dolcini la repubblica - PD Provinciale Pesaro Urbino

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Cioè, a fare
pubblicità alla profilassi contro i pidocchi, si capisce: ma non cambia molto. Ah certo, i creativi delle grandi agenzie sono riusciti a rendere desiderabile la carta igienica e sexy i pannolini per signora; ma lavorare sui pidocchi, credete, è davvero
dura. Massimo Dolcini però sapeva che anche questo era compito suo, così come
“vendere” iscrizioni all’asilo, TDSFFOJOH sanitari contro il tumore al seno, centri
estivi per anziani, entusiasmanti convegni sulle “Prospettive di recupero dei centri collinari”. E in fondo si divertiva a farlo: basta guardare i suoi manifesti (adesso
li trovate tutti insieme esposti in una grande mostra a Fano, ed è una festa per gli
occhi).
Se il nome di Dolcini, scomparso dieci anni fa, non vi suona all’orecchio come
quelli dei grandi grafici al cui fianco è degno di stare, Albe Steiner, Bob Noorda,
Bruno Munari, Armando Testa, Antonio Boggeri, c’è un motivo. Lui scelse di vivere,
e di lavorare, in una città di provincia: Pesaro. Non per snobismo, non per pigrizia, ma per coerenza professionale, ideale, etica. Il simbolo della sua agenzia, Fuorischema, era una X, che però nel suo
caso si legge “per”: Dolcini voleva lavorare QFS una comunità, QFS
un territorio che potesse conoscere
di persona, come un medico condotto. E
proprio così si definì un giorno,“grafico condotto”, con la stessa dolce ironia che metteva
nei suoi poster. Ma il ruolo che inventò per sé fu in
realtà di un intellettuale al servizio della comunicazione pubblica. Se non il primo (il pioniere
fu Steiner, che di Dolcini era stato insegnante al Corso Superiore di Arti Grafiche di Urbino,
oggi Isia, con il suo famoso lavoro del 1970 sull’immagine coordinata del comune di Urbino,
appunto), fu sicuramente il più integrale e coerente, un caposcuola: con lui, la “grafica di pubPIDOCCHI? SÌ, ANCHE I PIDOCCHI. PROVATECI VOI, A “VENDERE” PIDOCCHI.
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blica utilità” divenne una disciplina, una professione e perfino una specie di movimento politico-culturale-professionale diffuso in tutta
Italia, con tanto di Carta fondativa.
Era l’altra grafica che quei giovani disegnatori d’assalto impugnarono come una bandiera a metà degli anni Settanta. L’altra SÏDMBNF.
Quella che non doveva vendere prodotti ma
promuovere beni pubblici, che per UBSHFU aveva non clienti ma cittadini, che lavorava non
per il NBSLFUJOH ma per il XFMGBSF. Era una rivoluzione nella comunicazione istituzionale,
ancora stagnante nella piombata monotonia
degli editti ottocenteschi, quei manifesti fitti
di minuscoli lunghi testi, stemmi araldici come unica illustrazione, e l’inutile perentoria
parola AVVISO a tutte maiuscole. Grida manzoniane fuori tempo massimo, ingoiate, annichilite dagli aggressivi squillanti manifesti formato doppio elefante di una pubblicità commerciale che sapeva ormai fin troppo bene il
fatto suo. Mentre una comunicazione pubblica in grado di farsi vedere, di “bucare” l’attenzione del passante, era tutta da inventare. Dolcini la inventò.
I tempi erano maturi. Da amministratori di
beni demaniali, i comuni si trasformavano proprio allora in gestori attivi del benessere dei
cittadini, in fornitori di servizi, redistributori
di reddito e opportunità e diritti. L’ondata di
giunte di sinistra del ’75 apriva una stagione
di utopie municipali, e tutto questo andava comunicato, promosso, propagandato. Dolcini
faceva parte (anche ideologicamente, lo mostrano i suoi lavori per il Pci, le feste dell’Unità,
la Cgil) di quell’onda. Consapevole fin dall’inizio che un grafico “di pubblica utilità” non do-
la Repubblica
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Dalì, a Max Ernst.
Ma quelli che ne uscivano erano messaggi
semplici, gioiosi, lampanti ma non scontati,
ironici, leggibilissimi ma non banali, equilibri
perfetti di MFUUFSJOH essenziale e immagini-metafora, ma sempre quella sfumatura di sorpresa, insomma un flusso di “dirompente e giornaliera vitalità”, scrive Mario Piazza in un catalogo tutto da spillare: il revolver legato per l’appello “contro il terrorismo”, il rubinetto annodato per la campagna contro lo spreco d’acqua, per non dire del Rossini reinventato ogni
anno (una volta in veste di muratore, con cazzuola e berretto di carta di giornale) per il festival musicale eponimo.
La stagione della “grafica di pubblica utilità” non durò molto. Rimpiazzata dalla “comunicazione istituzionale”, perse la vena “progressista” per normalizzarsi fra i “servizi generali” delle amministrazioni. Negli anni della
crisi delle autonomie locali non solo evaporò la
vocazione sociale della grafica e si abbandonò
la “costruzione di comunità” per via visuale,
ma anche l’idea dell’immagine coordinata e riconoscibile di un comune non fu più ritenuta
così necessaria.
A Pesaro, un “grafico condotto” però continuò a lavorare per il pubblico, per le aziende
private, e anche per se stesso, modellando ceramiche, vasi, pentole piatti dipinti a mano, in
un anti-ideologico EPXOTIJGUJOH artigiano,
tutti marchiati con una X. Sul tavolo di lavoro,
la fotografia che aveva più cara, ricordo di
un’utopia del lavoro collettivo “QFS”: lui, in posa tra gli attacchini comunali di Pesaro con i
suoi manifesti sotto il braccio.
ove c’è
comunicazio
ne, c’è
grafica”,
recita la
“Carta del progetto grafico” che fissa
i principi della Grafica di pubblica
utilità. Logico: per catturare l’occhio,
e per tenerlo incollato quanto basta
alla pagina o al manifesto, ci vuole un
segno forte o un’immagine
attraente. La forma (caratteri,
impaginazione) in cui si esprime il
messaggio ne determina la
percezione, la comprensione e
l’efficacia. Per questo, in
comunicazione, anche la parola
scritta è così intimamente connessa
alla componente grafica da
diventare sempre una “parola
immaginata”.
La comunicazione che persuade –
lo spiega Piattelli Palmarini nel
brillante “L’arte di persuadere” –
deve fare una cosa in più: sedurre,
cioè condurre delicatamente a sé, e
alle tesi proposte, i destinatari. Del
resto lo diceva già Cicerone:
l’oratore, per convincere, deve non
solo spiegare o dimostrare, ma
anche intrattenere ed emozionare.
La grafica di Dolcini piace sia
all’occhio sia all’intelligenza sia al
cuore. Che parli di pace o di pidocchi,
è pertinente, rispettosa e onesta, e
così fresca che continua a sembrare
nuova. Caratteristiche preziose per
qualsiasi comunicazione: a maggior
ragione per la comunicazione delle
pubbliche istituzioni.
Che vadano, dunque tutti a
studiarsi la mostra di Dolcini:
assessori che spendono decine di
migliaia di euro per marchi turistici
imbarazzanti come lo scriteriato
“RoMe&You”. Funzionari che varano
su stampa e web comunicazioni
tetre o rutilanti ma indecifrabili, e
poi si lamentano perché “la ggente
non capisce”. Politici che lanciano
rozzi messaggi presumendo che il
pubblico sia deficiente. E sì, anche
marketing manager convinti che per
vendere basti trapanare i crani dei
consumatori ripetendo “compra”.
Una comunicazione persuasiva
intelligente, rispettosa, divertente,
bella da guardare e interessante da
leggere, e dunque coinvolgente e
convincente, si può fare.
E si è fatta, qui in Italia, in una
meravigliosa e dimenticata stagione
tra metà anni ‘70 e metà anni ‘80.
Per dire: giusto nel gennaio 1976
il nuovo quotidiano “La Repubblica”
viene lanciato con una campagna
pubblicitaria più coraggiosa
e moderna di gran parte della
pubblicità attuale.
Che cos’è successo? Credo che si
sia rotto un patto fiduciario tra
committenti e comunicatori. Oggi la
comunicazione si compra con gare al
ribasso, come se si trattasse di
tubature. E ha, spesso, l’espressività
di un tubo.
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veva affatto pensare di “vendere il comune ai
cittadini”, né scimmiottare le tecniche della
pubblicità commerciale adattandole a una finalità sociale, perché “il cittadino”, scriveva,
“non è l’acquirente di un prodotto” ma il soggetto “di scelte responsabili, gestite razionalmente”. Niente persuasori occulti nella pubblicità per il cittadino, con lui non si può barare,
“non può esistere manipolazione” nella comunicazione di pubblica utilità: sarebbe un autoinganno ridicolo, perché qui è il cittadino
che informa se stesso sui propri interessi attraverso le proprie istituzioni. E il grafico allora si
trasforma “da tecnico pubblicitario a operatore politico e culturale”.
Ma serviva lo stesso un alto tasso di fantasia
per evitare di cadere nella grafica post-sovietica, come quella partitico-sindacale tutta fatta di incongrui “triangoli e quadrati e
frecce non si sa bene indirizzate verso che cosa” che Dolcini, comunista, detestava. Bisognava
competere in originalità, genialità
con le pubblicità commerciali, spalla a
spalla sugli stessi muri, parlando a voce altrettanto chiara e forte, ma con un altro tono,
riconoscibile a prima vista come diverso, amichevole, affidabile, “civile”. Il linguaggio che
Dolcini inventò non era certo l’unico possibile:
ma fece scuola. I campi di colori saturi e uniformi, le illustrazioni al tratto ripescate da incisioni ottocentesche e vecchi repertori tipografici, però ridisegnate con un tocco di surrealismo e un occhio alla pop art, riferimenti colti
al fumetto d’autore francese, alla tipografica
futurista, al dadaismo, a Christo, a Man Ray, a
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