Foglio di
informazione
professionale
N.129
28 aprile 2004
Vecchi farmaci per nuove malattie
Quella che è in corso è una trasformazione radicale. Dopo aver prodotto nuovi farmaci per vecchie malattie,
l’industria farmaceutica sta, infatti, creando nuove malattie per vecchi farmaci. La nuova forma di business
estende i confini delle patologie, sino ad annettervi fenomeni considerati altrimenti naturali (es. la
menopausa o la perdita di capelli), parafisiologici (come l’osteoporosi), oppure fattori di rischio (es.
l’obesità, le dislipidemie) o sintomi lievi e benigni (come l’intestino irritabile, la sindrome premestruale). La
strategia, definita dagli anglosassoni “disease mongering” (“mercificazione delle malattie”) consiste nel
presentare un problema minore, ma con una popolazione molto ampia di potenziali sofferenti, lanciare
campagne di presa di coscienza; presentare studi indicanti l’efficacia di un determinato farmaco nel
trattamento del disturbo; ottenere l’autorizzazione per la nuova indicazione (meno di 18 mesi di attesa contro
gli 8 anni che servono per lo sviluppo e la commercializzazione di un nuovo farmaco); ingaggiare illustri
clinici per sostenere la diffusione della malattia e le possibilità di cura col “nuovo” farmaco; promuovere una
campagna mediatica utilizzando dati statistici in grado di impressionare; infine utilizzare i pazienti come
testimoni delle ripercussioni negative sulla loro vita e sulle aspettative di cura. Su questa linea si è venuta a
creare una alleanza tra medici, associazioni di malati e industria farmaceutica: qualunque affezione viene
giudicata diffusa, grave e curabile e perciò denunciata come sottodiagnosticata e sottotrattata. Quanto sia
artificioso il tentativo di medicalizzare alcune condizioni lo si può dedurre dal fatto che gli ultimi due
farmaci proposti per la cura della calvizie e dell’impotenza sono stati scoperti per caso (come effetti
indesiderati), segno del sostanziale disinteresse in questo settore. Quando poi ci si è trovati con farmaci utili
contro la caduta dei capelli e contro l’impotenza, si è messo in moto il meccanismo per riaccendere
l’interesse sui due temi. Nel caso della finasteride (Propecia), come primo passo si è fondata una società
scientifica ad hoc, la Hair Study Institute, che ha diffuso commenti degli esperti e i risultati di uno studio
(finanziato dalla Merk) secondo il quale la tendenza alla calvizie interessa 1/3 degli uomini e predispone ad
attacchi di panico e ad altri traumi emotivi che pesano negativamente sulle prospettive lavorative e sulla
salute mentale. Si potrebbe dire, tanto rumore per nulla: quanti sarebbero, infatti, gli uomini disposti ad
assumere il farmaco sapendo che è efficace solo nella perdita lieve e moderata al vertice e allo scalpo medio
anteriore, che rinfoltisce i capelli dell’11% (con 10 capelli in testa, dopo un anno se ne possono contare 11,1)
e che una volta sospeso, la caduta riprende?
L’interesse per l’impotenza è andato crescendo di pari passo con l’uscita sul mercato dei vari prodotti. Il vero
boom c’è stato col primo farmaco efficace per via orale, il sildenafil (Viagra), originariamente destinato ai
pazienti sofferenti di angina pectoris, poi convertito a miglior sorte. La Pfizer ha organizzato una campagna
di sensibilizzazione che ha toccato tutto il mondo. In Italia, il battage è stato molto discreto, con annunci sui
giornali e cartelloni, ma nei paesi anglosassoni si è, invece, enfatizzata la prevalenza dell’impotenza come
chiave per aumentare le probabilità di contatto col medico. In Australia, per esempio, si è costruita una
campagna di informazione, basandosi sui risultati di uno studio che quantificava nel 39% gli uomini con
problemi di impotenza. Solo leggendo per intero lo studio si capiva che la cifra era stata ottenuta sommando
tutti i tipi di disfunzione erettile, anche quelli “occasionali” e che l’età media dei pazienti che lamentavano
impotenza completa era di 71 anni. Un’altra indagine, opportunamente trascurata, in termini più attendibili,
stimava nel 3% dei 40enni e nel 64% dei 70enni la prevalenza di disfunzione erettile.
Al contrario di quanto affermato dalla ditte farmaceutiche interessate, la definizione di osteoporosi è tuttora
controversa, così come la relazione tra densità ossea e rischio di fratture. La definizione, secondo i criteri
fissati da un gruppo di lavor o dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (sponsorizzato in parte da tre ditte)
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è in effetti singolare, perlomeno in riferimento a come si è abituati a valutare le malattie (ammesso che
l’osteoporosi lo sia). Si prende, infatti, come riferimento la massa ossea di una persona giovane, spalancando
le porte a criteri diagnostici che ampliano a dismisura il concetto di malattia. Su questa base, qualunque
donna, allo scattare della menopausa, diventa automaticamente a rischio di osteoporosi. Se il fenomeno fosse
così esteso, sarebbe logico attendersi un impegno verso tutti i fattori di rischio, sia quelli legati allo sviluppo
dell’osteoporosi (es. abolizione del fumo, promozione di una dieta ricca di calcio e vitamina D, attività fisica
regolare), sia quelli le gati alle probabilità di caduta dell’anziano che è il determinante fondamentale delle
fratture del femore. Invece, le campagne di informazione sull’osteoporosi tendono esclusivamente a
promuovere l’approccio farmacologico in un gruppo di popolazione - le donne in menopausa - certo più
esposte a perdita ossea, ma che corre un pericolo reale di fratture basso e lontano nel tempo (comunque
modificabile in misura poco significativa con i farmaci).
Per molte persone, la sindrome dell’intestino irritabile è solo un modesto disturbo funzionale che non
richiede altro che una rassicurazione sulla sua benignità e misure alimentari. Negli Stati Uniti, l’uscita sul
mercato dell’olasetron (Lotronex), un nuovo farmaco specifico per il disturbo, ha messo in moto una vera e
propria macchina bellica. Secondo un documento riservato, proveniente da una società di pubbliche relazioni
incaricata dalla GalxoSmithKline di studiare una campagna promozionale per il lancio del prodotto, scopo
principale della campagna era quello di “creare una nuova percezione della sindrome dell’intestino irritabile,
come una malattia credibile, concreta, diffusa”. Il programma di informazione rivolto ai medici doveva
instillare nella loro mente che la sindrome dell’intestino irritabile è “una malattia importante” e convincere i
pazienti che “si tratta di un disturbo medico comune e facilmente diagnosticabile”. Entrambi i target della
campagna di sensibilizzazione, medici e pazienti, dovevano essere opportunamente informati della
disponibilità di una “terapia di efficacia dimostrata”. La campagna, prevista della durata di 3 anni, è stata
interrotta prematuramente quando Lotronex è stato ritirato dal commercio nel novembre del 2000 per la
comparsa di gravi, talora fatali, effetti indesiderati. Nel luglio del 2002, soggetto a restrizioni d’impiego,
limitazioni prescrittive e obbligo del consenso informato (che servono più a cautelare la ditta produttrice che
a proteggere il paziente), il farmaco è stato reintrodotto in commercio dall’ente regolatorio americano, la
FDA, mostratosi particolarmente sensibile alle pressioni di un gruppo di auto-aiuto, che ha un sito Internet
finanziato, tra gli altri, dalla ditta produttrice dell’olasetron.
In questa sorta di “rimappazione” nosologica non sfuggono nemmeno le più varie condizioni del disagio di
vivere: dal disturbo di ansia sociale (una timidezza patologica molto rara), al disordine da stress posttraumatico (un disturbo altrettanto raro dei veterani di guerra e delle vittime di traumi violenti), al disturbo di
ansia generalizzata. Nella primavera del 2001, negli USA, è scoppiata una epidemia, durante la quale le TV
locali hanno riferito che almeno 10 milioni di americani soffrivano di una malattia sconosciuta che lasciava
chi ne soffriva paralizzato da paure irrazionali. I telespettatori erano avvertiti di prestare attenzione ad alcuni
sintomi, tra cui nervosismo, stanchezza, irritabilità, tensione muscolare, nausea, diarrea, sudorazione. In
molti di questi programmi intervenivano una paziente, che dopo due anni di clausura per colpa della malattia
era guarita, e un noto psichiatra. I loro testimonial erano alternati con scene di una donna che giocava
serenamente con un uccellino e un’altra che inghiottiva pillole. Il disturbo nuovo e sconosciuto era il
disturbo di ansia generalizzata, un vero e proprio contenitore diagnostico multiuso, universale. Nessun
programma televisivo ha mai citato alcun farmaco, ma il 16 aprile dello stesso anno, la FDA aveva concesso
l’estensione delle indicazioni della paroxetina (Seroxat) anche al trattamento del disturbo d’ansia
generalizzata. Lo stesso giorno, un gruppo di pazienti denominato Freedom From Fear (Libertà dalla paura)
ha diffuso un sondaggio telefonico secondo il quale le persone colpite dalla malattia trascorrono 40 ore alla
settimana, un lavoro a tempo pieno, a preoccuparsi. Il sondaggio non citava la paroxetina, ma l’agenzia che
lo ha condotto era quella che curava le pubbliche relazioni della ditta produttrice. L’elenco delle “nuove”
malattie potrebbe continuare. Sinora interessati solo marginalmente da queste operazioni di marketing
camuffate da iniziative di divulgazione medico-scientifica, in futuro anche noi verremo coinvolti e dovremo
prepararci ad affrontarle con armi adeguate, prima di tutto con una informazione corretta e indipendente.
A cura del dr. Mauro Miselli
Bibliografia
- Moynihan R et al. Selling sickness: the pharmaceutical industry and disease mongering. BMJ 2002; 324:886-91.
- http://www.motherjones.com/magazine/JA02/disorders.htlm.
- Grassi M. Campagne subdole per intrappolare malati immaginati. Occhio Clinico 2002; 8:38-41
- Bozzini G. Le Litanie dei Santi. Dialogo sui Farmaci. Gennaio 2003:3.
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