Il lungo XX secolo e oltre. Per una storia del capitalismo maturo

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Il lungo XX secolo e oltre. Per una storia del capitalismo maturo
01 Gennaio 2011 01:00
“Raccontare la storia del lungo XX secolo consiste in gran parte nel mostrare come e perché il
regime di accumulazione statunitense: 1) emerse dai limiti, dalle contraddizioni e dalla crisi del
capitalismo del libero scambio della Gran Bretagna come struttura regionale dominante
dell’economia-mondo capitalistica; 2) ricostituì l’economia- mondo su basi che resero possibile
un’altra tornata di espansione materiale; 3) ha raggiunto la propria maturità e sta forse
preparando il terreno per l’emergere di un nuovo regime dominante” (Giovanni Arrighi, Il lungo
XX secolo, 1994, p. 313)
1. UN SANGUINOSO PASSAGGIO DI TESTIMONE: 1896-1945
1.1. La belle èpoque: 1896-1914
Il XX secolo, da un punto di vista economico, non inizia nel 1900. Hobsbawm lo fa iniziare nel
1914, considerando questa data come il momento che sancisce la fine del “lungo Ottocento”,
l’era del trionfo del capitalismo liberale imperniato sul predominio mondiale della Gran Bretagna
(Hobsbawm 1987: 9). Arrighi lo retrodata agli anni Settanta dell’Ottocento, probabilmente con
maggiore ragione: il sorpasso del prodotto interno lordo statunitense nei confronti di quello
britannico avviene in effetti nel 1873. Mi terrò a mezza strada, collocando la data d’inizio del
Novecento nel 1896: nell’anno, cioè, in cui finisce la Grande Depressione iniziata nel 1873, e
comincia un periodo di forte crescita economica che terminerà solo nel 1914, con lo scoppio
della prima guerra mondiale. La Grande Depressione del 1873 è la prima crisi economica
realmente mondiale. Non fu contrassegnata da un crollo della produzione, che anzi crebbe in
modo impetuoso, al pari del commercio internazionale (Hobsbawm 1987: 41). Si ebbe però,
come disse nel 1888 Alfred Marshall, “depressione dei prezzi, depressione degli interessi,
depressione dei profitti” (Marshall 1926: 98 sg.). Quando si parla di “depressione dei prezzi” non
si adopera un’iperbole: nel periodo 1873-1896 i prezzi in Inghilterra calarono del 40%. Il portato
più importante di questo periodo interessa l’economia britannica, in cui si consuma la
transizione dalla manifattura alla finanza. Il commercio internazionale non è più imperniato
sull’Inghil - terra, che prima faceva la parte del leone sia in termini di importazioni che in termini
di esportazioni. Per contro, si assiste al predominio inglese nella finanza, che risulta
fondamentale per la stessa bilancia dei pagamenti inglesi: nel 1906-1910, ad esempio, il deficit
della bilancia commerciale britannica (-142 milioni sterline) è praticamente compensata
dall’attivo nei servizi commerciali e finanziari (+137 milioni). Inoltre la Gran Bretagna riesce ad
attrarre gran parte degli investimenti diretti esteri: nel 1914 si dirige verso l’isola addirittura il
44% degli investimenti diretti esteri su scala mondiale. Con la Grande Depressione finisce
l’epoca del liberismo. La risposta del capitalismo alla crisi di profittabilità che caratterizza il
periodo 1873-96 ha infatti quattro facce: il protezionismo, la concentrazione tra imprese,
l’organizzazione scientifica della produzione, e l’imperialismo. Per quanto riguarda il
protezionismo, basterà dire che soltanto l’Inghil - terra resta fedele al credo liberista, e non per
dogmatismo o astratta fedeltà ai principi: la libertà di commercio era infatti essenziale alla Gran
Bretagna, che scambiava manufatti industriali con prodotti primari provenienti dalle colonie e dai
territori d’oltremare. Gli altri Paesi, invece, abbracciano politiche protezionistiche. Attraverso di
esse, per usare un’efficace espressione di Marx, vengono “fabbricati fabbricanti”: un Paese
come la Germania si garantisce in questo modo il mercato interno e al tempo stesso sviluppa le
esportazioni. Lo stesso fanno gli Stati Uniti. Per quanto riguarda in particolare la Germania, i
risultati sono spettacolari: l’export tedesco passa in 30 anni da meno della metà a più del totale
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dell’export britannico; nel 1913 le esportazioni tedesche superano quelle inglesi di un terzo nel
mondo industriale e del 10% in quello sottosviluppato. I processi di concentrazione tra impre se in questo periodo investono tanto il settore manifatturiero quanto quello finanziario. La
formazione di grandi monopoli si affianca a cartelli e trust tra imprese. Qualche esempio
europeo: la Lloyds Bank inghiotte qualcosa come 164 banche, mentre il Con sorzio carboniero
del Nordrhein-Westfalen nel 1893 controlla il 90% della produzione di carbone della regione.
Negli Stati Uniti la situazione non è diversa, con la Standard Oil che controlla il 90-95% del
petrolio raffinato degli USA. In questi anni nascono la “produzione di massa” ed il mercato dei
beni di consumo. Una terza risposta è rappresentata dall’organizzazione scientifica della
produzione (scientific management). È di questi anni l’introduzione del taylorismo negli Stati
Uniti (mentre in Europa sarà introdotto soltanto dopo la prima guerra mondiale). Infine, abbiamo
l’imperialismo. A simbolo dell’imperialismo si può assumere, con Hobsbawm, l’affermazione
fatta nel 1900 da un funzionario del Dipartimento di Stato Usa, secondo cui “l’espansione
territoriale non è che la conseguenza dell’espansione del commercio” (cit. in Hobsbawm 1987:
53). In questi anni si sviluppa in effetti una vera e propria corsa alle colonie, animata da
molteplici motivazioni. I territori coloniali vengono acquisiti per trasformarli (in particolare nei
casi in cui si ha un capitalismo non d’insediamento) in paesi specializzati in alcuni prodotti
primari (in Malesia la gomma e lo stagno, in Brasile il caffè, in Cile i nitrati, in Uruguay la carne).
Nelle colonie si vede però anche un serbatoio di manodopera a basso costo, uno sbocco di
investimento per i capitali, e anche – sia pure in misura minore – dei mercati potenziali di
sbocco per le merci prodotte nei paesi imperialisti. Infine, nelle colonie si scorge una valvola di
sicurezza contro la rivoluzione sociale. Al riguardo basteranno le testimonianze citate dal
socialista olandese Henri Van Kol in un suo scritto del 1904: “Il presidente degli Stati Uniti
dichiarò il 14 giugno 1898 in Senato: «Rivolu - zione sociale o imperialismo: questa è la sola
alternativa rimasta!». Cecil Rhodes pensava la stessa cosa, quan - do una sera del 1897,
tornando da una manifestazione operaia nei quartieri orientali di Londra, escla - mò: «Per
risparmiare una guerra civile a 40 milioni di inglesi, dobbiamo conquistare nuove ter re»” (cit. in
Monteleone 1974: 262). In questo periodo si fa sempre più evidente il nesso tra la spartizione
del mondo e le rivalità che dividono i Paesi industriali, come pure l’intreccio tra industria e
politica. E a quest’ultimo proposito va sottolineato come la tendenza, intrinseca al capitale, ad
oltrepassare ogni limite nella sua espansione divenga un fattore esplosivo qualora ad essa si
pretenda di informare la politica estera. Cresce il ruolo del governo e del settore pubblico
nell’economia, sotto forma di commesse pubbliche sempre più ingenti destinate al settore
militare, nel contesto di una vera e propria corsa agli armamenti. Qualche dato: le spese militari
della Gran Bretagna passano da 32 milioni di sterline nel 1887 a 77 milioni nel 1913-14; se però
si considera la marina militare l’incremento è ancora più evidente: per quanto riguarda la Gran
Bretagna si passa dagli 11 milioni del 1885 ad oltre 45 nel 1913/14; in Germania il ritmo di
crescita è ancora più rapido: da 90 milioni di marchi nel 1895 a quasi 400 mln nel 1913-14. Il
traguardo di questa corsa, come è noto, fu la grande carneficina della prima guerra mondiale.
1.2. LA CRISI DEI TRENT’ANNI: 1914 -1945
Si è parlato, per definire il periodo 1914-1945, di “guerra dei trent’an - ni” (ad analogia della
guerra che devastò l’Europa nel Seicento). Si potrebbe a maggior diritto parlare di crisi dei
trent’anni. In effetti, in questo periodo, i ritmi di crescita furono estremamente modesti: tra il
1913 e il 1938 negli Usa il prodotto interno lordo crebbe appena dello 0,8% annuo. Sotto il
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profilo dell’integrazione economica mondiale, si registrò una stagnazione, se non addirittura un
regresso: ancora nel 1948, il volume dei traffici internazionali ri- sultò di poco superiore a quello
di prima del 1914. Per fare qualche raffronto, basterà dire che nel periodo 1880-1913 era più
che raddoppiato, e che tra il 1948 e il 1971 quintuplicherà (Hobsbawm 1994: 110). Questi sono
però anche gli anni del definitivo sorpasso degli Stati Uniti sulla Gran Bretagna quale prima
potenza economica mondiale. Già dal 1913 gli Usa sono la prima potenza industriale del
mondo, esprimendo il 33% della produzione industriale mondiale: poco meno di Gran Bretagna,
Germania e Francia messi assieme; nel 1929 il rapporto salirà a 42% contro 28% (Hobsbawm
1994: 120). Al sorpasso è tutt’altro che estranea la prima guerra mondiale. Infatti gli Stati Uniti,
che nel 1914 hanno ancora un debito estero di 3,7 miliardi di dollari (Knapp 1957: 433), con la
guerra diventano anche il primo creditore del mondo: dapprima forniscono macchinari alla Gran
Bretagna, che per pagarli deve liquidare il 25% dei propri investimenti in Usa, per di più a forte
sconto; poi, dal 1917, sono gli Stati Uniti a prestare circa 1000 milioni di sterline alla Gran
Bretagna: le parti ormai sono invertite, il paese debitore è diventato la Gran Bretagna. Inoltre
durante la guerra gli Stati Uniti sostituiscono la Gran Bretagna negli investimenti diretti esteri e
nei prestiti in Ame - rica Latina e in parte anche in Asia. Cosicché alla fine della guerra i redditi
provenienti dagli investimenti diretti esteri statunitensi compensano i flussi verso l’estero
derivanti dagli investimenti stranieri negli Stati Uniti. E in più c’è un avanzo commerciale sempre
più cospicuo. Il dollaro ormai si affianca alla sterlina come valuta internazionale di riserva
(Arrighi 1994: 353-6). Gli anni dell’immediato dopoguerra iniziano con una ripresa economica.
Ma in Europa c’è una sovrapproduzione latente che non tarda a manifestarsi: nel commercio
internazionale, negli anni di guerra ai produttori europei si erano sostituiti Usa e Giappone, e
inoltre diversi paesi dipendenti avevano iniziato a sviluppare una loro industria (Overy 2007:
84-85). Già nel 1920 prezzi e crescita economica crollano. Qualche paese tenta politiche
deflazionistiche di riallineamento (in Europa la Gran Bretagna, in Asia il Giappone). In Germania
e nell’Est europeo si assiste invece al crollo del sistema monetario, con un’iperinflazione che
termina nel 1922-3, dopo aver distrutto il risparmio e il reddito fisso. In Europa tutti gli anni 20
sono anni di crisi. Anche negli anni di crescita (dal 1924 al 1929) il tasso di disoccupazione fu
elevatissimo ovunque: in Gran Bretagna, Germania e Svezia al 10-12%, in Danimarca e
Norvegia addirittura al 17-18%. In questi anni soltanto gli Stati Uniti evidenziano una
disoccupazione bassa, attestata al 4% (Hobsbawm 1994: 113). Ma non è tutto. L’espansione
economica che comunque si registrò in Europa in questi anni era alimentata dal prestito estero:
la Germania, in particolare, nel 1928 attrasse quasi il 50% delle esportazioni di capitali su scala
mondiale. Gli Usa, dal canto loro, incrementano invece gli investimenti diretti all’estero ad un
ritmo impressionante. A fine 1928, però, si verifica un vero e proprio boom di borsa negli Stati
Uniti: e ingenti fondi sono quindi dirottati da finanziamenti esterni alla speculazione interna,
cosa che contribuisce agli squilibri nell’Europa indebitata con gli Usa. Il 29 ottobre del 1929, il
crollo della Borsa di New York dà inizio alla Grande Crisi: per la prima e unica volta le
fluttuazioni cicliche sembrano mettere in discussione il sistema capitalistico stesso (abbiamo
vissuto qualcosa di simile, ma per poche settimane, tra il settembre e l’ottobre del 2008). Tra i
motivi della crisi Eric Hobsbawm cita: 1) una domanda mondiale insufficiente rispetto alla
produttività crescente dell’industria: debole in Europa a causa della guerra, e negli stessi Stati
Uniti pompata attraverso un’enorme espansione del credito al consumo, a fronte di salari bassi;
2) un sistema bancario indebolito dalla speculazione immobiliare, che aveva raggiunto il suo
picco pochi anni prima del 1929; 3) forti squilibri della bilancia dei pagamenti tra gli Stati Uniti e
il resto del mondo, con i primi – a differenza di quanto accade oggi – nel ruolo di creditori
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(Hobsbawm 1994: 123-5). Per John Kenneth Galbraith, oltre agli squilibri nel commercio
internazionale, i colpevoli della crisi furono 1) la cattiva distribuzione del reddito; 2) una cattiva
struttura societaria (un uso eccessivo della leva finanziaria e dirottamento dei profitti dalle
società operative alle holding per ripagare le obbligazioni contratte); 3) una cattiva struttura
bancaria (su questo punto per la verità Galbraith è piuttosto cauto, osservando che le pratiche
di prestito facile sono spesso state considerate tali a posteriori, ossia sulla base dei fallimenti a
catena di imprese che la crisi comportò); 4) feticci economici quali l’ossessione del pareggio del
bilancio, la volontà di tenere in piedi a tutti i costi il sistema aureo e di evitare l’inflazione
(Galbraith 1954: 167-175). Le conseguenze della crisi furono tremende. Si ebbe una forte
recessione in Usa e in Germania: in questi due paesi la produzione industriale segnò un -33%
tra il 1929 e il 1931 (ma la contrazione della produzione automobilistica negli Stati Uniti fu
addirittura del 50%). Il commercio internazionale crollò, segnando un -60% tra il 1929 e il 1932.
Le misure anti-crisi assunte dagli Stati in realtà peggiorarono le cose: barriere doganali,
protezionismo (a partire dallo statunitense Hawley-Smoot Act del 1930), e svalutazioni
competitive a raffica aggravarono la crisi. Basti pensare che negli Stati Uniti dal 1929 al 1932 si
registrò un -70% di importazioni (su una quota del 40% a livello mondiale) e un -70% di
esportazioni. Crollarono i prezzi delle materie prime e dei generi di prima necessità: entrarono
così in crisi profonda le economie dell’America Latina, ma anche quelle dell’Asia e le economie
agricole dell’Europa, quali Ungheria e Finlandia. In qualche caso in questi paesi l’agricoltura
regredì ad economia di sussistenza. La disoccupazione assunse proporzioni colossali in tutto il
mondo: nel 1932-33 la quota dei senza lavoro era del 22-23% in Gran Bretagna e Belgio, del
24% in Svezia, del 27% negli Usa, del 29% in Austria, del 31% in Norvegia, del 32% in
Danimarca e addirittura del 44% in Germania. Anche dopo il 1933 non scende sotto il 16-17%
in Gran Bretagna e Svezia, e sotto il 20% negli altri Paesi scandinavi, come pure in Austria e
negli Stati Uniti (Hobsbawm 1994: 115). La crisi comportò l’abbandono del sistema aureo e, a
partire dal 1931 (per la prima volta dal 1840) l’abbandono della tradizionale politica
commerciale liberista anche da parte della Gran Bretagna. Un’eccezione, nel panorama della
crisi mondiale, è rappresentata dall’Urss, in cui in questi anni si registra il successo dei piani
quinquennali: dal 1929 al 1940 la produzione industriale in Unione Sovietica triplica, salendo dal
5% della produzione manifatturiera mondiale (quota del 1929) al 18% (quota del 1938); negli
stessi anni le quote complessive di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna calano dal 59% al 52%.
Inoltre, in Urss non vi è disoccupazione (Hobsbawm 1994: 119). Va ricercato anche nei
successi dell’economia sovietica il motivo per cui alla Grande Crisi del 1929 negli Stati Uniti si
reagì con il New Deal di Roosevelt, mentre la crisi iniziata nel 2007 sembra sinora essersi
risolta semplicemente in un colossale caso di socializzazione delle perdite. Va però aggiunto
che per l’uscita degli Usa dalla crisi non fu decisivo il New Deal: in effetti, ad una ripresa dopo il
1933 tenne dietro un secondo crollo nel 1937-8. In questi anni il liberismo ortodosso viene
abbandonato un po’ ovunque negli stessi Paesi capitalistici: si parla ovunque di “piano” e
“pianificazione”; un sintomo dei mutati orientamenti è la diffusione del calcolo del prodotto
interno lordo: è l’Urss (assieme al Canada) il primo Paese a calcolarlo, e l’esempio comincia a
diffondersi (anche se ancora nel 1939 saranno soltanto 9 i Paesi che avranno introdotto il
calcolo di questa grandezza). L’intervento dello Stato nell’economia si esprime in grandi piani di
opere pubbliche (in particolare negli Stati Uniti). Ma si esprime soprattutto in piani di riarmo e di
guerra. A questo proposito è bene fissare qualche concetto. È in particolare la Germania a
destinare a finalità belliche grandi fondi sin dal 1935-6; e in effetti le spese militari furono magna
pars degli investimenti pubblici tedeschi, che nel 1936 furono circa il 50% degli investimenti
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complessivi in Germania (Overy 2007: 98). Già Kalecki ebbe ad osservare che “gli armamenti e
gli investimenti statali affini (come la costruzione di strade) stimolarono la congiuntura; furono la
via di uscita fascista dalla crisi” (Kalecki 1961: 81). Del resto, non per caso John Maynard
Keynes, nella prefazione all’edizione tedesca del 1936 (!) della Teoria generale, aveva
sostenuto che le sue idee avrebbero potuto meglio essere applicate nella Germania nazista,
“adattandosi assai più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario (totaler Staat) di quanto
lo sia la teoria della produzione e distribuzione di un dato output prodotto sotto condizioni di
libera concorrenza e di prevalente laissez-faire” (cit. in Schefold 1980: 175, ripreso in Gattei
2001: 53). Fu, ancora, soltanto grazie all’ingresso nella seconda guerra mondiale e alla messa
in opera della macchina bellica relativa, e non grazie agli investimenti di Roosevelt in opere
pubbliche a carattere civile, che gli USA riuscirono a risollevarsi dalla Grande Crisi degli anni
Trenta. Lo ha ribadito, un mese dopo l’11 settembre, il premio Nobel per l’economia Peter
North, replicando ad un incauto giornalista che faceva presenti i meriti del keynesismo per
l’uscita dalla crisi degli anni Trenta: “Non siamo usciti dalla depressione grazie alla teoria
economica, ne siamo venuti fuori grazie alla Seconda guerra mon- diale” (North 2001). Le cifre,
del resto, parlano da sole. Durante il New Deal rooseveltiano la spesa pubblica civile era
cresciuta dai 10,2 miliardi di dollari del 1929 ai 17,5 del 1939. Ciò però non aveva potuto
impedire che, nello stesso periodo, il PIL calasse da 104,4 a 91,1 miliardi di dollari, e che la
disoccupazione invece salisse dal 3,2% al 17,2% della forza lavoro complessiva. Dal 1939 lo
scenario cambia. Il sistema economico è dapprima tonificato dalla vendita di armi agli inglesi ed
ai francesi, e poi definitivamente rimesso in carreggiata con l’ingresso diretto degli Stati Uniti in
guerra (dicembre 1941). La produzione industriale aumenta del 50%, il prodotto nazionale lordo
raddoppia, la disoccupazione viene praticamente azzerata: nel 1944 il tasso di disoccupazione
è all’1,2% (Battistelli 1980: 68- 77; Lellouche 1992: 291-2; Ramey, Shapiro 1999). La
distruzione di capitale che si realizza nella seconda guerra mondiale, in particolare nei Paesi sul
cui territorio la guerra è combattuta, è spaventosa. La guerra comporta le maggiori distruzioni in
Urss, dove viene azzerato il 25% delle proprietà esistenti, mentre l’agricoltura va in rovina; di
fatto, la guerra vanifica l’industrializzazione dei piani quinquennali e lascia in piedi soltanto una
grande industria bellica poco riconvertibile. Anche altrove le distruzioni sono ingenti: in
Germania è distrutto il 13% delle proprietà esistenti, in Italia l’8%, in Francia il 7%, in Gran
Bretagna il 3% (Hobsbawm 1994: 64-5). Per contro, gli Usa durante la guerra conoscono tassi
di sviluppo del 10% annuo (un record assoluto rispetto ai tempi di pace). Non è questa la sede
per entrare nel dettaglio delle molteplici funzioni della guerra e sul ruolo che essa ha giocato in
relazione all’economia degli Stati Uniti (vedi Burgio, Dinucci, Giacché 2005: 126-139).
Ovviamente, perché una guerra risulti economicamente vantaggiosa è essenziale non doverla
combattere a casa propria, oltreché vincerla. Come accadde agli Stati Uniti nella seconda
guerra mondiale.
2. TRIONFO E DECLINO DEL CAPITALISMO STATUNITENSE: 1945-2009
2.1. I trenta gloriosi: 1945-1971
Alla fine della seconda guerra mondiale il predominio statunitense è assoluto. Ormai i redditi
rivenienti dagli investimenti diretti degli Stati Uniti all’estero sono largamente superiori ai redditi
realizzati su investimenti diretti esteri stranieri in Usa: e infatti l’avanzo delle partite correnti
risulta superiore all’avanzo commerciale. Non solo: come ha osservato Arrighi, dopo la guerra
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gli Usa giunsero a godere di un “monopolio virtuale sulla liquidità mondiale”: il 70% delle riserve
auree mondiali nel 1947 era infatti nella disponibilità degli Stati Uniti. Quanto al prodotto interno
lordo, basterà dire che se nel 1938 il pil Usa era pari a quello complessivo di Gran Bretagna,
Francia, Germania, Italia e Benelux e tre volte superiore a quello sovietico, nel 1948 è il doppio
di quello del primo gruppo di Paesi e addirittura sei volte quello dell’Urss (Woytinsky e
Woytinsky 1953: tavv. 185-6). Al termine della seconda guerra mondiale sono diffusi i timori che
possa prodursi una crisi postbellica come quella successiva al primo conflitto mondiale. Avviene
il contrario, anche grazie all’inizio della guerra fredda (1947). Così, il Piano Marshall per la
ricostruzione dell’Europa, che era anche una necessità politica (per evitare che in un’Europa
immiserita prevalessero orientamenti rivoluzionari), ha due effetti economicamente rilevanti:
crea rapidamente un mercato di sbocco per i prodotti americani e consente la rapida ripresa
dell’Europa occidentale. Un’ulteriore contributo alla ripresa venne dal riarmo, che si verificò in
particolare dalla guerra di Corea (1950-3) in poi (ma i piani di riarmo erano precedenti alla
guerra di Corea: vedi Arrighi 1994: 387-8), che manifestò i suoi effetti di lunga durata a tre
riguardi: fornì un sostegno alla domanda Usa anche in assenza di un’eccedenza nelle
esportazioni; il sostegno militare fornito all’Europa comportò la necessità di ulteriori aiuti
all’Europa stessa anche dopo la fine del piano Marshall; la cooperazione a livello militare
rafforzò l’integrazione tra l’economia statunitense e quelle europee (Block 1977: 103-4). La
“ripresa economica straordinariamente rapida” che caratterizzò il periodo postbellico (e che
sarebbe entrata nei libri di storia sotto il titolo di “miracolo economico”) fu favorita anche
dall’enorme distruzione di capitale in eccesso avvenuta con la guerra (vedi analisi di Janossy:
1966). In concreto, la guerra eliminò la sovrapproduzione, come pure la popolazione lavoratrice
in eccesso. La ripresa, anche in un Paese in ginocchio come la Germania, fu resa possibile non
soltanto dagli aiuti statunitensi, ma anche dal fatto che la forza-lavoro, pur quantitativamente
ridotta dalla guerra (cosa a cui si sopperì con immigrazione esterna ed interna), era
qualitativamente molto valida (Janossy 1966: 85-86). Ulteriori presupposti del periodo di grande
crescita economica postbellico furono: il costo bassissimo delle materie prime, a cominciare da
quelle energetiche (il petrolio costava 2 dollari al barile); l’intervento statale nell’economia, che
diede vita a una forma inedita di economia mista, con elementi di pianificazione (in Francia fu
ad esempio introdotto il “Commissariat général du plan”); la ripresa fu rafforzata dallo “Stato del
benessere”, grazie al quale si realizzò – per necessità anche politica – un compromesso tra
lavoro e capitale adeguato ad un’epoca di crescita, e tale da rafforzarla a sua volta; va infine
ricordata, tra i fattori chiave, la notevole crescita del commercio mondiale: basti dire che il
commercio di manufatti si moltiplica per venti dal 1953 al 1973. La forte crescita prima
dell’economia europea, e poi anche di quella giapponese, porta, nei primi anni Sessanta, ad
una situazione di pieno impiego: la disoccupazione scende all’1,5% in Europa, e all’1,3% in
Giappone (Van der Wee 1987: 77, cit. in Hobsbawm 1994: 314). Emergono invece crescenti
difficoltà - evidenti dagli anni Sessanta - dell’economia statunitense: tra il 1950 e il 1973 solo la
Gran Bretagna cresce meno dell’economia Usa (Hobsbawm 1994: 304). In ogni caso, in questo
periodo i paesi capitalistici sviluppati presi nel loro insieme esprimono il 75% della produzione
mondiale complessiva, e oltre l’80% dell’export di prodotti finiti (Ocse 1979: 18-19). E gli Stati
Uniti, più in particolare, nel 1950 possedevano il 60% del capitale sociale di tutti i paesi
capitalistici sviluppati e realizzavano il 60% della loro produzione. Nel 1970 le proporzioni erano
diminuite, ma pur sempre ragguardevoli: 50% del capitale sociale e quasi il 50% della
produzione (Armstrong, Glyn, Harrison 1991: 151). In parallelo alle crescenti difficoltà
dell’economia statunitense, scricchiola uno dei pilastri degli accordi di Bretton Woods del 1944,
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che avevano fornito l’infrastruttura giuridica della ripresa post-bellica: il cosiddetto
gold-exchange standard, che prevedeva la convertibilità in oro del dollaro (e solo del dollaro),
progressivamente si rivela una finzione. Già negli anni Sessanta la stabilità del sistema
monetario internazionale non si basa più sulle riserve di oro degli Usa (insufficienti sin dal 1963
a ripagare i dollari emessi: vedi Arrighi 1994: 394-5), ma sulla disponibilità degli europei a non
richiedere l’incasso in oro dei loro dollari. Nel 1968 si scioglie il Consorzio Aureo (associazione
di stati per stabilizzare il prezzo dell’oro – allora a 35 dollari l’oncia), e nell’agosto del 1971 il
presidente americano Nixon annuncia il formale abbandono unilaterale da parte degli Usa della
convertibilità del dollaro in oro. Finisce l’ordine monetario del dopoguerra.
2.2. Crisi del capitalismo e collasso del socialismo sovietico: 1971-1989
In una ricerca pubblicata dalla società di consulenza McKinsey si legge: “nel 1980, il valore
complessivo degli asset finanziari a livello mondiale era grosso modo equivalente al PIL
mondiale; a fine 2007, il grado di intensità finanziaria a livello mondiale (world financial depth),
ossia la proporzione di questi asset rispetto al PIL, era del 356%” (Farrell 2008). Se si
considerano i soli Stati Uniti, la percentuale a fine 2007 è ancora superiore: 373% (Bellamy
Foster, Magdoff 2008). Questi dati, già di per sé, sono sufficienti a dare l’idea delle proporzioni
assunte negli ultimi decenni dal credito e dalla finanza. Si è parlato della “finanziarizzazione” del
capitale come della “caratteristica assolutamente predominante” del capitalismo in crisi dagli
anni Ottanta (Arrighi 1994: 9). All’origine del processo c’è verosimilmente una
“sovraccumulazione di capitale rispetto alla domanda inelastica sia di manodopera che di
materie prime” (Itoh 1990: 116, cit. in Arrighi 1994: 398) Si tratta di un processo che ha radici
lontane, che affondano nella fine degli anni Sessanta, quando cessa il grande periodo di
crescita economica postbellica. Già in un testo del 1977 Harry Magdoff e Paul Sweezy
scrivevano che con la fine di quel periodo di prosperità “l’economia degli Stati Uniti si è sempre
più andata abituando ad un uso continuato del debito. I cicli caratteristici del credito continuano
ad alternarsi, ma con una differenza significativa: i livelli del ricorso al credito continuano a
crescere da una recessione all’altra e da un massimo di ciclo economico all’altro. In misura
sempre maggiore il livello generale di attività economica […] viene sostenuto da sempre
maggiori iniezioni di credito da parte del governo e da parte di enti privati” (Magdoff, Sweezy
1977: 190). In parallelo al rallentamento della crescita e all’aumento della leva creditizia, cresce
l’instabilità finanziaria. Dalla fine della seconda guerra mondiale al 1968 gli Stati Uniti non
avevano conosciuto alcuna crisi finanziaria. Più in generale, nel periodo 1945-1971 nel mondo
non vi erano state crisi bancarie (Minsky 1993: 6). Da allora le crisi finanziarie, negli Stati Uniti e
nel mondo, si fanno ricorrenti: tra il 1975 e il 1997 il Fondo Monetario ne conterà più di 200
(Burgio 2009: 150). Il 1971 è una data cruciale proprio perché quell’anno, come abbiamo visto,
gli Stati Uniti decretano la fine del gold-exchange standard. Però non si va nella direzione che
all’epoca auspicava il presidente francese De Gaulle, quella di un ritorno al gold standard, cioè
un sistema monetario internazionale ancorato direttamente all’oro. Si imbocca la strada
opposta, quella del pure dollar standard: facendo cioè del dollaro una moneta assolutamente
fiduciaria. Il dollaro diviene una fiat money, ossia una valuta il cui valore è ormai esplicitamente
privato di ogni riferimento alle riserve in oro detenute dalla Federal Reserve, ma che resta, ciò
nondimeno, il perno del sistema monetario internazionale. Il mondo comincia ad essere
inondato di dollari: erano 30 miliardi nel 1958, supereranno gli 11.000 miliardi nel 2004 (Goldner
2004). Il ruolo del dollaro si consolida a seguito della crisi petrolifera del 1973, in quanto il
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petrolio, il cui prezzo si impenna, è scambiato in dollari. Da questo momento il dollaro diventa
“moneta mondiale” – il ruolo che Marx attribuiva all’oro – e quindi assume anche il ruolo di
moneta-rifugio in tutte le tempeste finanziarie che periodicamente scuotono altri paesi, ed in
particolare i paesi del Terzo Mondo. Nel 1973-1978 è stampata una grande quantità di dollari.
Del resto, come osservò Parboni, per gli Stati Uniti – e solo per loro - “la possibilità di attingere
alle risorse del resto del mondo mediante l’emissione della propria moneta è pressoché
illimitata” (Parboni 1985: 22). Gli Stati Uniti attuano una politica monetaria espansiva e spingono
sul prestito estero. Si cominciano a liberalizzare i movimenti internazionali di capitale e, a partire
dagli anni Ottanta, negli Stati Uniti si comincia a smantellare il sistema normativo che era stato
costruito dopo la crisi del 1929 e che poneva notevoli vincoli e limitazioni all’attività bancaria (lo
stesso avverrà in Europa negli anni Novan - ta). Ad esempio, viene ampliato il tipo di prodotti
finanziari che possono essere acquisiti dalle casse di risparmio americane (le saving & loans
associations): il risultato, alla fine di quello stesso decennio, è il fallimento di 745 casse di
risparmio. Soltanto massicci salvataggi pubblici (per una spesa di 125 miliardi di dollari a carico
dello Stato) riescono ad impedire che la crisi divenga sistemica (Minsky 1993: 17). In compenso
esplode il debito pubblico (che diventerà stellare per finanziare il riarmo voluto da Reagan). Gli
anni Ottanta vedono il brusco passaggio dalle politiche monetarie estremamente espansive del
decennio precedente a politiche fortemente restrittive. Sono gli anni del governatore della Fed
Paul Volcker, che attua una restrizione monetaria portando alle stelle – e tenendo molto al di
sopra del tasso di inflazione – i tassi di interesse Usa (Ar - righi 1994: 412-3, 421). I Paesi
emergenti sono costretti, per competere con efficacia con gli Usa nei mercati dei capitali, a
rendere stellari i propri tassi d’interesse, il che a sua volta rende onerorissimo il servizio del
debito ed estremamente doloroso anche il ripagamento dei prestiti contratti in precedenza.
Esplode la crisi del debito dei paesi del Terzo Mondo, peggiorata dal crollo del prezzo delle
materie prime. Anche i Paesi socialisti dell’ Est europeo sono presi in contropiede dalla mutata
situazione dei mercati monetari. I Paesi più nei guai sono quelli che negli anni precedenti si
erano fortemente indebitati. Non pochi sono colpiti – oltrechè dall’impennata del servizio del
debito – dall’instabilità dei cambi, soprattutto quando il loro export viene pagato in dollari e le
loro importazioni sono pagate in altre valute. Tra il 1980 e il 1988 i prezzi reali delle esportazioni
di merci prodotte nel Sud del mondo segnano un -40%, e i prezzi del petrolio addirittura un 50%. In diversi paesi del terzo mondo scoppiano crisi del debito. A seguito di ciascuna di
queste crisi gli Stati Uniti attraggono nuovi capitali e vedono rafforzato il ruolo di Wall Street
come centro finanziario mondiale. Si ha di fatto una ricentralizzazione del capitale all’interno dei
paesi ad alto reddito, mentre negli anni Settanta si era avuto un processo contrario. La mobilità
geografica del capitale è in progressivo aumento (Arrighi 1994: 18). Torna ad aumentare il
divario di reddito tra Paesi occidentali e resto del mondo. L’impennata dei tassi d’interesse,
unitamente al crollo del prezzo delle materie prime energetiche a metà degli anni Ottanta,
contribuisce in misura non piccola al crollo dell’Urss e dei Paesi socialisti dell’est europeo. Il
primo fattore infatti peggiora la situazione debitoria dei Paesi indebitati (e i paesi socialisti
avevano ricevuto cospicui finanziamenti), a fronte di minori introiti derivanti dal secondo fattore.
A questo va aggiunta l’elevata percentuale del prodotto interno lordo di questi Paesi destinata
alla corsa al riarmo che con Reagan era massicciamente ripartita. Dietro alla caduta del muro di
Berlino prima, e alla fine dell’Urss poi, c’è anche questo.
2.3. Danzando sul Titanic: 1989-2007
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La fine dell’Urss marca uno spartiacque nella storia del XX secolo, e conferisce al capitalismo
contemporaneo l’aura, più ancora che della superiorità, della definitività: “Non esiste altra
società all’infuori di me”, grida ogni giorno da ogni mezzo di informazione il capitalismo
contemporaneo. Bisogna però distinguere tra ideologia e concreto processo storico, in
particolare dal punto di vista economico. A quest’ultimo riguardo, infatti, l’esultanza per la fine
dell’Urss lasciò presto il campo a nuove preoccupazioni. E il venir meno del “Nemico” esterno
accentuò i conflitti intercapitalistici. Un esempio per tutti: il varo, nel 1992, del progetto dell’Euro,
ad oggi la maggiore sfida lanciata all’egemonia valutaria statunitense su scala mondiale. Né si
può dire che in questo periodo manchino le crisi finanziarie. All’inizio degli anni Novanta era
scoppiata la bolla finanziaria del Giappone, entrato in una stagnazione destinata a durare oltre
un decennio. Nel 1997 vanno in crisi anche i Paesi del sud-est asiatico; nel 1998 ad essere
colpita è la Russia. In tutti questi casi, enormi capitali si rifugiano a Wall Street, alimentando la
bolla speculativa della new economy (1999-2000). Già in questi anni alcuni analisti finanziari
lanciano segnali d’allarme riguardo ad “un ciclo mondiale del credito le cui origi - ni posso
essere rintracciate nei primi anni Ottanta e che è ormai pros simo alla maturità” (ossia
all’esplosione); si menzionano esplicitamente la “eccessiva creazione di credito” a cui fanno
riscontro “decisioni di investimento sbagliate”; si sostiene, in particolare, che “la spiegazione
principale della rapida crescita del Pil e della produttività negli anni recenti, in particolare negli
Sta ti Uniti, consiste nel parossistico ciclo del credito” (Warburton 2000). Ma non avviene alcuna
inversione di tendenza. Anche l’esplosione della bolla della new economy viene riassorbita in
modo relativamente rapido, e la stessa recessione americana iniziata nel marzo del 2001 risulta
di breve durata, soprattutto grazie alle enormi iniezioni di liquidità effettuate nel sistema dopo
l’11 settembre e al ribasso dei tassi di interesse, portati ai minimi da 40 anni (di fatto negativi,
cioè inferiori al tasso d’inflazione). Questa politica è resa possibile da due presupposti: in primo
luogo da bassi livelli di inflazione, dovuti sia al contenimento dei prezzi delle merci importate dai
Paesi emergenti, sia (soprattutto) alla compressione dei salari; in secondo luogo dallo status di
valuta internazionale di riserva del dollaro, dal suo continuare ad essere “moneta mondiale” a
dispetto di una bilancia commerciale in passivo dal 1976. Qualsiasi altro Paese che avesse così
a lungo consumato più di quanto produceva (è questo in definitiva il significato del passivo della
bilancia commerciale), avrebbe pagato una politica monetaria così espansiva con una crisi del
debito simile a quelle patite negli anni da molti Paesi emergenti. I bassi tassi di interesse
alimentano il credito e più in particolare la bolla del mercato immobiliare: sia i prezzi delle case
che l’ammontare dei mutui contratti dalle famiglie americane raddoppiano dal 2000 al 2005
(Kliman 2009: 6). Nel 2006 i prezzi delle case cominciano a scendere. Si manifesta un evidente
eccesso di offerta, cioè una crisi da sovrapproduzione, nel settore delle costruzioni. Cominciano
le insolvenze di chi aveva contratto mutui. Ma il problema è molto più vasto, come la crisi
iniziata nel 2007 – e non ancora finita – costringerà a capire.
2.4. 2007: la Crisi. E poi?
Dalla prima metà del 2007 i titoli obbligazionari legati ai mutui subprime statunitensi (mutui ad
alto rischio) cominciano ad essere colpiti dalle vendite. Alcuni grandi fondi di investimento
devono chiudere. La crisi si comunica ad altri comparti e a poco a poco si generalizza. I più
assumono dapprima un atteggiamento minimizzante, poi si perdono nella ricerca delle “cause”
della crisi, adducendo le più svariate. Quasi tutti sono colti di sorpresa dall’imponenza della
crisi. Poi, quando la gravità della situazione non si può più negare, si escogita la spiegazione (la
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metafora) della “crisi finanziaria che ha contagiato l’economia reale”. La verità è un’altra, anzi
sono due. La prima: i mutui subprime sono soltanto un tassello nel più generale eccesso di
credito e di finanza che ha caratterizzato gli ultimi decenni. La seconda: questo eccesso di
credito e di finanza, quest’onda il cui improvviso ritrarsi non ha soltanto prosciugato molti
portafogli, ma ha paralizzato per qualche tempo la circolazione del capitale a livello mondiale,
non era né una viziosa deviazione dal corso sano e ordinato dell’economia, né una malattia.
Semmai era il sintomo della malattia e al tempo stesso la droga che ha permesso di non
avvertirla – e che quindi l’ha cronicizzata. La malattia era un’altra: la stentata valorizzazione del
capitale, in altri termini una sovrapproduzione di capitali e di merci ormai endemica da molti
anni, soprattutto nei Paesi dell’Occidente industrializzato. A partire dagli anni Settanta la finanza ed il credito hanno contrastato i problemi di valorizzazione del capitale, svolgendo una
triplice funzione: 1) mitigare, con il credito al consumo e l’effetto ricchezza indotto dalle bolle
finanziarie, le conseguenze della riduzione dei redditi dei lavoratori sui consumi. Con la
conseguenza che, in particolare nei Paesi anglosassoni, il tenore di vita delle persone con
redditi mediobassi ha cominciato ad essere almeno in parte sganciato dall’andamento del
reddito da lavoro. 2) Allontanare nel tempo lo scoppio della crisi da sovrapproduzione
nell’industria, anche fornendo credito a basso costo ad imprese in difficoltà, grazie a tassi
d’interesse artificialmente bassi. 3) Fornire al capitale in crisi di valorizzazione nel settore
industriale alternative d’investimento ad elevata redditività. Negli ultimi anni gran parte delle
stesse aziende manifatturiere ha fatto i propri profitti tramite operazioni finanziarie (su quanto
precede e i dati relativi vedi Giacché 2009: 36 sgg.). Non è la prima volta, nella storia del
capitalismo, che questo succede. Già il Marx del secondo libro del Capitale osservava che “tutte
le nazioni a produzione capitalistica vengono colte periodicamente da una vertigine nella quale
vogliono far denaro senza la mediazione del processo di produzione”. Più di recente Giovanni
Arrighi ha spiegato così questo fenomeno: “quando i rendimenti del capitale investito nello
scambio di merci, per quanto ancora positivi, cadono al di sotto di un certo tasso critico, che
rappresenta ciò che il capitale può fruttare se investito in transazioni monetarie, un numero
crescente di organizzazioni capitalistiche si asterrà dal reinvestire i profitti nell’ulteriore
espansione dello scambio di merci. Le loro eccedenze monetarie saranno dirottate dalle
transazioni in merci a quelle monetarie”. Ma appunto perché la preferenza dei capitalisti per la
liquidità e l’investimento finanziario nasce da un’insufficiente valorizzazione del capitale
investito nella produzione di merci, le espansioni finanziarie (e la specializzazione di determinati
sistemi nella finanza) rappresentano altrettante “crisi-spia” della crisi del regime di
accumulazione dominante. Quando poi questa crisi giunge al suo esito, si usa incolparne la
finanza e i suoi eccessi. La verità però è diversa: “gli agenti dominanti delle espansioni
finanziarie non furono mai la causa principale del crollo definitivo del sistema che essi
regolavano e sfruttavano. L’instabilità era strutturale” (Arrighi 1994: 302, 283, 309). Altri autori
hanno osservato che “l’eccessiva attenzione verso la finanza e la tolleranza nei confronti del
debito sono tipiche delle grandi potenze economiche nel corso delle ultime fasi del loro dominio.
Esse ne preannunciano il declino economico” (Phillips 1993: 194). Sono parole che parlano
direttamente del nostro presente. Nella crisi attuale confluiscono infatti due diversi processi: la
tendenza alla caduta del saggio di profitto nei paesi a capitalismo maturo, e la più specifica crisi
del regime di accumulazione statunitense, che ha dominato il secolo passato ma non dominerà
il nostro. Per questo non ci si può stupire del fatto che la crisi iniziata nel 2007 abbia assunto col
passare dei mesi le caratteristiche di una vera e propria crisi generale, dando luogo ad una
gigantesca distruzione di capitale su scala mondiale. Essa si è manifestata nel 2009 in un calo
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del Pil a livello mondiale del 2,9% (il primo dalla fine della seconda guerra mondiale), in un
crollo del commercio internazionale del 12%, in un tasso di utilizzo degli impianti inferiore al
70% in molti paesi, in un’enorme crescita delle bancarotte (+35% su scala mondiale) e in una
crescita della disoccupazione nel mondo di 60 milioni di unità. La domanda cruciale a questo
punto è: la distruzione di capitale sin qui avvenuta sarà sufficiente a ripristinare condizioni più
elevate di redditività del capitale investito e quindi a far ripartire l’accumulazione del capitale?
Nessuno oggi è in grado di rispondere con certezza a questa domanda. È però possibile fissare
qualche punto fermo. In primo luogo, è ragionevole pensare che con il 2007 si sia consumato
un passaggio d’epoca: che si sia chiusa la bubble époque, l’èra in cui debito e finanza
riuscivano a nascondere e tamponare una crescita asfittica e un’insufficiente valorizzazione del
capitale. Se questo è vero, le tre funzioni della finanza viste sopra non torneranno a funzionare
come prima. Le implicazioni saranno molto importanti: il peso del calo dei redditi da lavoro sulla
domanda interna si farà sentire a lungo, ristrutturazioni violente colpiranno i settori con eccesso
di capacità produttiva, ed il profilo rischio/rendimento delle attività speculative peggiorerà.
Attenzione a quest’ultimo aspetto: se confermato, esso per un verso impedirà ai capitalisti
industriali facili vie di fuga nella speculazione finanziaria, ma creerà rilevanti problemi sul piano
delle prestazioni sociali, in particolare nei paesi in cui la componente privata della previdenza
(leggi fondi pensione) è molto rilevante. Nel medio periodo è lecito attendersi valutazioni più
ragionevoli (ossia più modeste) delle imprese quotate, un sostanziale ridimensionamento dei
mercati borsistici in Occidente, e per contro un ulteriore spostamento degli investimenti mondiali
verso le aree a maggior crescita del mondo (in particolare l’Asia). Nel breve periodo, invece,
non si possono escludere ulteriori convulsioni, e neppure che la crisi si riaccenda con la
virulenza che abbiamo conosciuto nell’autunno 2008. L’innesco questa volta potrebbe essere il
debito pubblico. In effetti, c’è una singolare contraddizione tra ciò che si è detto sull’origine della
crisi e quello che si è fatto per superarla. Si è detto che in giro c’era troppo debito, ma non vi è
stata alcuna riduzione del debito, bensì un suo spostamento dall’attore privato a quello
pubblico: di fatto, gli Stati si sono caricati il debito che avevano molte imprese, soprattutto
finanziarie. Gli ultimi dati li ha diffusi il centro studi di Mediobanca: gli Stati Uniti, da soli, hanno
speso più di 2.500 miliardi di dollari per salvare i loro istituti finanziari (riacquistando
obbligazioni, fornendo garanzie e entrando nel capitale di banche e assicurazioni semifallite), la
Gran Bretagna poco meno di 700 miliardi di sterline, e così via (Mediobanca 2010). Cifre
enormi, a cui va aggiunto il prezzo di una politica monetaria ultraespansiva. Oggi la base
monetaria mondiale è pari a 18 volte il prodotto interno lordo del mondo: nel 2007 era appena
(si fa per dire) 13 volte il Pil. È evidente che in questo modo il problema non è stato risolto, ma
soltanto spostato su un altro piano: quello del debito sovrano, ossia degli Stati. Il problema non
è soltanto il rischio di insolvenza di uno o più Paesi, ma il fatto che, comunque vadano le cose,
a causa degli interventi già effettuati, gli Stati hanno ora un margine di manovra molto inferiore:
se oggi scoppiasse un’altra emergenza come quella che si è prodotta dopo il fallimento di
Lehman, avrebbero serissimi problemi a fronteggiarla. Quanto alla montagna del debito, essa è
ancora tutta lì, e in qualche caso è addirittura cresciuta. Lo dimostra un recente studio della
McKinsey: il debito totale (pubblico e privato) del Regno Unito è pari al 469% del prodotto
interno lordo, in Giappone è intorno al 459% del Pil, in Spagna al 342%, in Francia e Italia
rispettivamente al 308% e al 298%, negli Stati Uniti al 290%, in Germania al 274% (McKinsey
2010: passim). Non sorprende, quindi, che buona parte di questi Paesi si trovino sulla lista degli
Stati del mondo più a rischio di fallire stilata dal Crédit Suisse. Non è escluso neppure che le
convulsioni di cui sopra siano accompagnate da tentativi statunitensi di forzare militarmente la
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situazione, soprattutto nel caso in cui emergessero problemi concreti di rifinanziamento del
crescente debito pubblico Usa. Danno da pensare, a questo riguardo, sia la crescita delle spese
militari nel budget di Obama per il 2010, sia le concrete provocazioni rivolte negli ultimi mesi
all’Iran (crescendo di minacce), Cina (vendita di armi a Taiwan, appoggio al separatismo del
Tibet) e Russia (installazione dello scudo anti-missile in diversi Paesi dell’Est Europa). E non si
ricorderà mai abbastanza che dall’ultima crisi di entità paragonabile all’attuale, quella del 1929,
si uscì soltanto con una guerra mondiale: furono infatti le immani distruzioni della seconda
guerra mondiale e la gigantesca mobilitazione di capitale funzionale al sostegno dello sforzo
bellico degli Stati Uniti – e non le opere pubbliche di Roosevelt – a far riprendere l’economia, e
con essa il saggio di profitto (Burgio, Dinucci, Giacché 2005: 126-7). È possibile che l’entità
della distruzione di capitale necessaria per far ripartire i profitti sia meno drammatica, e che
quindi le misure adottate risultino efficaci per rilanciare l’accumulazione del capitale con una
contestuale riduzione del ricorso al debito. Ma comunque in tal modo verrebbe meno il pilastro
che ha sostenuto i profitti negli ultimi decenni (o che in ogni caso ha reso socialmente più
tollerabile il loro declinare). Inoltre, in termini storici, le riduzioni del debito sono in genere durate
dai 6 ai 7 anni e hanno visto una contrazione molto significativa del prodotto interno lordo dei
Paesi interessati. E quindi in tal caso – come è stato scritto – “la prognosi è di un’economia che,
anche dopo lo stabilizzarsi della immediata crisi da svalutazione degli asset, sarà nel migliore
dei casi caratterizzata per molto tempo da una crescita minima, nonché da alta disoccupazione,
sottoccupazione ed eccesso di capacità produttiva” (Bellamy Foster, Magdoff 2008: 15). Tutto
questo ripropone alcuni interrogativi di fondo circa la sensatezza e sostenibilità sociale di un
sistema che trasforma la crescita della produttività in una maledizione e che per andare avanti
ha bisogno di crisi ricorrenti e di distruzione di capitale su larga scala. Quest’ultima, in
particolare, per Marx era sintomatica del carattere transeunte e datato del modo di produzione
capitalistico: “nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente
inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha
avuto finora. La distruzione violenta di capitale, non in seguito a circostanze esterne a esso, ma
come condizione della sua autoconservazione, è la forma più evidente in cui gli si rende noto
che ha fatto il proprio tempo e che deve far posto a un livello superiore di produzione sociale”
(Marx 1857-8: 105). Ora, la possibilità del passaggio ad un modo superiore e meno primitivo di
produzione sociale è proprio ciò che nei nostri anni è stato violentemente rimosso, appiattendo
il futuro sulla semplice continuazione del presente. La possibilità di un “livello superiore di
produzione sociale” è stata accantonata come un’utopia totalitaria, facendo dell’attuale il
migliore dei mondi possibili – anzi, l’unico. È da anni, ormai, che l’accettazione di questa
limitazione del nostro orizzonte storico- sociale è divenuta un fenomeno di massa. È tempo di
intendere che il prezzo di questa accettazione sta diventando decisamente troppo alto. È
possibile e auspicabile che la crisi che segna la fine – ritardata di qualche anno rispetto al
calendario – del lungo XX secolo ci riconsegni questa consapevolezza, rilanciando l’idea di una
regolazione dell’economia da parte dei produttori associati: il progetto marxiano di “fare della
proprietà privata individuale una verità trasformando i mezzi di produzione, la terra e il capitale,
ora principalmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di
un lavoro libero e associato” (Marx 1871: 300).
(Gubbio, 25 settembre 2009; riv. nel febbraio 2010)
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