillipon, Napoli; 10Unità di Emato-Oncologia Pediatrica, Ospedale Universitario di Parma; 11Unità di Emato-Oncologia Pediatrica e TCS, Ospedale Universitario di Modena; 12Unità di Emato-Oncologia Pediatrica e TCS, Ospedale Universitario di Pisa 1 Riassunto Le neutropenie congenite comprendono un gruppo eterogeneo di patologie caratterizzate da un basso numero di neutrofili maturi circolanti e da un’aumentata suscettibilità alle infezioni, principalmente batteriche e fungine. Nell’ultimo decennio sono stati fatti notevoli progressi nella comprensione delle cause genetiche che sono alla base sia delle forme sindromiche sia di quelle non sindromiche e nuovi geni malattia sono stati identificati e caratterizzati (HAX1, Ak2, G6PC3). Da queste scoperte ha preso il via anche un miglioramento delle conoscenze dei meccanismi attraverso cui tali lesioni geniche determinano la neutropenia, meccanismi che richiamano in maniera diretta o indiretta, attraverso la Unfolded Protein Response, l’eccesso di apoptosi. Sotto il profilo della gestione del paziente, Il G-CSF, rimane il trattamento elettivo, determinando una risposta efficace in oltre il 90% dei soggetti trattati. Conosciamo ora di più sul suo ruolo nell’evoluzione clonale di tali malattie che di per sé sono pre-cancerose. In effetti sia la dose sia la durata del trattamento sono fattori che si sono dimostrati in grado di aumentare il rischio di MSD/LMA nei pazienti trattati. Da qui il consiglio di evitare dosi nell’ordine dei 10-20 mcg/kg/die specie se per tempi prolungati e di effettuare un monitoraggio annuale o più frequente in caso di elementi negativi, della funzione midollare inclusiva di morfologia, citogenetica e studio delle mutazioni del recettore del G-CSF. Summary Congenital neutropenia comprises a heterogeneous group of disorders collectively characterized by paucity of mature neutrophils leading to recurrent infections, malignancies and hematological disorders. In recent years, progress have been made with respect to the elucidation of genetic causes underlying sindromic and non-syndromic variants. The identification of several novel genetic defects (e.g. HAX1, Ak2, G6PC3) has shed light on the pathophysiology of congenital neutropenia. These findings promoted a better knowledge of the pathophysiology on hereditary neutropenias mainly involving, either directly or indirectly via Unfolded Protein Response, increased apoptosis in the target cells. Regarding the management of the patient, G-CSF still remains the first choice treatment, providing a response rate higher than 90% among treated subjects. We now know more about the pro-clonogenic potential of G-CSF since it has been shown that both dose and treatment duration unfavourably impact on this risk. Hence the recommendations of trying to avoid doses of 10-20 mcg/kg/day particularly for long periods and to set up a yearly, or even more frequent in case of adverse events, marrrow function monitoring plan including morphology, cytogenetics and G-CSF receptor mutation analysis. Obiettivo della revisione Questa revisione si propone di riassumere le caratteristiche cliniche e genetiche delle neutropenie ereditarie dando rilievo sia alle recenti nuove identificazioni dei geni coinvolti nell’insorgenza di alcune neutropenie congenite sia alle nuove conoscenze sul loro meccanismo patogenetico. Metodologia della ricerca Tramite PubMed è stata condotta una ricerca con le seguenti parole 28 chiave: congenital neutropenia, G-CSF, G-CSF receptor mutations. Talvolta la ricerca è stata ristretta agli articoli di revisione. Introduzione Nel 1950 viene descritta per la prima volta da Rolf Kostmann la Neutropenia Congenita “Severa” autosomica recessiva. Per circa 50 anni il difetto molecolare alla base di questa patologia è rimasto enigmatico. La clonazione del gene G-CSF nel 1987 e il successivo utilizzo in clinica della proteina ricombinante, ha profondamen- Le neutropenie congenite in pediatria. Novità e aggiornamenti protein response (UPR) secondo il quale modifiche della struttura proteica causate dalle mutazioni del gene porterebbero ad un accumulo di proteina nel reticolo endoplasmatico. Questo processo innescherebbe una serie di reazioni che hanno come fine ultimo l’eliminazione e quindi l’apoptosi della cellula che in questo caso è il promielocita. Ciò spiegherebbe il caratteristico blocco della maturazione mieloide (Kollner et al., 2006). te modificato il destino di pazienti con questa patologia, ma solo nell’ultimo decennio con la scoperta dei vari geni coinvolti si sta lentamente facendo luce sul meccanismo patogenetico delle neutropenie congenite. Classificazione Con il termine neutropenie congenite si intende un gruppo eterogeneo di malattie ereditarie (Schaffer et al., 2007) caratterizzate da neutropenia da moderata a grave, associate a ricorrenti e frequenti infezioni batteriche sistemiche che si manifestano già nelle prime settimane di vita. Nella popolazione caucasica la neutropenia è definita lieve se i neutrofili periferici sono fra 1500 e 1000/mmc, moderata fra 1000 e 500/mmc e grave se minore di 500/mmc. Clinicamente la neutropenia può essere isolata o far parte di una sindrome in cui è associata ad altre condizioni patologiche che possono coinvolgere diversi organi. In questa revisione le neutropenie congenite saranno suddivise in forme congenite gravi o severe (traslando il termine dalla dizione inglese) (NCS) propriamente dette, che a loro volta possono associarsi ad altri sintomi (Tab. I) e forme in cui la neutropenia fa parte di un contesto sindromico più ampio (Tab. II). NCS da mutazioni di HAX1 (SCN3, OMIM# 610738) Recentemente mutazioni bialleliche del gene HAX1 sono state descritte in pazienti con NCS ad ereditarietà autosomica recessiva, meglio conosciuta come sindrome di Kostmann (Klein et al., 2007). Pur essendo state descritte numerose funzioni e localizzazioni, la proteina HAX1 ha una predominante localizzazione mitocondriale, dove esercita un controllo sull’integrità della membrana interna e regola l’apoptosi. Il meccanismo attraverso il quale la mancanza di questa proteina provochi NCS non è chiaro. La posizione della mutazione all’interno del gene può dare origine ad un diverso fenotipo clinico. Le mutazioni che interessano solo il trascritto 1 danno NCS, quelle che coinvolgono anche il trascritto 2 causano NCS associata a sintomi neurologici e ritardo psicomotorio (Germeshausen et al., 2008; Lanciotti et al., 2010). Ciò è dovuto ad una maggiore espressione del trascritto 2 nel tessuto neuronale (Germeshausen et al., 2008). Neutropenie congenite gravi o severe Le NCS comprendono un gruppo di disordini geneticamente eterogenei (Tab. I), caratterizzati da grave neutropenia con ricorrenti infezioni batteriche che si manifestano già nei primi mesi di vita e arresto della maturazione mieloide alla fase di promielocita/mielocita. È considerata una sindrome pre-leucemica (Welte, 1997). In circa il 30% dei pazienti la causa genetica non è ancora nota, ciò suggerisce che, in aggiunta a quelli noti, altri geni, finora sconosciuti, possano essere coinvolti nel meccanismo patogenetico della NCS. NCS da mutazioni di ELA2 (SCN1, OMIM#202700) Le mutazioni del gene ELA2, codificante la proteina elastase 2, sono responsabili del 50-60% dei casi di NCS. La trasmissione è ad ereditarietà autosomica dominante ma spesso si manifesta in modo sporadico (Horwitz et al., 2007). L’elastase 2 è una serina proteasi esclusivamente espressa nei neutrofili dove viene accumulata nei granuli primari che caratterizzano in modo particolare lo stadio maturativo di promielocita (Dale et al., 2000). Diverse ipotesi sono state fatte per spiegarne il meccanismo patogenetico (Horwitz et al., 2007; Xia et al., 2008; Lanciotti et al., 2009), fra queste la più accreditata si basa sul modello dell’unfolded NCS da deficit di G6PC3 (SCN4, OMIM#612541) Mutazioni del gene G6PC3 (glucosio-6-fosfatase subunità catalitica 3) sono state recentemente identificate in un gruppo di pazienti con NCS con associate teleangectasie venose e malformazioni cardiache ed urogenitali (Boztug et al., 2009). La proteina G6PC3 catalizza la defosforilazione del glucosio-6-fosfato, è localizzata nel reticolo endoplasmatico ed è largamente espressa. La proteina mutata provoca stress del reticolo endoplasmatico dovuto al suo accumulo con conseguente innesco della UPR descritto per le mutazioni del gene ELA2. Il perché questo meccanismo interessi in particolare i neutrofili non è ancora chiaro. Nessuno dei pazienti con deficit di G6PC3 presenta ipoglicemia o acidosi lattica come avviene per i pazienti affetti da glicogenosi di tipo Ib (GSD-Ib). La scoperta del gene G6PC3 come causa di NCS ha contribuito alla spiegazione della neutropenia anche nella GSD-Ib (vedi oltre). Nonostante le due proteine causanti le due malattie facciano entrambe parte dello stesso ciclo metabolico, non è ancora del tutto chiaro come siano funzionalmente collegate. NCS X-linked (XLN, OMIM#300299) Rari casi di neutropenia congenita grave a trasmissione X-linked sono associati a mutazioni attivanti del gene WAS che codifica per la proteina WASp che regola la polimerizzazione dell’actina nelle cellu- Tabella I. Neutropenia congenita severa. Patologia* Gene Ereditarietà Caratteristiche cliniche NCS1 ELA2 AD o sporadica Aumentato rischio MDS-LMA NCS2 GFI1 AD Forma rarissima, solo due famiglie descritte NCS3 HAX1 AR Sintomi neurologici, ritardo psicomotorio NCS4 G6PC3 AR Malformazioni cardiache e urogenitali. Teleangectasie venose NCS-X-linked WAS X-linked Monocitopenia e immunodeficit (diminuito rapporto CD4+/CD8+, linfopenia con riduzione dei NK e alterata capacità fagocitante e proliferativa Neutropenia ciclica ELA2 AD o sporadica Neutropenia con andamento ciclico di circa 3 settimane AD: autosomica dominante; AR: autosomica recessiva. * classificazione OMIM (Online Mendelian Inheritance in Man) 29 M. Lanciotti et al. Tabella II. Neutropenie congenite associate ad altre condizioni patologiche o sindromiche. Neutropenia associata ad immunodeficienza Disgenesia reticolare Gene Ereditarietà AK2 AR CXCR4 AD X-linked Ipogammaglobulinemia BTK X-linked Deficit di CD40 ligando o Iper IgM CD40L X-linked Ipoplasia Cartilagine-capelli RMRP AR PNP AR LYST AR RAB27A AR Sindrome WHIM Deficit di purina nucleoside fosforilasi Neutropenia associata ad immunodeficienza e ipopigmentazione Sindrome di Chédiak Higashi (tipo 2) Sindrome di Griscelli (tipo 2) Sindrome di Hermansky-Pudlak (tipo 2) Deficit di P14 AP3B1 AR MAPBPIP AR SBDS AR Neutropenia associata a malattie metaboliche Sindrome di Shwachman Bodian Diamond DNA Mitocondriale - Glicogenosi IB Sindrome di Pearson G6PT AR Sindrome di Barth TAZ X-linked FAS, FAS-L, Caspase 8,10 AD o Sporadica COH AR DKC1, TERC TERT, TINF2NOP10, NHP2 X-linked, AD AR RPS 14, 16, 17, 19, 25. PL 5, 11, 35 A AR, AD o Sporadica FANCA, B, C, D1, D2, E, F, G, I, J, L, M, N AR e X-linked Neutropenia associate a malattia autoimmune ALPS (Sindrome autoimmune linfoproliferativa) Neutropenia associate a malformazioni Sindrome di Cohen Neutropenia associate ad insufficienza midollare Discheratosi congenita Anemia di Blackfan Diamond Anemia di Fanconi AD: autosomica dominante; AR: autosomica recessiva. le emopoietiche (Devriendt et al., 2001; Ancliff et al., 2006). Le mutazioni di WAS sono anche causa della Sindrome di Wiskott-Aldrich e della forma più lieve definita XLT ( X-linked trombocitopenia), a seconda che la lesione genetica determini una completa assenza o ridotta produzione della proteina e/o della sua attività. Le mutazioni che portano alla NCS X-linked provocano invece una iperattivazione della proteina che comporterebbe una mitosi difettiva con conseguente soppressione della granulopoiesi. A questa forma di NCS possono essere associati: monocitopenia e immunodeficit (diminuito rapporto CD4+/CD8+, linfopenia con riduzione dei NK e alterata capacità fagocitante e proliferativa). Neutropenia ciclica (OMIM#162800) Questa forma di neutropenia è caratterizzata da andamento ciclico della conta dei neutrofili con periodicità di circa 21 giorni e nadir frequentemente al di sotto di 0,2x109/L. Nelle fasi di neutropenia il paziente può presentare malessere, febbre, infezioni della cute, afte orofaringee e linfoadenopatie. Nella maggior parte dei casi questa alterazione della granulopoiesi è determinata da mutazioni del gene ELA 2 (Horwitz et al., 1999; Dale et al., 2000). La trasmissione è autosomica dominante ma sono stati descritti anche casi sporadici causati da mutazioni de novo (Dale et al., 2002). Con poche eccezioni, la maggior parte delle mutazioni di ELA2 è specifica per NCS o neutropenia ciclica, suggerendo una correlazione genotipo-fenotipo (Bellanné-Chantelot et al., 2004). Ad oggi non è ancora chiaro il meccanismo per cui mutazioni di ELA2 possono dare NCS o neutro- 30 penia ciclica. Vi è qualche evidenza di un disturbo della cellula staminale, indicato dall’oscillazione in alcuni casi anche di piastrine ed emoglobina. È stata documentata inoltre un’aumentata frequenza di apoptosi dei precursori che si evidenzia con il nadir dei neutrofili nel sangue periferico (Horwitz et al., 2007). Neutropenie congenite sindromiche Nell’impossibilità di descrivere tutte le sindromi in cui la neutropenia può essere presente (Tab. II) verranno brevemente descritte solo quelle in cui la neutropenia è una importante caratteristica clinica. Per approfondimenti si consiglia la lettura di revisioni dedicate alle specifiche patologie (Rezaei et al., 2009). Disgenesia reticolare (OMIM #267500) È una forma grave di immunodeficienza combinata dove la neutropenia severa è associata a leucopenia, deficit dell’immunità cellulare e umorale ed assenza di tessuto linfoide con agenesia del timo. Il midollo osseo di questi individui mostra un caratteristico arresto della maturazione mieloide allo stadio di promielocita. La malattia può essere anche associata a sordità neuro-sensoriale bilaterale. Recentemente è stata trovata la causa genetica di questa malattia che è dovuta a mutazioni omozigoti del gene AK2 che codifica per l’enzima adenilato chinasi (Pannicke et al., 2009). La proteina è selettivamente espressa nei neutrofili e nei leucociti dove interviene nei processi di differenziamento oltre che nella regione Le neutropenie congenite in pediatria. Novità e aggiornamenti vascolare dell’orecchio interno, ciò che spiega le manifestazioni cliniche della malattia. cesso dell’UPR e conseguente aumento dell’apoptosi dei neutrofili (Kim et al., 2008). Sindrome WHIM (OMIM #193670) Sindrome di Barth (OMIM #302060) La sindrome di Barth è una malattia metabolica, X-linked, caratterizzata da cardiomiopatia, neutropenia, miopatia scheletrica, difetto di crescita e 3-metilglutaconicaciduria (Barth et al., 2004). Tuttavia il quadro clinico può avere un’espressione variabile e si può presentare progressivamente o all’improvviso. Nella maggior parte dei casi la malattia si manifesta durante l’infanzia. La presentazione iniziale più comune è l’arresto cardiaco. È causata dalla mutazione del gene TAZ che codifica per un enzima, tafazzina, fondamentale per la sintesi della cardiolipina. Non è ancora noto il meccanismo responsabile della neutropenia. La sindrome WHIM è l’acronimo di verruche (warts), ipogammaglobulinemia (hypogammaglobulinemia), infezioni (infections), ipercellularità del midollo osseo (myelokathexis) (Gorlin et al., 2000) Si tratta di una rarissima sindrome genetica a trasmissione autosomica dominante, caratterizzata da neutropenia cronica associata a ipercellularità del midollo osseo. La neutropenia può essere da moderata a grave, è associata ad iperplasia neutrofila midollare e morfologia bizzarra dei neutrofili che presentano vacuoli citoplasmatici e nuclei abnormi con fini filamenti che connettono i nuclei lobari. L’esordio clinico di solito avviene durante la prima infanzia con infezioni batteriche ricorrenti. La sindrome WHIM è dovuta a mutazioni eterozigoti del gene CXCR4, che codifica un recettore delle chemochine particolarmente espresso nelle cellule ematopoietiche (Balabanian et al., 2005). Glicogenosi tipo Ib (OMIM #232220) È un disordine metabolico causato da un deficit del sistema di trasporto dell’enzima glucosio 6 fosfato traslocasi che è coinvolto sia nella glicogenolisi che nella gluconeogenesi. Caratteristiche sono le alterazioni metaboliche (ipoglicemia, iperlattacidemia, iperlipidemia e iperuricemia), epatomegalia, scarso accrescimento e osteopatia. La neutropenia e l’alterata funzionalità dei neutrofili sono associate a infezioni ricorrenti, aftosi orale e infezioni intestinali. Questa malattia è causata da mutazioni del gene G6PT che codifica per una proteina che trasporta il glucosio-6-fosfato nel reticolo endoplasmatico dove viene idrolizzato a glucosio. In modo simile al deficit di G6PC3 le mutazioni di G6PT provocano un accumulo della proteina ed un “intasamento” del reticolo endoplasmatico innescando quindi il pro- Sindrome di Cohen (OMIM #216550) È un disordine autosomico recessivo ad espressività variabile, le cui caratteristiche principali sono dimorfismi cranio-facciali, anomalie delle mani e dei piedi, obesità, ipotonia, ritardo mentale. L’ampia varietà della sintomatologia clinica, lascia aperto il dubbio che non tutti i casi di sindrome di Cohen corrispondano alla stessa condizione. È stata suggerita l’esistenza di due tipi di sindrome di Cohen, uno associato a neutropenia e l’altro senza. È causata da mutazioni bi alleliche del gene COH1 codificante una proteina transmembrana che può essere coinvolta nella selezione e nel trasporto vescicolo-mediato delle proteine all’interno della cellula (Kolehmainen et al., 2003). Diagnosi Il percorso diagnostico di un nuovo caso di neutropenia prevede innanzitutto una approfondita anamnesi. I punti salienti per una corretta valutazione sono riassunti nella Tabella III. Tabella III. Valutazione iniziale in un paziente con neutropenia. Anamnesi • Fisiologica: prestare particolare attenzione a malattie virali, assunzione di farmaci in gravidanza e decorso del periodo neonatale. • Familiare: indagare l’origine geografica, se ci sono altri membri della famiglia che presentano neutropenia e infezioni gravi, o malattie ematologiche e se presente consanguineità. • Patologica prossima e remota: con attenta valutazione del momento di insorgenza della malattia, presenza di anomalie congenite, assunzione di farmaci, e descrizione dettagliata degli eventi infettivi da un punto di vista quali-quantitativo (numero, tipo, sede e ricorrenza degli episodi infettivi come: afte, gengiviti, peridontiti, infezioni cutanee, ascessi, otomastoiditi, polmoniti e raccolte ascessualizzate). Puntualizzare il principio attivo, la via di somministrazione e la durata della eventuale terapia antibiotica. • Farmacologica: rilevare il tipo e la durata dell’esposizione a farmaci. Esame fisico • Bassa statura, malnutrizione, anomalie scheletriche. • Anomala pigmentazione cutanea, unghie distrofiche, leucoplachia, verruche, albinismo, capelli sottili, eczema, infezioni cutanee, adenopatia, organomegalia Emocromo con formula leucocitaria e percentuale di reticolociti • Confermare la presenza di neutropenia, valutazione della morfologia dei neutrofili, valutazione dell’aumento o decremento dei reticolociti, delle piastrine e dei linfociti. • Se la neutropenia si risolve, ma è ricorrente ripetere 2-3 volte alla settimana per 6 settimane l’emocromo con la formula leucocitaria e la morfologia. Altri test di laboratorio di prima linea • Test di Coombs • Dosaggio Immunoglobuline seriche (IgA, IgG, IgM) • Immunofentipo periferico • Test virologici (Epstein-Barr virus, citomegalovirus, virus respiratorio sinciziale, parvovirus, HSV1 e 2 ecc. in base alle indicazioni cliniche) • Test di funzionalità epato renale e glicemia • Anticorpi antineutrofilo indiretti In base ai risultati dei test di prima linea coniugati con le indicazioni cliniche, la diagnostica potrà orientarsi sulle forme sindromiche o sulle forme di NCS propriamente dette nelle quali la morfologia midollare metterà in evidenza un blocco maturativo della linea mieloide allo stadio di pro mielocita/mielocita. 31 M. Lanciotti et al. È molto importante determinare se il paziente presenta una neutropenia isolata o associata con anemia e trombocitopenia. Il deficit di più tipi cellulari spesso riflette una più generalizzata sindrome da insufficienza midollare (anemia aplastica, anemia di Fanconi) o un processo di infiltrazione del midollo come avviene nelle leucemie. Dato il numero elevato di geni le cui mutazioni possono dare neutropenia è di fondamentale importanza un’attenta valutazione clinica che possa indirizzare una diagnosi genetica mirata. Trattamento della neutropenia congenita Il G-CSF (Granulocyte Colony-Stimulating-Factor), fattore di crescita dei neutrofili, stimola la proliferazione e differenziazione dei precursori mieloidi, favorisce la demarginazione delle cellule mature e la loro sopravvivenza. Il G-CSF è quindi il trattamento di prima scelta per i pazienti con neutropenia congenita grave (Zeidler et al., 2000). L’impostazione e le modifiche del trattamento con G-CSF è consigliabile vengano effettuate dal centro ematologico pediatrico di riferimento. La quasi totalità dei pazienti risponde a dosi giornaliere di 3-10 ug/ kg, con la normalizzazione del numero dei neutrofili circolanti. Fra gli effetti collaterali del G-CSF vanno menzionati dolori ossei, piastrinopenia, epatomegalia, vasculiti cutanee. Non sono riportati rischi di malformazioni o influenze negative sull’accrescimento e sullo sviluppo sessuale. Sono considerati non responsivi al G-CSF quei pazienti che non raggiungono un numero sufficiente di neutrofili per il controllo delle infezioni o coloro che richiedono alte dosi di G-CSF per ottenere tale obiettivo. Un recente studio (Rosenberg et al., 2006) ha identificato in 8 ug /kg/die la dose mediana oltre la quale è aumentato il rischio di evoluzione clonale. Nella pratica corrente si sconsiglia di utilizzare il G-SCF a dosi nell’ordine di 10-20 ug/kg/die e di considerare resistenti coloro che necessitano di tali dosaggi soprattutto se per tempi lunghi e non occasionalmente. I pazienti non responsivi o resistenti alla terapia con G-CSF sono candidati al trapianto di cellule staminali ematopoietiche. Il trapianto è indicato anche in quei pazienti che sviluppano malattie clonali come mielodisplasia (MDS) o leucemia mieloide acuta (LMA). L’acquisizione di mutazioni del recettore del G-CSF (CSF3R), nei pazienti trattati con G-CSF non è indicazione di per sé al trapianto di midollo osseo poichè dal momento del rilievo di tale mutazione alla possibile evoluzione clonale può trascorrere anche più di un decennio. Per tutti i pazienti trattati con G-CSF è raccomandata una valutazione annuale del midollo osseo alla ricerca di eventuali modifiche della morfologia, della citogenetica e dell’eventuale insorgenza di mutazioni del CSF3R, come allarme” di evoluzione clonale”. Al momento non è documentato alcun vantaggio dalla profilassi antibiotica. In occasione di episodi infettivi è consigliabile, ove possibile, allestire una diagnostica laboratoristico (emocromo con formula)-microbiologica. Qualora questo non sia possibile, è consigliabile terapia antibiotica empirica ad ampio spettro (amoxicillina + acido clavulanato, ciprofloxacina, ceftriaxone) indipendentemente dal valore dei neutrofili e dall’eventuale trattamento in atto con G-CSF. Evoluzione clonale La neutropenia congenita grave è considerata una sindrome pre- 32 leucemica. Il registro internazionale delle neutropenie congenite severe (SCNIR) ha pubblicato uno studio su 374 pazienti in trattamento continuativo con G-CSF (Rosenberg et al., 2006). In cui l’incidenza cumulativa di leucemia è risultata pari al 21% dopo 10 anni di trattamento. Il rischio di sviluppare MDS/LMA aumenta in modo significativo durante il periodo di osservazione dal 2,9% per anno dopo i 6 anni di trattamento, all’8% per anno dopo i 12 anni. Inoltre il rischio di sviluppare MDS/AML aumenta con la dose di G-CSF somministrata. Pazienti meno responsivi al trattamento (che richiedevano in questo studio dosi giornaliere di G-CSF superiori a 8 μg/kg/die), presentano un’incidenza cumulativa di MDS/LMA pari al 40% dopo 10 anni rispetto all’11% osservato nei pazienti più sensibili al trattamento. La scarsa risposta al trattamento sarebbe quindi un rischio aggiuntivo allo sviluppo di LMA. La progressione in LMA è stata però descritta anche in epoca pre-G-CSF, ma data l’elevata mortalità (42% entro l’età di 2 anni) per cause infettive, il rischio reale di sviluppare MDS/ LMA non era calcolabile. L’impiego del G-CSF ha portato in questi pazienti ad un drastico aumento della sopravvivenza, e non è chiaro se anche la durata della sopravvivenza contribuisca all’aumento della incidenza di progressione leucemica (Welte, 2006). La trasformazione clonale avviene sia in NCS causate da mutazioni di ELA2, che in quelle causate da mutazioni di HAX1 o WAS. Non si conoscono casi di progressione leucemica in pazienti con NCSG6PC3 mutato (Boztug et al., 2009) nè è chiaro il ruolo dei geni causanti la malattia nella progressione verso MDS/LMA. Va sottolineato però che in pazienti con neutropenia ciclica causata da mutazioni del gene ELA2 e trattati con G-CSF non si sono riscontrati casi di trasformazione clonale, contrariamente a quanto riportato in pazienti con NCS-ELA2 mutata. È invece assodato il ruolo rivestito dalle mutazioni del recettore del G-CSF nello sviluppo di MDS/LMA. In modelli murini mutazioni del G-CSFR mediano risposte proliferative e di resistenza all’apoptosi ma non di tipo differenziativo. Inoltre l’80% dei pazienti che sviluppa leucemia presentano mutazioni in questo gene. Il tempo che intercorre fra l’acquisizione della mutazione e lo sviluppo della leucemia varia notevolmente. Alcuni pazienti presentano mutazioni del recettore del G-CSF solo nelle cellule leucemiche, altri presentano mutazioni del CSF3R singole o multiple per anni prima di sviluppare la neoplasia. Conclusioni Le neutropenie congenite gravi costituiscono un gruppo notevolmente eterogeneo di malattie rare alcune delle quali precancerose. Negli ultimi 10 anni sono stati identificati numerosi geni malattia ciò che ha portato alla comprensione dei meccanismi patogenetici che chiamano spesso in causa la unfolded protein response e l’eccesiva apoptosi. Nonostante il contributo al rischio di trasformazione leucemica, il G-CSF riveste ancora un ruolo chiave ed insostituibile nel trattamento della malattia, producendo nei soggetti trattati una risposta soddisfacente in più del 90% dei casi. L’identificazione di nuovi geni coinvolti nei meccanismi patologici della neutropenia e la migliore comprensione dei meccanismi molecolari che ne sono alla base, sono fondamentali per lo studio di nuovi farmaci che possano modificare questi meccanismi. Le neutropenie congenite in pediatria. Novità e aggiornamenti Box di orientamento Cosa sapevamo prima • Con il termine neutropenie congenite si intende un gruppo eterogeneo di malattie ereditarie caratterizzate da neutropenia da moderata a grave, associate a ricorrenti e frequenti infezioni batteriche sistemiche a comparsa nelle prime settimane di vita. • La neutropenia poteva essere isolata o far parte di una sindrome in cui era associata ad altre condizioni patologiche coinvolgenti diversi organi. • Solo di alcune forme si conosceva il difetto genetico causa della malattia, ma non il meccanismo molecolare. • Il G-CSF (Granulocyte Colony-Stimulating-Factor), fattore di crescita dei neutrofili, stimolando la proliferazione e differenziazione dei precursori mieloidi e favorendo la demarginazione delle cellule mature e la loro sopravvivenza, era il trattamento elettivo per i pazienti con neutropenia congenita grave. • I pazienti trattati con G-CSF hanno un rischio maggiore di sviluppare malattie clonali quali mielodisplasia e leucemia mieloide acuta. • I pazienti non responsivi o resistenti alla terapia con G-CSF sono candidati al trapianto di cellule staminali ematopoietiche. Il trapianto è indicato anche in quei pazienti in cui avviene una evoluzione clonale. Cosa sappiamo adesso • Sono stati individuati numerosi geni le cui mutazioni sono alla base della neutropenia. • Di alcuni geni è stato individuato il meccanismo molecolare e di altri è stato per ora ipotizzato. • Un’aumentata e incontrollata apoptosi è ritenuto uno dei meccanismi più importanti alla base della neutropenia. All’aumentata apoptosi conduce anche l’accreditato meccanismo patogenetico di Unfolded Protein Response. • Il G-CSF rimane il trattamento elettivo delle neutropenie congenite. • Sappiamo di più sul rischio di evoluzione clonale che esso determina. Tale rischio nei pazienti trattati con G-CSF aumenta in modo significativo dal 2,9%/anno dopo i 6 anni all’8% /anno dopo i 12 anni di terapia. Anche la dose di G-CSF può influenzare il rischio di evoluzione clonale. Quali ricadute sulla pratica clinica • Si sconsiglia di raggiungere dosi di G-CSF nell’ordine di 10-20 mcg/kg/die specie se per periodi lunghi. In soggetti che necessitano tali dosaggi nel lungo periodo, può essere considerato il trapianto di cellule staminali ematopoietiche in rapporto alla disponibilità di un donatore (familiare o no) compatibile. • Per tutti i pazienti trattati con G-CSF è raccomandata una valutazione annuale del midollo osseo per identificare modifiche della morfologia, della citogenetica ed eventuali insorgenze di mutazioni del recettore del G-CSF come “allarme” di evoluzione clonale. • L’identificazione di nuovi geni coinvolti nei meccanismi patologici della neutropenia e la migliore comprensione dei meccanismi molecolari che ne sono alla base sono fondamentali per lo studio di nuovi farmaci che possano modificare questi meccanismi. Bibliografia Ancliff PJ, Blundell MP, Cory GO, et al. Two novel activating mutations in the Wiskott-Aldrich syndrome protein result in congenital neutropenia. Blood 2006;108:2182-9. Balabanian K, Lagane B, Pablos JL et al. WHIM syndrome with different genetic anomalies are accounted for by impaired CXCR4 desensitization to CXCL12. Blood 2005;105:2449-57. Barth PG, Valianpour F, Bowen VM. X-linked cardioskeletal myopathy and neutropenia (Barth Syndrome). An update. Am J Med Genet 2004;126A:349-54. Bellanné-Chantelot C, Clauin S, Leblanc T et al. Mutations in the ELA2 gene correlate with more severe expression of neutropenia: a study of 81 patients from the French Neutropenia Register. Blood 2004;103:4119-25. Boztug K, Appaswamy G, Ashikov A, et al. A syndrome with congenital neutropenia and mutations in G6PC3. N Engl J Med 2009;360:32-43. * Prima identificazione del gene G6PC3 come responsabile di NCS 4. Dale DC, Bolyard AA, Aprikyan A. Cyclic neutropenia. Semin Hematol 2002;39:89-94. Dale DC, Person RE, Bolyard AA, et al. Mutations in the gene encoding neutrophil elastase in congenital and cyclic neutropenia. Blood 2000;96:2317-22. * Prima identificazione di mutazioni del gene ELA2 in pazienti con NCS1. Devriendt K, Kim AS, Mathijs G, et al. Constitutively activating mutation in WASP causes X-linked severe congenital neutropenia. Nat Genet 2001;27:313-17. * Primo lavoro in cui è riportato che il gene WAS può provocare anche X-linked neutropenia. Germeshausen M, Grudzien M, Zeidler C, et al. Novel HAX1 Mutations in patients with severe congenital neutropenia reveal isoform-dependent genotype-phenotype associations. Blood 2008;111:4954-57. * Il lavoro evidenzia una correlazione genotipo-fenotipo legate alle diverse mutazioni del gene HAX1. Gorlin RJ, Gelb B, Diaz GA, et al. WHIM syndrome, an autosomal dominant disorder: clinical, hematological and molecular studies. Am J Med Genet 2000;91:368-76. Horwitz M, Benson KF, Person RE, et al. Mutations in ELA2, encoding neutrophil elastase, define a 21-day biological clock in cyclic haematopoiesis. Nat Genet 1999;23:433-6. * Prima identificazione del gene ELA2 come responsabile di una forma di neutropenia. Horwitz M, Duan Z, Korkmaz B, et al. Neutrophil elastase in cyclic and severe congenital neutropenia. Blood 2007;109:1817-24. * Interessante lavoro di revisione della letteratura. Kim SY, Jun HS, Mead PA. Neutrophil stress and apoptosis underlie myeloid dysfunction in glycogen storage disease type Ib. Blood 2008;111:5704-11. Klein C, Grudzien M, Appaswamy G, et al. HAX1 deficiency causes autosomal recessive severe congenital neutropenia (Kostmann disease). Nat Genet 2007;39:86-92. * Identificazione del gene responsabile della Sindrome di Kostmann (NCS 3). Kolehmainen J, Black GC, Saarinen, et al. Cohen syndrome is caused by mutations in a novel gene, COH1, encoding a transmembrane protein with presumed role in vesicle-mediated sorting and intracellular protein transport. Am J Med Genet 2003;72:1359-69. * Identificazione del gene COH1 come responsabile della syndrome di Cohen. Kollner I, Sodeik B, Schreek S, et al. Mutations in neutrophil elastase causing congenital neutropenia lead to cytoplasmic protein accumulation and induction of the unfolded protein response. Blood 2006;108:493-500. ** Primo lavoro che identifica il meccanismo UPR per cui mutazioni di ELA2 danno NCS 1. Lanciotti M, Caridi G, Rosano C, et al. Severe Congenital neutropenia: a negative synergistic effect of multiple mutations of ELANE (ELA2) gene. Br J Haemat 2009;146:573-82. * Utilizzo di modelli di bioinformatica per lo studio del meccanismo patogenetico di una doppia mutazione di ELA2. Lanciotti M, Indaco S, Bonanomi S, et al. Novel HAX1 mutations associated to neurodevelopment abnormalities in two Italian patients with severe congenital neutropenia. Haematologica 2010;95:168-9. Pannicke U, Honig M, Hess I, et al. Reticular dysgenesis (aleukocytosis) is 33 M. Lanciotti et al. caused by mutations in the gene encoding mitochondrial adenylate kinase 2. Nat Genet 2009;41:101-05. * Identificazione del gene responsabile della disgenesia reticolare. Rezaei N, Moazzami K, Aghamohammadi A, et al. Neutropenia and primary immunodeficiency diseases. Intern Review of Immunol 2009;28:335-66. * Interessante lavoro di revisione della letteratura. Rosenberg PS, Alter BP, Bolyard AA, et al. The incidence of leukemia and mortality from sepsis in patients with severe congenital neutropenia receiving long term G-CSF therapy. Blood 2006;107:4628-35. * Dati dello SCNIR (registro internazionale delle NCS). Schaffer AA, Klein C. Genetic heterogeneity in severe congenital neutropenia: how many aberrant pathways can kill a neutrophil? Curr Opin Allergy Clin Immunol 2007;7:481-94. Welte K, Zeidler C, Dale DC. Severe congenital neutropenia. Semin Hematol 2006;43:189-95. Welte K. Severe chronic neutropenia: pathopshysiology and therapy. Semin Hematol 1997;34:267-78. 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Se 10 anni fa, infatti, il primo farmaco ferrochelante orale, il deferiprone, ha affiancato la desferrioxamina nel trattamento del sovraccarico di ferro, negli ultimi 5 anni si è assistito allo sviluppo di un nuovo ferrochelante orale, il deferasirox, in commercio in Italia dal 2007 e alla diffusione della terapia di associazione sequenziale e combinata di desferrioxamina e deferiprone. L’introduzione di metodi non invasivi per la misurazione dell’accumulo di ferro nel fegato, negli organi endocrini e soprattutto nel cuore, sono alla base di studi osservazionali, prospettici e randomizzati che hanno valutato l’efficacia dei ferrochelanti, in monoterapia e in combinazione nel ridurre il sovraccarico d’organo le complicanze secondarie all’accumulo marziale e nel prolungare la sopravvivenza. La disponibilità di diversi farmaci ha modificato la strategia ferrochelante anche nei bambini. È emerso che l’età, l’apporto trasfusionale, il grado e la sede dell’accumulo di ferro, le complicanze già presenti, la risposta alla terapia e la compliance sono oggi le variabili da considerare nell’individuare la terapia ferrochelante migliore, personalizzata e “ritagliata” sul singolo paziente. Summary In the last five years (January 2005-December 2009), very relevant original studies have been published on iron chelation therapy in thalassemia major. Three chelators are now available, desferrioxamine, the first oral iron chelator deferiprone, and deferasirox, recently licensed in many countries. The most important studies recently published have evaluated the efficacy of the chelators as monotherapy and in combination in terms of reduction of iron overload in different organs, improvement of complications, and survival. It appears that the management of transfusion dependent thalassemia has been revolutionized by the availability of accurate and non-invasive methods for assessing iron load in the heart and liver and by the option of tailoring chelation according to the degree of iron load, medical history, patient’s age, transfusional regimen, compliance and responsiveness to treatment. Introduzione La terapia trasfusionale continuativa per il trattamento dell’anemia cronica nella talassemia major conduce inevitabilmente all’accumulo di ferro per l’incapacità dell’organismo di eliminare il ferro introdotto con le trasfusioni. Il primo farmaco ferrochelante, la desferrioxamina (DFO), sviluppato oltre 40 anni fa, ha contribuito significativamente ad aumentare la sopravvivenza e a ridurre le complicanze nella talassemia (Zurlo et al., 1989). Molti pazienti, tuttavia, non possono o non vogliono essere trattati con la DFO. Nei paesi in via di sviluppo, infatti, la sua disponibilità è limitata dagli alti costi e, nei paesi occidentali, la modalità di somministrazione ne condiziona pesantemente l’accettabilità, soprattutto in bambini e adolescenti. Per la sua scarsa biodisponibilità orale e la breve emivita plasmatica (circa 30 minuti), infatti, la DFO deve essere somministrata per via parenterale (in genere sottocute) in infusione lenta (almeno 8-12 h) per 5-7 giorni/settimana. In un certo numero di pazienti, inoltre, la compliance è condizionata dalla comparsa di effetti collaterali locali e generali, come reazioni nel sito di infusione, ipoacusia neurosensoriale per le alte frequenze, tossicità oculare e ossea (Cunnhingham et al., 2004). I limiti di questa opzione terapeutica sono evidenti considerando gli studi dei primi anni 2000 tesi a valutare la sopravvivenza e le complicanze dei pazienti trattati con DFO. In uno studio inglese (Modell et al., 2000), il 50% dei pazienti considerati morivano prima di raggiungere i 35 anni. In Italia, nello studio pubblicato da BorgnaPignatti et al. nel 2004, il 68% dei pazienti era vivo a 35 anni e il 67% dei decessi era dovuto a patologia cardiaca. La prevalenza di cardiopatia era del 10% in 341 pazienti seguiti negli Stati Uniti, con età compresa tra 1 e 55 anni, e del 23% tra i 128 con età superiore ai 25 anni (Cunningham et al., 2004). In tutti gli studi citati, le complicanze secondarie all’accumulo di ferro più frequenti erano quelle endocrine (ipogonadismo ipogonadotropo, ipotiroidismo, ipoparatiroidismo, alterato metabolismo glucidico). Un momento fondamentale nella storia della ferrochelazione è stata l’approvazione da parte delle Autorità Regolatorie del primo farmaco ferrochelante orale, il deferiprone (DFP), nel 1995 in India e nel 1999 in Europa. Il DFP è rapidamente e completamente assorbito dopo somministrazione orale, raggiunge il picco plasmatico dopo 1 ora e ha un’emivita di 160 minuti. Le sue proprietà farmacologiche, ed in particolare il coefficiente di partizione, che indica la velocità di assorbimento e la quantità di farmaco assorbita, e il basso peso molecolare (139 Da) avevano fatto ipotizzare che il DFP potesse attraversare liberamente le membrane cellulari. Studi comparativi hanno dimostrato che, a dosi comparabili, l’efficacia del DFP nel rimuovere il ferro corporeo è simile a quella della DFO con un buon profilo di accettabilità in pazienti con scarsa compliance alla DFO (Maggio et al., 2002). L’agranulocitosi è l’effetto collaterale più grave associato all’assunzione del DFP, con un’incidenza intorno all’1% dei pazienti (Cohen et al., 2003). Effetti collaterali più comuni ma meno rilevanti sono i disturbi gastrointestinali, artralgia, deficit di zinco e fluttuazione dei livelli di transaminasi. 35 R. Origa, R. Galanello Nel 2002 Anderson et al. hanno introdotto una nuova metodica per la misurazione non invasiva del ferro miocardico, la risonanza magnetica nucleare (RM) con la tecnica del T2*, i cui valori sono inversamente proporzionali alla concentrazione di ferro: valori di T2* inferiori a 8 ms indicano un grave sovraccarico di ferro cardiaco, valori compresi tra 8 e 20 msec un sovraccarico moderato, mentre valori superiori a 20 msec sono ritenuti normali. La valutazione del sovraccarico di ferro e della funzione cardiaca in 15 pazienti in trattamento a lungo termine con DFP e in 30 pazienti trattati con DFO, ha evidenziato un accumulo di ferro cardiaco significativamente inferiore nel gruppo in DFP e una frazione di eiezione del ventricolo sinistro (FEVS) significativamente più elevata, suggerendo una maggiore efficacia del DFP nel rimuovere il ferro cardiaco. Questa analisi era confermata nel 2003 dal lavoro retrospettivo di Piga et al. che dimostrava una più lunga sopravvivenza e una minore incidenza di disfunzione cardiaca in 54 pazienti trattati con DFP per almeno 4 anni rispetto a 75 pazienti trattati con DFO. Wonke et al. nel 1998 hanno riportato che la terapia combinata con DFP assunto giornalmente e DFO per via sottocutanea 2-6 giorni/settimana determinava una notevole riduzione dei valori di ferritina serica in 5 pazienti trattati precedentemente con solo DFP. Successivamente studi metabolici che hanno valutato l’escrezione totale (fecale e urinaria) di ferro hanno suggerito un effetto additivo o anche sinergico (escrezione superiore a quella ottenibile con i singoli chelanti) nell’escrezione di ferro con l’uso simultaneo dei chelanti, con risultati soddisfacenti anche in pazienti poco responsivi ai singoli farmaci. Nel 2003 sono stati pubblicati anche i primi trials con un secondo chelante orale, l’ICL670, poi chiamato deferasirox (DFX), che in singola dose da 2,5 a 80 mg/kg appariva ben tollerato, con un’emivita da 11 a 19 ore che ne supportava la monosomministrazione giornaliera e che, a dosi adeguate determinava una escrezione netta di ferro (essenzialmente fecale) in grado di prevenire l’accumu- lo di ferro nella maggior parte dei pazienti regolarmente trasfusi (Galanello et al., 2003; Nisbet-Brown et al., 2003). Le principali caratteristiche dei chelanti del ferro ora disponibili sono riassunte nella Tabella I. Obiettivo della revisione e metodologia Il presente lavoro si propone di individuare gli studi pubblicati negli ultimi 5 anni che per la loro rilevanza e il loro impatto sulla pratica clinica, dovrebbero essere conosciuti da ogni medico che, anche in centri non dedicati alla cura della talassemia e nelle strutture ospedaliere periferiche, si occupa dal punto di vista della terapia trasfusionale e/o chelante di bambini o adulti con talassemia. Questa revisione si propone anche come uno strumento di aggiornamento rapido e completo per il pediatra specialista in branche diverse da quella trattata e per il pediatra generalista di ospedale o di territorio. Particolare attenzione è stata rivolta alle novità relative alla sopravvivenza dei pazienti con talassemia, all’effetto dei chelanti sulla cardiopatia e sulle complicanze endocrine e alle nuove opzioni terapeutiche per l’età pediatrica. Sono stati ricercati in Internet, su Medline, per mezzo di PubMed, gli articoli degli ultimi 5 anni (Gennaio 2005-Dicembre 2009) che contenessero le parole chiave iron chelation + thalassemia major, deferiprone, deferasirox, and magnetic resonance + talassemia major. Degli oltre 200 articoli reperiti, sono stati privilegiati gli studi prospettici randomizzati e controllati. Novità in tema di DFP, di terapia alternata e combinata DFP e DFO Dopo i primi studi retrospettivi della prima metà degli anni 2000, negli ultimi 5 anni è stata dimostrata inequivocabilmente la superiorità del DFP rispetto alla DFO nell’eliminare il ferro cardiaco e nel Tabella I. Riassunto delle caratteristiche dei ferrochelanti attualmente in commercio (da Cappellini et al., 2008, mod.). Caratteristiche Dosaggio consigliato (mg/kg/die) Emivita Desferrioxamina Deferiprone Deferasirox 20-60 50-100 (in genere ≥ 75 mg/kg/die per ottenere un bilancio negative del ferro) 20-30 20 min 2-3 h 16 h Parenterale. Il trattamento standard prevede l’infusione lenta per via sottocutanea, 8-12 h 5-6 notti/settimana Orale, 3 volte/die Orale (tavolette da sciogliere in acqua) in monosomministrazione giornaliera Urine, feci Urine Feci Audiometria e visita oculistica annuale Valutazione auxologia ogni 3-6 mesi in fase di accrescimento Emocromo con formula leucocitaria ogni 7-10 gg ALT ogni 3 mesi Creatinina serica, proteinuria e ALT mensile Audiometria e visita oculistica annuale Vantaggi Efficace Conosciuto da oltre 40 anni Può far regredire la compromissione cardiaca Può essere utilizzato col deferiprone Molto efficace nel rimuovere il ferro cardiaco Può essere utilizzato con la desferrioxamina Monosomministrazione giornaliera Svantaggi Scarsa compliance Potenziale tossicità ossea, visiva e uditiva Rischio di agranulocitosi, necessità di emocromo ogni 7-10 gg Necessità di monitoraggio della funzione renale Costo elevato Dati a lungo termine non disponibili Somministrazione Escrezione del ferro Monitoraggio 36 Nuovi farmaci ferrochelanti e nuove strategie di ferro chelazione nella talassemia major proteggere il cuore dalle conseguenze dell’accumulo di ferro. Due lavori sono particolarmente importanti a questo proposito. Nel 2006 è stato pubblicato il primo studio prospettico controllato in cui 61 pazienti con moderato accumulo di ferro cardiaco (T2* tra 10 e 20 msec), precedentemente trattati con DFO, sono stati randomizzati o a continuare la ferrochelazione con DFO (43 mg/kg per 5-7 gg/ settimana), o a iniziare il trattamento con DFP 92 mg/kg/die (Pennell et al., 2006). Dopo 6 e 12 mesi di trattamento, il T2* aumentava in entrambi i gruppi ma in maniera significativamente maggiore nel gruppo in DFP [+18 vs. +9% (p = 0,04) a 6 mesi e +27 vs. +13% (p = 0,023) a 12 mesi], così come anche la FEVS (3,1 vs. 0,3%; a 12 mesi, p = 0,003). Una significativamente maggior cardioprotezione del trattamento con DFP è stata anche riportata in uno studio che ha raccolto i dati sulla sopravvivenza e le cause di morte dei pazienti con talassemia major seguiti in 7 centri italiani (Borgna-Pignatti et al., 2006). Sono stati analizzati gli eventi cardiaci e la sopravvivenza in 359 pazienti che tra il 1995 e il 2003 erano stati chelati con DFO e in 157 pazienti che durante questo periodo erano passati alla chelazione con DFP. All’inizio dello studio, i due gruppi erano comparabili per età e sesso e la ferritina serica era significativamente più alta nel gruppo in DFP (1860 vs. 1461 ng/ml, p = 0,001). Sono stati osservati 52 eventi cardiaci, e tra questi 10 decessi per cardiopatia, nei pazienti in DFO e nessuno nei pazienti in DFP. Numerose sono le pubblicazioni sull’assunzione concomitante di DFP e DFO, i cui risultati sono spesso difficilmente comparabili perché il termine “terapia combinata” viene impiegato per indicare differenti regimi di chelazione. Quando si parla di “terapia combinata” ci si dovrebbe invece più correttamente riferire all’assunzione di DFO e DFP nella stessa giornata, che può essere simultanea (cioè DFP assunto prima di colazione, pranzo e cena e DFO infuso durante il giorno) o sequenziale (cioè DFP assunto come sopra e DFO infuso durante la notte). Il regime chelante alternato è invece quello in cui i chelanti vengono assunti in giorni diversi. Dopo il già citato studio di Wonke et al. (1998) e alcuni studi osservazionali con un numero limitato di pazienti, il primo studio prospettico relativo al combinato è quello da noi pubblicato (Origa et al., 2005). Settantanove pazienti con grave sovraccarico marziale (ferritina serica > 3000 ng/ml) e scarsa compliance a DFO per via sottocutanea, sono stati trattati con DFP 70-80 mg/kg/die e DFO 40 ± 10 mg/kg 10-24 h per 2-6 gg/settimana. Il numero dei giorni di infusione di DFO variava in base ai valori di ferritina. L’esposizione totale alla terapia è stata di 201 pazienti/anno. Tre pazienti hanno sviluppato agranulocitosi (1,5/100 pazienti/anno) e 7 neutropenia lieve (3,5/100 pazienti/anno). Altri eventi avversi riportati sono stati nausea, vomito, dolore addominale, aumento delle transaminasi e artralgie, con frequenza non superiore a quella riportata in pazienti in monoterapia con DFP. In 64 pazienti trattati per almeno 12 mesi il valore di ferritina serica è diminuito da 5243 ± 2345 a 3439 ± 2446 ng/mL (p < 0,001). L’escrezione urinaria di ferro durante la terapia combinata era doppia rispetto a quella in monoterapia con DFO o DFP. In 20 pazienti che assumevano terapia cardiologica all’inizio del trattamento, la FEVS è aumentata da 48,6 ± 9% a 57 ± 6% (p = 0,0001) in 12-57 mesi, senza che venisse modificata la terapia farmacologica per la cardiopatia. Nel 2007, Tanner et al. hanno pubblicato uno studio controllato in doppio cieco in cui sono 65 pazienti con accumulo di ferro moderato (T2* da 8 a 20 msec), già in terapia con DFO per via sottocutanea, sono stati randomizzati a ricevere anche DFP 75 mg/ kg/die (gruppo in trattamento combinato) o placebo, sempre per via orale (gruppo in DFO). Il T2* cardiaco è aumentato in maniera significativamente maggiore nel gruppo in combinato rispetto al gruppo in DFO (incremento della media geometrica 1,50 vs. 1,24; p = 0,02), come anche la FEVS (2,6% vs. 0,6%; p = 0,05). Anche la ferritina serica ed il ferro epatico si sono ridotti maggiormente nel gruppo in combinato (-976 vs. -233 ng/ml; p < 0,001 e 5,8 vs. 0,8 msec, p < 0,001, rispettivamente). Uno studio prospettico che ha coinvolto 15 pazienti con talassemia major con siderosi miocardica severa (T2* < 8 msec) e disfunzione ventricolare sinistra o scompenso cardiaco ha dimostrato inequivocabilmente l’efficacia della terapia combinata (Tanner et al., 2008). Infatti il T2* cardiaco è aumentato da 5,7 ± 0,98 msec a 7,9 ± 2,47 msec (p = 0,010), e la FEVS è aumentata significativamente e rapidamente da 51,2 ± 10,9% all’inizio del trattamento a 65,6 ± 6,7%; (p < 0,001). Inoltre durante i 12 mesi di trattamento, la ferritina serica è diminuita da 2057 a 666 ng/mL (p < 0.001) e il T2* epatico è aumentato da 3,7 ± 2,9 msec a 10,8 ± 7,3 msec (p = 0,006). I risultati dello studio suggeriscono che la terapia combinata è efficace non solo nel rimuovere il ferro cardiaco ma anche nell’aumentare la funzionalità miocardica in pazienti con siderosi cardiaca severa e pertanto può essere considerata una valida alternativa alla somministrazione continua di DFO per via sottocutanea o endovenosa, senza i problemi ad essa correlata, quali ridotta compliance, complicanze infettive, trombotiche, da rottura e embolizzazione nel caso dell’impianto di catetere venoso centrale. Farmaki et al. (2006, 2009) hanno dimostrato che il trattamento combinato DFO e DFP è anche in grado di far regredire le complicanze endocrinologiche che, sebbene non mettano a repentaglio come la cardiopatia la vita del paziente, sono ancora molto frequenti e capaci di condizionare la qualità della vita. Il 44% dei 39 pazienti con alterazioni del metabolismo glucidico si sono normalizzati dopo 5-7 anni di terapia combinata, su 18 pazienti con ipotiroidismo 10 hanno potuto sospendere la terapia con tiroxina e 4 hanno ridotto significativamente la dose, 7 su 14 maschi ipogonadici hanno interrotto il trattamento con testosterone e 6 su 19 donne ipogonadiche all’inizio della terapia combinata sono state in grado di concepire. Per quanto riguarda l’efficacia del trattamento alternato, invece, in uno studio randomizzato, Galanello et al. (2006) hanno messo a confronto il trattamento con DFO per 2 gg/settimana e DFP per 5 gg/settimana vs. la monoterapia con DFO 5-7 gg/settimana. Dopo 12 mesi di trattamento, la ferritina serica è diminuita in maniera simile nei 2 gruppi (-248 ± 791 ng/ml nel gruppo in terapia alternata e 349 ± 573 ng/ml per il gruppo trattato col solo DFO; p = 0,58), come anche la concentrazione di ferro intraepatico (-65 ± 615 vs. -239 ± 474 μg Fe/g, p = 0,2). Più recentemente, Abdelrazik (2007) ha riportato che il trattamento alternato con DFO e DFP è più efficace del solo DFO nel ridurre la ferritina serica, migliorare la funzione miocardica e promuovere l’escrezione di ferro urinario. Le differenze tra i due studi potrebbero essere dovute al differente numero di pazienti trattati, al diverso numero di giorni di infusione di DFO, e ai diversi criteri di inclusione in termini di età e ferritina. In uno studio prospettico 213 pazienti sono stati randomizzati a ricevere DFO e DFP alternati (105 pazienti: DFP 75 mg/kg/d per 4 giorni/settimana e DFO 50 mg/kg per 8-12 ore per i rimanenti 3 giorni/settimana) o DFP (108 pazienti: 75 mg/kg/d tutti i giorni), con un follow up di 5 anni (Maggio et al., 2009). La riduzione della ferritina serica è stata significativamente superiore nel gruppo in terapia alternata (p = 0,005), mentre i risultati in termini di sopravvivenza, eventi avversi e costi non sono risultati statisticamente diversi. In definitiva, se la terapia combinata DFO + DFP può essere considerata un regime chelante intensivo indicato in pazienti con grave sovraccarico di ferro, in particolare a livello cardiaco, il trattamento 37 R. Origa, R. Galanello alternato con DFO e DFP appare più adatto al trattamento di pazienti con accumulo di ferro moderato. Due studi hanno valutato la sopravvivenza in pazienti in terapia chelante combinata. A Cipro nel 1999, in seguito al riscontro di un progressivo incremento della mortalità per cardiopatia negli ultimi 20 anni in pazienti in trattamento standard con DFO (p < 0,001), è stata introdotta la terapia combinata nei pazienti a rischio di scompenso cardiaco (Telfer et al., 2006). La mortalità per cardiopatia si è ridotta in maniera significativa a partire dal 2000 e l’analisi multivariata ha evidenziato che la terapia chelante combinata era l’unico fattore indipendente associato con l’aumento della sopravvivenza (Telfer et al., 2009). In uno studio multicentrico e randomizzato in 256 pazienti con talassemia major, è stata messa a confronto la sopravvivenza di gruppi trattati con monoterapia con DFO o con DFP, con terapia alternata DFP-DFO, o con DFP-DFO combinato (Maggio et al., 2009a). Nessun decesso si è verificato nel gruppo trattato con DFP in monoterapia o in combinazione con DFO. Solo un decesso è avvenuto nel gruppo trattato con DFPDFO alternati (il paziente aveva avuto un episodio di scompenso cardiaco un anno prima) e 10 decessi si sono verificati nel gruppo trattato con solo DFO. I fattori di rischio maggiormente associati al rischio di mortalità sono stati il trattamento con DFO, le complicanze da accumulo di ferro e l’interazione tra età e sesso (i maschi sono risultati più a rischio delle femmine). Un nuovo chelante orale: il deferasirox Il DFX, entrato in commercio in Italia e nel resto dell’Europa nel 2007, è secondo la relazione dell’EMEA (European Medicines Agency) indicato per il trattamento del sovraccarico di ferro dovuto a frequenti emotrasfusioni (= 7 ml/kg/mese di globuli rossi concentrati) in pazienti con beta talassemia major di età pari e superiore ai 6 anni. Inoltre nei casi in cui la terapia con DFO sia controindicata o inadeguata, può essere prescritto a pazienti con altri tipi di anemia, e bambini di età compresa tra due e cinque anni. In base al profilo farmacocinetico e all’emivita (11-19h), DFX può essere somministrato in un’unica dose giornaliera. La dose di 20-30 mg/kg/die, è risultata avere un’efficacia pari a quella di 40 mg/kg/ die di DFO nel ridurre la concentrazione di ferro epatico (Piga et al., 2006). Studi successivi hanno evidenziato che l’apporto trasfusionale condiziona la risposta al DFX e, deve essere preso in considerazione nella scelta del dosaggio più appropriato anche in funzione dell’obiettivo terapeutico, sia esso di ridurre o di evitare l’aumento del sovraccarico di ferro (Cohen et al., 2008). Questo approccio è stato utilizzato nello studio EPIC (Evaluation of Patients’ Iron Chelation), nel quale il dosaggio di DFX era adeguato ogni 3 mesi in 937 pazienti con beta talassemia major in funzione dell’andamento della ferritina serica e delle variazioni nell’introduzione di ferro con le trasfusioni (Cappellini et al., 2008). I pazienti che ricevevano 30 mg/kg/ die mostravano la maggiore riduzione in termini di ferritina serica, e i pazienti che ricevevano < 20 o = 20 < 30 mg/kg/die mantenevano il bilancio del ferro. A lungo termine (follow up pari a 4,5 anni), il DFX si è confermato efficace in funzione della dose e del regime trasfusionale anche in pazienti precedentemente trattati senza successo con DFO o con DFP, per tossicità, scarsa risposta alla terapia o non compliance (Cappellini et al., 2008) . DFX è in genere ben tollerato. Gli eventi avversi più frequentemente riportati sono dolore addominale, nausea, diarrea e vomito. Un terzo dei pazienti presenta un aumento non progressivo della creatinina, in genere dose-dipendente e spesso a risoluzione spontanea. Si raccomanda comunque di valutare la creatinina serica almeno 2 volte 38 prima dell’inizio della terapia e poi mensilmente, riducendo la dose o interrompendo temporaneamente la terapia in caso di aumento significativo. Per quanto riguarda l’effetto del DFX sul ferro cardiaco, dopo promettenti esperimenti in modelli animali, i primi studi clinici sono in fase di pubblicazione. In 114 pazienti con accumulo di ferro miocardico e FEVS ≥ 56% trattati per un anno con DFX a dose media di 32,6 mg/ kg/die, il T2* cardiaco è aumentato da 11,2 msec ± 40,5% a 12,9 msec ± 49,5% (+16%; p < 0,0001), mentre la FEVS è rimasta invariata (da 67,4 ± 5,7% a 67,0 ± 6,0% (-0,3%; p = 0,53) (Pennell et al., 2009). Nello stesso studio, in 78 pazienti senza accumulo di ferro miocardico, il T2* cardiaco non si è modificato durante il trattamento [da 32,0 msec ± 25,6% a 32,5 msec ± 25,1% (+2%; p = 0.57)] e la FEVS è aumentata [da 67,7 ± 4,7% to 69,6 ± 4,5% (+1,8%; p > 0,001)]. Ulteriori studi sono necessari per stabilire in maniera inequivocabile se il DFX sia realmente efficace nel rimuovere il ferro cardiaco, anche a dosi inferiori a quelle considerate. Novità in tema di ferrochelazione in età pediatrica La modalità di somministrazione del DFO è problematica specialmente in età pediatrica e adolescenziale ed i rischi legati al sovradosaggio o a ipersensibilità sono particolarmente rilevanti in fase di accrescimento. L’introduzione dei chelanti orali ha costituito una grande opportunità per questa categoria di pazienti. Il profilo di sicurezza del DFX per i pazienti pediatrici è paragonabile a quello degli adulti sino a dosi di 30 mg/kg/die. La dose iniziale raccomandata e le modificazioni di dose consigliate sono analoghe a quelle per i pazienti adulti (Piga et al., 2008), essendo simile il profilo di farmacocinetica. La dose di 10 mg precauzionalmente proposta nei primi studi si è dimostrata insufficiente (Piga et al., 2006). Per quanto riguarda il DFP, è da qualche mese in commercio anche in Italia la soluzione orale, che permette di superare i problemi legati all’assunzione delle compresse, nei bambini e negli adulti con problemi di deglutizione, non solo aumentando ulteriormente il ventaglio terapeutico ma anche migliorando la qualità di vita. Va comunque ricordato che i dati a disposizione sull’uso del DFP nei bambini tra 6 e 10 anni di età sono limitati e non sono disponibili dati sull’uso del DFP nei bambini di età inferiore ai 6 anni. Conclusioni e prospettive per il futuro Con l’avvento nella pratica clinica di metodiche non invasive per la misurazione dell’accumulo di ferro soprattutto a livello cardiaco (RM) e l’introduzione dei chelanti orali, è cominciata una nuova era per i bambini e gli adulti con talassemia. Il DFP in monoterapia si è dimostrato efficace nel ridurre la ferritina serica e l’accumulo di ferro cardiaco e in combinazione con la DFO è capace di rimuovere il ferro in eccesso negli organi coinvolti riuscendo, in un certo numero di casi, a far regredire la compromissione d’organo compresa la cardiopatia anche in fase avanzata e di scompenso e le complicanze endocrine. Il DFX è in genere efficace e ben tollerato e può essere utilizzato in sicurezza anche nei bambini. La sopravvivenza è notevolmente aumentata e la talassemia è diventata, da malattia fatale, patologia cronica. Pur in attesa di ulteriori chelanti affinché tutti i pazienti possano essere adeguatamente trattati e ricordando che in molti Paesi non ci sono le risorse per utilizzare il ventaglio terapeutico esistente, con i chelanti orali disponibili si può cominciare a pensare a nuovi obiettivi come la prevenzione dell’accumulo di ferro prevenendo così la cardiopatia e le altre complicanze dell’emocromatosi trasfusionale. Nuovi farmaci ferrochelanti e nuove strategie di ferro chelazione nella talassemia major Box di orientamento Cosa sapevamo prima I primi studi relativi al DFP avevano dimostrato che, a dosi comparabili, l’efficacia del DFP nel rimuovere il ferro corporeo è simile a quella della DFO con un buon profilo di accettabilità. Le prime segnalazioni sulla terapia di combinazione con DFP e DFO suggerivano un effetto additivo o sinergico sulla escrezione di ferro. Alcuni studi retrospettivi indicavano la possibilità che il DFP fosse più efficace della DFO nel rimuovere il ferro miocardico. Nel 1999 era cominciata la sperimentazione sull’uomo di un nuovo chelante orale, il DFX. Cosa sappiamo adesso Grazie alla diffusione della metodica del T2* con la risonanza magnetica, il DFP si è dimostrato inequivocabilmente superiore alla DFO nel ridurre il ferro cardiaco. La terapia combinata DFP e DFO è una terapia intensiva capace di ridurre il ferro cardiaco ed epatico e, in molti casi, di far regredire la cardiopatia e le complicanze endocrine. Il DFX, in commercio in Europa dal 2006, si è confermato un farmaco efficace e in genere ben tollerato, utilizzabile anche nei bambini. È importante modularne la dose in funzione delle variazioni di ferritina serica e dell’apporto trasfusionale. ... e nella pratica clinica Il DFX può costituire un’alternativa alla DFO nei primi anni di vita. La risonanza magnetica e gli altri metodi non invasivi di misurazione dell’accumulo di ferro devono guidare le scelte terapeutiche. La presenza di ferro miocardico deve far considerare l’introduzione del DFP, in monoterapia o in associazione con DFO. Questa opzione diviene prioritaria quando è necessaria una chelazione intensiva, come in presenza di un severo accumulo di ferro miocardico e di cardiopatia clinica. Bibliografia Abdelrazik N. Pattern of iron chelation therapy in Egyptian beta thalassemic patients: Mansoura University Childre’’s Hospital experience. Hematology 2007;12:577-85. Anderson LJ, Wonke B, Prescott E, et al. Comparison of effects of oral DFP and subcutaneous desferrioxamine on myocardial iron concentrations and ventricular function in beta-thalassaemia. Lancet 2002;360:516-20. ** È il primo studio retrospettivo a suggerire (e con un metodo accurato e ripetibile come la risonanza magnetica) la maggiore cardioprotezione del deferiprone rispetto alla desferrioxamina. Borgna-Pignatti C, Cappellini MD, De Stefano P, et al. Cardiac morbidity and mortality in deferoxamine- or DFP-treated patients with thalassemia major. Blood 2006;107:3733-7. Borgna-Pignatti C, Rugolotto S, De Stefano P, et al. Survival and complications in patients with thalassemia major treated with transfusion and deferoxamine. Haematologica 2004;89:1187-93. * Uno degli studi che analizza la sopravvivenza e la prevalenza di complicanze prima dell’avvento dei chelanti orali. Cappellini MD, Galanello R, Piga A, et al. Efficacy and safety of deferasirox (Exjade®) with up to 4.5 years of treatment in patients with thalassemia major: a pooled analysis (abstract). Blood 2008;112:5409. Cappellini MD, Porter J, El-Beshlawy A, et al; on behalf of the EPIC study investigators. Tailoring iron chelation by iron intake and serum ferritin: prospective EPIC study of deferasirox in 1744 patients with transfusion-dependent anemias. Haematologica 2010;95:557-66. * Lo studio sottolinea la necessità di rivalutare periodicamente la dose di deferasirox in funzione delle fluttuazioni di ferritina serica e dell’apporto trasfusionale (ma questo è una norma di buona pratica clinica da tenere a mente per ciascuno dei tre chelanti). Cohen AR, Galanello R, Piga A, et al. Safety and effectiveness of long-term therapy with the oral iron chelator deferiprone. Blood 2003;102:1583-7. Cohen AR, Glimm E, Porter JB. Effect of transfusional iron intake on response to chelation therapy in beta-thalassemia major. Blood 2008;111:583-7. Cunningham MJ, Macklin EA, Neufeld EJ, et al. Thalassemia Clinical Research Network. Complications of beta-thalassemia major in North America. Blood 2004;104:34-9. Farmaki K, Tzoumari I, Pappa C, Chouliaras G, et al. Normalisation of total body iron load with very intensive combined chelation reverses cardiac and endocrine complications of thalassaemia major. Br J Haematol 2009 Nov 12. [Epub ahead of print]. * È lo studio in cui si dimostra che gran parte delle complicanze da accumulo di ferro sono reversibili con la terapia chelante intensiva. Galanello R, Kattamis A, Piga A, et al. A prospective randomized controlled trial on the safety and efficacy of alternating deferoxamine and DFP in the treatment of iron overload in patients with thalassemia. Haematologica 2006;91:1241-3. Galanello R, Piga A, Alberti D, et al. Safety, tolerability, and pharmacokinetics of ICL670, a new orally active iron-chelating agent in patients with transfusion-dependent iron overload due to beta-thalassemia. J Clin Pharmacol 2003;43:56572. ** Lo studio che riporta i dati relativi alla prima sperimentazione sull’uomo del deferasirox. Galanello R, Piga A, Forni GL, et al. Phase II clinical evaluation of deferasirox, a once-daily oral chelating agent, in pediatric patients with beta-thalassemia major. Haematologica 2006;91:1343-51. * I risultati della sperimentazione del deferasirox sui bambini, con importanti conclusioni relative alla sicurezza, alla farmacocinetica e alla dose efficace. Maggio A, D’Amico G, Morabito A, et al. DFP vs. deferoxamine in patients with thalassemia major: a randomized clinical trial. Blood Cells Mol Dis 2002;28:196208. ** Recentissimo studio prospettico randomizzato che analizza la sopravvivenza dei pazienti con talassemia in funzione della terapia ferrochelante. Maggio A, Vitrano A, Capra M, et al. Long-term sequential DFP-deferoxamine vs. DFP alone for thalassaemia major patients: a randomized clinical trial. Br J Haematol 2009;145:245-54. Uno studio rilevante per comprendere definizione, ruolo e limiti della terapia sequenziale desferrioxamina e deferiprone. Maggio A, Vitrano A, Capra M, et al. Improving survival with DFP treatment in patients with thalassemia major: a prospective multicenter randomised clinical trial under the auspices of the Italian Society for Thalassemia and Hemoglobinopathies. Blood Cells Mol Dis 2009(a);42:247-51. Modell B, Khan M, Darlison M. Survival in beta-thalassaemia major in the UK: data from the UK Thalassaemia Register. Lancet 2000;355:2051-2. Nisbet-Brown E, Olivieri NF, Giardina PJ, et al. Effectiveness and safety of ICL670 in iron-loaded patients with thalassaemia: a randomised, double-blind, placebocontrolled, dose-escalation trial. Lancet 2003;361:1597-602. Origa R, Bina P, Agus A, et al. Combined therapy with DFP and desferrioxamine in thalassemia major. Haematologica 2005;90:1309-14. * Dopo molti studi aneddotici, lo studio che analizza vantaggi e rischi della terapia combinata prima della diffusione della metodica del T2*, in un’ampia popolazione di pazienti. Pennell DJ, Berdoukas V, Karagiorga M, et al. Randomized controlled trial of DFP or deferoxamine in beta-thalassemia major patients with asymptomatic myocardial siderosis. Blood 2006;107:3738-44. ** Lo studio chiave (randomizzato e controllato) che ha dimostrato in maniera inequivocabile la superiorità del deferiprone rispetto alla desferrioxamina nel chelare il ferro cardiaco. Pennell DJ, Porter JB, Cappellini MD, et al. Efficacy of deferasirox in reducing and preventing cardiac iron overload in {beta}-thalassemia. Blood 2009 Dec 8. [Epub ahead of print]. Piga A, Gaglioti C, Fogliacco E, et al. Comparative effects of DFP and 39 R. Origa, R. Galanello deferoxamine on survival and cardiac disease in patients with thalassemia major: a retrospective analysis. Haematologica 2003;88:489-96. Piga A, Galanello R, Forni GL, et al. Randomized phase II trial of deferasirox (Exjade, ICL670), a once-daily, orally-administered iron chelator, in comparison to deferoxamine in thalassemia patients with transfusional iron overload. 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J Cardiovasc Magn Reson 2008;10:12. * La dimostrazione che la cardiopatia talassemica, anche in fase avanzata, è reversibile con la terapia chelante intensiva. Telfer P, Coen PG, Christou S, et al. Survival of medically treated thalassemia patients in Cyprus. Trends and risk factors over the period 1980-2004. Haematologica 2006;91:1187-92. Telfer PT, Warburton F, Christou S, et al. Improved survival in thalassemia major patients on switching from desferrioxamine to combined chelation therapy with desferrioxamine and DFP. Haematologica 2009;94:1777-8. Wonke B, Wright C, Hoffbrand AV. Combined therapy with DFP and desferrioxamine. Br J Haematol 1998;103:361-4. * La prima segnalazione dei vantaggi dell’uso contemporaneo della desferrioxamina e del deferiprone. Zurlo MG, De Stefano P, Borgna-Pignatti A, et al. Survival and causes of death in thalassaemia major. Lancet 1989;2:27-30. Corrispondenza Renzo Galanello, 2a Clinica Pediatrica, Ospedale Regionale Microcitemie, via Jenner sn, 09121 Cagliari. Tel +39 070 6095508. E-mail: renzo galanello@ mcweb.unica.it 40 Gennaio-Giugno 2010 • Vol. 40 • N. 157-158 • Pp. 41-45 frontiere Il ritardo mentale associato al cromosoma X Patrizia D’Adamo, Daniela Toniolo* Divisione di Neuroscienze e *Divisione di Genetica e Biologia Cellulare, Istituto Scientifico San Raffaele, Milano Riassunto Il ritardo mentale è una patologia caratterizzata da disturbi cognitivi, linguistici, psicomotori, dell’adattamento sociale e dell’autonomia personale. Il ritardo mentale ha una frequenza intorno al 2% e molte sono le forme associate al cromosoma X. In base alla localizzazione sul cromosoma e alle caratteristiche cliniche, sono stati distinte 215 patologie, apparentemente diverse, legate al cromosoma X e caratterizzate da ritardo mentale. Sono stati identificati più di novanta geni, ma mutazioni causative in questi geni spiegano solo una parte delle famiglie affette. Più comuni sembrano essere le microduplicazioni di alcune regioni del cromosoma, in cui si trovano geni noti come MECP2 o GDI1. Non è ancora possibile una diagnosi molecolare delle diverse forme di ritardo mentale. L’analisi della funzione dei geni per il ritardo mentale sta cominciando però a dare i primi risultati, suggerendo nuove molecole da utilizzare per nuove terapie farmacologiche. Summary Mental retardation is a common disorder characterized by cognitive and behavioral deficits with onset before 18 years of age. Mental retardation has a frequency of about 2% and X linked forms are quite frequent. Family studies and clinical characterization defined 215 different X linked disorders, affected with mental retardation, and 90 genes have been identified. However causative mutations were found in only a portion of the X linked affected families. More frequent appeared microduplications involving known genes, such as MECP2 or GDI1. A molecular diagnosis is not available for all the different forms of X linked mental retardation. However functional studies are identifying new molecules that could be used for new pharmacological therapies of some forms of mental retardation. Introduzione Il ritardo mentale (RM) è una patologia pediatrica causata da uno sviluppo sub-ottimale del sistema nervoso centrale e delle funzioni intellettive, caratterizzata da disturbi cognitivi, linguistici, psicomotori, dell’adattamento sociale e dell’autonomia personale. Il RM è classificato in base al quoziente intellettivo (QI). Le forme più frequenti presentano un QI che varia da lieve (50 < QI < 70) a medio (40 < QI < 50): molto più rare sono le forme di RM con un QI grave (20 < QI < 40) o gravissimo (QI < 20) (Leonard et al., 2002). A oggi, la diagnosi di RM è eseguita sul riscontro clinico di un disturbo intellettivo con almeno due deviazioni standard rispetto alla norma, corrispondente a un QI < 70, valutato con test quali le scale Wechsler e le Matrici di Raven, che permettono una valutazione del livello d’intelligenza espresso in QI, e una stima delle capacità cognitive dal punto di vista teorico-astratto (QI Verbale) e pratico-concreto (QI di Performance). Sono parte della diagnosi di RM anche un’evidente incapacità da parte dell’individuo di integrarsi in un ambiente sociale come l’ambiente familiare e lavorativo e infine l’insorgere della patologia prima dei diciotto anni d’età (Salvador-Carulla et al., 2008). Nei paesi occidentali, la prevalenza del RM è del 2%. Sebbene l’eziologia del RM non sia ben definita, sia fattori genetici che ambientali, durante il periodo pre-, peri- e post-natale, sono le maggiori cause di alterazioni nello sviluppo e nel funzionamento del sistema nervoso centrale e quindi di RM. Le cause genetiche, descritte come cambiamenti cromosomici strutturali o numerici e mutazioni in singoli geni, contano per il 50% delle forme di RM moderato e/o severo, mentre fattori ambientali quali malnutrizione e deprivazione culturale, hanno soprattutto un ruolo nella patogenesi delle forme lievi (Raymond, 2006). Nella banca dati OMIM (Online Mendelian Inheritance in Man: http:// www.ncbi.nlm.nih.gov/omim) ben 1462 voci contengono il termine RM. All’interno di quest’enorme casistica si possono distinguere for- me sindromiche in cui il RM è associato a altri caratteri, spesso tratti somatici e clinici ben definiti, come la Sindrome d’Angelman (OMIM 105830), di Prader-Willy (OMIM 176270), di Rett (OMIM 312750), di Down (OMIM 190685), e forme dette non-specifiche in cui l’unica caratteristica è il RM. Lo studio e la diagnosi del RM sindromico sono relativamente più semplici, perché possono basarsi su un numero maggiore di sintomi e essere quindi più precisi. Più complicato è invece lo studio del RM non-specifico, poiché una definizione precisa delle funzioni cognitive alterate non è per lo più possibile. Molte sono le forme di RM associate al cromosoma X (Gecz et al., 2009). Già nella prima metà del secolo scorso numerosi studi hanno riportato un eccesso di maschi tra i pazienti affetti da RM. In particolare, nel 1938 Lionel Penrose pubblicò la famosa “Colchester Survey”, una ricerca condotta in 1280 pazienti istituzionalizzati, in cui osservò un numero molto più alto di uomini che di donne che presentavano difetti cognitivi (Penrose, 1938): il rapporto tra maschi e femmine era di 1.25:1. Tale rapporto fu in seguito suffragato da numerosi studi effettuati in U.S.A, Canada, Australia ed Europa, nei quali si osservò un eccesso di circa il 30% di maschi affetti da ritardo mentale (Drillien, 1967; Baird et al., 1985; McLaren et al., 1987). Nel 1970, Lehrke studiò numerose famiglie dove solo i maschi erano affetti da RM, e formulò l’ipotesi che il RM fosse un carattere genetico trasmesso come legato al cromosoma X e che diversi geni del cromosoma X fossero coinvolti nella malattia (Lehrke, 1972). L’analisi d’associazione condotta con diversi marcatori su alcune di queste famiglie ha confermato l’ipotesi. Inoltre, l’analisi d’associazione ha dimostrato che famiglie diverse mappavano a porzioni diverse del cromosoma X, confermando l’esistenza e il coinvolgimento di più di un gene. In effetti, il RM legato all’X è una delle forme più comuni d’alterazioni delle capacità cognitive. Il cromosoma X umano contiene solo il 4% dei geni dell’intero genoma umano, ma le patologie associate a RM riconosciute sul cromosoma X sono il 12% (Ropers, 2008; Gecz et al., 2009). 41 P. D’Adamo, D. Toniolo L’identificazione di geni per il ritardo mentale legato all’X L’identificazione di geni responsabili di RM associato al cromosoma X ha inizio negli anni ’90, quando solo 39 patologie caratterizzate da RM erano state descritte, 17 delle quali vennero mappate su diverse regioni del cromosoma X: XLMR genes: update 1990 (Neri et al., 1991). Nel 1988 è stato pubblicato il primo locus del cromosoma X associato a RM non-specifico (Suthers et al., 1988), MRX1, ed è stata proposta la nomenclatura MRX per questo gruppo di geni. Il primo gene identificato è stato FMR1, il gene responsabile della Sindrome da X Fragile (Oberle et al., 1991; Verkerk et al., 1991; D’Hulst et al., 2009). Sono dovuti passare diversi anni perche venissero identificati i primi geni per il ritardo mentale non-specifico, GDI1 (D’Adamo et al., 1998) e OPHN1 (Billuart et al., 1998). Gli studi genetici d’associazione identificavano regioni molto estese, anche 20-30 cM (centiMorgan) e spesso la significatività statistica non era molto elevata, date le dimensioni relativamente piccole delle famiglie. Tuttavia, grazie agli eccezionali sviluppi delle tecniche per la caratterizzazione di riarrangiamenti cromosomici, quali traslocazioni bilanciate e piccole delezioni, e soprattutto alla disponibilità di sempre maggiori e più precise informazioni sull’organizzazione del genoma ed infine della sequenza completa del genoma umano, l’identificazione di nuovi geni per il ritardo mentale è progredita in maniera costante. Figura 1. Ideogramma del cromosoma X con la posizione di 82 geni associati a RM. I geni riportati in nero, sono responsabili di forme sindromiche. I geni riportati in grigio, preceduti dal segno “+”, causano RM associato a malattie neuromuscolari; quelli preceduti dal segno “*”, causano RM non specifico. I numeri indicano le corrispondenti bande cromosomiche. La lista completa dei geni e la loro funzione sono riportate nei dati supplementari (Tabella S1) in Chiurazzi et al., 2008. 42 Fino ad oggi, sono stati identificati 215 disordini pediatrici, caratterizzati da RM di cui 97 sono state mappati ad una porzione più meno estesa del cromosoma X mediante analisi genetica di associazione o per la presenza di riarrangiamenti cromosomici (Fig. 1; http://xlmr. interfree.it/home.htm). Più di 90 geni sono stati fino da ora identificati grazie al risultato di un’estesa analisi genetica e l’identificazione di mutazioni in DNA raccolti da diversi consorzi internazionali. Mutazioni in quasi 40 geni sono state trovate in famiglie affette da RM non-specifico. Sorprendentemente, considerando il numero di geni identificati, un gene responsabile è stato identificato soltanto in circa il 50% delle famiglie analizzate. Complessivamente, quindi, i risultati di questa analisi indicano che ciascun gene spiega un piccolo numero di famiglie affette e corrisponde in genere a non più dello 0,2-0,5% dei casi: ci dobbiamo quindi aspettare un grande numero di mutazioni rare o addirittura uniche in molti geni (Chiurazzi et al., 2008). Poche sono le eccezioni. Una è il gene ARX che è stato trovato mutato nel 9,5% delle famiglie testate (Gecz et al., 2006). In particolare, una duplicazione di 24 bp nell’esone 2 (c.428_451dup) è stata trovata in circa la metà dei casi studiati. Analisi degli aplotipi associati in un numero abbastanza grande di pazienti ha dimostrato che la mutazione sembra dovuta a eventi indipendenti e che si tratterebbe quindi di un “hot spot” di mutazione. Anche i geni CUL4B (Tarpey et al., 2007; Zou et al., 2007), JARIDIC (Jensen et al., 2005) e SLC6A8 (Hahn et al., 2002) sono stati trovati mutati relativamente più frequentemente e ciascuno corrisponde a circa il 2-3% delle famiglie analizzate. Tenendo conto che le stime sono soggette ad errori di campionamento anche molto grandi, la frequenza di questi geni in maschi con difetti cognitivi si aggirerebbe tra l’1% e lo 0,2%. Questo ci porta ad una successiva considerazione che deriva dall’analisi dei geni per il RM finora identificati: diversi di questi geni sono stati trovati mutati sia in forme di RM non-specifico che in diverse forme sindromiche. Quindi, la distanza tra i due tipi di RM è molto piccola e potrebbe ancora diminuire a mano a mano che più geni vengono identificati e le famiglie meglio caratterizzate clinicamente. Ci sono molti esempi dei geni responsabili di ritardo mentale non-specifico sono stati ritrovati mutati anche in forme sindromiche e viceversa (Frints et al., 2002; Gecz et al., 2009). Ne descriveremo brevemente due. ARX, un fattore trascrizionale espresso in cervello, pancreas e testicolo, è stato trovato mutato in almeno 7 diverse sindromi e solo in parte la gravità della sindrome è associata alla gravità delle mutazioni (Gecz et al., 2006). Il gene MECP2, identificato come responsabile della Sindrome di Rett (RTT), codifica per un repressore della trascrizione, che controlla l’organizzazione della cromatina e il processamento dell’RNA (Chahrour et al., 2007). RTT nella sua forma tipica, si manifesta solo nelle femmine, intorno al primo anno di vita, ed è ereditato come carattere dominante legato all’X. Mutazioni di perdita di funzione del gene MECP2 causano RTT, la cui gravità (età di insorgenza e intensità e numero di manifestazioni neuropsichiatriche) dipende in gran parte dalle modalità di inattivazione del cromosoma X. Nei casi in cui i due cromosomi X delle femmine non si inattivano a caso in uguale percentuale, ma c’è uno sbilanciamento a favore dell’espressione del gene MECP2 normale, è stato notato un netto miglioramento dei sintomi di RTT, fino a casi che presentavano un RM non specifico. Nei maschi, questo gruppo di mutazioni è causa di encefalopatie neonatale ed è di solito letale. Sono però state descritte altre mutazioni, che non causano RTT nelle femmine, ma possono causare forme diverse di RM e/o disordini psichiatrici nei maschi. Anche in questo caso i fenotipi associati a mutazioni del gene MECP2 sono estremamente variabili, da RM non specifico moderato a RM grave con presenza di disordini psichiatrici. Il ritardo mentale associato al cromosoma X Infine dobbiamo citare un recente lavoro condotto da un consorzio di laboratori (IGOLD Consortium) che ha affrontato direttamente con un progetto su larga scala l’identificazione dei geni per il RM legati al cromosoma X: sono stati infatti sequenziati tutti gli esoni di 718 dei 848 geni annotati (in Vega ed Ensembl/NCBI database) sul cromosoma X in 208 famiglie, selezionate perché caratterizzate da più di un individuo maschio con RM e da un pattern di trasmissione compatibile con un’ereditarietà legata all’X (Tarpey et al., 2009). Questo enorme lavoro ha portato all’identificazione di mutazioni causative in 8 nuovi geni. Questo lavoro ha tuttavia anche evidenziato un grandissimo numero di mutazioni sia uniche sia ricorrenti. In alcuni casi le mutazioni causavano interruzione di un trascritto e quindi eliminavano il prodotto genico ma non segregavano con il RM nelle famiglie in cui erano state identificate: non ne potevano essere la causa. Infine sono state identificate un gran numero di varianti sia di senso che sinonime con un non chiaro significato biologico e clinico. Il lavoro dimostra i vantaggi ma anche le difficoltà associate all’interpretazione di un tale screening: da una parte rimane la possibilità che alcune delle famiglie di cui non è stato identificato il gene non siano portatrici di un RM legato all’X oppure presentino mutazioni in regioni regolative dei geni o in geni o porzioni di geni non ancora identificati (RNA non codificanti, microRNA e altro), dall’altra rimane aperto il problema di verificare il ruolo di tutte le mutazioni che segregano col RM nelle famiglie e che quindi potrebbero essere causative. Il più probabile scenario per le cause genetiche del ritardo mentale legato al cromosoma X e più in generale anche per quello autosomico è in ogni caso quello che prevede molte mutazioni rare in molti geni diversi. ne della trascrizione. Una frazione rilevante di queste proteine sono coinvolte in processi fondamentali come il metabolismo cellulare, il processamento di DNA e RNA, sintesi proteica, regolazione del ciclo cellulare. Un gruppo abbastanza grande, di cui sono esempi MECP2 e JARID1C è coinvolti nella regolazione trascrizionale e nel modellamento della cromatina (Kramer et al., 2009). Un altro comprende numerosi regolatori ed effettori della GTPasi della famiglia Rho, di cui è un rappresentante OPHN1 (Khelfaoui et al., 2007), che controllano l’organizzazione del citoscheletro di actina e come conseguenza hanno una forte effetto sulla crescita dei neuriti. Tra le GTPasi, sono trovate anche quelle della famiglia Rab e loro effettori e regolatori, come RAB39B (Giannandrea, 2010) e GDI1 (Bianchi et al., 2009), che controllano il traffico intracellulare. Anche le mutazioni in geni di questo gruppo possono alterare la crescita/sviluppo dei neuriti e/o la formazioni delle sinapsi (Sudhof et al., 2008). Molti geni, di diversa funzione, infine codificano per proteine che si localizzano alla sinapsi e sembrano svolgere una funzione rilevante nel funzionamento della sinapsi stessa (per un approfondimento: http://www. genes2cognition.org/). Alcuni di questi geni non sono stati implicati solo in RM, ma anche in altre patologie cognitive e in particolare nell’autismo, come le neuroligine (3 e 4) e la neurexina 1 (NRXN1), che lega le neuroligine (Sudhof, 2008), o nella schizofrenia, come ancora NRXN1 e APBA2 (Owen et al., 2009). Molti dei risultati della ricerca degli ultimi anni sembrano quindi indicare come geni per le funzioni cognitive possono essere alterati in diverse patologie e, come è accaduto per altri gruppi di disordini, che le stesse alterazioni possono essere comuni a fenotipi anche molto diversi. La funzione dei geni per il ritardo mentale legato all’X Dei circa 90 geni identificati fino ad oggi, di alcuni si conosceva una possibile funzione e di molti è stata studiata. Come riportato in Figura 2, questi geni codificano per proteine coinvolte in una varietà di funzioni biologiche: dalla traduzione del segnale alla regolazio- Varianti strutturali e ritardo mentale La complessità del quadro brevemente descritto nelle sezioni precedenti ci fa capire che siamo ancora lontani da quella diagnosi molecolare di RM che potrebbe consentire di superare le difficoltà diagnostiche dovute alla variabilità del fenotipo da una parte e alla somiglianza clinica delle diverse forme di RM non-specifico. Tuttavia alcuni risvolti pratici sono stati ottenuti dall’analisi della presenza di piccoli riarragiamenti cromosomici tramite array-CGH, la tecnica che permette l’identificazione di delezioni/duplicazioni anche molto piccole e che coinvolgono uno o pochi geni (Lee et al., 2007) e che sono state identificate piu volte come cause di disordini dello sviluppo. In particolare è stato trovato che microduplicazioni di alcune regioni del cromosoma X, in cui si trovano geni noti per il RM, causano un’aumentata espressione di tali geni e potrebbero causare un alterazione del normale sviluppo cognitivo e il RM (Froyen et al., 2007). Quattro “hot spot” di duplicazione sono stati identificati fino da ora. Due coinvolgono regioni di grandezza variabile che comprendono MECP2 e GDI1 rispettivamente (Carvalho et al., 2009; Vandewalle et al., 2009). Una terza regione è stata identificata in Xp11.22, in corrispondenza dei geni HSD17B10 e HUWE1 (Froyen et al., 2008). Infine due regioni sono associate la prima a ipopituitarismo legato al l’X (Solomon et al., 2004) e l’altra al gene PLP1, responsabile della malattia di Pelizeus Merzbacher, un disordine della mielinazione associato con RM lieve (Woodward, 2008). In tutti i casi studiati, le duplicazioni presentavano un fenotipo meno severo delle mutazioni di perdita di funzione e si può prevedere che questo tipo di riarrangiamenti cromosomici, anche de novo, possano spiegare una parte dei casi di RM legato all’X per cui non è stato ancora identificato un gene. Figura 2. Diagramma a torta che illustra la funzione biologica di gruppi di proteine codificate dai geni per il RM fino ad ora identificati. L’annotazione corrisponde a quanto riportato nella banca dati delle funzioni delle proteine, “Gene Ontology” (consultabile sul sito: www.geneontology.com). Quali ricadute sulla pratica clinica? Nonostante le nostre conoscenze sulle cause genetiche del ritardo mentale siano molto progredite negli ultimi anni, con l’identificazione 43 P. D’Adamo, D. Toniolo di un grande numero di geni, la conoscenza della storia familiare e una visita accurata che includa una valutazione fenotipica e neurologica rimangono punti fondamentali per la diagnosi e per decidere su eventuali studi genetici. A questo proposito, linee guida e procedure valutative sono state messe a punto da Battaglia e Carey (Battaglia et al., 2003) e van Karnebeek (van Karnebeek et al., 2005). È entrato nell’uso generale che a un paziente che presenta RM, sia prescritta l’analisi molecolare per l’espansione di tripletta responsabile dell’X fragile, e, in presenza di epilessia e/o distonia, venga ricercata la mutazione ricorrente (dup24bp) nel gene ARX. In caso di ritardo mentale non-specifico spesso viene fatta una ricerca di micro-riarrangiamenti cromosomici mediante “array CGH” che come abbiamo visto può identificare duplicazioni comuni in regioni note oltre che presumibilmente altre regioni cromosomiche coinvolte in microriarrangiamenti “de novo”. Tutte le analisi che vengono comunemente fatte portano in ogni caso a identificare solo una piccola parte delle cause del RM mentre il numero di geni da studiare sarebbe grandissimo e in ogni caso troppo grande per le tecnologie disponibili. È vero però che ci stiamo avviando verso nuove e molto più efficienti tecnologie di analisi della variabilità genetica, che ci permetteranno di avere in maniera relativamente più veloce informazioni di sequenza non solo su tutti i geni del cromosoma X, ma eventualmente anche su tutti i geni autosomici, che nel frattempo potranno essere stati individuati (Ropers, 2008). Bisogna però almeno brevemente ricordare che l’analisi della funzione dei geni per il RM sta cominciando a dare dei primi risultati anche dl punto di vista di possibili terapie. È questo il caso della sindrome dell’X fragile, il cui gene è stato identificato nel 1991 e rappresenta la forma più comune di ritardo mentale e autismo (secondo le stime più recenti la sindrome dell’X Fragile colpisce 1/2500 individui). A livello molecolare la sindrome dell’X fragile è causata dall’espansione di una tripletta CGG nella porzione 5’ non codificante del gene FMR1 che supera le 200 ripetizioni, e causa la metilazione e il silenziamento del gene. Il gene FMR1 codifica per un proteina, FMRP, che può presentare diverse forme alternative, lega l’RNA, possiede un segnale di localizzazione nucleare, un segnale di esportazione dal nucleo e due domini “coiled coil” che partecipano a molte interazioni proteina-proteina (D’Hulst et al., 2009). Il ruolo principale di FMRP nel neurone sarebbe di legare diversi RNA e portarli alla sinapsi, dove svolgerebbe una funzione di regolatore negativo della traduzione che avviene alla post-sinapsi, in seguito a stimolazione neuronale. Complessivamente FMRP sembra avere un ruolo importante nella plasticità sinaptica. In particolare è stato osservato che la mancanza di FMRP è associata ad alterazioni della depressione postsinaptica scatenata dall’attivazione del recettore del glutammato (mGlur5), in accordo con il ruolo di regolatore negativo della traduzione. Analogamente è stato visto che FMRP sembra essere rilevante anche per la funzionalità del sistema GABAergico, importante per molti dei disordini comportamentali associati alla sindrome, come iperattività, epilessia, insonnia e altre. E stato suggerito quindi l’uso terapeutico di antagonisti di mGlur e del recettore di GABA che si sono dimostrati relativamente efficaci in modelli animali e il cui uso clinico è in corso di test (D’Hulst et al., 2009). Box di orientamento Cosa sapevamo prima Il Ritardo Mentale (RM) è una patologia pediatrica causata da uno sviluppo sub-ottimale del sistema nervoso centrale e delle funzioni intellettive, caratterizzata da disturbi cognitivi, linguistici, psicomotori, dell’adattamento sociale e dell’autonomia personale. Il RM ha una frequenza intorno al 2% e molte sono le forme associate al cromosoma X che spiegano l’eccesso di circa il 30% di maschi affetti da ritardo mentale. Cosa sappiamo adesso Fino ad oggi, sono stati identificate 215 patologie caratterizzate da RM legato al cromosoma X e sono state trovate mutazioni causative in più di novanta geni. Ciascun gene spiega quindi un piccolo numero di famiglie affette e restano ancora molti casi (circa il 50%) di cui non si conosce l’eziologia. Più comuni sembrano essere le microduplicazioni di alcune regioni del cromosoma, che provocano aumento del dosaggio genico di geni già noti, come MECP2 o GDI1. Poiché le duplicazioni hanno in genere un fenotipo meno severo delle mutazioni di perdita di funzione ci si attende che questo tipo di riarrangiamenti cromosomici, anche de novo, possano spiegare una parte rilevante dei casi di RM legato all’X, per cui non esiste ancora una causa. Quali ricadute sulla pratica clinica La complessità del quadro ci fa capire che gli enormi sviluppi delle nostre conoscenze non ci hanno ancora permesso di arrivare a quella diagnosi molecolare precisa che tutti attendiamo. Tuttavia ci aspettiamo che le nuove tecnologie di analisi della variabilità genetica e in particolare la possibilità di sequenziare e analizzare genomi interi a costi accessibili, nel giro di qualche anno rivoluzioneranno la diagnosi del RM. Contemporaneamente, l’analisi della funzione dei geni per il RM sta cominciando a dare dei primi risultati. Un esempio è la sindrome dell’X Fragile per cui sono in corso o programmati dei test clinici che hanno lo scopo di testare antagonisti di proteine della sinapsi, alterate dalla mancanza del prodotto del gene FMR1, responsabile della sindrome. Bibliografia Baird PA, Sadovnick AD. Mental retardation in over half-a-million consecutive livebirths: an epidemiological study. Am J Ment Defic 1985;89:323-30. Battaglia A, Carey. Diagnostic evaluation of developmental delay/mental retardation: An overview. Am J Med Genet C Semin Med Genet 2003;117C:3-14. Bianchi, V., P. Farisello, P. Baldelli, et al. Cognitive impairment in Gdi1-deficient mice is associated with altered synaptic vesicle pools and short-term synaptic plasticity, and can be corrected by appropriate learning training. Hum Mol Genet 2009;18:105-17. Billuart, P., T. Bienvenu, N. Ronce, et al. Oligophrenin-1 encodes a rhoGAP protein involved in X-linked mental retardation. Nature 1998;392:923-6. Carvalho, C. M., F. Zhang, P. 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