DIRITTO e ROVESCIO
Nuova Serie
C. CASAGRANDE - A. CATRICALÀ - P. CENDON
G. FLORIDIA - M. FUSI - A. GRASSO - G. IUDICA
R. LANZILLO - L.C. UBERTAZZI
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a cura di
P. TESTA e F. UNNIA
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PUBBLICITÀ:
I VIZI CAPITALI
© Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati
DIRITTO e ROVESCIO
Nuova Serie
C. Casagrande - A. Catricalà - P. Cendon
G. Floridia - M. Fusi - A. Grasso - G. Iudica
R. Lanzillo - L.C. Ubertazzi
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PUBBLICITÀ:
I VIZI CAPITALI
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a cura di
P. Testa e F. Unnia
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AUTORI
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CARLA CASAGRANDE,
Docente di Storia delle dottrine morali, Dipartimento di Filosofia, Università di Pavia.
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ANTONIO CATRICALAv ,
Presidente Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato
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PAOLO CENDON,
Ordinario di Istituzioni di Diritto privato nell’Università di
Trieste.
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GIORGIO FLORIDIA,
Ordinario Diritto industriale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Presidente dell’Istituto di Autodisciplina
della Comunicazione Commerciale.
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MAURIZIO FUSI,
Avvocato in Milano.
ALDO GRASSO,
Professore di Storia della Radio e della televisione nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Critico televisivo.
GIOVANNI IUDICA,
Ordinario di Istituzioni di Diritto civile nell’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano.
RAFFAELLA LANZILLO,
Consigliere della Corte di Cassazione, già ordinario di Diritto
commerciale nell’Università di Milano Bicocca.
PAOLINA TESTA,
Avvocato in Milano.
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VI
AUTORI
LUIGI CARLO UBERTAZZI,
Ordinario di Diritto Industriale nell’Università degli Studi di
Pavia.
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FEDERICO UNNIA,
Professore a contratto di Diritto dell’Informazione e della
comunicazione nell’Università di Trieste, Consulente in comunicazione, giornalista.
© Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati
INDICE
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Autori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. I sette vizi capitali: genesi e fortuna, di Carla Casagrande.
2. Tv, pubblicità e comunicazione: vizi o virtù? conversazione con Aldo Grasso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. Superbia, di Antonio Catricalà . . . . . . . . . . . . . . . .
4. Invidia, di Giorgio Floridia . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5. Accidia, di Giovanni Iudica . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6. Ira, di Raffaella Lanzillo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7. Avarizia, di Paolo Cendon . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
8. Gola, di Luigi Carlo Ubertazzi . . . . . . . . . . . . . . . .
9. Lussuria, di Maurizio Fusi . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
10. I vizi capitali della pubblicità, di Paolina Testa . . . . . .
11. Nuovi vizi, nuove regole? di Federico Unnia . . . . . . . .
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Gutta cavat lapidem
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TITO LUCREZIO CARO,
De rerum natura (I 314 i IV 12819)
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INTRODUZIONE
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L’idea di questo scritto si perde negli anni. È da
17, per l’esattezza, che mi frulla nella mente. Era
dicembre del 1992 quando ebbi l’ispirazione. Dovevo scegliere presso quale facoltà di Giurisprudenza trasferirmi dopo i primi non positivi esiti
degli esami sostenuti alla Facoltà di Milano. Con in
tasca una laurea in Scienze politiche, lavoravo da
alcuni anni nel mondo delle Pr e della comunicazione, ma ero dilaniato da un dubbio amletico. Fare
o meno l’avvocato della pubblicità?
Si capisce subito quanto sia importante in questo progetto professionale e di vita laurearsi prima
possibile anche in Giurisprudenza, recuperando in
poco tempo, anni di ritardo. Essenziale, lavorando a
Milano, la scelta di una facoltà accessibile. Parma,
Modena, Urbino erano le sedi alternative più gettonate. Alla fine nessuna di queste opzioni prevalse
e vinse l’orgoglio, o meglio, la comodità, di restare
all’Università Statale di Milano. E cosı̀, un giorno,
tornando in treno da Modena dopo l’ennesima visita conoscitiva, sfogliavo uno dei primi volumi
della collana Diritto&Rovescio, I Dieci comandamenti. Fu allora che pensai: perché non studiare i
vizi capitali in pubblicità? Esiste un parallelismo, e
se si quale, tra vizi capitali e figure più ricorrenti di
illeciti pubblicitari? Cosa meglio di un vizio, con la
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pena connessa, esprime ciò che di scorretto, pericoloso e spiacevole la pubblicità alcune volte ci comunica? Non è forse una pena l’inibizione alla diffusione di una campagna pubblicitaria? Peggio poi se
di tale vicenda i media hanno parlato, dando enfasi
al prodotto e all’impresa, proprio come un processo
e gogna medioevale?
Scoperto tardivamente ad un corso di Diritto
commerciale, tenuto dal Prof. Gian Carlo Rivolta,
presso la Facoltà di Scienze Politiche a Milano,
l’interesse per la materia nacque a seguito dei primi
contatti professionali con le genti dell’Istituto di
autodisciplina pubblicitaria. Loro sì, dal 1966, censori dei vizi pubblicitari! Volgarità, indecenza, sfruttamento della persona umana. Ma anche comparazione, imitazione, denigrazione, offesa delle
convinzioni religiose, politiche e civili della persona? Con poca immaginazione, certi messaggi pubblicitari dei nostri giorni non ci riportano alla mente
gli affreschi medioevali nei quali spiccano le raffigurazioni iconografiche dei vizi e delle pene?
Siamo alla fine degli anni ’80, l’Autorità garante
della concorrenza e del mercato ancora non operava. Ma non solo: l’interesse per questi temi si
concretizza e matura grazie all’attività giornalistica,
commentando pronunce, partecipando ai convegni,
intervistando luminari del diritto industriale, uomini di agenzia, iniziando a scrivere per pubblicazioni giuridiche. Il tutto senza dimenticare la comunicazione, intesa nel senso più ampio. E si, perché
oggi, i vizi pubblicitari, nell’era della convergenza,
possono definirsi vizi della comunicazione. Non nascono, forse, dalla pubblicità, le nuove fattispecie
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delle pratiche commerciali scorrette? Ipotesi che
spesso sconfinano dal mondo della pubblicità tradizionale per invadere il territorio della comunicazione tout court.
Ma torniamo ai vizi capitali e la pubblicità. Più
volte negli anni, tra impegni professionali e di studio, mi sono avvicinato a questo tema: prima raccogliendo brani dalla Summa Teologica di San
Tommaso; poi articoli e commenti sugli eccessi
della pubblicità. Mancava, inutile dirlo, l’ispirazione
con la I maiuscola. Ebbene, questa è venuta 8 anni
dopo, nel 2000, per l’esattezza: l’uscita del volume I
sette vizi capitali. Storia dei peccati nel medioevo, di
Carla Casagrande e Silvana Vecchio. Uno studio
sulla struttura del vizio e di come esso sia stato
interpretato, classificato e raffigurato nell’iconografia medioevale. Si riaccese l’interesse. Insomma, un
viaggio in quello che semplificando, si potrebbe
chiamare un codice di autodisciplina dei vizi capitali.
Ma come trattare il vizio capitale nello specifico
pubblicitario? Anche qui il tempo, la famosa Gutta,
si è rilevato il più prezioso alleato. La pubblicità, è
fatto noto ai più, concorre a plasmare i nostri comportamenti, forma le nostre opinioni, modella il
linguaggio, crea a diffonde un universo valoriale
che, piaccia o meno, pervade la società. La pubblicità è come una lenta, piccola goccia che forma
opinioni e accredita valori. Proprio come le condotte scorrette che il sistema dei vizi capitali tendeva a sconfiggere. Ecco quindi la chiave di narrazione del testo: il rapporto tra pubblicità e regole,
passando attraverso il sistema dei vizi che queste
tendono a sconfiggere. In questo cammino Dante-
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sco, l’incontro professionale con l’Avv. Paolina Testa è stato risolutore. Il tradizionale convegno pavese del prof. Luigi Carlo Ubertazzi del settembre
2008 il terreno del primo accordo sulla partecipazione a questo scritto.
Prende corpo l’idea di una narrazione a più
mani, scegliendo un approccio diretto: a 7 grandi
giuristi è chiesto di reinterpretare a loro modo, in
totale autonomia e libertà creativa, sulla base del
loro vissuto pubblicitario e professionale, un singolo
vizio. Non scelto, bensı̀ imposto. Proprio come una
divina punizione! Il tutto, impreziosito, dalle opinioni di Carla Casagrande, la cultrice dei vizi capitali e del critico televisivo Aldo Grasso. Concludono il volume, le riflessioni degli autori sui nuovi
vizi capitali della pubblicità e le prospettiche visioni
sul futuro del rapporto tra comunicazione e legge.
Insomma, scomodando ben più celebri opere,
un percorso umano e culturale, nel mondo delle
diverse sfaccettature del vizio pubblicitario. Con un
solo unico comune denominatore: l’amore per la
pubblicità, nonostante le facili critiche cui è assoggettata, e la fiducia assoluta nell’intelligenza dell’uomo di saper dominare le situazioni più complesse.
Al lettore è lasciato il giudizio finale. Tuttavia,
sia permessa un’ultima considerazione. Questo lavoro conferma tre regole essenziali nell’agire dell’uomo. In primo luogo, l’impossibilità di porre limiti al proprio sapere. Tutti noi, nei rispettivi settori
di attività e di studio, abbiamo coltivato un desiderio scientifico, lo abbiamo portato alla luce, costasse
quel che costasse. Lo confermano le simpatiche e in
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alcuni casi sorprese reazioni di alcuni autori innanzi
all’invito a trattare di un vizio.
In secondo luogo l’amore per i libri. Questo
lavoro è figlio di un’intuizione nata dalla lettura di
un libro, e si è materializzato, dopo molto tempo,
grazie alla lettura di un altro libro.
Infine, è la valorizzazione di un prezioso patrimonio di relazioni professionali e rapporti umani.
Mi piace ricordare proprio l’avv. Paolina Testa e
l’avv. Maurizio Fusi, i primi due autorevoli giuristi
specializzati in diritto della pubblicità che conobbi
nel 1986, lavorando alla mia tesi di laurea in diritto
commerciale sui diritti d’autore nell’opera pubblicitaria. I Presidenti Antonio Catricalà e Giorgio Floridia cui molto si deve dell’affermazione di un’etica
pubblicitaria nel nostro Paese. Infine, Paolo Cendon, il padre degli esistenzialisti. Con tutti gli altri,
in tempi e modi diversi, è nata e si è instaurata una
proficua collaborazione professionale, impreziosita
dall’omaggio che mi hanno fatto accettando l’invito
a realizzare questo scritto.
Un buon viaggio, quindi, nell’universo del peccato capitale della pubblicità e della comunicazione,
del vizio e della sua intima spiritualità. Un viaggio
nelle debolezze umane ed aziendali, che bisogna
ammettere, spesso ci fanno ridere, sognare e perché
no, invidiare.
FEDERICO UNNIA
Milano, novembre 2009
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1.
I SETTE VIZI CAPITALI:
GENESI E FORTUNA
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di CARLA CASAGRANDE
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SOMMARIO: 1. L’ordine del male. — 2. Le immagini dei vizi. — 3. Un
sistema universale. — 4. Mutazioni e crisi. — 5. Ai nostri giorni.
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I sette vizi capitali, superbia, invidia, accidia, ira,
avarizia, gola e lussuria, secondo l’enumerazione
più diffusa, sono le sette colpe principali, quelle che
stanno ‘a capo’ di tutti i peccati, i comandanti di un
esercito del male che cerca in vari modi di conquistare la cittadella del cuore umano.
Questi sette vizi vengono da lontano: sono
un’invenzione della cultura medievale. Certo i vizi
sono sempre esistiti e sono un argomento sempre ‘di
moda’, un oggetto quasi obbligato per chiunque si
occupi o si sia occupato nel passato non solo di etica
ma anche di antropologia, psicologia, retorica, politica. Il Medioevo non ha certo inventato né i vizi
né il discorso sui vizi. Basti pensare a tutto ciò che
è stato detto su questo tema nelle due tradizioni che
sono alla base della cultura occidentale, la tradizione greco-romana da una parte e quella ebraicocristiana dall’altra: i filosofi greci hanno più volte
riflettuto sulle colpe dell’uomo; dei vizi hanno parlato con abbondanza ed efficacia i principali autori
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della letteratura latina, da Cicerone a Orazio, da
Giovenale a Seneca; d’altro canto i testi biblici,
dell’Antico e del Nuovo Testamento, contengono
quasi a ogni pagina riferimenti ai vizi e ai peccati
degli uomini.
Eppure è soltanto con il Medioevo che nasce e
si afferma l’idea di sette vizi capitali. Le origini di
quest’idea, ancora in parte oscure, si collocano infatti tra V e VI secolo, periodo tradizionalmente
considerato l’inizio del Medioevo; il suo declino
sembra coincidere con la frattura della Riforma
protestante che segna l’avvio dell’Età moderna. La
storia dei sette vizi capitali dura dunque circa mille
anni, i mille anni del Medio Evo, e sono mille anni
nei quali questo schema diventa progressivamente
sempre più importante finendo con il collocarsi al
centro della vita morale degli uomini e delle donne.
Pensato da monaci per altri monaci, il settenario
nasce e si afferma dapprima all’interno dei monasteri dove i sette vizi rappresentano gli ostacoli da
superare lungo il cammino di perfezione cui i monaci si sono votati. Ma è soprattutto fuori dal monastero che il settenario celebra il suo trionfo. Tra
XII e XIII secolo i profondi cambiamenti che coinvolgono la teologia e la pastorale cristiana impongono una riflessione nuova sul tema del peccato e,
soprattutto, l’esigenza di una più capillare opera di
istruzione e controllo dei laici. In questo contesto
predicatori, confessori, maestri di teologia riscoprono il vecchio schema monastico dei vizi capitali
e lo utilizzano per disegnare una mappa del peccato
capace di individuare e descrivere i peccati di tutti
gli uomini. La longevità e l’universalità del settena-
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I SETTE VIZI CAPITALI: GENESI E FORTUNA
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rio dei vizi appaiono dunque come le principali
caratteristiche del suo straordinario successo in
epoca medievale, un successo del resto ampiamente
testimoniato da una massa sterminata di fonti di
diverso tipo: regole monastiche, trattati morali, testi
esegetici, agiografie, somme di teologia, prediche,
testi per la confessione, opere letterarie, rappresentazioni visive (miniature, affreschi, sculture).
Un grande successo dunque, che in parte viene
meno con l’inizio della modernità, quando finisce
l’età d’oro del settenario, ma che tuttavia non si
esaurisce del tutto. L’idea dei sette vizi capitali non
scompare con la fine del Medioevo; anzi conosce
una nuova vita che continua in forme diverse fino ai
nostri giorni.
Un successo cosı̀ clamoroso non può non suscitare degli interrogativi. Perché il sistema dei sette
vizi si rivela cosı̀ potente e duraturo tanto da costituire un topos della cultura occidentale? Quali sono
le caratteristiche che consentono di considerare per
secoli questi sette concetti come la “geografia del
male”? Per rispondere a questa domanda credo sia
opportuno risalire alle origini del sistema settenario
e individuare nelle sue prime formulazioni quei
caratteri che ne hanno garantito la forza e la durata
facendone una specie di sempiterna mappa delle
umane debolezze.
1. L’ordine del male.
I “padri” del settenario dei vizi capitali sono due
monaci: Giovanni Cassiano, vissuto nel V secolo tra
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Oriente e Occidente, e Gregorio, vissuto in Italia
nel secolo successivo, divenuto papa con il nome di
Gregorio Magno.
Cassiano condensa in due testi scritti per i monaci della sua comunità, le Conferenze e le Istituzioni cenobitiche, la dottrina che il suo maestro, il
monaco orientale Evagrio Pontico, aveva elaborato
sui vizi. Il suo sistema prevede otto vizi principali
dei quali vengono analizzate con accuratezza le
caratteristiche, la matrice psicologica, la pericolosità, le filiazioni, gli eventuali rimedi. Distinti in
carnali e spirituali, gli otto vizi di Cassiano sono
concatenati tra loro in una doppia progressione
genealogica. Nella prima genealogia ogni vizio è
risultato di un vizio precedente: l’accidia deriva
dalla tristezza, la tristezza dall’ira, l’ira dall’avarizia,
l’avarizia dalla lussuria, la lussuria dalla gola, che è
quindi l’inizio di tutti i peccati. La seconda genealogia, che comprende nell’ordine superbia e vanagloria, si innesta alla fine della prima ma non ne
costituisce lo sviluppo. Anzi prende le mosse dal
suo superamento: una volta sconfitti tutti i vizi
derivati dalla carne, può essere infatti che la vittoria
sugli impulsi e sui desideri generi un pericoloso
sentimento di superiorità che dà luogo appunto a
vanagloria e superbia. Come si vede, in Cassiano, la
successione dei vizi capitali scandisce un processo di
perfezionamento, tipicamente monastico, che comincia con la rinuncia ai beni del corpo e ai piaceri
del mondo e prosegue nella cura dell’interiorità.
Un secolo dopo il modello generativo proposto
da Cassiano viene ripreso, semplificato e nello
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I SETTE VIZI CAPITALI: GENESI E FORTUNA
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stesso tempo esaltato da Gregorio in una pagina del
Commento morale a Giobbe, uno dei libri più letti
durante tutto il Medioevo, una pagina che vale la
pena di citare perché costituisce il testo fondatore
della tradizione occidentale dei vizi capitali:
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“Tra i vizi che ci tentano e combattono contro di noi
una guerra invisibile sotto il dominio della superbia,
alcuni avanzano alla testa dell’esercito, come comandanti, altri seguono come soldati semplici … Non appena
la regina dei vizi, la superbia, si impadronisce pienamente
del cuore dell’uomo dopo averlo piegato, ecco che lo
consegna alla devastazione dei sette vizi principali, che
sono una sorta di suoi luogotenenti. A seguito di questi
comandanti arriva l’esercito poiché non c’è dubbio che
da essi traggano origine multitudini di vizi … I vizi sono
legati da un vincolo di parentela strettissimo dal momento
che derivano l’uno dall’altro. La prima figlia della superbia è infatti la vanagloria, che una volta vinta e corrotta la
mente genera subito l’invidia … l’invidia genera l’ira ...
dall’ira nasce la tristezza… dalla tristezza si arriva all’avarizia … A questo punto sopravanzano i due vizi
carnali, la gola e la lussuria. Ma è noto a tutti che la
lussuria nasce dalla gola…” (Moralia in Iob, XXXI,
XLV, 89)
Pur con modalità diverse, i due sistemi di vizi
elaborati da Cassiano e da Gregorio, si fondano su
un’idea che costituisce il vero punto di forza del
settenario dei vizi, uno dei principali motivi, se non
il principale, della sua straordinaria fortuna. L’idea
cioè che l’universo del male sia un universo ordinato: il peccato insomma non è puro disordine, è un
disordine ordinato, un disordine che mima e capo-
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volge l’ordine stabilito da Dio. Questo ordine è
inoltre un ordine gerarchico. Nell’innumerevole serie dei peccati esistono colpe più gravi e colpe meno
gravi, principali e secondarie; alle prime spetta il
compito di aggredire e prostrare l’animo umano e
solo dopo questa operazione di sfondamento la
turba delle colpe minori può dilagare liberamente. I
vizi capitali sono per l’appunto i sette luogotenenti
dell’esercito, quelli che sono a capo di tutti gli altri
peccati. Di più, quell’ordine gerarchico è anche un
ordine genealogico. Le colpe principali (i vizi capitali) sono la matrice diretta delle colpe secondarie e
sono a loro volta collegate l’una all’altra da un
rapporto di filiazione. In Gregorio, la progressione
genealogica ha il suo inizio nella superbia che diventa una specie di supervizio, la madre di tutti i
vizi, dalla quale direttamente o indirettamente tutti
traggono origine, dapprima i sette vizi principalicapitali, poi le loro filiazioni.
In questo modo tutti i peccati occupano un
posto preciso nella famiglia dei vizi e nessuno resta
escluso. Il sistema cioè appare ordinato, completo e
tendenzialmente chiuso. Non c’è peccato, per
quanto nuovo, fantasioso, inusitato, bizzarro, che
non possa essere fatto risalire, più o meno agevolmente, a uno dei sette vizi capitali e attraverso di
esso alla superbia. Questo significa che ogni peccato
è descrivibile, riconoscibile nelle sue origini, manifestazioni e conseguenze e per questo prevedibile e
curabile. Nella misura in cui l’universo della colpa
viene ordinato quell’universo diventa controllabile
e forse in parte sopportabile.
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I SETTE VIZI CAPITALI: GENESI E FORTUNA
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2. Le immagini dei vizi.
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Tutto questo, e non è poco, viene detto sia da
Cassiano sia da Gregorio in modo estremamente
efficace e suggestivo attraverso l’uso di due potenti
metafore: la battaglia e l’albero. Non c’è nulla di
esteriore, ornamentale e occasionale nell’uso di
queste immagini. La forma metaforica è spesso la
forma del discorso sui vizi capitali, un elemento
costante e strutturale del sistema, uno dei motivi
della sua forza e della sua fortuna. L’impiego sistematico delle metafore, il loro alternarsi o intersecarsi consente infatti di visualizzare concetti astratti,
altrimenti difficili da proporre, con il doppio effetto
di aiutare la memoria di quanti sono tenuti a parlare
dei vizi (predicatori, confessori, direttori spirituali)
e di tradurre in un linguaggio facilmente comprensibile dai meno dotti le idee guida del discorso
morale. L’uso della metafora è strutturale nel discorso sui vizi nella misura in cui questo discorso
nasce come un discorso pedagogico, che vuole intervenire, controllare, cambiare la vita degli uomini
e delle donne, un discorso che deve essere efficace,
nel quale la descrizione dell’universo del male, la
ricostruzione dell’ordine dei peccati, è sempre funzionale all’individuazione dei rimedi.
Nato come discorso figurato, il discorso sui vizi
resterà durante tutta la sua storia un discorso figurato. Cosı̀ come avevano fatto Cassiano e Gregorio,
anche i loro numerosi discepoli continueranno a
parlare dei sette vizi all’interno di immagini, e queste immagini saranno per lo più le immagini della
battaglia e dell’albero. Vizi che combattono virtù,
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tornei di cavalieri del male che cercano di conquistare il trofeo dell’anima dell’uomo, cavalcate di
guerrieri minacciosamente armati; grandi alberi malefici che ricordano l’albero del bene e del male
posto nel Paradiso e che si espandono in ampie
ramificazioni sulle quali prolificano innumerevoli
fiori e frutti. Attraverso queste immagini l’idea dei
sette vizi capitali attraversa i secoli medievali e si
impone nella letteratura, nell’arte, nella teologia,
nell’immaginario collettivo della società occidentale. A queste immagini se ne aggiunge un’altra, in
qualche modo implicita nei testi dei due monaci
fondatori che parlano del settenario dei vizi all’interno di un processo di progressivo perfezionamento spirituale: l’immagine del viaggio. Nessuno si
è servito di quest’immagine meglio di quanto abbia
fatto Dante: il lungo viaggio nei regni dell’al di là,
raccontato nella Commedia, è nel suo complesso un
viaggio di penitenza e di rigenerazione spirituale
che trova nel Purgatorio, non a caso strutturato
secondo lo schema dei sette vizi capitali, il luogo per
eccellenza della liberazione dai peccati non solo per
i penitenti che espiano ma anche per il pellegrino
Dante che vede via via scomparire dalla sua fronte
le sette P che l’angelo vi ha impresso con la spada di
fuoco.
3. Un sistema universale.
Una ordinata e riconoscibile geografia della
colpa presentata in modo comprensibile ed estremamente efficace. Basterebbe questo per spiegare il
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I SETTE VIZI CAPITALI: GENESI E FORTUNA
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successo avuto nei secoli dal settenario dei vizi
messo a punto da Cassiano e Gregorio. Ma non
basta: quel sistema morale non era solo chiaro,
ordinato, suggestivo, funzionale agli obiettivi per
cui era stato costruito, quel sistema aveva anche una
portata universale. Quei sette-otto vizi sembravano
infatti aver colto una volta per tutte delle costanti
dell’anima umana nelle quali tutti potevano riconoscersi. In realtà quel sistema era stato inventato ad
uso e consumo dei monaci per scandire le tappe
della loro fuga dal mondo e della loro ricostruzione
in terra del Paradiso perduto. Tuttavia sono proprio
i padri fondatori del settenario, e in particolare
Gregorio, a garantire una dimensione universale al
settenario dei vizi mettendolo a disposizione di
tutti. Tutto si consuma nel passaggio da Cassiano a
Gregorio il quale riesce a trasformare il monastico
sistema dei vizi capitali di Cassiano in schema morale “universale” con poche ma decisive mosse:
eliminazione di un vizio tipicamente monastico
come l’accidia, introduzione di un vizio dai forti
risvolti sociali, come l’invidia, e soppressione della
doppia genealogia, che descriveva una progressione
di vizi tipica di chi si era ritirato dal mondo, a favore
di un’unica genealogia fondata sulla superbia, a
significare che, per quanto diversi siano gli uomini,
tutti i loro peccati, dal peccato di Adamo al più lieve
dei peccati che ogni uomo può commettere, non
fanno altro che ripetere quel primo peccato di superbia che separò l’angelo ribelle dal suo creatore.
A questo punto i vizi capitali sono pronti ad
uscire dai monasteri. È soprattutto tra XII e XIII
secolo che comincia la grande avventura del sette-
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PUBBLICITÀ: I VIZI CAPITALI
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re
nario fuori dai monasteri. Di questa avventura possiamo indicare una data simbolica: il 1215, l’anno
del IV Concilio Laterano che impone a tutti i fedeli
di confessare una volta all’anno in segreto e al
proprio sacerdote tutti i loro peccati. Quella disposizione pone, come mai prima di allora, la necessità
di classificare e descrivere l’universo della colpa:
tanto per i fedeli quanto per i sacerdoti è ormai
necessaria una mappa completa del peccato che
consenta loro di riconoscere i peccati, stabilirne la
gravità, individuarne le cause, gli effetti, i rimedi.
Bisogna insomma che i peccati siano confessati con
ordine per essere riconosciuti, valutati, e nel caso
perdonati. Il vecchio settenario monastico, con le
sue classificazioni genealogiche, si presta mirabilmente allo scopo: mette a disposizione tecniche di
introspezione psicologica, stabilisce criteri di gravità, individua contiguità e connessioni, prevede
pericoli, insomma mette ordine nei disordinati e
lacunosi racconti dei penitenti. Un passo del chierico inglese Roberto di Flamborough, tratto dal suo
Libro sulla penitenza composto nei primi anni del
secolo XIII, fotografa perfettamente la situazione:
“Quasi tutti si confessano in maniera disordinata;
trascurando l’ordine dei vizi seguono il criterio dell’età,
dei luoghi, dei tempi, e dicono: “A quell’età ho commesso
la tale fornicazione, il tale adulterio, il tale furto, il tale
spergiuro, il tale omicidio. Inoltre a quell’altra età ho
commesso il tale incesto, ho violato quella monaca, ho
fatto il tale sortilegio. E in questo modo si confondono e
confondono anche la memoria del sacerdote. Mi piace
invece che, cominciando dalla superbia, che è la radice di
tutti i mali, tu confessi i singoli vizi con le rispettive specie,
seguendo l’ordine con cui un vizio nasce e deriva dall’al-
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I SETTE VIZI CAPITALI: GENESI E FORTUNA
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tro; e cioè prima la vanagloria, seconda l’invidia, terza
l’ira, quarta l’accidia, quinta l’avarizia, sesta la gola,
settima la lussuria” (Liber poenitentialis)
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La scelta del chierico inglese non è frutto di una
sua personale predilezione per il settenario. Dalla
fine del XII fino a tutto il XV pressoché tutti i testi
per la confessione, sia in latino sia in volgare, prevedono che l’individuazione e la confessione dei
peccati avvenga secondo l’ordine dei sette vizi capitali e delle loro filiazioni. Il sistema dei vizi capitali si installa, almeno nelle intenzioni dei chierici,
all’interno delle coscienze di tutti i fedeli, governa le
loro condotte verso Dio e verso il prossimo, decide
del loro destino nell’al di là.
Il ruolo determinate assunto dal settenario nei
testi per la penitenza ne determina e ne amplifica la
presenza in altri ambiti. Nella predicazione prima di
tutto, divenuta proprio in quegli anni, soprattutto
grazie all’opera dei frati francescani e domenicani,
veicolo di massa di un’istruzione religiosa nella
quale il tema del peccato è certamente centrale.
Interi sermoni sono dedicati al settenario o ai singoli vizi che lo compongono. Il predicatore, che è
spesso anche confessore, propone nella predica
quella griglia di peccati che il fedele dovrà imparare
a usare nella confessione e lo fa attraverso definizioni chiare e immagini suggestive che sappiano
convincere e indurre al pentimento. Spesso questo
avviene in chiese dove alla predica parlata del predicatore si aggiunge quella muta delle immagini.
Affreschi e sculture che adornano le chiese mostrano alberi e famiglie di vizi, battaglie e tornei tra
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vizi e virtù, diavoli e animali che illustrano ad uso
dei meno colti i temi predicati dal pulpito; soprattutto nelle raffigurazioni dell’aldilà i sette vizi trionfano, fornendo una struttura alla rappresentazione
dell’Inferno e nel Purgatorio, secondo un modello
che ha nel Camposanto di Pisa la sua realizzazione
più compiuta.
A decretare il grande revival duecentesco del
settenario non sono solo i predicatori e i confessori.
Anche i teologi dicono la loro su quell’antico e un
po’ polveroso schema chiamato ora a nuove e importantissime funzioni. Nelle scuole il settenario
viene sottoposto, come mai era accaduto prima di
allora, a una analisi razionale volta a indagarne
coerenza, completezza, autorità. I teologi sembrano
soprattutto preoccupati di dare un fondamento razionale a uno schema che, va ricordato, è privo di
fondamenti scritturali. C’è chi predilige un modello
psicologico che collega i diversi vizi alle parti dell’anima; chi ravvisa nella struttura stessa dell’uomo
una sorta di settenario, costituito dalle tre potenze
dell’anima e dai quattro elementi del corpo; chi
definisce i vizi come modi della volontà disordinata,
chi interseca tra loro queste diverse soluzioni. Ma
non c’è solo un problema di coerenza interna al
sistema a preoccupare i teologi; bisogna anche che il
settenario sia raccordato ad altri schemi morali, le
virtù, i precetti del Decalogo, i doni dello Spirito
Santo, nel quadro di una teologia morale che si
vuole sistematica e razionale.
E infine, a decretare che ormai il settenario è
entrato anche nella cultura dei laici, il suo ingresso
nei testi della letteratura volgare, come testimonia
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I SETTE VIZI CAPITALI: GENESI E FORTUNA
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l’uso che del settenario fanno Dante nella Commedia e Chaucer nei Canterbury Tales.
Insomma un unico grande discorso che ha come
oggetto i sette vizi capitali risuona per tutto l’Occidente medievale: nello spazio privato e segreto
delle coscienze, in quello pubblico delle piazze, in
quello professionale delle aule universitarie, all’interno delle navate e di fronte ai portali delle chiese,
davanti alle cattedre dei maestri, durante l’incontro
del penitente con il suo confessore.
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4. Mutazioni e crisi.
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Tanto successo non poteva non cambiare il vecchio settenario dei vizi. Usciti dai monasteri per
entrare nel mondo, a quel mondo i sette vizi hanno
dovuto adeguarsi. La migliore testimonianza dello
stato del settenario nei secoli del suo trionfo mondano è costituita da un testo, la Somma delle virtù e
dei vizi del domenicano lionese Guglielmo Peraldo,
scritta verso la metà del secolo XIII. Testo di
enorme fortuna, uno dei grandi best-seller medievali, diffuso da centinaia di manoscritti e successivamente da decine di edizioni, volgarizzato in molte
lingue, ispira gran parte della trattatistica morale
del tardo Medioevo.
Il settenario dei vizi di Peraldo è sostanzialmente quello di Gregorio Magno con qualche variante (la vanagloria divenuta specie della superbia,
l’accidia che prende il posto della tristezza) che la
tradizione aveva già reso canonica. Nulla di nuovo,
apparentemente. Se non che i vizi sono divenuti
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ipertrofici. L’analisi riservata a ciascuno dei vizi
capitali presenta infatti una ricchezza, un’articolazione e un’ampiezza prima sconosciute. Ogni vizio
dà luogo a corposi trattati (i più lunghi sono avarizia
e lussuria) nei quali, attraverso un uso sapiente
della citazione e dell’esempio, il vizio viene analizzato nella sua natura, nelle sue conseguenze, nei
suoi rimedi; le filiazioni sono in genere quelle gregoriane all’interno delle quali però trovano ora
posto moltissimi peccati, più o meno gravi, alcuni
precedentemente sconosciuti, altri rivisitati, altri ancora tipici di particolari condizioni sociali, classi di
età, condizioni di vita, professioni. Ogni vizio, mostrando una notevole capacità di espansione e una
notevole flessibilità, diventa un grande contenitore
di colpe tra loro anche molto diverse quanto a
gravità, condizioni e contesti di esecuzione. Si pensi
per esempio che all’interno della superbia c’è posto
per un’amplissima serie di peccati che vanno dall’atto di rivolta di Lucifero contro Dio a tutti i
peccati di vanagloria delle donne che amano i vestiti
sontuosi, i gioielli, il maquillage; che l’accidia si
declina ora in mancanza di fervore religioso, ora in
pigrizia nel lavoro, ora in tristezza e malinconia; che
la lussuria diventa da un lato spazio di analisi psicologica sulle dinamiche del desiderio sessuale, con
un lungo elenco di tutti i turbamenti che essa procura nell’anima e nel corpo del peccatore, e dall’altro occasione di una tipologia della sessualità proibita, fondata su un’etica matrimoniale che si va
costruendo proprio in quegli anni e che presenta
forti risvolti sociali; che l’avarizia prevede tutta una
serie di attività economiche vecchie e nuove che
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I SETTE VIZI CAPITALI: GENESI E FORTUNA
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vanno dal furto alla simonia, dalla frode alla rapina,
dall’usura alla corruzione fino alle diverse forme di
tesaurizzazione e sperpero; che l’invidia, vizio sociale per eccellenza, non a caso escluso dalle prime
formulazioni monastiche del settenario, offre lo
spazio per condannare varie forme di aggressività
sociale, dalla competizione economica alla lotta politica fino alla rivoluzione, e cosı̀ via.
Questa espansione dei singoli vizi è stata favorita da un altro cambiamento fondamentale che ha
come liberato i vizi estendendone i confini interni
ed esterni. È un cambiamento che riguarda il sistema nel suo complesso e cioè la progressiva attenuazione dell’ordinamento genealogico. Già in Peraldo, e il processo sarà ancora più evidente
successivamente, i vizi non derivano più uno dall’altro, ma si succedono secondo criteri occasionali, in
un ordine che può anche cambiare. Non basta. La
genealogia viene meno anche all’interno dei singoli
vizi che prevedono, nella maggior parte casi, specie
e non più filiazioni. Insomma da classificazione genealogica il settenario è diventato una classificazione tassonomica, un grande repertorio tematico,
l’indice di una enciclopedia morale all’interno della
quale ordinare peccati tra loro simili e contigui.
L’ordine dei peccati non sta più nei peccati ma nel
modo in cui gli uomini decidono di parlarne.
Peraldo, come molti dopo di lui, decide di farlo
con una certa libertà, senza preoccuparsi troppo di
possibili contraddizioni, incongruenze, ripetizioni.
La sua preoccupazione è soprattutto quella di costruire ad uso dei predicatori e dei confessori una
mappa dei vizi il più possibile completa, nella quale
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avere un elenco affidabile dei peccati più comuni e
di quelli più bizzarri, trovare definizioni, sentenze,
esempi relativi ai vari peccati, avere a disposizione
un repertorio metaforico utile nella predicazione. A
questo scopo dopo essersi accorto che c’è un peccato molto diffuso che non ha avuto sufficiente
attenzione nell’analisi dei sette vizi tradizionali, il
peccato della lingua, non esita ad aggiungerlo ai
sette vizi come ottavo vizio distinguendolo in ben 24
peccati, tra i quali campeggiano la menzogna, la
diffamazione, l’adulazione, la parola vana, il multiloquio, il turpiloquio, l’insulto, la maledizione, la
derisione, il silenzio colpevole. Operazioni simili
volte a sopperire alle carenze del settenario e indubbiamente facilitate dalla fine dell’ordinamento
genealogico vengono ripetute in seguito da altri
autori. Accanto al settenario compaiono sempre più
spesso altre liste di peccati che rimediano alle “dimenticanze” del settenario: i peccati di pensiero,
parole, opere, i peccati dei cinque sensi, i peccati
contro lo Spirito santo, i peccati cosiddetti alieni
(quelli che implicano complicità con altri), i peccati
travestiti in virtù, e i peccati contro i 10 precetti.
Dilatato e integrato, il settenario dei vizi capitali, alla fine del Medioevo, presenta poi un’altra
caratteristica importante: è analizzato all’interno di
un sistema di liste morali che comprende le virtù, i
doni dello Spirito Santo, le beatitudini, i precetti del
Decalogo, come accade per esempio nei manuali
per sacerdoti e nei trattati di istruzione religiosa per
laici che prefigurano i catechismi controriformisti.
A volte il settenario non si limita ad essere accompagnato e circondato da altre liste ma le contiene,
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presentando all’interno dei singoli vizi l’analisi delle
virtù, dei doni dello SS, delle beatitudini, dei precetti ad essi relativi. In ogni caso, ormai collocato al
centro di un sistema morale complesso e articolato,
il settenario è diventato non solo il repertorio delle
colpe, il sistema per eccellenza per parlare del peccato, ma il veicolo della dottrina cristiana nel suo
complesso.
Il successo dei sette vizi sembra completo e lo è.
Tuttavia in quel successo ci sono le cause della
futura sconfitta, anzi sono proprio gli stessi motivi
che garantiscono la fortuna del settenario a costituire la cause del suo lento ma progressivo declino.
Innanzitutto la proliferazione di altri sistemi morali
dentro o a fianco del settenario: se ne esalta la
centralità, ne mette anche in luce le carenze e le
difficoltà. La pretesa di completezza, che era stata il
suo punto di forza, risulta vanificata dalle continue
integrazioni di vizi nuovi o “dimenticati”. D’altra
parte il rapporto con le sette virtù canoniche, i doni
dello Spirito Santo e i precetti del Decalogo mostra
molte incongruenze. All’interno di una morale che
si vuole sistematica il settenario procura insomma
qualche problema. Inoltre, la dissoluzione dell’impianto genealogico, che garantisce al sistema settenario e ai suoi componenti flessibilità e capacità di
espansione, ne mette però in luce la natura convenzionale. Il sistema dei vizi capitali non riflette la
dinamica del peccato, si limita, e certo non è poco,
a classificare efficacemente i peccati. Il settenario
paga il suo ruolo di centro e contenitore di tutta la
morale cristiana con la perdita della sua capacità di
indagare le anime, di rivelarne i movimenti segreti,
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di essere strumento di introspezione. Divenuto un
semplice sistema di classificazione, certo potente ma
convenzionale, può essere sostituito da altri sistemi
più autorevoli o più efficaci, come per esempio le
tre concupiscenze di cui si parla nel Vangelo di
Giovanni, le sette virtù, e soprattutto, i dieci comandamenti, che diventano con il passare del tempo
sempre più importanti.
I primi a denunciare le insufficienze del settenario sono i teologi. Dalla metà del secolo XIII sottopongono il settenario dei vizi a una serie di critiche
che ne denunciano la debolezza dell’impianto generativo, l’incompletezza, l’assenza di fondamento
scritturale, le incongruenze all’interno di una morale sistematica. Sconfitto in ambito teologico già
nei primi anni del XIV, il settenario continua in
realtà a trionfare in ambito pastorale nelle forme e
con le funzioni che abbiamo visto, per nulla turbato
dalla concorrenza del Decalogo al quale viene
spesso affiancato, integrato, sovrapposto. Bisognerà
aspettare la Riforma perché quella crisi annunciata
esploda. Vituperato da Lutero, rifiutato in ambito
riformato, anche presso i cattolici il settenario avrà
una presenza sempre più limitata. Insomma, con
l’avvento della modernità, la fortuna del settenario
finisce; certo si continuerà a fare riferimento a quel
sistema in opere religiose e letterarie anche importanti, ma i sette vizi cessano di essere l’ordine del
regno del male. La dottrina della Chiesa non porrà
più i vizi capitali al centro della vita morale dei
fedeli. Nel Catechismo della Chiesa cattolica, redatto per iniziativa di Giovanni Paolo II e pubblicato nel 1992, i sette vizi sono citati ma si tratta di
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I SETTE VIZI CAPITALI: GENESI E FORTUNA
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una piccola citazione (quattro righe all’interno del
capitolo del peccato), un omaggio alla tradizione
più che l’indicazione ai fedeli di uno strumento utile
per riconoscere le loro colpe.
5. Ai nostri giorni.
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Questo non vuol dire che i peccati capitali siano
scomparsi. Anzi, essi sono dovunque: nei film, nella
pubblicità, nel teatro, nelle opere musicali, nelle
rappresentazioni artistiche, nei convegni storici. I
vizi capitali siano ormai una categoria della cultura
occidentale da tutti più o meno conosciuta. Ma
questi vizi, che si trovano dovunque, non hanno più
la stessa funzione che avevano nel Medioevo; non
provvedono più, come nel Medioevo, all’integrità
morale dell’individuo, alla solidità delle famiglie,
all’ordine della società e, soprattutto, alla salvezza
delle anime. Possono ancora essere un buon sistema
di classificazione, ma quel che classificano è qualcosa che non è più o non è solo peccato. I vizi sono
diventati soprattutto categorie psicologiche che descrivono attitudini e comportamenti non necessariamente colpevoli. Categorie descrittive, come una
volta, ma non più o non solo, come una volta,
categorie normative. In quanto tali i vizi non fanno
più paura. Non a caso ci si domanda spesso quale sia
il peccato preferito; non a caso ci sono vizi che non
sembrano più tali e vizi di cui addirittura ci si può
vantare: la gola, la lussuria, la superbia … I vizi sono
ormai diventati occasione di conversazione, di ricreazione, qualche volta di studio e di riflessione, come
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è il caso di questo volume. Insomma il settenario dei
peccati capitali è restato un sistema più o meno
efficace di catalogazione psicologica e un oggetto
culturale molto suggestivo, ma non è più, come era,
un oggetto teologico al quale veniva affidata la
salvezza dell’umanità. I nostri vizi capitali assomigliano ai vizi capitali degli uomini e delle donne del
Medioevo, ma certamente non sono più la stessa
cosa.
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v E COMUNICAZIONE:
VIZI O VIRTU
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SOMMARIO: Conversazione con Aldo Grasso
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di ALDO GRASSO
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Professor Grasso, dal suo osservatorio professionale, come giudica la qualità della nostra comunicazione?
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Come in molti altri settori, siamo passati da un
tempo in cui trionfava l’epopea dell’incomunicabilità, ad un altro, caratterizzato da un eccesso di
comunicabilità. Tanta voglia di dire che solo l’urlo
sembra essere la modalità vincente per esprimersi:
in Tv confronti all’ultimo insulto; fra politici generosi scambi di contumelie e diffamazioni; sui giornali largo spazio a insinuazioni e livorose offese.
Tanta smodatezza da incoraggiare la nascita di una
nuova professione, quella dell’insultologo, il paziente collezionista dell’offesa verbale.
Un presenzialismo esistenziale?
Di più, parlerei di un genus. Questo scienziato
dell’improperio registra i processi televisivi più sfrenati, ritaglia dalle pagine patinate i vocaboli più
ardimentosi, ordina con scrupolo filologico la rac-
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PUBBLICITÀ: I VIZI CAPITALI
colta. L’insultologo, pur nell’ambito di una comunicazione hard, pesante, si occupa ancora di messaggi.
Insomma, lei crede sia finita la stagione della
comunicazione umana?
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La comunicazione soft, o virtuale, è molto simile
alla carta di credito. Tutto è cominciato con le
segreterie telefoniche, adesso siamo ai social network. Per un certo periodo è esistito persino “il
popolo dei fax”. Sintomo diffuso della comunicazione soft è il telefono verde che vari ministeri ed
enti hanno installato. La telefonata non costa nulla
— non è vero, ma è come se — e funziona come
sfogatoio tecnologico. A rispondere c’è una voce
umana creata dal computer con un piccolo ventaglio
di risposte standard.
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Ma di cosa si occupa la comunicazione soft che
lei teorizza?
G
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La comunicazione soft non si occupa di messaggi, non è il suo mandato; non conosce insulti ma
solo buone maniere. Deve avvolgere ogni rapporto
sociale, mantenere vivo il contatto fra le parti, coprire dei vuoti, accorciare le distanze fra il Palazzo
e la Gente, dare del tu al signor Enel e alla signora
Alitalia. Deve esibire gli ultimi ritrovarti della tecnica — computer, fax, Tv, cellulare — per fugare
ogni idea di rappresentatività, anzi per « rappresentare » il mondo politico in diretta (dalle sedute alla
Camera ai processi in video). Il potere classico,
anche nelle sue degenerazioni, funziona attraverso
messaggi; il potere moderno si abbandona volen-
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TV, PUBBLICITA
v E COMUNICAZIONE
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tieri ai messaggi. Impalpabili, immateriali, immediati.
Ma la comunicazione soffre di alcuni mali?
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Certo. I più decisivi sono la perdita dell’oggetto,
ovvero il costante trionfo dell’astratto sul concreto;
il ricatto del contenuto, il disprezzo della forma,
quell’attitudine che porta ad avere sommo disinteresse per il manufatto ed eccessiva valutazione della
sostanza, per quanto grezza e inerte.
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Eppure siamo un paese che ha fatto della parola
la sua principale arma di distinzione…
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Certo. L’Italiano chiacchiera. Su tutto. Il genere
più praticato nei palinsesti televisivi è il talk show.
Costa poco e si possono tessere tante storie con la
ciarla. Ma il genere più praticato nei palinsesti
televisivi è il talk show. Costa poco e si possono
tessere tante storie con la chiacchiera. Ma il talk
show è anche il paradigma più felice di un bisogno
antico e insieme modernissimo, il consumo informativo. Trasformare il mondo in tema di discorso,
costituisce un’operazione tanto facile quanto inesauribile. Basta creare l’“occasione” per parlare di
una qualsiasi cosa, e il gioco è fatto, l’informazione
è suscitata. I grandi maestri del talk show non si
preoccupano dunque di confezionare menù di argomenti (« oggi parliamo di... ») quanto piuttosto di
vagliare i casi umani che incarnano il tema (« c’è un
bel malato terminale disposto a venire in trasmissione e quindi parliamo di... »). Per discorsivizzare il
mondo lo strumento più idoneo è il calendario;
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PUBBLICITÀ: I VIZI CAPITALI
basta sfogliarlo e creare infinite possibilità di eventi
e di ricordi.
Ma questo non sempre può essere negativo?
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Il dramma che viviamo è quello della frustrazione espressiva. Siamo tutti risucchiati dalla penosa illusione di dire finalmente la nostra. Ogni
tanto qualche lettore del « Corriere » lamenta di
non sentire più fischiettare per strada le canzoni di
San Remo: dopo la finta scomparsa delle lucciole,
dobbiamo anche deplorare quella dei motivetti del
Festival? Tecnicamente il lettore ha ragione: difficile sorprendere un passante intento a canticchiare
le nuove proposte. Dove però il lettore sbaglia
profondamente è nella scelta dei testimonial; scrive
che il mutismo inizia dai garzoni dei fornai e dai
muratori « che si esibivano come tenori alla Scala ».
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Ma anche la pubblicità spesso ci presenta Italie
non sempre reali…
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Non vi è dubbio. I garzoni dei fornai in bicicletta, ad esempio, vengono sempre tirati in ballo
per deprecare San Remo. È probabile che ai tempi
di « Papaveri e papere » qualche ciclista si esibisse
alla maniera di Nilla Pizza ma l’ultimo garzone in
bicicletta intravisto dalla gente comune risale a
trent’anni fa; era Ninetto Davoli nel Carosello di un
cracker. A parte la diffusa motorizzazione e la
panificazione centralizzata, difficile che a fine febbraio i panettieri sciamino in bici per cantare.
Quanto ai muratori, in ossequio alle norme di sicurezza, sono diventati invisibili, avvolti da strutture
metalliche e tendoni. Ma, ammesso che esemplari di
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TV, PUBBLICITA
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edili canterini esistano ancora, intervengono altri
fattori tecnici che impediscono la propagazione
bocca a bocca di Sanremo: le radioline sempre
accese, l’ipod nelle orecchie, la produzione smisurata di canzoni, il rumore insopportabile.
Insomma, lei sostiene che l’Italia della pubblicità non esiste…
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Ogni volta che in una manifestazione vengono
scagliate uova contro qualcuno i giornali titolano con
ripetuta ossessione: « lancio di uova marce... ». Ma
dove sono le uova marce? Esiste uno spaccio segreto,
esistono spacciatori di tuorli putridi? Le uova marce
sono un’assoluta rarità, i moderni metodi di introspezione e conservazione le hanno quasi del tutto
eliminate. Esistevano un tempo, è vero, quando a fine
estate, dopo che una mano le aveva fatte ruotare in
controluce davanti a una candela, venivano stipate in
grandi vasche d’acqua ricoperte di calce. Quelle che
venivano a galla erano indiscutibilmente marce e se
le lanciavi ottenevi bombe puzzolenti. Eppure i giornalisti, i lettori, noi tutti siamo profondamente legati
a figure linguistiche desuete, anche per raccontare
una realtà in continuo movimento: ancora l’ago nel
pagliaio (chi ha più visto un pagliaio?), il carro davanti ai buoi, la zappa sui piedi e, naturalmente, il
tirar l’acqua al proprio mulino (bianco) o il far di ogni
erba un fascio.
Par di capire che un altro vizio della nostra comunicazione sia l’assenza di idee e contenuti. È cosı̀?
Ci sono certi programmi televisivi di successo che
sono il nulla, un abisso colmato in genere da una pre-
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PUBBLICITÀ: I VIZI CAPITALI
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sentatrice che non sa presentare, da comici che non
sanno far ridere, da comparse che non sanno comparire. Eppure, queste scatole vuote, a volte riescono
a essere la più perfetta metafora dell’Italia. Più sincere e lucide di un rapporto Censis. La Tv è la nostra
nuova patria, dove regnano indistinzione e indulgenza. Terra gelatinosa, contaminata dall’anomalia,
confinata nell’orizzonte dei suoi piccoli desideri, immersa nell’ipnosi del divertimento. Solo in Tv succede che il governo faccia acqua con i naufraghi albanesi, che un signore proprietario di sette ville in
Sardegna non trovi ospitalità per otto profughi adottati in diretta con le lacrime agli occhi, che una setta
di fanatici adori il dio Po, che i conflitti di interesse
siano norma, che 8000 bambini ogni giorno chiamino
il Telefono azzurro, che il racket si sostituisca alla
legge, che Gigi Marzullo diventi un problema, che la
Rai faccia pubblicità occulta, che Celentano denunci
la Rai, che la riforma del sistema televisivo sia diventata una trattativa privata, che le strade si trasformino in autodromi.
Come salvarci da tutto questo?
Mi creda, solo grazie alla ripetizione. Quando
avvertiamo quella sensazione bislacca nel constatare che una parola, ripetuta all’infinito, in modo
automatico, perde ogni legame con il suo significato,
ebbene, in quel preciso momento, palesiamo la debolezza originaria di ogni comunicazione.
Ma questo vale anche per la tv?
Certo, anzi più di tutto per la tv. È una macchina
grandiosa, intemerata e potente ma che in realtà è
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TV, PUBBLICITA
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scossa dal terrore del diverso, del sorprendente,
dell’insolito; la sua sobria e pacata legge è l’abitudine. E sull’abitudine, che si invera solo nella ripetizione, ha fondato il suo impero. Nulla infatti rende
più felice lo spettatore dell’« ancora una volta ». Per
questo non dobbiamo stupirci se un programma
incontra il favore del pubblico all’ennesima replica.
Ogni esperienza televisiva desidera insaziabilmente
la ripetizione e il ritorno, il ripristino di una situazione originaria da cui ha preso le mosse. Con
questo procedimento psicologico, lo spettatore riesce sia a superare la paura del nuovo sia a gustare
nel modo più intenso il già visto attraverso i precorsi
laterali dello smussamento, della parodia, della memoria collettiva.
Ripetizione che passa dal genere al contenuto?
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Certo, la ripetizione di un programma non si
riduce solo nell’esperienza claustrofobica e maniacale dell’« ancora una volta » ma si presenta anche
come la trasformazione della creatività inserita nel
processo produttivo, dove sovente la ripetizione
sprigiona la sua imprevista novità, in una rassicurazione familiare. C’è anche un motivo linguistico che
agisce con perentorietà: uno dei principi che regolano lo stato attuale della comunicazioni è la ripetizione, che è un bisogno puerile (come abbiamo
visto) e insieme un sistema di lettura, un rito e un
ritmo. Altrimenti, senza ripetizione, ci muoviamo
alla sbando, veniamo travolti dall’enorme consumo
di immagini e di scrittura. Del resto, tutta la vita
somiglia a una lunga replica, dove l’innovazione sta
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PUBBLICITÀ: I VIZI CAPITALI
nella ripetizione: come le onde del mare, le une e le
altre dandosi reciprocamente senso e forma.
La ripetizione da sicurezza a grande limite?
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La ripetizione ci tutela, fin che può, da una
nuova forma di inquinamento: l’eccesso di informazioni. Quando siamo troppo informati su una cosa,
è come se non lo fossimo. Non abbiamo più gerarchie, sfuggono i punti di vista, ogni dato equivale a
un altro. In linguistica si chiama « effetto rumore »:
succede quando il troppo stroppia, quando sei sommerso da una valanga di informazioni e il messaggio
fatica a farsi strada, come fosse bloccato da un
gigantesco ingorgo. I massmediologi parlano di
smog: l’eccesso di informazione diventa qualcosa di
irrespirabile. Si produce informazione più di quanto
la si possa elaborare, trattare criticamente: troppi
Tg, troppi comunicati pubblicitari, troppe notizie.
Un cittadino iperinformato non necessariamente è
un cittadino ben informato, dice Bill Gates, il fondatore di Microsoft, forse uno dei principali inquinatori del mondo.
E sulla pubblicità…
In questi anni, la pubblicità ha accompagnato il
rapidissimo passaggio della società, specie quella
italiana, da uno stato di arretratezza culturale ed
economica all’attuale stadio di benessere diffuso e
scolarizzazione elevata, attraverso una serie di passaggi successivi. Di questo cambiamento la pubblicità è stata lo specchio, magari un po’ deformante;
ma ha anche svolto una indubbia funzione di prefigurazione, anticipazione, legittimazione di modelli
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TV, PUBBLICITA
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che, per la loro accessibilità, frequenza, piacevolezza, hanno finito con l’assumere lo statuto dell’ovvietà, della naturalezza, al di là del bene e del male.
Forse la pubblicità in alcuni casi eccede. Cosa ne
pensa?
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Ogni comunicatore conosce una regola fondamentale: l’informazione recata da un messaggio diminuisce via via che ne aumenta la probabilità. Per
questo sia il linguaggio creativo che la pubblicità
hanno come compito statutario quello di stupire. In
continuazione. La quotidianità—- soprattutto oggi
che in Occidente viviamo in una condizione di eccedenza di offerta — rende opaco ogni messaggio,
confonde ogni proposta. Perciò ogni nuova forma di
pubblicità consiste non nel rappresentare cose
nuove, bensı̀ nel rappresentarle con novità. La percezione è tutto, la cosa (i contenuti, gli argomenti, i
temi) niente.
E per il futuro cosa aspettarsi?
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Ciò che importerà, in buona parte della pubblicità a venire, non saranno promesse né benefici né
confronti, non saranno descrizioni di qualità oggettive né informazioni merceologiche. La pubblicità
ribatte e ribatterà sempre più solo instancabilmente
la costruzione di un mondo virtuale dove le forme
risultano più importanti dei contenuti, dove gli stili
di vita prevalgono sulle tradizionali distinzioni sociologiche (sesso, istruzione, censo...) e dove, infine,
nella definizione di risorse cognitive e passionali in
grado di essere utilizzate dagli individui e dai
gruppi, si ricorrerà alla spot come a un laboratorio.
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3.
SUPERBIA
di ANTONIO CATRICALAv
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1. Elogio della superbia.
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SOMMARIO: 1. Elogio della superbia. — 2. Superbo versus consumatore. — 3. Il vizio della finta umiltà. — 4. La superbia del monopolista. — 5. I superbi del cartello. — 6. La speranza di Einaudi.
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“Il punto è che la superbia di ciascuno è in
competizione con quella di tutti…. Ciò che occorre
avere ben chiaro è appunto che la superbia è
essenzialmente competitiva — è competitiva per
sua natura — mentre gli altri vizi lo sono, per cosı̀
dire, solo accidentalmente. La superbia non trae
soddisfazione dall’avere qualcosa, ma solo dall’averne più del prossimo… È il confronto che
rende superbi: il piacere di essere superiori agli
altri. Se svanisce l’elemento competizione, svanisce
anche la superbia. Ecco perché dico che la superbia, a differenza degli altri vizi, è essenzialmente
competitiva”.
Clive Staples Lewis, noto ai più per essere l’autore di “Le cronache di Narnia” descriveva cosı̀ ne
‘Il Cristianesimo cosı̀ com’è” la superbia. E se questa fosse davvero l’unica accezione possibile della
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superbia, eccomi qui prontissimo a tesserne, laicamente, le lodi.
Prendiamo per buona l’equazione di Lewis “superbia = competizione”, senza altre aggiunte: come
presidente dell’Antitrust non potrei che desiderare
un mondo di peccatori, di corrotti dal primo vizio
capitale, mossi dalla voglia di primeggiare. Pensiamo all’imprenditore di Schumpeter: è un innovatore, motore della “distruzione creativa”, colui che
ricombina gli elementi, tecnologici, umani e organizzativi, per creare qualcosa di diverso da ciò che
c’era prima. È un creatore, è portatore di “una fonte
di energia che di per se stessa disturberebbe qualsiasi equilibrio che potesse essere raggiunto”. Difficile immaginarlo pieno di umiltà…
Tuttavia, giacché non vorrei finire subito in Purgatorio, in compagnia di Oderisi da Gubbio, Omberto Aldobrandeschi e Provenzano Salvani, per
aver contestato la perniciosità del peggiore dei sette
peccati capitali, voglio declinarlo in un modo che
considero più appropriato: la competizione diventa
superbia quando la si vuole svolgere al di fuori dalle
regole. Ecco che cosı̀ descritta l’equazione, benché
più complessa, mi pare più correttamente impostata. Soprattutto risulta suffragata dai fatti quotidiani, dall’analisi economica e dai dossier inviati
ogni giorno all’indirizzo dell’Antitrust.
2. Superbo versus consumatore.
Spicca, tra i dossier che arrivano a Piazza Verdi,
la mole di denunce che proviene dalle associazioni
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dei consumatori e dai singoli cittadini. Sono denunce che raccontano di piccoli soprusi quotidiani,
di disservizi che metterebbero a dura prova la pazienza di Giobbe e mostrano una partecipazione
convinta all’idea che contro le prepotenze si possa
chiedere aiuto alle Istituzioni. Nel 2008 sono giunte
circa tremila denunce scritte, con un incremento
pari al 75% rispetto all’anno precedente. I dati
diventano più significativi se si prende in considerazione l’attività del call center, istituito presso
l’Autorità nel 2007, che ha registrato quindicimila
segnalazioni, la maggior parte delle quali riguarda il
settore delle telecomunicazioni.
La forza dei numeri e quella di una legge finalmente più attenta ha fatto sı̀ che l’intervento a
tutela del consumatore sia diventato una priorità
dell’Istituzione.
Per l’Antitrust il mercato deve presentarsi come
una casa di vetro: la trasparenza ispira fiducia e garantisce la libertà di scelta dei singoli. È questa la
regola principe che, se osservata, può essere la via di
conversione dell’imprenditore superbo: da soggetto
convinto di potere spadroneggiare sul mercato, contando sull’impunità, si trasformerà in un professionista fiero della sua attività e della qualità del prodotto che offre. Se accetterà il confronto con le altre
aziende comportandosi lealmente con i consumatori,
ecco che la superbia si trasformerà da vizio capitale
in virtù. La trasparenza impedisce infatti l’inganno,
rispetta i diritti di chi non può avere lo stesso bagaglio
di conoscenze, tecniche e giuridiche, dell’azienda.
Il diritto dei consumatori apre nuove frontiere
di garanzia per i cittadini. Sono frontiere da esplo-
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rare, che la stessa giurisprudenza valica con timidezza, restia ad abbandonare l’idea della parità
contrattuale, cardine del nostro codice civile. Per la
prima volta nel 2005 si afferma invece in Italia, con
il Codice del consumo, un concreto principio di
origine comunitaria, già vigente in altri Paesi: le
tutele riservate alle parti contrattuali devono favorire il consumatore. Non solo una tutela formale, già
prevista appunto nel Codice civile, ma sostanziale:
l’impresa, il negoziante, il professionista, i fornitori
di servizi dimostrano diligenza e correttezza se instaurano con il consumatore un rapporto privo di
vessazioni e rispettoso delle attese della parte più
debole e meno informata sui possibili rischi, i costi
e le indeterminatezze di un’offerta contrattuale.
Proprio queste clausole generali di correttezza,
diligenza e lealtà hanno rappresentato la stella polare
che ha seguito l’Autorità al momento di decidere se
un determinato comportamento violava la legge e
andava dunque sanzionato. Solo per le scorrettezze
commerciali l’importo complessivo delle sanzioni pecuniarie comminate dall’Autorità nel corso del 2008
e nei primi mesi del 2009 ha registrato una decisa
crescita rispetto al periodo precedente, superando i
cinquantadue milioni di euro.
Affinché la superbia dell’imprenditore che agisce in spregio delle regole possa essere trasformata
in virtù, non bastano tuttavia penitenze, trasformate
dall’Autorità in multe milionarie. Occorre che i
nuovi principi di tutela si fondino sulle basi di una
solida democrazia economica, radicandosi nella cultura di cittadini e imprese, e siano recepiti da una
giurisprudenza costante e omogenea.
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La crisi economica che ha percorso il 2008 e il
2009 ha svelato tutta la peccaminosità della superbia vizio capitale: ancor più che nel passato, gli
imprenditori scorretti hanno approfittato del bisogno altrui. False offerte di lavoro, promozioni di
prodotti civetta, finte vendite sottocosto, promesse
di vincita alle lotterie, proposte reticenti che alimentano il miraggio di un facile credito al consumo
hanno mostrato un aumento omogeneo in Europa e
negli Usa.
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3. Il vizio della finta umiltà.
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La virtù che si oppone alla superbia è l’umiltà, il
sapere di non essere grandi come altri potrebbero
pensare. A volerla declinare cosı̀ l’Italia sembrerebbe piena di imprenditori virtuosi, talmente umili
da non considerarsi all’altezza del confronto con i
concorrenti, veri o potenziali. Questa forma di vizio
capitale è molto diffusa tra le nostre aziende per le
quali la pubblicità comparativa, potente strumento
per alimentare la concorrenza, al quale l’imprenditore schumpteriano avrebbe di certo fatto ricorso
intensamente, è un oggetto sconosciuto. Vietata
fino a una decina di anni fa, ai nostri imprenditori la
pubblicità comparativa indubbiamente non piace.
Qualche cifra; dal 2005 al 2008 su 767 condanne
dell’Autorità per pubblicità ingannevole o pratica
commerciale scorretta solo 21 hanno riguardato
pubblicità comparative. Tanta virtù è tuttavia solo
apparente giacché nasconde una superbia, questa sı̀
davvero dannosa, nei confronti dei consumatori,
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sudditi e vittime delle aziende tanto rispettose del
proprio concorrente. Le stesse imprese che non
vogliono affrontare il mare sconosciuto della pubblicità comparativa amano infatti proporre con finte
promesse, frasi roboanti e filmati accattivanti i propri prodotti. Per ammaliare il consumatore sono
pronte a spendere un fiume di quattrini, mettendo
in conto anche la sanzione che l’Autorità, inevitabilmente, comminerà. Sono i superbi allo stato
puro, convinti di potere essere comunque credibili,
pronti a sfruttare le scarse conoscenze dei consumatori, ad approfittare della loro debolezza psicologica
quando si tratta di bambini e adolescenti. Numeri
del lotto sicuramente vincenti, prodotti dimagranti
miracolosi che sciolgono il grasso in una notte,
malattie gravissime curate con amuleti ma anche
tariffe basse garantite per l’eternità: la casistica
delle pubblicità ingannevoli è sconfinata, nonostante il legislatore abbia nel tempo inasprito le
sanzioni, prima limitate alla semplice dichiarazione
di ingannevolezza da parte dell’Autorità.
Quando poi un imprenditore “coraggioso” decide di avventurarsi nella pubblicità comparativa
può capitare che la superbia raddoppi: peccherà
non perché convinto che il suo prodotto sia effettivamente migliore ma perché denigrerà il prodotto
altrui, lo ridicolizzerà, metterà in risalto doti della
sua offerta che non fanno la differenza. E ancora
una volta danneggerà il consumatore, carpendo la
sua fiducia con informazioni inesatte o addirittura
false, orientandolo in una scelta che danneggia direttamente il concorrente. Nella casistica ristretta
che l’Autorità ha esaminato spiccano confronti
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smaccatamente “truffaldini”, come la comparazione
tra diverse tariffe dell’energia elettrica nella quale
le tariffe dei concorrenti comprendevano anche i
cosiddetti oneri di sistema, risultando inevitabilmente più alte: un po’ come fare un confronto tra
stipendi al lordo o al netto delle tasse!
C’è poi chi non si fa scrupoli e getta discredito
sul concorrente senza troppi giri di parole: non solo
si vanta di imbottigliare l’acqua più pura ma rincara
la dose e insinua nel consumatore il dubbio che il
concorrente abbia gli stabilimenti adiacenti a campi
coltivati “certamente con gli anticrittogamici”. Per
finire con il ritratto di dipendenti fedelissimi che
girano con l’acqua aziendale pur di non bere quella
delle altre aziende, contaminata dai nitrati. C’è
l’azienda di intermediazione pronta a fornire in
modo apodittico dati di mercato che indicano un
crollo verticale della posizione del concorrente. Il
quale, tuttavia, resta comunque il leader di mercato.
Fortunatamente non sempre è cosı̀: lentamente,
timidamente, anche da noi la pubblicità comparativa corretta inizia a farsi strada. Per ora c’è un
piccolo drappello di innovatori che, siamo convinti,
contagerà positivamente il mercato. Finalmente un
virus buono, da inoculare nei meccanismi della
competizione a beneficio di tutti.
4. La superbia del monopolista.
Ogni giudice, a seconda del contesto in cui
svolge il suo lavoro, ha i suoi “clienti” affezionati.
L’Antitrust ha particolare attenzione, a dire il vero
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molto poco benevola, per i monopolisti. Tra questi
soggetti il peccato della superbia si insinua come un
veleno che dà una dipendenza euforizzante, come
una droga dal potere inebriante che fa sentire invincibibili. Difficile liberarsene e non c’è sanzione,
economica e reputazionale, che possa indurli a ravvedersi. Non che manchino casi di redenzione, tuttavia la tentazione è sempre lı̀, a portata di mano.
Assume sembianze mutevoli, adattandosi al mercato in cui il nostro poco eroico monopolista opera.
Cosı̀ una volta indossa le vesti di un prezzo iniquo
da far pagare ai consumatori, un’altra un ostacolo
da porre di traverso sulla strada del potenziale
concorrente.
Quando cade in tentazione il monopolista pecca
di superbia: dimentica che è più forte solo perché è
entrato per primo in un mercato dove ad altri non è
stato concesso entrare, identifica la sua forza con un
primato naturale inattaccabile, ritiene di essere talmente furbo da poterne approfittare. Ma poiché ci
sarà pure un giudice a Berlino, spesso non riesce a
farla franca. Per lui e per delimitare meglio il suo
operato, dottrina e giurisprudenza hanno anche
previsto una “speciale responsabilità” che incide
direttamente sul primo imperativo, valido per ogni
imprenditore, che è quello di fare profitti. Cosı̀ se a
un’impresa che opera in piena concorrenza non si
può chiedere di fare gratuitamente spazio ad altri,
da un monopolista si può pretendere che conceda le
sue strutture ai nuovi entranti a condizioni agevoli e
comunque identiche a quelle che pratica a se stesso.
Se questo principio viene violato il monopolista
abusa della sua posizione e rischia la sanzione.
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Basta scorrere i nostri archivi per trovare molti
esempi di superbia “escludente”: la tentazione del
monopolista è fortissima quando è l’unico a detenere una infrastruttura essenziale per permettere
agli altri di competere. L’elenco degli illeciti va dal
rifiuto di accesso all’infrastruttura o all’imposizione
di prezzi, per l’accesso medesimo, talmente onerosi
da rendere impossibile la concorrenza, agli ostacoli
frapposti per creare difficoltà impossibili da sormontare. Aeroporti, gas, elettricità, trasporto ferroviario e autostradale sono i settori, per “natura”, più
esposti all’abuso.
La superbia del monopolista viene sanzionata
duramente dall’Antitrust perché un danno causato
alla concorrenza è un danno all’intera collettività.
Tuttavia, quando ci sono le condizioni, l’Autorità
chiude le istruttorie accettando gli impegni della
parte “incriminata”. Se utilizzata al meglio, come
credo sia stato fatto dal Collegio da me presieduto,
questa procedura rappresenta la quadratura del cerchio: l’azienda sotto procedimento evita non solo la
sanzione ma anche l’accertamento dell’infrazione,
azzerando le conseguenze negative di immagine e
limitando in modo consistente il rischio di risarcimento danni in sede civile. I benefici maggiori sono
tuttavia per il mercato: gli impegni accettati hanno
lo scopo di facilitare l’ingresso dei concorrenti, di
cedere loro capacità produttiva, di ridurre i prezzi
per i consumatori. Senza la politica degli impegni, a
esempio, difficilmente nel nostro mercato sarebbero
entrati gli operatori virtuali, le Poste avrebbero
progressivamente eroso tutti gli spazi destinati ai
concorrenti con la liberalizzazione, Autostrade
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PUBBLICITÀ: I VIZI CAPITALI
avrebbe continuato a non rimborsare ai viaggiatori
le carte non utilizzate per il pagamento del pedaggio, i brevetti utilizzabili per la produzione di farmaci generici sarebbero rimasti nelle mani dell’azienda che ne era originariamente proprietaria.
5. I superbi del cartello.
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C’è un’altra forma di superbia che potrebbe
essere scambiata per umiltà. Tante “umili” imprese
si accontentano di quanto conquistato sul mercato,
si dichiarano amorevolmente e vicendevolmente la
pace, mettendosi al riparo dalla “distruzione creatrice”. Nessuna di loro ha voglia di rischiare, di
innovare, di mettere in discussione la sua quota,
garantita, di clienti e di profitti. Le imprese si dividono la torta, fissano i prezzi di ciascuna porzione,
convinte che nessuno possa scoprirle.
Questa forma del vizio capitale porta alla formazione dei cartelli, essenza stessa della voglia di
non competere. I cartelli sono di per se stessi segreti. All’Antitrust, che li considera il male estremo,
a volte i giudici amministrativi chiedono “prove
diaboliche”, come appunti di riunioni carbonare
vergati direttamente da presidenti e amministratori
delegati. Per immaginare che manager superpagati
lascino tracce come Pollicino nella foresta ci vuole,
a dire il vero, molta fantasia. Tuttavia a volte accade. E anche quando le tracce sono meno evidenti
l’Antitrust non demorde, consapevole che la giurisprudenza può cambiare. Dunque tenta e ritenta,
con caparbietà, perché dietro quella finta umiltà del
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non rischiare, dell’accontentarsi, c’è il prezzo pagato dal consumatore, stimato dagli economisti superiore del 25-30% di quanto sborserebbe in una
situazione di concorrenza.
Qualcuno, strada facendo, anche se non ha ancora lasciato sul percorso tracce evidenti, finalmente si pente. Si presenta negli uffici dell’Antitrust
e racconta. Racconta delle riunioni segrete, degli
scambi di e-mail, delle telefonate in codice. A quel
punto per l’Antitrust si apre un’autostrada: il pentito si garantisce l’immunità, i complici vengono
stangati. Il pentitismo (o meglio la leniency, per
dirla con il linguaggio dell’Unione Europea) ha
avuto un decollo lento. Ma anche in questo caso
non possiamo che essere caparbiamente convinti
della necessità di incentivare i “collaboratori di
concorrenza”. Stiamo raccogliendo i primi frutti
perché anche aziende molto importanti mostrano di
temere l’azione dell’Autorità e si presentano nei
nostri uffici per raccontare.
A volte i cartelli sono particolarmente odiosi,
perché colpiscono beni di prima necessità. Spaziano
dai prodotti ai servizi, corrodono le regole di mercato senza soluzione di continuità. Dal cemento che
utilizziamo per costruire, alle medicine, ai prodotti
alimentari, fino ai dispositivi medicali che devono
essere utilizzati da malati che ogni giorno lottano
per conquistare un mese di vita in più. Ecco la
superbia vestita da umiltà: le imprese sperano di
farla franca, si arrogano il diritto di decretare qual è
il giusto equilibrio di mercato, suggellano la non
belligeranza con le monete dei consumatori.
Qualche caso chiuso sotto la mia presidenza è
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emblematico della superbia che rasenta il delirio di
invincibilità, che non teme danni di immagine anche
quando gli affari si fanno sulla pelle di chi sta male.
L’Antitrust ha condannato quattro aziende che, per
garantirsi ciascuna la propria quota di mercato e il
livello di prezzi praticato, avevano mandato sistematicamente deserta la gara indetta da una virtuosa
azienda sanitaria per ridurre i costi e garantire la
qualità dei dispositivi di stomia. Facevano cartello,
per intenderci, sulle attrezzature destinate a chi ha
subito interventi all’apparato urinario e digerente
ed è destinato, nel migliore dei casi, a una vita
quotidiana irta di difficoltà.
Altre nove imprese avevano invece stabilito
prezzi target e clientela attuale e potenziale, calcolando le quote con rigidi criteri proporzionali, nel
settore dei disinfettanti e antisettici degli ospedali.
Anche nel settore dei farmaci abbiamo scovato
intese destinate ad affossare quel poco di liberalizzazione avviata dal legislatore: i grossisti (guarda
caso di proprietà di gruppi di farmacisti titolari di
farmacie) si rifiutavano in Abruzzo, Puglia e Basilicata di rifornire le parafarmacie, cercando di metterle fuori gioco molto prima che il gioco potesse
farsi duro.
A volte sono gli ordini professionali a farsi
promotori di intese restrittive: obbligano gli iscritti
a rispettare tabelle dettagliate degli sconti massimi
praticabili, aprono procedimenti a carico di chi vorrebbe misurarsi con il mercato senza i vincoli di
tariffe minime o restrizioni al ricorso alla pubblicità.
Anche per l’intesa, sia pur molto più raramente
che per gli abusi, l’Antitrust ricorre allo strumento
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6. La speranza di Einaudi.
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degli impegni. Lo ha fatto, ad esempio, nei confronti dell’Ordine dei Veterinari di Torino, pronto a
radiare dall’albo una collega colpevole di avere
istituito la “cassa mutua” per mici e cani. Quel
procedimento si è chiuso con impegni che fanno
onore alla categoria, diventata apripista della liberalizzazione delle professioni: le tariffe minime sono
state abolite del tutto, la pubblicità è stata liberalizzata ancora prima che intervenisse il legislatore e il
procedimento a carico della veterinaria ribelle è
stato ritirato.
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La battaglia che l’Antitrust conduce tutti i giorni
è complicata ma fondamentale per un Paese più
moderno. Ecco perché vorrei tornare, citando Einaudi, all’elogio della superbia. Scriveva Einaudi
nelle sue “Prediche Inutili”: gli onorari liberamente
pattuiti e pagati in compenso di un servizio reso dal
professionista, i guadagni incerti degli artigiani e dei
commercianti, ed i profitti aleatori degli imprenditori debbono continuare ad esistere, se il sistema
economico voglia sentirsi elastico, atto a subire
l’urto delle variazioni continue della tecnica, delle
invenzioni industriali, se si vuole che la società
umana muti e cresca. Il profitto è il prezzo che si
deve pagare perché il pensiero possa liberamente
avanzare alla conquista della verità, perché gli innovatori mettano alla prova le loro scoperte, perché
gli uomini intraprendenti possano continuamente
recuperare la frontiera del noto, del già sperimen-
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tato, e muovere verso l’ignoto, verso il mondo ancora aperto all’avanzamento materiale e morale
dell’umanità”.
Non c’è l’uomo umile in questa frase di Luigi
Einaudi, che certo non avrebbe mai condiviso la
scelta di Dante di mettere Oderisi da Gubbio, innovatore nell’arte della miniatura, in Purgatorio.
C’è, invece, l’uomo pronto alle sfide, proiettato
verso una crescita che ha come fine e mezzo la
morale. Ecco tornare alle regole dunque, all’esigenza di controllori ferrei e efficienti, che sappiano
accompagnare il mercato senza soffocarlo e, tuttavia, senza consentire abusi, furbizie, prepotenze. È
ancora Einaudi a ricordarcelo, nel primo capitolo
delle “Lezioni di politica sociale”: “Tutti coloro i
quali vanno alla fiera, sanno che questa non potrebbe aver luogo se, oltre ai banchi dei venditori i
quali vantano a gran voce la bontà della loro merce,
ed oltre la folla dei compratori che ammira la bella
voce, ma prima vuole prendere in mano le scarpe
per vedere se sono di cuoio o di cartone, non ci
fosse qualcos’altro: il cappello a due punte della
coppia dei carabinieri che si vede passare sulla
piazza, la divisa della guardia municipale che fa
tacere due che si sono presi a male parole, il palazzo
del municipio, col segretario ed il sindaco, la pretura
e la conciliatura, il notaio che redige i contratti,
l’avvocato a cui si ricorre quando si crede di essere
imbrogliati in un contratto, il parroco, il quale ricorda i doveri del buon cristiano, doveri che non
bisogna dimenticare nemmeno alla fiera. E ci sono
le piazze e le strade, le une dure e le altre fangose
che conducono dai casolari della campagna al cen-
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tro, ci sono le scuole dove i ragazzi vanno a studiare.
E tante altre cose ci sono, che, se non ci fossero,
anche quella fiera non si potrebbe tenere o sarebbe
tutta diversa da quel che effettivamente è”.
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4.
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di GIORGIO FLORIDIA
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SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. I sistemi di controllo. — 3. Invidia e
agganciamento. — 4. Invidia e denigrazione commerciale. — 5.
L’invidia è il tallone di Achille del consumatore.
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1. Premessa.
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Per puro caso mi è stato assegnato il vizio capitale della invidia che — come è noto — è opposto a
quello della superbia, assegnato al Presidente Catricalà. Ed invero, mentre la superbia consiste in
una eccessiva considerazione di sé, l’invidia è caratterizzata da una bassa autostima e da una concezione esagerata degli ostacoli e delle difficoltà che
sono da superare. Spesso il soggetto invidioso possiede anche delle buone qualità che possono essere
riconosciute ma non le considera sufficienti e si
ritiene un incapace (da Wikipedia, l’enciclopedia
libera).
Dovendo coniugare i sette vizi capitali con la
fenomenologia giuridica e sociale della pubblicità,
viene la tentazione, in apertura del discorso, di
compiere una valutazione non solo con riferimento
alle motivazioni psicologiche dei comportamenti
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PUBBLICITÀ: I VIZI CAPITALI
pubblicitari ed alle motivazioni di acquisto sulle
quali fa leva la pubblicità, ma, prima ancora, con
riferimento ai sistemi di controllo che, nel nostro
ordinamento sono stati istituiti ed operano per mantenere la pubblicità in un ambito “virtuoso” e parallelamente per impedire che la pubblicità stessa
percorra vie caratterizzate dai sette vizi capitali.
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2. I sistemi di controllo.
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Riguardata la questione da questo angolo visuale, e cioè da quello della comparazione fra i
sistemi di controllo, celiando viene da chiedersi se il
sistema presieduto da Antonio Catricalà non sia
affetto da una certa qual superbia in contrapposizione al sistema di Autodisciplina Pubblicitaria da
me presieduto che — a prima vista — potrebbe
sembrare affetto da invidia.
Sennonché la superbia dell’Autorità Garante
della Concorrenza e del Mercato non ha nulla a che
vedere con il vizio capitale perché, mentre questo si
manifesta con comportamenti aberranti posti normalmente in essere al di fuori delle regole giuridiche
e sociali che garantiscono una accettabile qualità
della convivenza civile, la superbia dell’Autorità Garante è — tutt’affatto al contrario — piena autocoscienza delle regole suddette ed orgogliosa rivendicazione della capacità di farle rispettare. L’Autorità
Garante giustamente si gloria della sua capacità di
trasformare la superbia degli imprenditori e la loro
tendenza alla prevaricazione in una sana competizione economica a vantaggio di tutta la collettività.
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INVIDIA
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Anche l’Autodisciplina possiede una siffatta superbia? O piuttosto è afflitta dalla invidia alimentata dalla frustrazione di non potere conseguire gli
stessi obiettivi dell’Autorità Garante? Cosı̀ sarebbe
se l’Autodisciplina fosse invidiosa delle caratteristiche positive che caratterizzano il funzionamento
dell’Autorità Garante e dei poteri certamente
molto più incisivi che essa esercita nell’ordinamento
dello Stato.
Se la superbia e l’invidia fossero, in termini
psicologici e della morale cattolica dalla quale i vizi
capitali traggono origine, il “proprium” della contrapposizione fra il controllo del Garante ed il controllo autodisciplinare, il rischio sarebbe che il
primo dei due si involga in una spirale di prepotenza
e di prevaricazione mentre il secondo sprofondi
nella peggiore prostrazione. Potrebbe allora accadere che nell’Autodisciplina maturino atteggiamenti aggressivi nel tentativo di sminuire il soggetto
invidiato del quale si mettano in evidenza le mancanze ed i difetti proprio per dissimulare la propria
inferiorità.
La storia dell’Autodisciplina Pubblicitaria impedisce però totalmente di configurare il suo rapporto
con l’Autorità Garante come governato dall’invidia,
proprio perché all’autocoscienza della importanza
dei compiti che l’Autorità Garante è chiamata a
svolgere, si contrappone una altrettanto autogratificante coscienza dei compiti che l’Autodisciplina è
chiamata a svolgere in un contesto completamente
diverso ma che rispecchia nel modo migliore la
propria prossimità ed immediata derivazione dagli
ambienti professionali che, dandosi le regole nella
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materia della pubblicità, le interiorizzano per osservarle convintamente anziché subirle per osservarle
coattivamente.
Se dunque l’Autorità Garante potesse essere
superba nello svolgimento del proprio compito,
l’Autodisciplina non potrebbe essere invidiosa perché certamente non vuole ciò che caratterizza la
funzione dell’Autorità Garante, e cioè non vuole
concorrere con il Garante nell’esercizio di un potere
coercitivo estraneo ed ostile ai soggetti destinatari
delle regole che vengono fatte osservare. In altri
termini — e per concludere — l’autostima della
Autodisciplina si basa essenzialmente sul fatto di
riconoscersi come una istituzione voluta e ben voluta da chi l’ha creata e da chi ne garantisce il
funzionamento e, poiché una siffatta matrice della
propria autostima non ha e non può avere equivalenti nella struttura dell’Autorità Garante, non c’è
spazio per il sentimento negativo dell’invidia che si
prova soltanto nei confronti di chi ha qualche cosa
che non si possiede e non nei confronti di chi ha
qualche cosa che non si vuole possedere.
3. Invidia e agganciamento.
Nella morale cattolica i vizi capitali sono rilevanti non soltanto quando si traducono in comportamenti materiali ma anche quando condizionano il
foro interno delle coscienze. Non c’è alcun dubbio
che anche l’invidia è all’origine di comportamenti
pubblicitari che i sistemi di controllo reprimono e,
se è vero che la repressione non può prescindere
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dalla considerazione del comportamento, è anche
vero che non prescinde totalmente neppure dalla
matrice psicologica del comportamento, di guisa
che, in una certa misura, la regola di condotta viene
a formarsi contemporaneamente sulla motivazione
intima e sulla sua realizzazione esteriore.
L’invidia si caratterizza specificamente come il
desiderio di possedere ciò che gli altri possiedono,
ed è del tutto evidente che un desiderio siffatto è
quello che alimenta la dinamica concorrenziale. In
ciascun ambito economico produttivo e commerciale ciascun operatore arde dal desiderio di possedere ciò che possiede ciascun concorrente con il
quale specificatamente si misura. L’invidia si manifesta quando, a causa della disistima verso se stessi
oppure di una valutazione esagerata degli ostacoli e
delle difficoltà che si frappongono al “raggiungimento” del concorrente più accreditato — generalmente il market-leader — l’imprenditore invidioso
assume un atteggiamento ed un comportamento
ben preciso e riconoscibile che è quello di chi dice:
“io non sono lui ma sono come lui”. Il Giurı̀, applicando l’art. 13 del Codice coglie, oltre a molti altri
profili, quello più direttamente riconducibile all’invidia. La valorizzazione è il presupposto ineludibile
dell’invidia ed al contempo del sentimento della
propria inadeguatezza, tanto che si preferisce stabilire una equiparazione che comunque non corrisponde alla realtà. L’invidia del concorrente sleale
quasi sempre si riferisce alla notorietà dell’altro ed
è perciò che il Giurı̀ richiede che tra lo sfruttato e lo
sfruttatore sussista un divario di notorietà, nel senso
che il secondo muova da una posizione di notorietà
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nulla o marcatamente inferiore rispetto a quella del
primo.
Le pronunce del Giurı̀ che stigmatizzano il c.d.
“agganciamento” sono, anche in fatto, una interessante rassegna di situazioni nelle quali l’aggressività
concorrenziale non si manifesta con lo sforzo di
eguagliare gli obiettivi raggiunti dal concorrente
bensı̀ di appropriarsene ipotizzando un rapporto di
equiparazione che è comunque mendace. Poiché
l’invidiato è colpevole di evidenziare ciò che l’invidioso non ha, quest’ultimo si ritiene legittimato a
colmare il gap non già rimontando il dislivello (che
nella dinamica concorrenziale è — come si è detto
— normalmente un divario di notorietà) ma negando il dislivello medesimo cosı̀ da porsi sullo
stesso piano agli occhi del pubblico e della collettività.
4. Invidia e denigrazione commerciale.
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Com’è noto l’invidia può provocare uno stato di
profonda prostrazione e questa, anche nel campo
della competizione economica, si traduce spesso in
comportamenti estremamente aggressivi volti a
screditare l’oggetto del desiderio insoddisfatto e
talvolta persino a deriderlo onde sottrarsi ad un
confronto sfavorevole. La casistica della giurisprudenza autodisciplinare in materia di denigrazione,
in applicazione dell’art. 14 del Codice, è sterminata.
Nel campo della denigrazione commerciale l’invidia
assume rilevanza quando l’invidioso è ben consapevole che le supposte manchevolezze in realtà non
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sussistono perché, in tal caso, il confronto con l’altro
non è motivato dalla necessità di proporsi con caratteristiche superiori rispetto a quelle falsamente
vantate dal concorrente, bensı̀ di defraudare il concorrente di un merito che Egli invece realmente
possiede. Anche sotto questo profilo la casistica è
sterminata e spesso la lettura della pronuncia del
Giurı̀ suscita più l’interesse dello psicologo che del
giurista.
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5. L’invidia è il tallone di Achille del consumatore.
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Se dovessimo fare una valutazione dell’influenza negativa dell’invidia sulla fenomenologia
pubblicitaria, dovremmo certamente concludere
che il primato spetta all’invidia come leva utilizzata
dagli inserzionisti per “forzare” le determinazioni
dei consumatori. Come è stato rilevato nel blog
bruttalinvidia, nella pubblicità l’invidia è la più efficace molla emotiva per ottenere l’effetto promozionale. L’esibizione smodata della bellezza, del
lusso, del successo altro non è che il mezzo per
provocare nel consumatore un irrefrenabile desiderio di beneficiare dei vantaggi reali e/o solo simboliche connessi agli oggetti pubblicizzati. Cosı̀ facendo la pubblicità impone il suo modello di vita
che fa leva non solo sul desiderio di possedere e
perciò di comprare ma anche sul sentimento angoscioso di subire un giudizio sociale negativo e frustrante. Questa tecnica di promozione non è quella
che si manifesta con le comparazioni (“il mio detersivo lava più bianco del tuo”, “la mia macchina è più
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veloce della tua” etc. etc.) ma è molto di più quella
che impone stili e condizioni di vita che sono —
appunto — invidiabili. Nella prospettazione pubblicitaria tutti sono belli, anzi bellissimi, perché usano
certi cosmetici; tutti sono sani, anzi sanissimi, perché bevono certe acque minerali; tutti sono felici,
anzi felicissimi, purché facciano la colazione con
certi biscotti e possibilmente in un bel giardino; etc.
etc..
Come ha fatto il Presidente Catricalà facendo
l’elogio della superbia fattore di competizione concorrenziale cosı̀ potrei fare io facendo l’elogio dell’invidia come fattore di crescita dei consumi e di
espansione produttiva. Può accadere però, ed è
accaduto nella stagione del terrorismo, che l’invidia
gestita pubblicitariamente come vizio individuale
del consumatore si trasformi in invidia sociale delle
classi meno abbienti e, poiché l’invidia stimola —
come si è detto — l’aggressività, non è certo che si
resti in attesa di un riequilibrio.
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ACCIDIA
di GIOVANNI IUDICA
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1. L’accidia di Marlowe.
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SOMMARIO: 1. L’accidia di Marlowe. — 2. L’accidia di Pascal. — 3.
L’accidia di Dante. — 4. L’accidia nella pubblicità. — 5. Il mio
parere.
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Christopher Marlowe, in uno dei suoi capolavori, La tragica storia del dottor Faust, descrive
l’incontro, orchestrato magistralmente da Belzebù,
tra il dannato alchimista e i Sette Peccati Mortali. Il
penultimo a essere introdotto è l’Accidia (l’ultimo è
la Lussuria). Il Sesto Vizio Capitale si presenta con
queste parole: “Sono la Pigrizia. Sono nata su una
riva piena di sole e là sono rimasta da allora. Mi
avete fatto gran torto a levarmici. Che la Gola e la
Lascivia mi riportino là. Non direi una parola di più
neppure per riscattare un re”. La Pigrizia, dunque,
distesa su una riva assolata, da cui è stata controvoglia allontanata e dove vorrebbe al più presto
tornare. È facile immaginarla come una bella
donna, dalle lunghe gambe affusolate, distesa su
una sabbia rosa, che si abbandona al tepore del sole.
Ma anche in questo piacere non si concede del
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tutto, essendosi unta dalla testa ai piedi di creme ad
alta intensità protettiva dai raggi UVA. Dietro gli
occhiali scuri tiene gli occhi socchiusi. Con il vuoto
in testa. Senza un desiderio. Senza volontà. Senza
un interesse, un progetto, un’aspirazione, una meta.
Distesa sulla sabbia dorata senza uno scopo ulteriore e diverso da quello di giacere estenuata per la
fatica di aver fatto, da tempo immemorabile, nulla
di nulla. Solo alla Gola e alla Lussuria presta ogni
tanto, con degnazione, con sufficienza, qualche attenzione. Soltanto a queste sue intime amiche è
accordato il piacere di riaccompagnarla sulla riva
assolata da cui è stata strappata. Nulla potrebbe
distoglierla dal suo deserto spirituale. Neppure lo
tzunami di una passione, una fibrillazione del cuore,
un terremoto, un urlo di dolore, un grido di aiuto di
un poveraccio o di un re.
L’Accidia di Marlowe è pigrizia, indolenza, inerzia, apatia, abulia, ignavia. È oblomovite. È quel
morbo, quella morbosa condizione umana, magistralmente raccontata da Ivan Aleksandrovic̆
Gonbc̆arov nel suo capolavoro Oblomov: “I tratti
del suo volto rivelavano un’assoluta incapacità di
determinazione e di concentrazione. Il pensiero volubile trascorreva senza guida sul suo viso, gli svolazzava negli occhi, si arenava tra le labbra semiaperte, si nascondeva tra i solchi della fronte, poi si
dileguava di botto, e allora il volto restava rischiarato solo dal vago lucore dell’indolenza. Dalla faccia, l’indolenza si propagava a tutto l’atteggiamento
del corpo, addirittura alle pieghe della vestaglia”.
L’accidia è declinata come indifferenza verso il
prossimo, verso gli altri e dunque come amore
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ACCIDIA
smodato di sé: un sentimento che si avvita su se
stesso e che conduce a essere prigioniero del proprio io.
2. L’accidia di Pascal.
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“Ho scoperto”, diceva Pascal, “che tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa, dal non
saper starsene in pace, in una camera”. Secondo il
grande matematico, filosofo, umanista francese,
l’accidia è favorita non soltanto dall’ozio, ma anche
dal suo contrario: il super attivismo. Il nevrotico,
insaziabile, ingordo, vorace, smodato attivismo riempie le ore, ma svuota e annichilisce il cervello. Se
Pascal fosse vissuto ai giorni nostri avrebbe avuto
sott’occhio un vasto campionario di una umanità
super attiva, super dinamica, super nevrotica, super
impegnata, del tutto incapace di raccogliersi un
momento per meditare, anzi atterrita dall’idea di
trovare il tempo per pensare, per riflettere, per
sognare e, pure, per esprimere con semplicità i
propri sentimenti o la propria affettività. Se Pascal
avesse incontrato alcuni managers di successo, che
occupano, con gigantografia, intere pagine nelle
rubriche economiche dei quotidiani o intere copertine dei settimanali, sarebbe rimasto stupito della
loro agenda. Sveglia alle 6.30. Un’ora di jogging nel
parco, mentre la macchina con l’autista segue a
passo d’uomo. Oppure, nella palestra di casa,
un’ora con il personal trainer, a sudare con esercizi
personalizzati cui segue massaggio tonificante e relax. Ore 7.45 doccia e vestizione. Possibilmente
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abito scuro, grigio fumo di Londra, blu gessato,
grisaglia. Cravatta regimental o a disegno cachemire. Ore 8.30: prima colazione all’americana, con
spremuta di arancia, corn flakes e fettina di pane
tostato. Niente burro, niente marmellata. Magari un
pò di miele. Due pastiglie di Fish Factor, arricchite
da potenti dosi di vitamina E, contro i radicali liberi
e contro il colesterolo e i trigliceridi, scandiscono la
fine del breakfast. Ore 9: masticando una tavoletta
di Supradyn (per accrescere la propria vitalità fisica
ivi comprese, diciamo, le proprie virtù teologali)
arrivo in ufficio, rapido briefing informativo con la
segretaria, esame dell’agenda e primo appuntamento in sala riunioni (al quale si giunge con un
certo, opportuno ritardo, per non essere costretto a
far la figura di dover attendere l’arrivo di qualche
subordinato più lento degli altri) con il direttore
generale e i direttori di divisione. Ore 10: meeting
con il PDG (presidente e amministratore delegato)
della società estera appena acquisita. Ore 11: briefing con il capo del personale. Ore 11.45: dieci
minuti di briefing con il capo dell’Ufficio legale. Ore
12 (ma è bene farsi trovare con qualche minuto di
anticipo): riunione con il Presidente. Ore 12.30:
ritorno in ufficio per telefonate varie, esame della
corrispondenza, firma della corrispondenza, dettatura di nuova corrispondenza. Ore 13.15: colazione
di lavoro nel ristorante della Società con fornitori o
clienti esteri. Conversazione, ovviamente, in inglese. Ore 14.30: di nuovo in ufficio per fronteggiare
gli impegni del pomeriggio, molto più numerosi,
fitti, assillanti, di quelli del mattino. Senza un minuto di sosta. Senza una pausa. Fatta eccezione per
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una fugace visita ad un Convegno, al solo scopo di
farsi notare e di rendere omaggio all’organizzatore.
Ore 20: telefonata a casa “Cara, mi spiace, non ce la
faccio a tornare per cena! La riunione ha tutta l’aria
di finire a notte fonda”. Oppure: “Mi ero dimenticato che ho la cena del Rotary. Scusami!”. “Ma è il
compleanno di Tuo figlio!”. Oppure “Ma come? È
l’anniversario del nostro matrimonio! Te ne eri
dimenticato?”. Quando viene meno un appuntamento, il manager di successo non si chiude in santa
pace nel suo studio. Ha paura di restare solo con se
stesso. E allora crea, inventa, immagina altri impegni sostitutivi, fasulli, di latta, di cartapesta. Questo
dal lunedı̀ al venerdı̀. Poi, finalmente, si giunge ai
due giorni del w.e. E qui non c’è posto per nessuno.
L’unica cosa che conta è il golf. Due giorni all’aria
buona, nel verde, sotto il sole o la pioggia, a inseguire la pallina di buca in buca, a fare nuove conoscenze, a rinsaldare quelle un po’ avvizzite, a creare
nuove occasioni d’affari. L’agenda e la giornata di
un avvocato di successo (non proprio di tutti, per
fortuna) non sono molto diverse. Cambiano le ragioni dei briefing o i contenuti dei meeting, ma il
ritmo degli impegni è lo stesso. Dopo venti anni di
lavoro, gomito a gomito, giorno dopo giorno, il
manager (non proprio tutti, per fortuna) non sa
nulla dei suoi dipendenti; li vede algidamente come
entità fungibili, con le quali non ha mai neppure
tentato di intrecciare un momento di amicizia, o di
solidarietà, o di confidenza. Essi sono estranei l’uno
all’altro e anche lui per loro è, in fondo, nonostante
gli articoli sui giornali o le copertine dei settimanali,
un perfetto sconosciuto.
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Se Pascal fosse vissuto ai giorni nostri avrebbe
trovato che questa umanità non è felice, perché
“non sa starsene in pace, in una camera”, perché ha
perduto il gusto dell’equilibrio, il desiderio della
serenità. Perché ha paura di stupirsi davanti a qualcosa, ha paura di pensare. Anche qui il grande
manager, il grande avvocato, hanno riempito le loro
agende di appunti e colmato le loro giornate di
eventi, ma hanno fatto il vuoto dentro di sé. Hanno
sviluppato una nuova specie di incapacità di vivere,
una nuova accezione di infelicità. Anche qui si
annida il Peccato Capitale dell’Accidia, declinato
come indifferenza verso il prossimo, che genera a
sua volta un amore smodato di sé: un sentimento
che si avvita su se stesso e che conduce a ignorare gli
altri e a essere prigionieri del proprio io.
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3. L’accidia di Dante.
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Immortali, senza dubbio, sono i versi che Dante
sputa addosso agli accidiosi nel Canto Terzo dell’Inferno. Virgilio ha un bel dire: “Non ragioniam di
lor, ma guarda e passa”. Dante è troppo curioso per
passare oltre e per non soffermarsi a guardare inorridito “la lunga tratta di gente”, nuda, avvolta da
nugoli di api e mosconi, con il volto deturpato da
sangue e lacrime, che insegue correndo una enigmatica insegna. “Questi sciagurati, che mai non
furon vivi” sono disprezzati dall’universo intero,
dagli uomini, da Dio e persino dal demonio (“A Dio
spiacenti ed ai nemici sui”). Questi disgraziati “non
hanno speranza di morte/ e la lor cieca vita è tanto
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bassa/ che invidiosi son d’ogni altra sorte”. Persino
“Misericordia e Giustizia li sdegna”! Ad essi è precluso il paradiso: non c’è Misericordia divina che
possa accogliere nel suo generoso seno questi
zombi, che non sono più in vita, ma che non sono
neppure pienamente morti. Anche l’inferno li rifiuta, perché si tratta di gente che non è mai stata
capace di fare il bene, ma che è stata incapace
persino di compiere il male. Delle nullità, insomma.
Dei lombrichi. Delle amebe. Persone tristi, “che
visser sanza infamia e sanza lodo”.
Mischiati a queste “spersone” (avrebbe detto
Orwell), ci sono pure “degli angeli che non furon
ribelli/ né fur fedeli a Dio, ma per sé foro”. Angeli
che non seppero scegliere tra il Bene e il Male e
uomini che non furono capaci di prendere partito,
né guelfi né ghibellini, né di qua né di là. Ci fu
un’epoca in Italia, nei tristi anni settanta, in cui
molti intellettuali dalla mente debole, non pochi
imbratta giornali, e interi settori di navigatori politici dal basso quoziente morale, dichiaravano senza
dignità e con sussiego, in eleganti salotti milanesi di
architetti o editori, di non stare né con lo Stato né
con le brigate rosse. Oppure, ai giorni nostri, illustri
personaggi che non prendono partito per nessuno,
per non sporcarsi le mani, offrendosi però al miglior
offerente come “tecnici”!
Tra questi zombi Dante intravede “l’ombra di
colui/ che fece per viltate il gran rifiuto”. Celestino
V, rinunciando alla Tiara, aprı̀ le porte del Vaticano
a Bonifacio VIII, un papa che ne fece di cotte e di
crude e che subı̀, da parte di Filippo il Bello, re di
Francia, lo schiaffo di Anagni. Dante odiò Bonifa-
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cio con tutto il suo livore toscano e per questo lo
scaraventò all’Inferno. Ma almeno Bonifacio era
degno dell’Inferno, Celestino neppure di quello!
Per Dante, dunque, l’accidioso è la persona che
non decide. Non prende posizione, o per pigrizia o
per viltà o per opportunismo. L’accidia dantesca è
declinata come indifferenza verso il prossimo, come
je m’enfoutisme nominal per le conseguenze delle
proprie scelte nei suoi confronti. Anche in Dante,
dunque, l’accidia finisce per essere amore smodato
di sé: un sentimento che si avvita su sé stesso e che
conduce a ignorare gli altri e a essere prigionieri del
proprio io.
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4. L’accidia nella pubblicità.
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La “grande tentatrice”, colei che, quotidianamente, ovunque, sui giornali, in televisione, al cinema, nei cartelloni sui muri delle case o lungo i
percorsi delle autostrade, invita all’accidia, in tutte
le sue declinazioni, è la comunicazione pubblicitaria. Fingiamo di ignorare quella dei nostri giorni.
Limitiamoci a guardare al passato. E allora basta
ricordare il manifesto di Mataloni, del 1896, che
invitava a comprare un giornale, “il Mattino”, per
trovare, in un elegante disegno jugendstil, la rappresentazione dell’accidia di Marlowe: una donna
nuda, mollemente distesa in riva al mare, con gli
occhi socchiusi, la bocca dischiusa, con la mano
sensualmente appoggiata a un seno, baciata dal
sole. È singolare che l’astro fulgente abbia assunto
un volto umano (non è chiaro se di uomo o di
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donna) e che guardi, con desiderio, con passione, la
bellezza lasciva di quel corpo abbandonato sulla
spiaggia.
I messaggi pubblicitari, la réclame, di prodotti
che invitano al dinamismo sfrenato, al super attivismo, e dunque all’accezione pascaliana di accidia,
non si contano. A partire dai capolavori di Marcello
Dudovich dedicati al Cordial Campari o al Bitter
Campari. Nello splendido Bacio, del 1920, la carica
sessuale di lui su di lei è come una folata morbosa,
intensa, irresistibile. Nel Pneu Pirelli, del 1917, firmato Roowy, è rappresentata l’ebbrezza sfrenata,
inebriante, ottusa, accidiosa, della assoluta velocità.
Ancora un capolavoro di Dudovich è Bugatti, del
1922: un uomo al volante di una due posti scoperta
e una femmina eccitata dai capelli fiammeggianti al
suo fianco, con le sciarpe al vento, con il vuoto in
testa, senza controllo, che vanno all’impazzata.
E l’accidia dantesca? Viene in mente il manifesto di Teodoro Wolff Ferrari, del 1912, che ritrae un
grande Dante, in toga rossa, col suo tipico, lungo
naso toscano, che con decisione, senza tentennamenti, senza accidiose incertezze, indica con sicurezza, perentoriamente, una macchina da scrivere
Olivetti.
5. Il mio parere.
Se è consentito, come conclusione, esprimere il
mio parere, è che questo Vizio Capitale, se preso in
dosi moderate, non conduce direttamente all’inferno. Credo anzi che un po’ di pigrizia, un certo
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distacco dalle cose o dagli altri, oppure al contrario
una buona dose di dinamismo, oppure una certa
presa di distanza dal “partito preso”, dalla scelta
fanatica priva del senso del dubbio o dell’ironia,
facciano bene allo spirito, siano ingredienti che
mettono di buon umore. Ma questo vale, del resto,
per tutti gli altri sei (anzi tredici, dopo l’ultimo
Concilio Vaticano) vizi capitali. Se nella vita non
mettiamo un pizzico di Lussuria, un pizzico di Gola,
di Iracondia, e perché no, anche di Accidia, perbacco, ma che vita è? È l’eccesso che va punito.
Sono la misura smodata, la quantità elefantiaca,
l’esagerazione stolta, in un senso o nell’altro, a
rendere Capitale il Vizio e che conducono dritto
all’inferno. Insomma, se mi trovo a Salina, da Alfredo, e ordino, dopo aver gustato il pane conzato,
la sua mitica granita alle mandorle o all’alloro, non
perché sono assetato, ma soltanto per il piacere di
gustarla in santa pace, guardando il profilo di Panarea e, in lontananza, quello di Stromboli, faccio del
bene a me stesso, non c’è dubbio, ma rischio anche
di andare all’inferno a braccetto di Belzebù? Io dico
di no. Ma se tutti i giorni dell’anno, mezzogiorno e
sera, mi abboffo di granite, accompagnandole, magari, a qualche buon cannolo, allora il rischio dell’inferno non è rinviato al domani, ma comincia
subito con un diabete galoppante!
I Vizi Capitali sono come l’arsenico: se è preso
in dosi massicce è un veleno mortale, ma se è
assunto a piccole dosi è addirittura un formidabile
ricostituente.
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di RAFFAELLA LANZILLO
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1. La pubblicità è componente essenziale dell’agire economico ed, in quanto tale, non si propone
di combattere i vizi e le debolezze umane, ma ne
tiene conto e se del caso li utilizza, per le sue finalità
promozionali.
Per l’homo oeconomicus vizi e virtù dei componenti il target a cui si indirizzano i suoi prodotti sono
meri dati di fatto. Debbono essere conosciuti e
debitamente calcolati, per valutarne l’incidenza
sulle opportunità di trarre profitto dall’attività
svolta, ma non vanno necessariamente repressi o
alimentati, salvo che l’alimentarli od il reprimerli
giovi al successo economico.
Ed altrettanto si riflette nella pubblicità.
Tale caratteristica costituisce contemporaneamente un pregio ed un limite del sistema: un pregio,
in quanto appare incompatibile con qualunque tentazione di imporre dall’alto valori e disvalori, sulla
base di concezioni e gerarchie del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, aprioristicamente determinate da coloro che abbiano il potere di parlare
e di influenzare gusti, usi e costumi della collettività;
un limite in quanto — se abbandonata a se stessa —
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condurrebbe a subordinare tutto, ivi inclusi i valori
e le libertà della persona, alla logica del profitto,
spianando il terreno su cui si alimentano la spiritualità e la cultura all’irrompere delle esigenze della
produzione e dei consumi.
V’è da dire che spiritualità e cultura non si
rassegnano ad essere del tutto accantonate, come
risulta dalle varie norme delle leggi e dei codici di
autodisciplina delle attività economiche — ed in
particolare della pubblicità — che si propongono
per l’appunto di regolare il lecito e l’illecito e di
porre limiti agli abusi.
In questo contesto, il tema dei vizi capitali in
relazione alla pubblicità risulta indubbiamente stimolante, poiché impone di confrontarsi con tendenze contraddittorie, che non è sempre facile comporre, come dimostrano il contenzioso ed il
dibattito che si sono talvolta instaurati a seguito
degli interventi “censòri” del Giurı̀ dell’Autodisciplina Pubblicitaria.
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2. Elaborato in epoca anticapitalistica e simbolo di assetti sociali fortemente strutturati intorno
ai valori trasmessi dalla tradizione, il sistema dei
sette peccati capitali trova un primo embrione in
Aristotele (Etica Nicomachea), che li qualifica
“abiti del male”, cioè inclinazioni del carattere,
alimentate dalla ripetizione di azioni non consone
all’etica. È stato formalmente introdotto in epoca
cristiana da Gregorio Magno (604 d.C.), che ha
qualificato i vizi come altrettante forme di opposizione della volontà e dell’agire dell’uomo alla volontà di Dio, e sistemato nella successione e nella
veste oggi conosciuta da Tommaso d’Aquino.
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Con l’Illuminismo e lo sviluppo dell’economia
secondo le nuove concezioni liberali i peccati capitali hanno perso gran parte della loro presa sulle
coscienze. Sono trattati nelle opere dei filosofi
(Kant) in una nuova lettura, che vi intravede non
solo deviazioni morali, quanto inclinazioni del carattere: tendenza sviluppata dai trattati di psichiatria dell’ottocento, che hanno condotto a considerarli come manifestazioni di patologia della psiche,
più che questioni attinenti al piano dell’etica.
Anche la loro elencazione si ritiene superata dai
nuovi vizi che caratterizzano il nostro tempo (1).
Oggi pertanto — a differenza che alle loro origini, ove manifestavano sempre un male, quali
forme di opposizione della volontà e dell’agire dell’uomo alla volontà di Dio — i c.d. peccati capitali,
trovando le loro radici nella personalità, non vengono considerati sempre un male, ma solo in quanto
manifestino in termini eccessivi ed esasperati alcune
tendenze del carattere, più o meno comuni a tutti gli
uomini (la superbia è la manifestazione esasperata e
patologica del senso del proprio valore e della propria dignità; l’avarizia è l’eccesso della parsimonia;
la lussuria manifesta l’eccesso di abbandono all’istinto sessuale; ecc.).
Ciò vale in particolar modo per l’ira, che designa la reazione aggressiva a comportamenti altrui
che, a torto o a ragione, si ritengono offensivi,
ingiusti o comunque da reprimere: “C’è un tempo
(1) U. GALIMBERTI, I vizi capitali e i nuovi vizi, 2a ediz., Feltrinelli, 2008, p. 12-13.
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necessario per l’ira. Quando pazientare oltre vuol
dire arrendersi al male” (2).
L’ira viene considerata un vizio, quindi, se non
sia giustificata dalla natura della causa che l’ha
provocata; quando si esprima con modalità aggressive e smodate e conduca a comportamenti, parole
ed azioni particolarmente offensivi e distruttivi.
(Viene a proposito la citazione di Aristotele, circa la
difficoltà di “…adirarsi con la persona giusta, nel
modo giusto, nel momento giusto e per la giusta
causa”) (3).
Il vizio capitale, cioè, è l’ira, non lo sdegno, ove
il confine fra l’una e l’altro passa attraverso i criteri
sopra indicati.
All’estremo opposto occorre distinguere fra ira
e odio, nel senso che la reazione iraconda risponde
pur sempre a una pulsione contingente che, cessato
l’attacco passionale, normalmente si smorza.
Il vero peccato capitale è l’odio, che corrisponde
ad una scelta razionale e costante di avversione e di
autentico desiderio di nuocere che, si osserva, è
tutt’altro che incontrollato e passionale, ma raggiunge i suoi scopi percorrendo le vie della razionalità (4).
L’ira diviene peccato capitale solo se e nei limiti
in cui conduca, pur episodicamente, a tenere gli
stessi comportamenti distruttivi dell’odio.
La trasformazione della rabbia in rancore, ed
(2) S. NATOLI, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, 2008,
p. 108.
(3) Richiamata da GALIMBERTI, op. cit., p. 17.
(4) GALIMBERTI, op. cit., p. 17, che anche a tal proposito richiama
una distinzione di Aristotele.
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IRA
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anche in odio, risulta tanto più probabile quanto più
l’iracondo si senta impotente a reagire con altri e
leciti mezzi. Quindi manifesta spesso la reazione del
debole.
Per altro verso è tanto più facile e frequente
abbandonarsi all’ira quanto più è debole la persona
o la situazione nei confronti dei quali la reazione si
indirizza. (Il che porta a condividere l’opinione di
Seneca, secondo cui la collera è la più frenetica e
odiosa delle emozioni).
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3. Mentre la nostra cultura, di matrice ebraico
cristiana, tende a censurare l’ira prevalentemente
come eccesso nella reazione e la ritiene giusta, se
sollecitata dall’opposizione al male e all’ingiustizia
— il Dio della Bibbia si manifesta più volte come un
Dio iracondo, nei confronti della disobbedienza del
suo popolo, ed anche Gesù nel Tempio ha avuto le
sue manifestazioni di sdegno — la cultura orientale,
in particolare quella buddista, tende a considerarla
sempre negativa, a prescindere dalle sue cause.
Il Dalai Lama la include fra le emozioni distruttive poiché compromette la capacità di giudizio e
distorce la percezione della realtà, neutralizzando la
parte migliore del cervello, che comprende la facoltà di scegliere fra il bene e il male e di valutare le
conseguenze delle proprie azioni.
Rileva in particolare che essa impedisce di cogliere il vero modo di essere e le vere qualità della
persona a cui si indirizza, ponendo ostacolo all’esplicarsi dell’altruismo e della compassione, a cui
si debbono sempre ispirare i rapporti umani.
Anche quando sia motivata dal desiderio di
giustizia, la reazione iraconda è considerata cieca,
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sterile e inefficiente (5). Per di più nuoce gravemente alla salute, ed in particolare al sistema cardiovascolare, di chi vi si abbandoni (6).
Sulla stessa linea si osserva che i giudizi negativi
sugli altri — che normalmente stanno alla base
dell’attacco d’ira — sono determinati dal fatto di
considerare il bene e il male come caratteristiche
del tutto esterne a sè.
Al contrario, i tratti che meglio vediamo negli
altri sono quelli che con più forza sono presenti in
noi stessi, pur se inconsapevoli o denegati, in quanto
la concezione che abbiamo degli altri è in realtà lo
specchio della nostra personalità (7).
La reazione iraconda — che è sempre motivata
da presunti torti altrui — nasce in realtà dalla
percezione passionale ed emotiva (quindi irrazionale) di un conflitto fra sé e l’altro, fra il proprio
modo di essere e di sentire e quelli, diversi ed
opposti, con cui la vita porta a confrontarsi, ed ha
sempre effetti negativi.
Si afferma che i sentimenti d’ira portano ad
emettere vibrazioni di energia fortemente ostili, che
gli altri captano, venendone a loro volta alterati.
Sotto ogni profilo, quindi, sono di ostacolo alla
(5) DALAI LAMA - H.C. CUTLER, L’arte della felicità, Oscar Mondadori, 2000, p. 103 ss., 213 ss.; DALAI LAMA - D. GOLEMAN, Emozioni
distruttive, Oscar Mondatori, 2003, ove pure si pone il problema di
distinguere l’ira dall’indignazione, oltre che dall’odio (p. 134 ss., 243
ss.).
(6) Il tema è particolarmente sviluppato, fra gli altri, da D.
CHOPRA, La mia via al benessere, Milano, Sperling & Kupfer, 1997,
cap. 12-15.
(7) D. CHOPRA, Le coincidenze, Sperling & Kupfer, 2008, p. 151
ss.
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corretta reazione, anche contro ingiustizie e sopraffazioni (8).
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4. Ma l’ira ha qualcosa a che fare con la pubblicità?
Sebbene non si possa dire che i messaggi pubblicitari si astengano sempre dall’indurre nella tentazione di dare libero corso ad alcuni vizi capitali (in
particolare alla gola, alla lussuria, alla brama di
possedere, con annesse avarizia ed invidia) per rendere appetibili i beni reclamizzati, non sembra che
le si possa imputare di indurre all’ira.
L’induzione, se mai, può essere indiretta e surrettizia, ove trasmettano scene di violenza e sopraffazione, portando cosı̀ ad attenuare la vigilanza
sulle proprie reazioni, quasi che i suddetti comportamenti costituissero risposte normali e lecite alle
vere o supposte aggressioni altrui.
Ma è raro che ciò avvenga tramite la pubblicità
(al contrario di film e telefilm); anche perché il
controllo autodisciplinare e giurisprudenziale è
molto attento a reprimere ogni sconfinamento in
questo senso.
La più insidiosa istigazione all’ira può derivare,
piuttosto, dall’insofferenza alla pubblicità ed in particolare ai suoi eccessi ed agli eventuali illeciti.
Coloro che rifiutano il sistema di valori di cui la
pubblicità costituisce espressione; coloro che ne
considerano eccessivamente invasiva la presenza o
che vedano decantati pregi di cui abbiano constatato la non veridicità; gli imprenditori che vedano
(8) DALAI LAMA, L’arte della felicità, cit., p. 236.
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pedissequamente copiate e banalizzate dai concorrenti le proprie idee creative, con conseguente loro
depotenziamento; gli autori le cui opere vengano alterate da interruzioni pubblicitarie eccessive e intempestive; gli spettatori che vedano inesorabilmente interrotto il godimento di uno spettacolo, di un
intelligente intervento o di un’appassionante dibattito, dall’irruzione degli spots, magari con la ripetizione ossessiva e martellante dello stesso messaggio,
con le stesse immagini, musica e parole, possono anche essere preda di qualche accesso d’ira.
Debbo confessare che la prima volta che mi è
capitato di subire un interruzione pubblicitaria sul
più bello di un film (quando ancora non ci si era
abituati) ho provato l’impulso di sfasciare lo
schermo televisivo.
So che altri hanno avuto la stessa reazione,
tipicamente iraconda, poiché l’intrusione inaspettata nel rapporto fatto di idee, sentimenti, parole,
che, attraverso l’opera, si crea fra l’autore e lo
spettatore; il fatto di venire còlti di sorpresa, agganciati all’esca dello spettacolo, in un momento di
abbandono, di emozione o di divertimento, può
venire vissuto come una forma di sopraffazione.
Ripeto, sono gli eventuali abusi pubblicitari a
rischiar di suscitare ira e insofferenza.
Le imprese e gli operatori economici hanno la
possibilità di scaricare la reazione, difendendo i
propri diritti in sede giudiziaria ed autodisciplinare,
ben più del singolo spettatore “abusato” nella sua
pazienza, nel quale invece la sensazione di impotenza tende ad accentuare e ad incrementare l’ira.
Sono reazioni accettabili, perché motivate da
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giusta causa, o sono da considerare comunque censurabili, secondo i principi del pensiero orientale?
V’è da dire che l’eventuale impassibilità manifesterebbe anche totale disinteresse per la comunicazione, tradendo sotto altro aspetto le aspettative
degli inserzionisti e dei media, il cui peggior nemico
non è l’ostilità, ma l’indifferenza e la non reattività
ai messaggi pubblicitari (cosa che, fra l’altro, si sta
in certa misura verificando).
Dal punto di vista dell’inserzionista, cioè, meglio l’ira che niente.
Sotto questo aspetto, l’impassibilità suggerita
dall’insegnamento orientale costituirebbe effettivamente reazione più efficace alle comunicazioni illecite od eccessivamente invasive che non clamorose
ribellioni.
Ma è vero anche il secondo aspetto, secondo cui
la critica dell’operato altrui riflette gli stessi propri
atteggiamenti e modi di essere.
In primo luogo nel senso che si dimenticano i
costi altrui del nostro divertimento.
Si rimprovera ad inserzionisti e media di abusare della pubblicità a fini di profitto, ma contemporaneamente si mostra di voler ricevere tutto gratuitamente.
Quindi la ribellione contro l’altrui vantaggio in
nostro danno riflette in certa misura, e fa dimenticare, un analogo atteggiamento nostro.
Ma soprattutto si dimentica che l’interesse di
tanti a comunicare — pur con il linguaggio e nelle
forme che non ci sono congeniali — ha e deve avere
anch’esso diritto di espressione e di ascolto, e che non
è giusto rifiutare per principio il contatto ed il dialogo.
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L’ira e la ribellione contro quel linguaggio, in
cui si intravede una forma di massimalismo economicistico, manifestano a loro volta una sorta di
massimalismo culturale, in virtù del quale i propri
modi di essere e di sentire sono considerati gli unici
degni di esprimersi.
La forte affermazione, nella nostra cultura, dell’individualismo, quale somma espressione della libertà di essere e di pensare “secondo se stessi”,
porta come conseguenza che ogni persona ed ogni
“famiglia spirituale” è portata ad assolutizzare il suo
mondo di valori, per cui il massimo di liberalità —
che il sistema vorrebbe cosı̀ esprimere — rischia di
degradare nel massimo di intolleranza personale.
Si tratta allora di trovare anche nella pubblicità
e tramite essa, un punto di incontro.
Da una parte evitando che i messaggi si impongano all’utente in termini eccessivamente invasivi e
costrittivi; accentuando nella comunicazione pubblicitaria la qualità del linguaggio e l’aspetto dell’informazione, più che sensazionalismi ed emozioni
artificiose, tra il bombardamento delle parole.
Ho spesso notato che, togliendo il sonoro, capita
di apprezzare meglio le immagini, la fotografia, le
idee creative, la regia, ecc., che possono essere
molto belle.
Ma le parole sono indispensabili per conoscere
novità e pregi dei prodotti pubblicizzati. E allora
perché non renderle più autentiche e credibili?
Oggi che si è sommersi e quasi anestetizzati
dalla pubblicità, una maggiore attenzione alla razionalità e alla sensibilità dello spettatore sarebbero a
mio avviso più efficaci che non l’andare in cerca del
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nuovo shock, visivo od espressivo, per imprimere il
prodotto nel ricordo del (volente o nolente) destinatario.
Dalla parte degli utenti più restii occorre invece
una maggiore disponibilità all’ascolto, anche della
pubblicità: l’accettazione ed il riconoscimento dei
suoi pregi, con maggiore attenzione e senso critico.
Sia la supina accettazione, rendendosi mentalmente tabula rasa, su cui ognuno può scrivere e
cancellare quel che vuole; sia il totale e aprioristico
rifiuto, manifestano in realtà la sottovalutazione
della comunicazione pubblicitaria e delle sue grandi
potenzialità, se bene usata, anche come strumento
di crescita civile e culturale.
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AVARIZIA
di PAOLO CENDON
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SOMMARIO: 1.1. Pubblicità di cosa. — 1.2. Avarizia in senso lato. —
1.3. Soggetti deboli. — 1.4. Come dissuadere. — 2.1. Nervi scoperti.
— 2.2. Differenztheorie. — 2.3. Tre motivi. — 2.4. Altre convenienze.
— 2.5. Economia, lavoro, mondanità. — 2.6. Parlamentari a rischio.
— 2.7. Amministrazione di sostegno. — 2.8. Bioetica, danno esistenziale. — 2.9. Senilità, inaridimenti. — 3.1. Fiction. — 3.2. Comicità. —
3.3. Niente da ridere. — 3.4. L’avaro in letteratura. — 4.1. La
versione love. — 4.2. Incontrarsi di nuovo. — 4.3. Scelta dei particolari. — 4.4. Comportamenti da avaro. — 4.5. Generosità. — 4.6. No
agli sperperi. — 4.7. Fascino del male. — 4.8. Doppiezza. — 4.9.
Psicanalisi. — 4.10. Frustrazioni affettive. — 4.11. Il bandolo. — 4.12.
Redenzione. — 5.1. Colpi di scena. — 5.2. Altalene, folgorazioni. —
5.3. Il play boy, il sosia, il commediante. — 5.4. La fiaba, l’infiltrato,
il giovinetto, il saltimbanco. — 5.5. Il sopravvissuto, il morto, il
sociologo. — 6.1. Motivi assistenziali. — 6.2. Pholie à quatre. — 6.3.
Un film famoso. — 6.4. Versione all’italiana. — 6.5. Il parsimonioso
no-global. — 6.6. La bella disillusa. — 6.7. Una via di mezzo. — 6.8.
Bambini a rovescio.
1.1. Pubblicità di cosa.
Tema generale: la neo-pubblicità commerciale
(sullo sfondo dei sette peccati capitali). Peccato
specifico assegnatomi: l’avarizia, nelle sue forme
vecchie e nuove.
“Ci interesserebbe — è stata la precisazione —
il campionario che ha indagato studiando le sue
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cose, professore. Handicap, disagio, violenze, nuovi
diritti, famiglia, servizi sociali, dolo, incidenti, follia.
La pubblicità cui gli avari del comparto potrebbero
esser sensibili”.
Mi è sembrato uno strano discorso.
“Pubblicità all’avarizia? — ho chiesto. — Incitare chi è già tirato o parsimonioso di suo ad esserlo
ancor più?”. Mi venivano in mente i salvadanai per
bambini, i maialini di ceramica.
Non è a cose del genere che pensavano i miei
editor; e neanche alla réclame di banche o casseforti
domestiche. Il contrario semmai: le gioie del consumo, convincere l’avaro a esserlo di meno, ad
aprire il portafoglio.
1.2. Avarizia in senso lato.
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La questione vera — pregiudiziale — mi è parsa
un’altra comunque.
Di gente oculata o tignosa, nei miei studi sulla
fragilità, ne ho in effetti incontrata; non so quanto si
trattasse di “avarizia doc” però. Direi che era ogni
volta qualcosa a metà fra l’ingenerosità e la smodata
oculatezza. Manie spinte all’eccesso, con punte di
autoreferenzialità magari, di opportunismo a 360o.
Mi hanno subito stoppato i miei editor: “Avarizia
in senso lato, professore, senza purismi o accademismi di sorta”. Come meglio credevo: “Chi è poco altruista, chi passa il tempo a pensare a se stesso, alle
sue cose. Va bene tutto in questa chiave”.
È allora che ho accettato. L’argomento, per me
nuovo, mi intriga sotto più di un verso; e quella
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AVARIZIA
precisazione ritengo sia corretta: l’avarizia è un
peccato vago, più generico degli altri. La gola si
vede subito, spesso basta la bilancia: la lussuria gira
sempre intorno a “quello”; anche l’ira è monocorde.
L’avaro invece ... ci sono tanti modi di esserlo —
come tanti sono i modi per essere buoni!
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1.3. Soggetti deboli.
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Non parlerò di mercanti di Venezia dunque; né
di personaggi alla Balzac, alla von Stroheim.
I miei esempi li ho trovati ai bordi dei manicomi, dei tribunali. Nessuno che passasse il tempo a
nascondere soldi nelle cappelliere, nei materassi,
che scavasse buche notturne in giardino o si vestisse
male per sembrare in miseria.
Quelle di cui sentirete — restando entro il comparto “debolologico”: egoismi fra i devianti, le vittime, i politici, i mobbizzati, i consumatori, gli psichiatri, i giudici, i bambini, gli assicuratori, i poveri,
gli animali selvatici, i giuristi, i morenti — sono
figure d’altro genere. Peggiori o migliori sarà ciascuno a giudicare.
1.4. Come dissuadere.
Di cosa non mi occuperò.
Ai miei editor interessano le tecniche per vendere (vale anche per i peccati capitali). Scrivendo
dovrei quindi precisare, man mano: “Quell’avaro
potreste tentare di infinocchiarlo cosı̀, quell’altro in
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una maniera diversa — con lo spauracchio del colesterolo, con gli sconti, con fondali esotici, etc.”.
Ebbene, è una cosa che non posso fare. Il mio
mestiere è un altro; e neanche dirò volta per volta se
questo o quel tipo di réclame sarebbe illecito, secondo i codici di settore.
Un’altra cosa farò invece: domandarmi come
raggiungere l’obiettivo del “far aprire dei cordoni
della borsa” (in senso reale o metaforico) trattando
con il duro di turno: con che argomenti farlo desistere, con quali blandizie — volta per volta. È
questo il nodo cruciale, no? Ad altri vedere poi se
indicazioni del genere siano utili, in chiave pubblicitaria, per che tipo di réclame o se urtino o meno
qualche protocollo.
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2.1. Nervi scoperti.
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Nessun dubbio, per quanto concerne gli avari
dotati di potere istituzionale (e avvezzi a usarne
tignosamente), circa la necessità di individuare
quale sia, al di là delle ostentazioni diplomatiche, il
“nervo scoperto” del personaggio che si ha di fronte
— in quello specifico contesto.
Il tratto in grado di fargli cambiare indirizzo.
Affrontare di petto esseri del genere — far leva
sui sensi di colpa che li tormenterebbero, più o
meno segretamente? Niente di più sbagliato.
Esaltare i doveri dell’altruismo, l’attitudine di
una svolta generosa a migliorare lo status dei bambini, dei lavoratori, dei mammiferi? Sconfitta certa e
immediata.
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Chi è poco attento ai bisogni del suo prossimo
(un legislatore sordo, mettiamo, alle istanze dei
soggetti svantaggiati, un magistrato che si ostina a
mal interpretare le richieste delle vittime; un gestore del pubblico denaro che riserva quanto può
alla sua lobby di partito, un professore che ha
depurato il proprio insegnamento di ogni alito non
strettamente burocratico/formale) quegli appelli li
conosce a memoria. Sulla carta.
Nella prassi quotidiana li ignora o li deride.
Le sue scelte di vita le ha già fatte, optando per
modelli che permettono (poniamo) di guadagnare
più denaro, di faticare di meno, di assicurargli consensi presso qualche potentato, di copiare più in
fretta, di metterlo in luce presso i superiori.
Un tempo era diverso — qualcosa dal di fuori, o
dal di dentro, l’ha ad un certo punto trasformato:
spingendolo verso altre direzioni. E in quelle vesti si
è trovato a proprio agio.
Bontà, ascolto, mitezza, solidarietà (i riferimenti
che un tempo contavano) sono diventati termini
buoni per discorsi da parata. Non sembra intenzionato a tornare indietro.
Difficilmente una minaccia è in grado di intimidirlo. Appannamenti di immagine all’esterno? Sono
noie che conosce, ha in cambio i suoi ritorni, sa
come togliersi d’impaccio. Sanzioni in sede europea,
comunitaria? Inconvenienti facili da scaricare, una
sorta di ombrello lo protegge.
Pericoli di dover risarcire il danno (morale o
esistenziale) causato con la sua durezza? Trascurabili, ogniqualvolta sia lui stesso — come i maiali di
Orwell — a dettare le regole del settore.
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2.2. Differenztheorie.
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Trovare il lato debole, dunque.
Non è detto esista sempre un punto simile —
beninteso — o può esistere e risultare meno significativo di quanto non si vorrebbe.
Sul metodo da seguire, all’insegna della Differenztheorie, possono esservi comunque pochi dubbi,
vale a dire:
— una bilancia tarata, in partenza, sulle aspettative profonde di quel personaggio (quali si lasciano intuire o riscontrare: speranze inconfessate,
passaggi idiosincratici, esigenze probabili);
— un confronto tra l’assetto che ha guidato sin
lı̀ il nostro avaro e l’equilibrio cui porterebbe, sub
specie di ricadute e di vantaggi (misurati secondo i
neo-parametri), la rinuncia alle vecchie abitudini.
Può darsi che alcuni aspetti l’interessato, pur cosı̀
accorto, non li abbia considerati abbastanza. O è possibile che, avendoli pur riconosciuti, ne abbia rinviato
la coltivazione. O il tempo potrebbe aver reso attuali
bisogni un tempo inesistenti, e viceversa.
Occorrerà che alle emergenze intraviste (ai vuoti
sparsi nella sua agenda) siano congeniali le misure
che l’aggiustamento proposto introdurrebbe.
Un vestito da tagliare su misura — bisogna
saper cercare attentamente.
2.3. Tre motivi.
Va detto allora come le ragioni per cambiare,
presso il nostro interlocutore, siano spesso variegate
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— e come fra esse ve ne sia una che prevale,
d’abitudine (decisiva magari, sapendo affondare
bene il colpo).
Sotto il profilo classificatorio, tre appaiono le
partite da giocare.
(I) V’è anzitutto il motivo che potremmo chiamare del tornaconto statutario.
L’ordine invalso fino a ieri comporta alcuni benefici (finanziari, logistici, istituzionali, araldici), ma
il sistema anti-avarizia ne annuncia altri, in prospettiva, sul piano dei diritti soggettivi della persona, la
cui importanza non era stata adeguatamente valutata.
Opportunità per la collettività nel suo insieme
— disponibili tuttavia, al momento giusto, anche
per il diretto interessato. Non val la pena pensarci?
(II) C’è poi il richiamo a convenienze di tipo
demagogico-elettorale.
L’ancien régime farà pure risparmiare energie,
riempirà le tasche di quattrini, ma appare fiacco o
deficitario (ecco l’appunto) sotto il profilo dei consensi che assicura — in termini di qualità e/o di
quantità — a quell’aggregazione di potere.
Il neo-equilibrio prometterebbe nuovi voti,
vanta i necessari beneplaciti, non spaventa i vecchi
elettori, attira fasce inedite di pubblico, spalanca
carriere meno grigie. La conclusione non si impone
da sola?
(III) C’è infine il motivo che chiameremo d’ordine terapeutico-ricompositivo.
Gli equilibri dell’oggi — ecco il quesito — i
menù della cena di lavoro, le cose da fare all’indomani, gli obiettivi segnati in calendario: è questo
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2.4. Altre convenienze.
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l’o.d.g. che il nostro “avaro” immaginava realmente,
per se stesso, collima coi sogni dell’infanzia?
Il dubbio è che una serie di fermenti sia stata
esclusa dal governo, a un certo punto, o non vi sia
mai davvero penetrata. Col risultato di un lento
incanaglirsi, di un linguaggio ogni giorno meno vivo
— adatto forse a nodi contingenti, algido però rispetto a linfe che il nostro percepisce come sue.
Al mondo però si può cambiare — tornando al
come e al perché delle chiusure, dei lieviti espressivi
andati in fumo. Qualche segno non indica che il
nostro sarebbe il primo, dentro di sé, a desiderarlo?
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Altre forme di convenienza appaiono, va detto,
meno appetibili o risolutive.
Altre ancora rappresentano meri sottotipi delle
precedenti, o corrispondono a passaggi gestionali
che il nostro aveva messo in conto, inizialmente —
ponendoli (secondo distribuzioni che vorremmo ora
fargli ritoccare) alla base della sua filosofia.
In certi casi potrebbe aggravarsi — meglio vigilare — il rischio di assemblaggi conclusivi intonantisi non già a minori, bensı̀ a maggiori, o diverse e
peggiori, forme di aridità o spilorceria.
2.5. Economia, lavoro, mondanità.
Cosı̀, ad es. per quanto concerne i motivi di
ordine economico.
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Ha adottato quello stile, il nostro avaro, perché
confida di guadagnare cosı̀ più che altrimenti? Pagando in nero gli stipendi agli operai, versando
all’erario meno imposte, imbucando i contributi
assistenziali, fruendo di più benefit collaterali?
Occorrerà pensare allora a vie d’uscita che (intonate a criteri di maggior fratellanza, con tassi
inferiori di spilorceria) siano tali da non nuocere ai
suoi conti, da tradursi in ricavi non minori. Con
tensioni sindacali ridotte, ove possibile, migliori offerte dalle banche, nessun fondo occulto nei bilanci,
pericoli più blandi di ispezioni — emolumenti alla
luce del sole, soddisfazioni per chi opera al suo
fianco, notti meno insonni e tormentate.
Stesso discorso per i motivi dell’impegno di
lavoro.
Il nostro punta soprattutto a risparmiarsi, intende stare in pace il più possibile? Con le mani
conserte tutto il tempo, senza troppi sudori sulla
fronte?
La mossa giusta sarà allora architettare — a
fronte di spiritualità sempre modeste, in vista di un
look meno degradato — una o più contro-tabelle
alternative; in cui la stringatezza mostrerebbe di
calare di alcuni punti (quel tanto che potrà bastare),
in cui il totale del carico professionale non aumenterebbe: in cui gli utenti-cittadini si vedrebbero
ignorati/maltrattati un po’ meno (soltanto nei giorni
dispari, di pomeriggio, quando piove), non più guardati come sudditi importuni.
Cosı̀ ancora per le opportunità del tempo libero.
Il nostro brama ricadute mondane, vantaggi a livello turistico, ambientale, televisivo, piaceri di tipo
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artistico, erotico, sportivo, collezionistico — è questo che insegue tutto il tempo?
Bisognerà ideare allora contro-schemi che (in
cambio di un po’ più di leggerezza) assecondino
l’interessato in ciò che sogna: inviti a cena in ristoranti esclusivi, buoni ritorni di popolarità, accesso a
salotti raffinati, promozioni per la moglie o per i
figli, migliorie per il bosco di proprietà; o magari
lauree honoris causa, accettazioni in società segrete,
comparsate in qualche film d’autore, indulgenze
plenarie, disdoro per compagni di strada spregevoli,
vernici in capitali prestigiose: oppure vacanze in
alberghi di sogno, prime file alle sfilate delle griffe,
assunzioni per l’amante di turno, udienze semestrali
in Vaticano, coinvolgimento in arbitrati prestigiosi,
vittorie ai tornei di golf, e cosı̀ via.
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2.6. Parlamentari a rischio.
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Cosı̀ quando si abbia a che fare, ulteriormente,
(a) con qualcuno in grado di influire sul cammino di
un provvedimento legislativo, e (b) vi sia una posta
in gioco legata ai diritti fondamentali della persona.
Ad esempio nel rilancio dei progetti, come
quelli giacenti al parlamento italiano, che mirano ad
eliminare dal c.c. gli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione.
Il consiglio sarà qui:
(i) di evidenziare, a livello epidemiologico, le
statistiche circa la varietà/frequenza dei malanni —
dall’Alzheimer agli handicap sensoriali, dalle demenze alle sindromi ossessive, dalle depressioni al-
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l’arteriosclerosi, dal Parkinson alla perdita di forze,
dalle sclerosi alle difficoltà ambulatoriali — che
attendono al varco (dell’età e della sfortuna, sul
terreno corporeo o mentale, come qualsiasi essere
vivente) tanti fra i soggetti deputati alla discussione/
approvazione di una legge;
(ii) di illustrare, sul piano della cronaca, le diffusioni, le curve di devianza, le altalene geografiche,
le soglie di rischio, circa la propensione di non pochi
fra i giudici italiani, malgrado i chiari avvertimenti
della Cassazione, a interdire tutt’oggi, a distanza di
qualche anno dall’entrata in vigore della l. 6/2004,
cittadini affetti da difficoltà o menomazioni personali
— non proprio irrisorie (ma neppure annichilenti);
(iii) di ricordare, sul terreno disciplinare, la pesantezza delle restrizioni incombenti sull’ex potente
il quale — non avendo provveduto, a suo tempo, ad
abrogare gli istituti in esame; colpito più tardi da
qualche strale psicofisico, non più in grado di cavarsela da solo, bisognoso di una mano dagli altri,
senza agganci con i giudici locali — si trovi lui stesso
attorcigliato in quelle spire (non poter più gestire le
proprie imprese, allora, veder bloccata ogni possibilità di matrimonio, subire marchi d’infamia all’anagrafe, scoprirsi ostracizzato in famiglia, niente
più riconoscimenti dei figli, niente adozioni, niente
testamento o donazioni, etc.).
2.7. Amministrazione di sostegno.
Cosı̀ ancora sul terreno dell’amministrazione di
sostegno — per quanto concerne, in particolare, i
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nodi della (necessità della) difesa tecnica e i profili
delle gestioni “incapacitanti”.
La strategia sarà qui di lumeggiare — di nuovo,
presso giudici avvertiti come la salute mentale non
sia eterna per nessuno (e consci che ogni appoggio
a prassi morbide aumenta la probabilità di goderne,
un giorno, i benefici) — l’opportunità di un modello
applicativo che:
(i) potrà costringere qualche addetto ai lavori,
di fronte a un “cliente” poco facile, a faticare occasionalmente un po’ di più (senza avvocato il carico
istruttorio può appesantirsi, talvolta, per il g.t. o per
il cancelliere; qualora a monte non vi sia un pacchetto rigido, uniforme, bisognerà essere pignoli nei
decreti);
(ii) ha però il merito di scongiurare a priori le
umiliazioni di un patrocinio coatto, neppur propizio
o davvero indispensabile — permettendo all’assistito di uscirsene di casa o dall’ospizio, il primo
giorno di sole, senza accompagnatori di scorta, per
sbrigare lui stesso quanto occorre.
2.8. Bioetica, danno esistenziale.
Cosı̀ anche nei rapporti col dolore, specie quello
delle fasi terminali. Se proprio a un “fondamentalista” (lo stesso che non crede troppo a Oviedo, che
non ama discorrere di autodeterminazione, che non
guarda alla qualità della vita, che non crede al ruolo
delle circostanze, che osteggia il diritto dal basso)
accadesse:
— di vedersi centellinata la morfina o altri op-
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piacei (una brutta sera) per timore di una caduta
nella tossicodipendenza, o perché ciò accorcerebbe
un po’ la vita;
— di scoprirsi abbandonato a se stesso, là dove
le terapie contro la sofferenza ben poco possono (e
il solo modo, per smettere di patire, sarebbe poter
fare il grande salto);
— di non potersi sottrarre al tunnel di una
terminal sedation ineluttabile, senza ritorni o prospettive;
— di accorgersi, in un momento di lucidità,
come il proprio fiduciario non venga neppur interpellato dai sanitari;
— di sapere che nessun gradino del calvario
sarà risparmiato, a chi pur non lo vorrebbe?
Cosı̀ ancora, per quanto concerne le questioni
del danno non patrimoniale, specie il d. esistenziale
e morale. Se proprio a un giudice “tetragono” (cavaliere templare contro i barbari) capitasse:
— di vedere il proprio cane, un brutto giorno,
messo sotto da una macchina distratta; di essere
preso in giro da un tour operator disinvolto; di
viaggiare per mesi su treni freddi, con le cimici,
senza toilette?
— di restare bloccato con l’automobile per
colpa di una buca scavata dal vicino; di aspettare
dodici ore all’aeroporto senza informazioni di sorta;
di vedersi maltrattato sgarbatamente da chi ha organizzato il banchetto nuziale?
— di scoprire che la p.a. ha tagliato gli insegnamenti di sostegno a qualcuno di famiglia; di essere
perseguitato neghittosamente dall’ufficio delle imposte; di dover seppellire la propria madre in una
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bara piena di quei fronzoli che, da viva, essa detestava?
2.9. Senilità, inaridimenti.
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Cosı̀ infine sul terreno delle durezze professorali
— per quanto attiene ai fantasmi più lontani, ai
bersagli di sapore “terapeutico”.
(I) Il civilista classico — Lo studioso ancora
fermo alle pandette, in primo luogo: devoto al suo
sistema labirintico, prigioniero di formule e concetti. Ossessionato dai dettami della logica, indifferente ai moniti della statistica, ai costi economici
delle soluzioni, alla vita quotidiana degli istituti.
Se fosse il caso di riandare — ecco il quesito —
agli episodi da cui tutto è cominciato (le rivalità
inattese in dipartimento, il farsi strada di nuove
timidezze, gli ordini a tornare sempre presto)? Riconoscendo in lui il maggiore interessato a tornare
sui bandoli sospesi, a ordinarli in frontali meno
rigidi: attenti al suono del diritto comparato, al
confronto con le discipline “psi”, alle istanze dei
gruppi di soccorso?
(II) Il teorico delle scienze — L’epistemologo
raffinato, in secondo luogo: lo scienziato che analizza le cerniere, abituato a profili solo macro. Indifferente ai riscontri quotidiani, disattento a tutto
ciò che è dentro l’uomo, pressoché ignaro della
legislazione speciale, dei tranelli sul piano del processo.
Non sarà tempo di tornare, nuovamente, agli
episodi che l’hanno influenzato (austerità di certi
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incontri di famiglia, domeniche dai preti in oratorio,
imposizione di vestiti un po’ ridicoli)? Ammettendo
come sia lui il più disponibile, in effetti, a riprendere
gli antichi testimoni: riscontro per gli scambi giornalieri, attenzione ai cespugli del cuore, interesse a
controllare in che maniera sono vissute le indicazioni di principio?
(III) Il tecnico del mondo degli affari — Il giurista immerso nei problemi del mercato, in terzo
luogo: quello deciso a non uscire mai dal quinto
libro, esperto in problemi di bilancio, campione del
diritto societario. Lontano dai battiti della Costituzione, dai misteri del danno non patrimoniale, dalle
stanze del malessere ordinario, da insofferenze di
tipo ambientale.
Se il punto fosse, anche qui, di riallacciarsi alle
vicende da cui tutto ha preso avvio (certe aure
casalinghe troppo austere: la proibizione di buttare
via gli spaghi, il riutilizzo delle buste rovesciate, il
confronto coi coetanei più liberi)? Riconoscendo
che è lui quello che più invoca, non da oggi, i
giocattoli domestici di un tempo (Rosebud), in vista
di un lessico più ricco: sensibile alle contraddizioni
tra i formanti, al bisogno di pienezza negli uomini,
attento a ciò che al mondo appare liquido, aperto a
ogni registro leonardesco?
3.1. Fiction.
Tutt’altre le questioni da affrontare nel momento in cui dal piano della “realtà” si passi, tematicamente, al mondo della “finzione”.
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Non più dissuasioni politico-sociali in vista, questa volta, nessun malvagio da convertire al bene o alla
ragione; l’avarizia come elemento al centro, piuttosto, di un contesto di tipo narrativo, immaginifico.
Un plot adatto alla pubblicità commerciale (volendo), capace di incantare le grandi masse, spendibile da chi l’avrà realizzato:
(a) o come oggetto eminentemente letterario
— libro, commedia, serial, dramma, film, soap
opera, tv movie, servizio fotografico, fumetto, ballata, madrigale, racconto, poesia, romanzo in versi,
poema cavalleresco, opera lirica — utile magari a
qualche sponsor (che potrebbe volerlo patrocinare);
(b) oppure quale prodotto — spot, volantino,
e-mail, video, manifesto per muri, autoadesivo, telefonata promozionale, pieghevole in busta postale,
clip radiofonico, sondaggio per strada — di taglio
geneticamente/intrinsecamente reclamistico (ed è
quanto più interessa ai miei editor).
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3.2. Comicità
Che sfruttando il tema dell’avarizia sia possibile
costruire buoni intrecci, per fruitori grandi e piccoli,
non è certo una novità. Resta da vedere quale sarà
il taglio preferibile ai nostri scopi.
Allorché si toccano argomenti del genere, il
pensiero corre abitualmente ad autori e soggetti di
tipo comico: Plauto, Arpagone, Goldoni, Paperon
de’ Paperoni, gli Charlot d’epoca, le storielle sugli
ebrei, sugli irlandesi, sugli istriani, di cui ogni edicola delle stazioni abbonda.
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Non è del tutto sbagliato.
E non è un caso che i persuasori occulti, di ogni
dove, abbiano spesso sfruttato filoni simili, con finali
rocamboleschi tra i più vari.
Il “taccagno” che, non avendo voluto investire
al momento giusto, si trova scambiato — poi — per
un ladro, senza benzina, impantanato, coi pantaloni
che gli cascano; oppure inseguito da una capra,
ridotto a mangiare radici, lavapiatti in un ristorante:
magari costretto a ballare il lago dei cigni, a fare il
bagnino senza saper nuotare, penzolante nel vuoto
da un grattacielo, etc.
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3.3. Niente da ridere.
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Sono le versioni seriose/melodrammatiche però
— se ciò che si ha di mira è il grande pubblico (e se
si intende restare nel cuore degli spettatori) —
quelle su cui puntare.
Dante, Michelangelo, i fratelli Grimm, Balzac,
Dickens, Dostojevski, Mark Twain, Lee Masters,
Caldwell.
E in questa chiave tre appaiono — va detto — le
vie d’uscita da privilegiare.
Ci riferiamo alla versione “romantico-familiare”
(il cuore ha le sue ragioni, le cose devono prendere
un’altra piega, verrà il tempo in cui lei capirà), a
quella del “falso avaro” (l’apparenza inganna, le
persone non sono come sembrano, occorre un po’ di
pazienza), a quella “assistenziale” (cosı̀ non poteva
continuare, la situazione era diventata insostenibile,
qualcuno doveva intervenire).
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3.4. L’avaro in letteratura.
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Salvo che in ambito commerciale si tratta —
occorre aggiungere — di falserighe abbastanza collaudate. E tuttavia una certa originalità la figura
dell’avaro (non l’hanno mal pensata i miei editor) è
pur in grado di assicurarla, nella galleria tradizionale dei “cattivi”.
Ci troviamo di fronte anzi — per una platea smaniosa di perdersi, timorosa che il male possa vincere,
fiduciosa che arrivi il lieto fine — al più redditizio
letterariamente, nella rosa dei peccati capitali.
Il superbo è probabilmente più antipatico, come
vilain della compagnia, però anche tanto più sfruttato fra le muse; e l’osservazione vale altresı̀ per
l’invidioso (visto oramai in tutte le salse). Il lussurioso c’è da chiedersi chi lo vivrebbe come un
vizioso, oggigiorno. Il goloso, l’iracondo, l’accidioso
non sono fatti per suscitare ostilità; emozionano
poco, vanno bene per altri scenari.
E poi gli avari non sono rari nella cronaca — di
gente cosı̀ se ne incontra di continuo. Facile per lo
spettatore, scoprendone uno in un film o in un libro,
identificarsi nella vittima di turno: ”È la mia storia,
non sa cosa l’aspetta poverina!”.
4.1. La versione love.
La versione “love” dell’avarizia è, come dice la
parola, quella che s’impernia sul classico triangolo
amoroso. Nel nostro caso essa implicherà la presenza:
(a) di un cattivo, che è il nostro avaro;
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(b) di un buono, che è il rivale generoso;
(c) di una ragazza, contesa sentimentalmente
fra i due, giovane e con poca esperienza delle cose
del mondo.
È possibile anche invertire i ruoli di genere —
arrischiato però: si modifica il gioco delle parti
(potrebbe risultare troppo originale).
Destinazione del prodotto: il pubblico femminile, quello all’antica soprattutto, più sognante. I
maschi meglio se introversi, oltre i quarant’anni, di
provincia. Bambini e adolescenti quelli casalinghi,
educati in una certa maniera.
Leit-motiv su cui lavorare: chi mai si augurerebbe, oggi che viviamo nel XXI secolo, di trascorrere la vita accanto ad uno che abbia le caratteristiche — mettiamo — del padre di Eugenie Grandet?
Un essere che, se da fidanzato dimostra già sintomi
preoccupanti, non si sa cosa potrà diventare (ecco il
punto) all’indomani: non solo ignaro dei compleanni, nemico dei fiori, dei profumi, degli anniversari, dei ciondoli; ma capace di far storie per l’asilo
nido, per i libri scolastici, per le settimane bianche,
per un vassoio di paste.
4.2. Incontrarsi di nuovo.
Topoi romantico/esistenziali, da valorizzare in
sede di sceneggiatura.
(a) Lei dev’essere una che intenerisce il pubblico fin dall’inizio; nel suo passato una disgrazia familiare, un errore adolescenziale, un piccolo handicap: comunque una creatura fragile, delicata, cui si
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vorrà bene fin dal primo sguardo; impossibile non
chiedersi, anche per questo, come l’intera storia andrà a finire.
(b) Bisogna che il rivale buono, quello destinato a vincere, sembri poco affidabile inizialmente.
Buono e generoso sı̀ — però infantile, spendaccione, vagabondo. Altrimenti come mai lei, che gli
era legata fin dal ginnasio, lo lascerebbe per l’altro,
alla fine del liceo?
(c) L’avaro (che entra in scena a quindici minuti dall’inizio) deve sembrare a prima vista il miglior
uomo del mondo. Tutt’altro che tirchio. Meglio fargli
compiere anzi, dopo che i due si saranno conosciuti,
un gesto nobile, magnanimo: ad es., il riscatto di
un’ipoteca a beneficio di una vecchietta decaduta,
con relativo salvataggio dall’ospizio (in realtà non
erano soldi suoi, lui non poteva tenerli per sé comunque; questo però lo sapremo solo alla fine).
(d) Lo spettatore deve vedere — lui sı̀ chiaramente — i segni esteriori dell’avarizia; cosı̀ il tasso
alcolico aumenta. Ci saranno cosı̀, da un certo momento in poi, dettagli rivelati solo al pubblico. E ci
saranno particolari mostrati anche alla ragazza, che
si prestano a essere interpretati in due modi: l’uno,
in cui si vede che lui è un taccagno (e lo spettatore
capisce essere la versione giusta); l’altro, falso, in
cui lui fa bella figura, versione cui lei mostra di
credere. “La zia è ancora malata, non possiamo”;
“Ho avuto un’infanzia difficile”; “I soldi sono per i
bambini dello Zimbabwe”; “Abbiamo fatto un fioretto, decisione comune no?”. Lei (che fa il confronto coi suoi coetanei, tanto più irruenti) pare
apprezzarlo ancora di più per questo.
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(e) Al tempo stesso le rinunce cominciano a
pesarle. Niente oggi, niente domani, ogni week end
più grigio e austero del precedente. Vediamo la
fanciulla confidare al suo diario: “Zimbabwe sı̀, c’è
anche la vita quotidiana però! E se la zia poi non
guarisse più?”. Le amiche iniziano a fare qualche
insinuazione: “Senti, non sarà che lui … E poi
quella zia esiste davvero?”. Lei scaccia i dubbi dalla
mente, però …
(f) È a questo punto che ricompare in scena il
primo giovanotto; e si vede subito che è cambiato
(siamo al giro di boa, attenzione!). È stato via trenta
mesi; e le novità — ci sarà un primo abbraccio fra i
due, affettuoso ma formale, sotto i portici del corso;
poi il gioco delle occhiate, da lontano, negli incontri
successivi, per strada o al supermercato, sempre
casualmente — è anche lei a notarle. È lui, ma non
è più lui: adulto ormai, gli studi finiti, uno sguardo
diverso, portamento più solido, si è tagliato la
barba, già inserito nel mondo del lavoro.
(g) Due punti non sono cambiati. Primo, è
ancora innamorato di lei: non glielo confessa apertamente, si intuisce al volo però (prende atto che lei
appartiene ad un altro; la giustifica, beninteso,
quella volta non era maturo lui: e se è quello che
desidera …). Secondo, non ha perso il gusto dei
regali; pacchettini a sorpresa, sempre fragranti, azzeccati: una volta sono due orecchini liberty, una
compilation di Arthur Rubinstein, un’altra le poesie
di Emily Dickinson, una camicetta di pizzo di San
Gallo, l’ultimo Narciso Rodriguez. La gigantografia
degli ex compagni di scuola anche.
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(h) Una sera escono tutti insieme, li attende
una balera di campagna, simpatica e verace. Sono in
quattro, al reduce-generoso si accompagna una moretta, graziosa, che sulle prime ingelosirà la protagonista (in realtà è una che conta poco per lui). Ed
eccoci alla scena madre: ballano insieme, la nostra
bella e l’ ex risorto dal passato; prima un lento, poi
un veloce, poi un lento ancora, lungo quanto basta:
sguardi incerti, uno strano imbarazzo, le guance che
si sfiorano, lui che le sposta un ricciolo di capelli
(sulla tempia, usava farlo anche tre anni prima!), lei
che sente il cuore battere forte (tanto che anche lui
deve sentirlo: o è quello di lui invece che martella?).
Altro non succede, si capisce però che è ormai
solo questione di tempo.
Al momento del conto l’avaro è alla toilette,
pagherà tutto il “reduce buono”.
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4.3. Scelta dei particolari.
Sin qui — il finale è quello che aspettavamo (ma
non sono da escludere sviluppi ulteriori: lei e lui
felicemente sposati, con bambini, TV, piscina e
barbecue; nuove puntate da sceneggiare allora, fra
pentole, natali, malattie, problemi con la maestra,
viaggi, altri spilorci all’orizzonte …) — lo schema
generale della vicenda.
Restano da decidere i particolari adesso.
Ne indicheremo alcuni possibili: ai miei editor le
scelta dei migliori, più consoni al d.n.a. dei personaggi — episodio per episodio.
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4.4. Comportamenti da avaro.
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Punto primo: non devono sussistere dubbi, in nessun momento, sul fatto che l’avaro è davvero tale.
Nulla di più e nulla di meno di quanto serve al
pubblico — senza esagerazioni, però anche senza
mezze tinte o smentite.
Ad esempio, pescando nel repertorio classico:
teorizza con tutti che il pane vecchio è più sano,
gustoso; conserva in un cassetto le garanzie di ogni
elettrodomestico, compresi il phon, la grattugia e il
frullino, anche dopo averli cambiati; se può al supermercato sceglie i prodotti quasi scaduti e con lo
sconto (“Cosa cambia?”); accomoda personalmente
i “ciappini” vecchi, con l’ago è un vero maestro; non
butta mai via gli zolfanelli usati, in qualche modo li
ricicla (“Un fatto sentimentale”, sostiene); quando
è il giorno della domestica nel residence, pagata
dalla ditta, controlla sempre il sacchetto della spazzatura; in farmacia lo vediamo porgere la tessera
sanitaria anche per l’aspirina; ai buffet dei convegni
si fa preparare dai camerieri, cui sussurra nell’orecchio qualcosa, un superfagottino di dolcetti, che
porta via con discrezione (tutti sanno che non ha né
cani, né nipotini).
Ha sempre una scusa per sottrarsi alle collette
(“Grazie, preferisco fare per conto mio”, nessuno
vede mai niente però). Riconosce al volo quelli simili
a lui, sa che la cosa è reciproca; se può si allea con loro,
se no si barcamena (“Non ho fame, aspetto fuori”;“Beati voi che potete”; “Ognuno paga per quello
che ha mangiato”). Se qualcuno lo prende in giro alza
le spalle: nega o ammette secondo le circostanze, non
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demorde mai comunque (“Liso sui gomiti? È un ricordo del nonno”; “Mughetti ogni settimana, per
forza è fallito”; “L’ultima volta ho pagato io, ricordate?” — era sedici mesi prima).
4.5. Generosità.
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Punto secondo: non dovranno esserci dubbi né
sulla generosità del futuro vincitore, e di questo
abbiamo parlato, né su quella della protagonista.
Lei in particolare: potremmo mostrarla — in
episodi diversi della serie — che non esita a perdere
due ore per portare un gattino ferito, non suo, dal
veterinario; che presta l’unico ombrello della macchina ad un’amica, in un pomeriggio di pioggia
(“Avrà smesso quando arrivo”); che regala il suo
cono-gelato, con le serrande della gelateria appena
abbassate, a un bambino goloso/deluso di passaggio
(“Ne hai più voglia tu”); che accompagna una suora
semisconosciuta all’aeroporto distante 50 chilometri (“Mi fanno allegria gli aerei”); che consegna agli
oggetti smarriti una spilla di smeraldi, trovata la
notte prima al parco; che spende a un brindisi, fino
all’ultimo centesimo, i soldi di una scommessa vinta
coi colleghi (“Porta bene!”). E cosı̀ via.
Nessuna possibilità di confusione anche da questo lato.
4.6. No agli sperperi.
Punto terzo: generosità non vuol dire prodigalità, dilapidazione.
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Sul conto della fanciulla non ci sono problemi:
sono poche le ragazze cosı̀, in generale, e sappiamo
già che lei detesta gli sprechi; non è questo che
spaventerebbe comunque il “buono”.
Quanto a quest’ultimo invece. L’ideale è mostrarlo che rifugge dal compiere — nel secondo
tempo della storia, sorridendo dell’antico episodio,
davanti agli amici — qualche “spacconata” che
aveva commesso invece nel primo: buttare ad es. al
vento, da una spyder in corsa, di notte, tutti i soldi
che ha in tasca (“Ero giovane”); tentare una puntata forte a qualche gioco d’azzardo (“Che noia
vincere sempre!”); accendersi una sigaretta con un
biglietto da cento euro (“Fallo tu stavolta”); acquistare una costosissima frivolezza d’epoca a un’asta
(“Troppo a buon mercato per me!”); organizzare
una cena a base di caviale originale e tartufo bianco
del Périgord nel locale per miliardari della città
(“Sono vegetariano ormai”).
È segno che lei potrà fidarsi questa volta.
4.7. Fascino del male.
Punto quarto. Scegliere un volto ambiguo, affascinante, per la parte dell’avaro — modello Joseph
Cotten, Hitchcock, “L’ombra del dubbio”.
Non c’entra con l’avarizia? Esalterà però quegli
ingredienti di doppiezza che sono preziosi per il
nostro intreccio. Gli avari cronici tendono spesso a
occultarsi, certi di non venire sbugiardati; e con un
lievito del genere la suspense non può che migliorare.
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Come si fa a non innamorarsi di uno bello come
Cotten (è un passaggio di cui abbiamo bisogno) —
e come non disamorarsene d’altronde, una volta
caduta la maschera?
Soprattutto, è il pubblico che deve cominciare a
detestarlo, quando lei non sospetta ancora niente.
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4.8. Doppiezza.
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Doppiezza dunque.
Vediamo il nostro elargire, cosı̀, mance strepitose davanti alla ragazza e tornare poi a riprendersele di nascosto, accampando uno sbaglio. Infilare
una grossa banconota nella cassetta per l’elemosina,
con lei al fianco, la candela accesa — un primo
piano svelerà allo spettatore che il biglietto gli è
rimasto in mano.
Compilare con lei accanto un questionario in
thailandese — l’ha studiato da giovane — in cui
sembra adottare un bambino da lontano (scopriremo più tardi, anche lui tiene un diario, che ha
scritto il contrario di quanto a lei dichiarato).
Fa ogni tanto questo giochetto, lo diverte: estrae
dalla tasca, scorgendo un mendicante all’angolo
(meglio se cieco), una moneta da due euro, che
ostenta sotto gli occhi di lei, e nascostamente anche
una monetina da un centesimo; si tiene fra la ragazza e il mendicante, passando vicino a questi, cosı̀
che lei non possa vedere; commenta poi ad alta
voce: “C’è chi dà due centesimi, che gente, meglio
nulla!”, nel mentre lascia cadere dentro il cappello il
tondino da un cent.
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Un giorno che il diario di lui si apre per caso, in
un momento in cui lei è rimasta sola nella stanza,
verrà fuori tutto quanto.
4.9. Psicanalisi.
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Punto quinto, la psicanalisi.
Sappiamo già — della ragazza — perché si incapricci del nuovo arrivato (alla fine del liceo);
sappiamo anche — del “buono” — perché ami lei
da sempre (ha tutto per piacere).
Poco sappiamo dell’avaro invece, delle sue pulsioni recondite. Uno che pensa solamente ai quattrini, come mai tanto interesse riversato su cose
amorose?
Non gli bastano i francobolli da pinzettare la
sera, i listini di borsa, i gioielli di famiglia sempre
lustri? I feltrini su cui pattina in casa (e chiede agli
ospiti di fare lo stesso) per non rigare il pavimento
di cera?
Il punto è evidentemente cruciale.
4.10. Frustrazioni affettive.
Risposta che suggerirei ai miei editor di adottare: perché incontrando la ragazza — quel giorno
allo sportello della banca — gli era scattato dentro
un ricordo.
Qualcosa di lei gli aveva fatto venire in mente,
all’improvviso, una persona del suo lontano passato.
Per il viso, per il modo di fare, per la voce.
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Qualcuno — ecco Freud in arrivo — che per lui
molto aveva contato.
Una donna che il nostro aveva adorato per anni,
e che l’aveva frustrato di continuo — per ciò che gli
aveva preso, per quanto aveva in sé e che lui non
aveva avuto il coraggio di chiederle.
La madre, ad es., che da piccolo non gli aveva
riservato abbastanza carezze, abbracci, che ignorava
quasi cosa fossero le coccole; la giovane istitutrice
tedesca, che lo proteggeva contro i monelli del
villaggio, e ogni sera gli portava via l’orsacchiotto; la
sorella che giocava con lui in vasca da bagno, e gli
sottraeva regolarmente la paghetta settimanale, imponendogli di tacere; la compagna di scuola che si
lasciava sciogliere i nastrini azzurri nei capelli, ridacchiando, ma gli mangiava ogni volta la merenda.
Una o più di queste figure del passato — tutte
quante magari.
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4.11. Il bandolo.
Ecco il bandolo profondo.
Senza rendersene conto, per un oscuro bisogno
di compensazione (per dotarsi di qualcosa che nessuno potesse portargli via o rifiutargli), era sprofondato man mano nell’avarizia.
Soldi e diamanti — pur accarezzati ogni sera —
non gli avevano dato tuttavia un gran piacere. Se ne
era accorto ben presto.
Si placava qualcosa in superficie, ma solo per un
istante. Era ossessionato dalla vista e dal tocco di
quanto possedeva (arazzi, diademi, monili sacri,
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titoli, incunaboli, miniature, mobili del settecento,
ori di ogni tipo, pissidi, affrancature uniche, argenti
antichi, pietre, un Rembrandt perfino); non ne ricavava una vera pace però.
Soltanto con la ragazza si era accorto che tutto
era diverso: sospese le paure momentaneamente,
dileguato quel tremito costante.
Come se le ombre femminili della sua infanzia
stessero risarcendolo, una alla volta, per ciò che gli
avevano sempre negato.
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4.12. Redenzione.
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Sta acquistando punti cosı̀ il nostro avaro? Tutto
sommato un infelice da aiutare?
È ben possibile — il da farsi, sul piano massmediale, lo suggeriranno comunque i miei editor.
Se la scelta è che per le puntate successive nulla
cambi, toccherà inventare — che so — qualche
colpo di scena: un incidente a metà di quegli amori
mancati, un delitto (forse basta colposo), un rapimento malriuscito: un punto di non ritorno comunque, tale da impedire che il percorso di liberazione
all’indietro continui.
Si vuole che la “redenzione” vada avanti invece? Niente di più semplice: nessun break narrativo col passato, l’avaro cesserà di essere tale sempre di più ogni giorno, l’amore lo avrà guarito
definitivamente. Cosı̀ si entra nella seconda parte
della trilogia però.
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5.1. Colpi di scena.
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Seconda parte dunque: l’avaro che non è — che
scopriamo non essere mai stato, che sceglie di non
essere più — un vero avaro.
È una formula, va detto subito, che può andare
incontro a un buon successo.
Non sarà una svolta da poco per lo spettatore —
parliamo di quello ben ispirato, o che ambirebbe
quantomeno a sentirsi tale (il target degli utenti
taccagni, in cerca di conferme esistenziali, che vorrebbero cioè il cattivo impenitente e ugualmente
vincitore sugli altri, è apparso poco significativo ai
miei editor) — scoprire che all’irritazione e al fastidio, sino a quel momento nutriti, fa seguito un quid
di roseo, di consolatorio.
Con o senza ricadute di tipo sentimentale.
Cioè una fanciulla potrebbe anche restare nell’intreccio — non sarebbe impossibile inventare
qualcos’altro, tuttavia, come risvolto o trofeo per la
metamorfosi.
Ad esempio: nessun dubbio, dopo una scoperta
del genere, che a meritare la vittoria finale dovrà
essere quello, dei cinque in lizza, che era pur emerso
come il più bravo e preparato, sin dall’inizio del
concorso — e che il consiglio di amministrazione
della società, fintantoché avaro, non poteva invece
promuovere.
Oppure in palio potrà esserci (nella storia) l’assegnazione della parte in un film, il successo in una
gara di appalto privato, il primo posto a un concorso
di piano, il Nobel per la pace, la consegna delle
chiavi della città, la nomina a cardinale, l’amicizia di
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King Kong — dipenderà via via dal prodotto, dallo
sponsor, dalla pubblicità, dall’ampiezza del budget.
5.2. Altalene, folgorazioni.
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Sulla carta le combinazioni possono essere più
d’una. Molto sta nell’obiettivo commerciale o culturale che si ha in testa.
Dopo l’avaro salvato dall’amore — ma la “folgorazione” potrebbe anche giungere, in alternativa,
da un viaggio in India, dall’incontro coi down del
quartiere, dalla lettura di un bollettino della Fao,
dal ripasso della vita di qualche santa — potremmo
immaginare il caso di chi si è preso un colpo in testa,
e per questo motivo è diventato tirchio, e per un po’
tutti lo detestano; fino a quando non gli arriva un
altro colpo in testa, e torna ad essere il filantropo di
sempre (modello “Luci della città”).
Le emozioni nel pubblico non dovrebbero mancare.
Altra figura non banale: l’adolescente nato e
vissuto in una cerchia di soli avari, senza contatti col
resto dell’umanità, che trova naturale tenere per sé
ogni cosa, specie se profumata o luccicante (un
tesoretto sotto il faggio del giardino); finché dal
muro della villa accanto non si affacciano due trecce
bionde, un sabato mattina, una mano che sporge
delle albicocche in regalo, e tutto si rivoluziona.
Coi bambini dovrebbe funzionare.
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5.3. Il play boy, il sosia, il commediante.
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Proseguendo coi target e con le nicchie — non è
detto che la destinazione sia una sola, nessuna specie di avarizia esclusa, ampi spazi riservati al merchandising:
(a) Il caso del play boy che fa la parte dell’avaro per scommessa, e alla fine riesce a vincerla,
dimostrando che anche cosı̀ non fallisce — uno
come lui — nella conquista della bella di turno;
finché non salta fuori che lei sapeva in verità del
trucco, e gli aveva ceduto per amore di ben altre
qualità mascoline: sicché alla fine lui deve restituire
i soldi, ma intanto ha trovato la felicità (da abbinare
a una linea di cosmetici per uomo, o di farmaci con
prestazioni a sorpresa; adatto per la réclame di una
casa da gioco; eccellente per Vogue Challenge, nonché per la serie “Fiducia in voi”: da affiancare
eventualmente alle neo trasmissioni sportive di
Sky).
(b) L’affaire dell’“avaro sosia”, la storia cioè
del capitano di industria che è di suo fin troppo
mecenatesco: e infatti tutti gli vogliono bene, dalla
segretaria, ai posteggiatori, al parroco, ai centri
sociali perfino; sinché non inizia un giorno a comportarsi in maniera strana, cioè con modi da spilorcio matricolato, il che fa sı̀ che tutti quelli che
possono lo abbandonino; sintantoché non si scopre
che dietro i nuovi gesti c’è in realtà il gemello
monozigote — uguale di faccia ma cattivo di indole,
oltre che povero in canna, di cui tutti ignoravano
l’esistenza — il quale ha rapito e rinchiuso in una
segreta il fratello buono; con un finale della storia
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lieto al cento per cento, coincidente con quello che
tutti si auguravano (indicato per il lancio di una
serie di autotest; ottimo nel contesto di Class, di
“Tranelli 2010”, di Twins, consigliabile per la réclame di macchine della verità amatoriali: buono
per spot pomeridiani su fiere di paese, raduni di
vecchi artisti, campeggi scout ad alta quota, pensionate di lusso).
(c) La vicenda dell’uomo cui gliel’ha ordinato il medico di comportarsi da “avaro estremo”,
per guarirlo di una strana idiosincrasia verso le carte
di credito — sindrome non ufficializzata, terapia
sperimentale, a base ipnotica, giunta dal Nord —
fintantoché non sopravviene la guarigione o fino al
giorno in cui non si viene a sapere, da Lancet,
trattarsi di una diagnosi sbagliata, di una malattia
immaginaria e di una cura fasulla (buono per “Corsi
antitruffa” a fogli mobili; da abbinare ai dépliant
delle banche rurali, adatto a case farmaceutiche
alternative: ottimo per Illusion, per le trasmissioni
sul laicismo del lunedı̀, per Guinness primati; irrinunciabile nel battage delle enciclopedie dell’Antiscienza).
5.4. La fiaba, l’infiltrato, il giovinetto, il saltimbanco.
Altri copioni e pacchetti significativi:
— C’è la storia del principino nato generoso,
anzi un po’ scialacquone, che viene gettato nell’avarizia il giorno del battesimo, da una strega rancorosa che il re suo padre si era dimenticato di invitare
alla cerimonia; e che riuscirà a liberarsi della fat-
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tura, con somma gioia del popolo, sposando più
tardi il drago e trafiggendo la fanciulla in catene
(cioè l’inverso: per le bambine dell’asilo e per gli
abbonati ai DVD di Hanna e Barbera; meglio nelle
versioni a cartoni animati: indicato per gli Amici
della fiaba aristocratica, nonché per Case di riposo
assistite: perfetto per chi ai Blockbuster segue il
ciclo Royaume, oppure la serie Compleanni e Onomastici).
— C’è la saga dell’eroe bianco col turbante,
agente del controspionaggio, che s’infiltra come
“avaro convertito” in una setta di nemici del mondo
occidentale (sobri oltre ogni limite, custodi del tesoro nella grotta, chiusi agli allettamenti delle civiltà, amici della scimitarra, autosufficienti sotto
tutti i punti di vista), e riesce a sventare cosı̀ varie
minacce terroristiche, concentrate nella zona artica
e nel mare di Bering (indicato per le nuove avventure di Mandrake o di James Bond; ideale per
campagne contro i fondamentalismi; eccellente negli speciali di Limes, del Nouvel Observateur, di
“Salgari rivisitato”, di New warriors: sconsigliabili le
edizioni in lingua araba, da abbinare alle trasmissioni sui reduci della guerra del Golfo).
— C’è la vicenda del giovane blasonato che è
costretto dallo zio cuorduro, vittima di retaggi misteriosi, a comportarsi sin dalla prima infanzia come
un “avaretto” (non prestare il pony al figlio del
fattore, non far copiare il compito di aritmetica in
classe, non dividere l’ultimo biscotto al torneo di
polo, no regalare agli orfani i costumi smessi di
carnevale, non offrire un giocattolo per la pesca di
beneficenza), sinché il triste parente non passerà a
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miglior vita, sostituito da nuove presenze femminili
e da promettenti scenari nelle università californiane (destinato alla fascia tardo-pomeridiana,
buono per le edizioni Dont be cruel, per “Migliorarsi”, per i pacchetti a sorpresa di “Cuccioli del
mare”; volendo per la réclame del nuovo Skifidol,
discreto come marchio di Telepalingenesi).
— Ci sono le avventure del saltimbanco che fa
la parte del “finto tirchio” in un musical, e cade
vittima a un certo punto di un’amnesia, dopo una
capriola, in una landa sconosciuta, dove rammenterà per un po’ di tempo soltanto i gesti e le battute
dello spettacolo: cosa destinata a procurargli inconvenienti di varia natura, sul piano amoroso e finanziario, sino a che un fortunoso riposizionamento
buñueliano non lo riporta alla vita reale (ottimo per
la serie Dont forget, edizioni lilla e azzurra, nonché
per il rifacimento de Les enfants du Paradis, dell’“Angelo sterminatore”, e di Freaks; adatto ai fustini di coriandoli a fascia alta: perfetto per gli
ammiratori di Danny Kaye, eccellente nell’abbinamento al “Piccolo mago” — con formati pensabili
per più età).
5.5. Il sopravvissuto, il morto, il sociologo.
Canovacci di particolare delicatezza:
(i) Il “Dossier post Lager”, ossia i tormenti
dell’ebreo che ha continuato a pensare unicamente
a se stesso, mentre era a Buchenwald, ed è riuscito
cosı̀ a sopravvivere; e che negli anni seguenti, tornato alla libertà, e non perdonandosi quegli eccessi
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di egoismo, reagirà in modo paradossale, giorno per
giorno, ossia con sprofondamenti ulteriori nella spilorceria: fino a quando l’incontro con un altro ex
internato — da lui salvato inconsapevolmente nel
lager — non gli restituisce un po’ di serenità e di
autostima (appropriato per campagne antinegazioniste, ottimo per “Stati di necessità”, per “Usuraio e
gentiluomo”, per Hard Secrets, consigliabile a spettatori poco impressionabili, buono per gli ammiratori di Rod Steiger e di Spielberg: tarda serata
comunque).
(ii) Il caso dell’“Avaro morto”, ossia le tribolazioni del magnate che da vivo aveva conosciuto
momenti di stringatezza, e a cui viene concesso da S.
Pietro di tornare sulla terra, brevemente, per dimostrare che in realtà era stato tutt’altro che avaro;
dimostrazione destinata al successo, grazie alle dichiarazioni dei tanti cui in vita aveva regalato di
tutto, e grazie alla scoperta che i tre che il nostro
aveva preso, in effetti, a calci meritavano anche di
peggio: sicché, a tempo scaduto, il falso avaro si
vedrà accogliere in paradiso — dopo un breve passaggio in purgatorio (indicato per Mission, serie
natalizia, per i quaderni africani di Spiegel, per i
fascicoli executive di “Ritornano”; ottimo come lancio di rimedi contro l’insonnia, imprescindibile nell’abbonamento ad “Aldilà”, indovinato per un ciclo
pay-tv su Jean Gabin).
(iii) Le vicissitudini dello “Studioso sotto mentite spoglie”, la storia cioè del sociologo che imita il
percorso scientifico/esplorativo di E.Goffman, entrando quale finto paziente in una clinica per “avari
cronici”; e incontra qui una graziosa infermiera con
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cui sarà tanto persuasivo, nel recitare la parte del
taccagno, che perfino lei comincerà a detestarlo;
sentimento destinato a rovesciarsi completamente,
sei mesi più tardi, quando ritornato alla vita normale il nostro scrive il libro sull’avarizia che si
prefiggeva, vince il premio Pulitzer, e ha la ventura
di reincontrarla, stupefatta sulle prime, raggiante
infine, nella libreria dove avviene la presentazione
dell’opera (indicato per Classici del sogno, abbinabile ai fascicoli di Psichiatria popolare, agli speciali
di Bild, ai quaderni trimestrali dell’Oréal; buono per
le edizioni di Smiling Asylum, di Nuovi Travestimenti, di Harmony universitaria).
E siamo entrati cosı̀, parlando di disagio, nella
terza parte della trilogia.
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6.1. Motivi assistenziali.
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Quello “istituzionalizzante” non è, in effetti,
l’unico sbocco da immaginare per i contesti antropologici che sono al centro della terza parte: per le
storie in cui l’avarizia si presenta cioè, all’esterno,
con forti connotati di morbosità o di stramberia —
tanto da richiedere l’entrata in campo (al limite la
neo attivazione) di qualche Servizio sociosanitario.
Si tratta, osserviamo, di situazioni in cui lo spazio che si offre alla pubblicità commerciale appare
quasi sempre di prim’ordine: ricchi gli ingredienti
per commuovere o indignare, svariate le figure potenziali dei soccorritori, innumerevoli le combinazioni del bisogno o del pericolo, infinite le possibilità di coups de théâtre e ribaltoni — compresi quelli
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di tipo sentimentale (taluni in chiave più “audace”
del consueto).
6.2. Pholie à quatre.
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Cominciamo dal caso, non proprio eccezionale,
in cui l’avarizia si presenta immersa entro le aure
della malattia mentale.
Il dossier di lavoro, che suggerirei ai miei editor,
è in particolare il n. 15/d, estate 2009 (Folie à
quatre).
Di chi si parla — Piccolo gruppo di famiglia (le
prime scene andranno “in oggettiva”, unico il pubblico a seguirle). Madre non più giovane, tre figli
maschi, adulti ormai o quasi. Vediamo i quattro
barricati in casa, persi dentro una sorta di preistoria
— malgrado la presenza, sembra, di cospicue
somme di denaro, nascoste sotto il pavimento.
Palazzo elegante, primi del novecento, quartiere
alto-borghese; ultimo piano, d’angolo, finestre a est
e a nord.
Campanello senza scritte, citofono guasto, scuri
chiusi; niente antenne o parabole. Cassetta delle
lettere zeppa di avvisi, pieghevoli dei supermercati.
L’appartamento — Dentro le stanze il bene e il
male, mescolati strettamente.
Pavimenti ingombri di stracci e immondizie,
crepe sulle pareti, niente luce elettrica, né gas, né
telefono; un rubinetto che gocciola: sedie traballanti, cristalliera con argenti inglesi, letti sfondati e
visibilmente non rifatti: buio, un violino del ’700,
ragnatele in alto, vetri sporchi alle finestre.
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Tappeti persiani mai puliti, siringhe sparse su
una consolle, pentole nere coi buchi, un lampadario
storto di Murano; avanzi di candela, un piccolo
Bellini, un giradischi a manovella, chiazze di umido
sui muri: tracce di topi, due acquerelli di Renoir
(autentici), maioliche sbrecciate.
Gobelins, una vecchia radio, mobili coi piedi
storti, l’Enciclopedia britannica; due gatti malaticci,
un pappagallo spaurito, cineserie, cibo andato a
male: due minisculture di Manzù, vasetti di salvia e
di basilico, carte moschicide lı̀ da mesi.
Fuori dell’uscio — Un’assistente sociale, del Comune, seduta sui gradini delle scale: trentadue anni
e (come presto sapremo) originaria del sud, da anni
trapiantata in settentrione. Sposata, due bimbi piccoli, aspetta il terzo da poco — si comincia a vedere.
Viso bianco e luminoso, grandi occhi castani,
capelli ricci; florida, voce affettuosa, sorriso aperto.
Capace nel suo mestiere.
Quel venerdı̀ la ragazza — Appare triste, piange
silenziosa. L’avevamo vista informarsi (all’inizio
della storia) presso il postino, chiedere ai negozianti
della zona, ai condomini: riuscendo a sapere poco o
niente però.
Quel gruppo familiare? I figli grandi (il maggiore e il mediano) mai incrociati né sentiti da
nessuno. Con la madre incontri rari, del vicino di
pianerottolo: una donna intabarrata, pallida e magra (pare), sciarpa arancione, il cappello: zero scambio di parole.
Nessuno venuto mai a cercarli, a chiamare dal
basso (la notte forse).
Unico a uscire regolarmente il figlio piccolo, per
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le spese. Bruno di capelli — stando al farmacista —
pantaloni alla zuava, ciuffo sugli occhi, sguardo
perso. Rapido nel gettarsi giù delle scale, nello
sgattaiolare su con le cibarie: conta i centesimi
sempre.
I mesi precedenti — Sei mesi orsono ha bussato,
la ragazza, la prima volta: nessun esito. Uno strusciare di qualcosa dall’interno (le è parso), respiri
lenti, di più di una persona.
Le altre volte che è tornata nessuna risposta,
tutto uguale.
Da un po’ di tempo ha scelto di arrivare nel
primo pomeriggio: talora passa di mattina, o verso
sera, niente di nuovo (per il portone suona a caso,
“Comune, grazie!”, qualcuno apre). Due volte la
settimana ultimamente.
Esce dall’ascensore, toc toc, non insiste. Si accomoda sui gradini, apre la borsa, scarta una caramella; estrae un libro o il giornale. Circa dieci
minuti dura ogni “visita”; canticchia alle volte: intuisce che dall’altra parte seguono le sue mosse,
forse dallo spioncino. Nessuno apre mai.
Quegli odori — Spiega che è lı̀ per aiutare,
domanda di cosa c’è bisogno; parla a voce alta, quel
tanto che occorre. La polizia, i vigili urbani, non
pensa certo di chiamarli.
Perché non riparare il campanello però? Sceglie
argomenti di buon senso.
Quegli odori che escono dal sottoporta: non
sono granché, meglio pensarci forse. Fa freddo
fuori: c’è un giro d’influenza, cattiva quest’anno
(“Anche in ufficio, conviene vaccinarsi”). Il vicino
di sotto: protesta, infiltrazioni dal soffitto (“Color
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ruggine in bagno, un tubo pare”). La grondaia d’angolo: sembra che perda, quei fili che penzolano al
vento poi (“Pericolosi, sono della TV, ma l’avete
voi?”).
Un pasto caldo dai frati: si potrebbe anche farlo
portare a domicilio, sono solerti i religiosi. Una
mano di pittura alle pareti: ci vorrebbe, stando al
naso perlomeno (anche gli scuri, “Ci penso io a
cercare”). Qualcuno tossisce da dentro: non bello
da sentire, l’ambulatorio è vicino, basterebbe prenotare (prende lei l’appuntamento? È un po’ infermiera anche). Un contributo in municipio: possono
darlo, con lei dentro è più facile — e se non interessa, se i soldi non mancano, lasciarli in casa conviene?
Perché triste quel giorno — È passata ugualmente “quel” pomeriggio; per certi versi apposta;
come se soltanto lı̀ potessero capirla.
Le hanno rubato il portafoglio (spiega), ecco
cos’è successo in mattinata. Sull’autobus, non se ne
è accorta al momento. Settecento euro, settecentotrenta anzi, il conguaglio di fine anno, appena ritirato alla posta, ancora dentro la busta. Dio sa per
quanti voci servivano: il debito dal droghiere, le
medicine del primo figlio, il giaccone per il secondo,
riparare la lavatrice, una nuova caffettiera, l’abbonamento Rai, due regalini (“Li avevo già scelti”).
Continua a raccontare di se stessa, non l’aveva
mai fatto — le parole escono da sole dalla bocca.
Vita privata — Triste certo, e come se no! Sconsolata, rabbiosa anzi.
Tante le cose che non vanno, nella sua vita —
piccole magari, ma tutte insieme! La capufficio
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odiosa (sempre un “Non si può!”), sfaticate metà
delle colleghe, il marito con problemi di salute
(“Mai che si curi”), quel dirigente che le sta dietro
(“Un metro e quaranta, non si lava”); la suocera con
cui non va d’accordo, la casa troppo piccola, i vicini
pettegoli, l’asilo sempre più caro, mai una vacanza.
È in sovrappeso anche (“Mangio sempre”).
E il furto adesso. Tanti i derubati che dicono:
“A me importa solo dei documenti”, per lei no,
sono i soldi a contare — quelli là perlomeno: spesi
già tutti nella testa, fino all’ultimo.
Col nuovo arrivo in vista poi … una femminetta
parrebbe, tutto bene. Contentissima, non si discute,
un regalo del cielo (dopo i due maschi). Un pizzico
di fortuna quotidiana in più però! “Studiare, quello
sı̀ sarebbe importante; non come me, che ho smesso
troppo presto”. Si guarda in grembo, sussurra alla
bambina: “Pediatra, chirurgo magari, ti piacerebbe
un giorno? Tanta più libertà piccolina, la possibilità
di fare ricerca, salvare delle vite …”.
Ah, quei soldi rubati — rieccola sulla terra! La
testa ancora alle medicine del figlio, al debito da
saldare, ai regalini: gli occhi lustri ...
Raccoglie le sue cose, punta le braccia per andarsene.
In quel momento — È allora che vediamo schiudersi la porta alle sue spalle.
Una fessura all’improvviso: tre centimetri, poi
sette, poi quindici; un viso che si affaccia. La ragazza nemmeno se ne accorge. Dal pertugio è la
madre che si sporge; i figli a un metro, l’uno sull’altro, a sbirciare.
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Si apre ancora l’uscio, lentamente; la figura esce
per intero sul pianerottolo.
La busta — La vediamo finalmente: una donna
alta, lineamenti morbidi, il foulard giallo-arancione
(dev’essere quello). Si vede che in gioventù era
bella, lo è ancora del resto.
Avanza leggera, si avvicina alla ragazza. Questa
la sente, si volta, balbetta qualcosa, gli occhi sgranati.
È la madre che parla però, con dolcezza (un
accento ungherese): “Ho sentito signora; anche le
altre volte; ma è diverso oggi, abbiamo deciso di
aprire”. Dopo un attimo: “Vorremmo fare qualcosa; siamo d’accordo coi ragazzi, tutti quanti”. Tre
volti incerti sul dietro che annuiscono.
Con voce ferma: “A noi i soldi non mancano: so
che può sembrare incredibile, ma è cosı̀”. Cerca le
parole: “Per noi quella somma è ben poco, le assicuro; per lei invece … Se permette, quello che le
hanno rubato vorremmo darglielo noi, adesso”.
Una busta scura, la porge alla ragazza. “Ecco, non
dica di no, lei è una persona … — esita — mignonne, com’è che dite voi?”. Con aria saggia:
“Deve pensare ai suoi bambini … a tutti e tre
adesso”.
“Non come quelle altre che venivano prima,
minacciose!”. Una pausa: “So che non vuole, che
non potrebbe, l’etica professionale, ho lavorato anch’io … le dico questo però: che resterà un segreto,
fra noi cinque; per sempre. E che se un giorno
ritrova quei soldi, ce li restituirà”. Dopo un momento: “E che se accetta, terza cosa, siamo d’ac-
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cordo che entri subito, da noi; a parlare, a fare
conoscenza … non è per questo?”.
Sorride un po’: “Tenteremo, non è la prima
volta. Soltanto se accetta questa busta però”. Guardando indietro: “C’è un po’ di disordine dentro,
questo però lei lo sa già. Non prenderà paura”.
Bisbiglia ancora: “Un secret entre nous”, mentre le
fa strada con la mano.
Finale di partita — Si ferma qua il dossier 15/d,
i particolari del seguito mancano. Da altre fonti
però qualcosa è emerso.
È sicuro che la ragazza, dopo un attimo di
esitazione, si è alzata e ha seguito i quattro dentro
casa; e che dopo un’ora ne è uscita.
Della busta (la seconda) non si sa esattamente.
Risulta che il debito col droghiere è stato pagato tre
giorni dopo; risolti anche i problemi dell’asilo.
Qualcuno dice che i settecento euro erano stati
trovati, dopo 24 ore; altri che il borseggiatore non è
mai stato preso.
La suocera pare sia ancora lı̀, meno arpia però.
La capufficio imperversa sempre, la gravidanza è
arrivata intanto al mese giusto: la ragazza è entrata
in permesso di maternità. Alla ripresa, è già deciso
che avrà il “comando” al reparto minori della provincia.
In veste privata (col pancione) va ancora a
trovare i quattro, settimanalmente. Sono ancora lı̀,
ma seguiti bene ormai, da servizi vari.
Alzando gli occhi, si vede che gli scuri della casa
sono aperti; aggiustato il campanello, pure il citofono. Dicono che è stato aperto un conto postale; la
grondaia all’angolo non perde più, nessun filo che
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svolazza. Sembra che anche l’allacciamento telefonico sia imminente.
6.3. Un film famoso.
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Vicenda meno tormentata, adesso, nel segno di
Frank Capra.
Canovaccio ispiratore “Angeli con la pistola”.
Ossia la vecchia mendicante ubriacona che —
grazie a un’eccezione alla consueta tirchieria, da
parte di un azzimato gangster di New York (che ha
l’abitudine di comprarle mele portafortuna, pagandole il minimo) — ce la fa a trasformarsi in una ricca
gentildonna, per qualche giorno: riuscendo a coincidere, in questo modo, con l’immagine che di lei si
era fatta la giovane figlia, vivente da sempre in
Europa, promessa sposa a un aristocratico spagnolo; tornata in America due settimane per conoscere la madre.
Una messinscena destinata — per merito del
malavitoso non più avaro, e della corte dei miracoli
locale (ecco il motivo dei Servizi) — al più insperato
dei successi, nella gioia generale; culminante in un
veglione al Waldorf Astoria, dove interverranno,
partecipi alla commedia, entusiasti di poter compiere una buona azione, i personaggi più in vista
dello Stato di New York: sicché la figlia potrà
ripartire alle volte dell’Europa, insieme al quasi
marito, orgogliosa dei lombi da cui proviene, e con
una fede raddoppiata nella felicità che l’attende.
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6.4. Versione all’italiana.
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Variante all’italiana adesso — che proporrei ai
miei editor, con un intreccio più vicino ai nostri
tempi (come chiedono loro, del resto!).
(a) la “vecchia” mendicante diventa una pensionata (sociale o baby), vivente in un capoluogo
del Sud Italia; nell’intento di arrotondare i 367 euro
mensili “batte”, ogni tanto, con clienti specializzati;
uno di essi, un colombiano, le passa — quand’è in
loco per affari — un po’ di coca, del tipo migliore;
(b) il gangster è anche qui un gangster, solo,
fa il capomafia (o ’ndrangheta, camorra, corona
unita ..); signore della cosca locale, temuto da tutti,
suo è in particolare un night per miliardari, della
zona, l’Happiness: abbronzato, tatuato, bisex dicono, sniffa roba buona: superstizioso, compra soltanto dalla vecchia, pensa che la sua fortuna dipenda da questo;
(c) ha varie “fidanzate” di facciata, il nostro
boss — quella che si dà per certa è una liaison,
intima, col politico locale più influente (partito di
maggioranza, un po’ unto, mezza sponda anche lui);
(d) sei i guardiaspalle del capomafia, sempre
intorno a lui: basco o cappellino da base-ball, piccoli
mitra russi nascosti, lo seguono ovunque (colpiscono solo quando devono);
(e) la vecchia ha una figlia, che studia a Dallas: manca ormai dall’Italia da dieci anni, segue
attualmente uno stage presso una merchant bank di
successo, tema di ricerca gli ultimi derivati immobiliari e i bond “salsiccia”;
(f) va a letto da un anno col presidente della
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bank, la ragazza: un nababbo texano, anzianotto,
arricchitosi vendendo titoli tossici ai latinos;
(g) un giorno la vecchia viene a sapere che la
figlia ha deciso di venire in Italia, a trovarla; è
disperata, ha sempre fatto credere alla ragazza (da
lontano) di essere una famosa velina, ha messo su a
tal fine fotomontaggi, schede su Google, video finti
per You Tube, come fare adesso?
(h) si tratta di organizzare una messinscena, è
complicato però; l’unico che potrebbe farlo è il
malavitoso: il quale rifiuta sulle prime, non vuol
spendere (ecco il Leitmotiv dell’avarizia), sino a che
il politico/amante non riesce a convincerlo (la vecchia ha delle foto nascoste…) — quel giorno, anzi,
pagherà tre volte tanto la bustina;
(i) contribuisce a persuaderlo il fratello del
politico, un prete misterioso, obeso, senza denti, che
trent’anni prima è stato messo a dirigere l’ex manicomio (duemila posti letto): segretamente miliardario, persona ascoltata e influente nel circondario;
(l) l’arrivo all’aeroporto è commovente, la
vecchia rimessa a nuovo fa un figurone, tutti piangono, ma la super-festa che era stata programmata
(per il giorno prima del ritorno) appare in serio
pericolo; un assessore del partito avverso sembra
non voler dare i nullaosta occorrenti; soprattutto, i
piccoli spacciatori locali, e le señoritas arruolate dal
colombiano per l’occasione, non riescono a imparare la “parte” di invitati/vip (stilisti, calciatori sudamericani, fotografi illustri, scienziati di regime,
escort di lusso, etc.): come riempire il salone danzante?
(m) tutto si sistema, però, quando il capoma-
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fia spiega il retroscena all’assessore, gli spicca un
assegno per la rivista di corrente, e mette in moto la
macchina mondana: cosı̀ all’Happiness, con l’orchestra ferma e il buffet deserto, si sentirà a un certo
punto un rumore lontano di voci, di passi che si
avvicinano, ed ecco irrompere (erano tutti a una
festa del politico, non meno di un centinaio) attrici
del cinema, sultani di passaggio, due giudici della
corte, ragazzine per il casting, politici dell’est, padrini vari rilasciati quel giorno (decorrenza dei termini, per quello era la festa!), insieme a tenniste,
direttori di giornale, un ex monsignore, industriali,
grand commis, metereologhe, professori universitari: un trionfo;
(n) è passato un mese e mezzo, ed ecco gli
ultimi sviluppi (secondo voci accreditate); il prete è
stato chiamato a dirigere una fondazione nazionale,
budget triplicato; per i sei guardiaspalle è imminente l’assunzione in Rai; il colombiano è diventato
console onorario del suo paese; la figlia ha conseguito il master sui subprime, ha mollato il banchiere
di Dallas e si è messa col capomafia locale; il banchiere texano sposerà presto la vecchia, che in realtà è ancora giovane, e come velina tutti si sono
accorti che è bellissima; il politico locale è in odore
di diventare ministro.
6.5. Il parsimonioso no-global.
Diversa, sempre in punto di avarizia, la sindrome del c.d. “parsimonioso no-global”.
Ampio il ventaglio — va detto — degli abbina-
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menti possibili: indicato ad es. per campagne su
prodotti come l’Infamydol o il Méfiez-vous, buono
per il lancio di antidepressivi familiari, adatto ai
manuali per fughe adolescenziali, alle ristampe di
ciclostilati storici, alle carte geografiche della Siberia, ideale per il portfolio “Ex sessantottini”; preferibilmente in seconda serata.
(I) Le tipologie, agli effetti narrativi, possono
essere più d’una.
C’è il quasi romanziere, ancor giovane, che non
ha pubblicato finora cose serie: parla sempre di
purezza letteraria, non ha dubbi circa il proprio
talento, legge Engels in originale, teorizza che d’inverno non bisogna mettere il paltò (“Coprirsi fa
male”); bolla gli autori del suo paese come provinciali (con l’aria di elogiarli), vede seriamente un
Nobel nel suo futuro, chiede di continuo microprestiti. C’è il proboviro della Cooperativa di solidarietà ex OPP: arancione, concentrato sul suo respiro (sul punto in cui gli entra ed esce dalla bocca),
parla esclusivamente del Nepal, canta i meriti della
lentezza, anzi dell’assenza di gesti: vegetariano, si fa
il pane in casa, vive con la pensione della nonna
(“Cara vecchietta”), compiange chi è diverso da lui,
non smette mai di sorridere.
C’è il precario che naviga perennemente ai
bordi dei Consigli di facoltà, sperando in una riconferma: inseparabile da Skype, fedele al suo preside,
vive nel ricordo di un premio di poesia, vinto a
tredici anni; si esprime a voce bassa, colleziona
samizdat, teorizza che al mondo c’è solo opportunismo (ecco perché è in difficoltà lui), fa valere il
“beneficio secondario della povertà”, cosı̀ dice sor-
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ridendo, per non pagare la sua quota in trattoria (si
batte sulla tasca, allora, allargando le braccia,: “Sapete già, a buon rendere!”). C’è il responsabile del
Centro Anarchico Regionale: vieux garçon, finanziamenti sospetti, codino brizzolato, dominatore di
assemblee, in Tv locale un giorno sı̀ e un giorno no;
immancabile alle teste dei cortei, abile a negoziare
col vice-questore, beve le aranciate del servizio
d’ordine; rievoca spesso i tempi in cui faceva la
questua (“Due soldini basteranno, signora: stiamo
andando al concerto, anche lei ha figli come noi?”),
trova sempre ragazze che lo invitano a cena.
C’è il dietrologo dell’America latina: buongustaio, baffi alla Groucho Marx, conosce il pedigree
di ogni generale che conti (in Brasile, in Argentina,
in Perù), gestisce la bibliotechina del Che Guevara
locale: pensa che ogni cosa gli sia dovuta, fa mettere
in conto tutto al Circolo: scompare occasionalmente
non si sa dove, risponde a chiunque col mento alto,
sdegnosamente. C’è la versione lefty di Totò salvato
da Gino Cervi ( il “parassita lamentoso”, messo lı̀
dal volontariato, profugo dell’est): la riconoscenza
non è il suo forte, ripete che non ha chiesto lui di
sopravvivere, vive a sbafo del suo dominus: vorrebbe far venire anche i parenti (sette) dai balcani,
elenca spesso i suoi “diritti”, cita volentieri Franz
Fanon, parla male dell’Europa, minaccia di buttarsi
in mare se non si farà come vuole.
(II) Denominatore comune, l’oculatezza nel gestire i soldi — insieme all’abilità nel teorizzarla o nel
mascherarla, a seconda dei casi.
Se regala un giocattolo, è sempre di quelli in
legno di una volta, che si trovano ai banchetti; sette
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euro, cerca se può di farsi togliere qualcosa
(“Sconto architetti”), magnifica poi il dono col figlio, ci traffica lui tutto il giorno, spiegando perché
è tanto meglio degli eroi sferraglianti della Marvel;
qualche volta lo rompe, non sempre lo sa accomodare, trova comunque il modo di ridarlo indietro,
recuperando i soldi.
Se va a funghi in montagna (col permesso di
raccolta di un amico, sa come aggiustarsi), trascina
sempre con sé la moglie: nelle soste le insegna a
mangiare — a parte l’uovo sodo portato da casa —
piccoli cardi del prato, escrescenze buone crude
(“Poi sputi”), nocciole selvatiche, certe bacche rosse
della sua infanzia (“So quali sono quelle buone”), il
trifoglio del bosco (“Mastica bene!”). Se entra al
caffè storico del corso, col suo bloc-notes, sceglie un
tavolo nel retro, si guarda intorno per vedere chi lo
nota: osserva commiseratorio quelli dell’happy hour
(spazzola però le ciotoline a portata di mano), per
sé ordina un ristretto con molto latte, fa segnare in
conto, dice che ricorderà tutti nel libro.
Se compra una mozzarella per cena — una sola
per l’intera famiglia — schiude a tavola l’involucro
con maestria, religiosamente; spiega bene perché ha
scelto quella marca, blocca con lo sguardo i bambini
ingolositi (“Aspettate!”), disserta sulla goccia
bianca che si forma al centro della sfera lattea, dopo
che l’ha aperta con la forchetta: richiama tutti —
per un paio di minuti — a gustare il profumo, a
ingoiare lentamente ciascuno il suo spicchio.
Se ha voglia di un the, cerca in credenza — è la
sua marca preferita — un sacchetto di Twinings
Earl grey (già utilizzato una o due volte), sceglie
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quello più fresco, fra gli altri pure usati del cassetto,
scende al bar sottocasa; domanda una tazza di acqua calda, ci intinge il sacchetto, sbiadito e infeltrito, lo osserva imbibirsi: sorride per lo zucchero
che si fa dare, se c’è versa una goccia di limone,
sorseggia dopo cinque minuti il liquido, rosa pallido,
che si è formato; recupera il sacchetto, lo ripone in
una scatola rossa di metallo, esce ringraziando (un
sacchetto basta per dieci tazze, “Viene più buono
cosı̀”, gliel’hanno insegnato in Asia, dice).
(III) Sulle terapie da seguire non c’è accordo:
alcuni operatori, scherzando, propongono cure
d’urto (lobotomie, paracadutaggi in isole deserte,
lebbrosari, gite frequenti in cengie d’alta montagna,
coma insulinici, giudizi sommari del Tribunale del
popolo), altri pensano a protocolli più blandi (novene a Lourdes, diete a base di carota, acquerelli,
tocchi femminili, cori di montagna). Prevale l’opinione trattarsi di casi disperati.
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6.6. La bella disillusa.
Più sottile l’avarizia del cuore, difficile estirparla
tuttavia — tornare al parco giochi come un tempo.
Prendiamo lei. Prima grande delusione a ventun’anni: con quell’uomo che aveva tutto, che al
dunque ha scelto di restare con la moglie — sedici
mesi di vita persi (metà dei sogni scivolati via per
sempre).
I flirt successivi? Non ne valeva la pena, alcuni li
confonde addirittura. Il matrimonio? A trent’anni,
sbagliato fin dall’inizio, sua madre l’aveva messa in
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guardia, durato sin troppo. Gli ultimi incontri? Nessun ricordo, insipide avventure.
Oggi?
Che sia bella glielo ripete lo specchio, ogni
mattina: uguale la luce dei grandi occhi, color verde
scuro, nessun filo bianco, fisico snello come a diciott’anni (ne farà quarantadue a maggio).
Che il suo potere sia intatto, lo verifica ogni
pomeriggio; le basta uscire per strada, vedere come
la guardano — entrando al bar una specie di silenzio, la fissano curiosi anche i bambini.
Che dell’amore abbia smesso di importarle (che
dubiti che esista, in generale), lo avverte ogni sera.
Chi vuol bene davvero — ripete alle sue amiche —
non è mai ricambiato, rincorrerà di continuo il
partner, che si allontanerà di altrettanto (come
Achille e la freccia). Se è l’altro a cercarti troppo,
sarai tu a stufarti, ogni giorno di più, non potrai
evitare di far soffrire (e presto smetterà anche di
importartene).
Ha telefonato di nuovo quell’ingegnere, ieri
mattina, gli ha detto di no, che la scusi; richiamerà
domani, non sarebbe dei peggiori, gli dirà di no
anche stavolta.
Al Consultorio, con quelle operatrici? Dopo
l’attacco di panico c’è andata. Romanticismi, acquerelli sdolcinati, psicologia da quattro soldi sul futuro
— di “quei” tepori non potrebbe fare a meno, una
donna istruita, nel terzo millennio, con tante cose
che esistono al mondo?
Per il mal di testa tornerà in erboristeria, ricomincerà col flauto dolce, chissà; per quel buio alle
tempie (certe mattine dei week end) aprirà un diario
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PUBBLICITÀ: I VIZI CAPITALI
in pergamena, si prenderà un gatto, con gli occhi
verdi anche lui. Con la “passione” ha chiuso —
troppo grandi le aspettative di partenza. Contro il
destino non si va. Lontana la rugiada da jeune fille
en fleur, non chiederà più niente; si terrà dentro
ogni cosa.
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6.7. Una via di mezzo.
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Uno che al Centro non pensa proprio di tornarci
— l’uomo che non “viene”, che non vuole eiaculare,
mai.
Né quando va con le donne (eccezionalmente
con gli uomini), né quando fa tutto da solo.
Per la verità è quasi sempre solo il nostro, meno
problemi da risolvere. Orgasmo “interno”, si sente e
non si vede (come piaceva ad Arthur Rimbaud);
prendere cura di se stessi, fino al limite estremo,
fermarsi in tempo. Niente di niente sarebbe troppo
poco.
Una via di mezzo, la saggezza. Qualche volta
sbaglia, e allora succede il patatrac — è raro però, sa
come fare, si conosce a fondo.
Un po’ sono stati gli ammonimenti dello zio
(vissuto a lungo in oriente), un po’ quei manuali
indiani che ha letto, un po’ i discorsi di quel guru di
passaggio. Avarizia in che senso? E la sua mamma
da bambino cosa c’entra? Quelle brutte esperienza
da ragazzo semmai — per questo non vorrebbe mai
dei figli.
Restare integri, non buttarsi via, non farsi venire
l’emicrania. Meglio anche del solito copione. Quel-
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l’intimità fra sé e sé, senza sprechi, quel mezzo
fuoco a un certo punto nella schiena. E non è
neanche peccato in senso stretto — comunque
meno, ha detto il confessore.
Con le ragazze? Le informa in anticipo, decidano liberamente — certe non sono d’accordo, può
comprenderle, pazienza. Qualcuna lo imbroglia, o
vorrebbe “guarirlo”, o si confonde all’ultimo momento: con lui hanno chiuso per sempre.
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6.8. Bambini a rovescio.
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Mi hanno pregato, i miei editor di chiudere
tornando sui minori.
Credevo di averne parlato abbastanza. Continuano a insistere però — il mercato, la famiglia,
nuovi intrecci.
Una cosa si potrebbe tentare: invertire i ruoli
classici, spostando il dato dell’avarizia sui bambini.
(a) Il piccolo Lord, ad esempio — Potremmo
girare la vicenda in altro modo.
Al Centro anziani di un villaggio, in Inghilterra,
si presenta una mattina un vecchio signore — dignitoso, intimidito. Spiega che è venuto via dall’America perché senza nessuno al mondo, ormai: l’unico
parente che gli rimanga (aggiunge) è il nipotino,
ricchissimo, solo anche lui, molto tirato nei soldi,
che abita lı̀ al castello, in cima alla rocca.
Al Centro sapranno dargli buoni consigli.
Il nonno dovrà (ecco la chiave) fare in modo di
trovarsi al posto giusto al momento giusto, in occasioni varie. Il nipotino all’inizio gli sarà forse ostile,
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taccagno com’è, viste anche certe scelte sbagliate
che erano state fatte, sul piano matrimoniale. Poi
però ….
Le cose vanno cosı̀ effettivamente.
Cosı̀ cosı̀ il primo incontro: il piccolo lord che
diffida (“So chi sei e cosa vuoi”), il nonno allegro e
spiritoso. Già meglio il secondo: nipotino un po’
curioso, divertito da quei modi, nonno sempre più
gioviale. Terzo, quarto appuntamento: alla quinta
volta è il piccolo che andrà a cercare il nonno, alla
stamberga, pregandolo di venire a vivere con lui.
È quello che accade, e da allora in poi tutto
procede per il meglio.
Nuova vita al maniero. Messi alla porta certi
parenti malintenzionati, generosità inedite con domestici e fittavoli. Comprensione ovunque, balli e
grandi feste nei saloni: si capisce che il piccolo, non
appena in età, farà testamento e lascerà tutto
quanto al nonno.
(b) Incompreso adesso — Scenario anche qui
da rovesciare: una micro-famiglia allargata, comprendente un ragazzino, il di lui padre biologico, il
patrigno (che aveva sposato la madre divorziata,
morta in seguito).
Il problema stavolta è che il figlioletto non riesce, per ragioni varie, a manifestare affetto se non al
patrigno. Gioca solo con lui, lo cerca e lo loda in
continuazione. Col padre vero è avaro di abbracci,
di attenzioni.
Il papà (sensibile, introverso) fa di tutto per
piacergli, sempre invano però; anche la sfortuna ci si
mette di mezzo: solo rimbrotti, continui malintesi. E
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negli episodi che si susseguono le cose andranno via
via peggiorando.
Si arriva cosı̀ al finale.
Qui terrei fermo (dico subito) il particolare di
qualcuno che cade nel lago e sta per annegare.
Lasciando che siano i miei editor, per il resto, a
decidere.
Potremmo, ad esempio, far cadere in acqua il
patrigno: con il padre vero che si tuffa per salvarlo,
che ci riesce, che muore però nel tentativo: e il figlio
capisce a quel punto, troppo tardi, quanto in effetti
lo amava. Oppure è il figlio a cadere nel lago: e a
buttarsi con successo (mentre il patrigno resta lı̀ a
guardare), è il padre vero, che muore di nuovo nel
tentativo. O magari, sempre in quest’ultima versione, non muore nessuno: si salvano tutti quanti e
vivranno per sempre felici e contenti.
Si potrebbero anche girare tutti e tre i finali,
lasciando che sia il pubblico a scegliere.
(c) Balocchi e profumi infine — Stessa meccanica delle parti, ribaltate: c’è una mamma con
poca salute, senza un soldo, sempre a casa, che al
mondo ha unicamente la sua bambina, e che dipende in tutto e per tutto da quest’ultima.
La bambina però se la fila poco, la sua mamma,
e preferisce andare a spasso con gli amichetti. Ce
n’è uno in particolare, col quale fa spesso le ore
piccole. Festicciole, paninoteche, gelaterie.
Un pomeriggio la mamma si ammala sul serio,
ai polmoni, e il presagio di una brutta fine la spinge
a esprimere un desiderio, quello di sempre: che la
sua bambina le compri un profumo speciale, un’essenza francese che la donna aveva visto tante volte
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in vetrina, e che da sola non aveva mai potuto
acquistare (“Figlia — mormora la mammina —
mentre pieni di pianto ha gli occhi — per la tua
mammmettina — non compri mai profumi — figlia
tu compri soltanto balocchi per te”).
La figlia se ne infischia però, di nuovo in giro
con gli amici, al minigolf, alla play-station, al parco
giochi. Solo all’ultimo momento vengono ad avvertirla, disperati, che la situazione sta precipitando; è
sopraggiunta una crisi, non c’è tempo da perdere. Si
rende conto finalmente la bambina: corre al negozio, compra in fretta il profumo, torna a casa. Porge
il pacchetto variopinto alla mamma; piangendo
l’aiuta a disfare il nastro, a scartare, tira fuori la
boccetta, riesce a far uscire un leggero spruzzo sul
polso … “Grazie!”, mormora la mamma, ma il capo
già reclina da un lato, la poveretta muore subito
dopo. Alla bambina non resta che singhiozzare.
Pensate che funzionerebbe?
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GOLA
di LUIGI CARLO UBERTAZZI
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SOMMARIO: 1. Il vizio della gola. — 2. La sua raffigurazione in
pubblicità. — 3. E la sua valutazione in diritto. — 4. L’ingordigia dei
pubblicitari.
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1. Il vizio della gola.
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Il tema è molto ampio, con mille possibili sfaccettature. Mi è stato chiesto di scriverne. Io lo faccio
da giurista che ha alimentato nel tempo una vocazione agli schemi ed alle linee più che alle sfumature
ed ai colori, alla semplicità del romanico più che
all’ammirevole barocco del Gadda. E ne scrivo in
quattro tempi: per ricordare via via l’etica della
gola, la rappresentazione del vizio della gola nella
pubblicità italiana e la sua valutazione in diritto, e
per dedicare infine un cenno all’ingordigia dei pubblicitari.
L’uomo ha bisogno di alimentarsi. È dotato di
sensi che rendono piacevoli cibi e bevande: e specialmente il gusto dei sapori, ma anche l’olfatto e la
sperimentazione degli aromi dei cibi, la vista dei
loro colori (ad esempio della tonalità dei vini e degli
spicchi di arancia), il tatto di alcuni alimenti (come
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la pelle vellutata della pesca). E si interroga ab
immemorabili sui modi e sui limiti dell’alimentazione e dei relativi piaceri.
La storia dell’uomo ha elaborato su questi temi
anche riflessioni e regole etiche di livello. (i) Alcune
regole vietano determinati cibi (la carne di porco
agli ebrei, il vino ai musulmani, la carne al venerdı̀
non quaresimale del cattolicesimo anteriore al Concilio Vaticano II); o prescrivono modi di preparazione del cibo (ad esempio kosher per gli ebrei); o
prevedono momenti rituali di digiuno (il venerdı̀
santo dei cattolici, il ramadan dei musulmani); o
organizzano una liturgia dell’alimentazione (e cosı̀
ad esempio le preghiere prima e dopo il pranzo).
Queste prime regole mi sembrano sostanzialmente
minori: in quanto mi pare abbiano motivazioni di
volta in volta diverse, ma che prescindono tutte da
una valutazione di necessità etica del comportamento in sé considerato. E qui mi limito invece a
considerare principalmente le altre regole etiche,
che riguardano la Einstellung, l’approccio dell’uomo al suo rapporto etico col cibo. (ii) Le regole
morali qui considerate variano forse in qualche
misura secondo i tempi, i luoghi, la concezione laica
o religiosa del mondo, le diverse religioni, lo “stato”
dell’individuo. Forse vi è tuttavia una larga convergenza tra le etiche laiche dell’occidente (a cominciare da quella nicomachea) e quelle delle religioni
abramitiche monoteiste, anche per quanto riguarda
specificamente il nostro campo della gola. Ma per
parte mia assumerò qui come punto di osservazione
soltanto la morale cattolica: non solo e non tanto
perché è quella ai cui valori sono stato istruito; ma
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GOLA
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anche perché mi pare quella almeno ufficialmente
propria della maggioranza dei cittadini italiani, e
comunque di una solida minoranza di cittadini impegnati, e come tale vedremo più avanti costituisce
un punto di osservazione molto rilevante nel diritto
della pubblicità; senza dire che anche le etiche
laiche dell’occidente sembrano radicate in molti
secoli di insegnamento cristiano dei grandi valori
dell’uomo.
Se ben vedo le regole dell’etica cattolica relative
alla gola non sono sempre state uguali per tutti.
Cosı̀ ad esempio sono diversi i precetti proposti
all’asceta, al monaco medievale (di cui hanno trattato ampiamente C. CASAGRANDE - S. VECCHIO, I
sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo,
Einaudi, Torino, 2000) ed ai laici. Sono diverse
quelle che si addicono ad una società prevalentemente agricola o a quella dei servizi oggigiorno
propria dei paesi industrializzati. Sono diverse
quelle che si addicono al povero ed al ricco: perché
il primo è per forza di cose obbligato alla continenza
oggettiva dal consumo (ma non a quella soggettiva
del desiderio), mentre il secondo è invitato a ricordare la parabola del ricco epulone e del povero
Lazzaro (narrata dal Vangelo secondo Luca 16,
19-31). Sono infine ancora diverse quelle della società opulenta e consumista dei paesi ricchi del
nord: in cui aumenta la diffusione di malattie
estreme quali l’obesità, la bulimia e l’anoressia, che
a ben vedere sono il risultato di un approccio (non
episodico ma sistematico) alla vita riconducibile al
paradigma etico del vizio della gola; un numero
importante di persone che dedicano attenzioni par-
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ticolari ai problemi della propria alimentazione non
ne conoscono nemmeno le regole dell’etica e si
orientano invece secondo criteri che non hanno
alcunché a vedere con essa, come ad esempio
quando puntano alla dieta estetica o al puro benessere del corpo (gli esempi sono di S. SCHIMMEL, The
Seven Deadly Sins. Jewish, Christian, and Classical
Reflections on Human Psycology, Oxford University Press, New York. Oxford, 1997, 140-141); mentre secondo la concezione cattolica le tentazioni del
consumismo secolarizzato ed ateo possono essere
resistite soltanto con una forte consapevolezza della
scala dei valori che nella società opulenta invita i
ricchi tra l’altro ad accrescere il proprio senso della
misura anche per rispetto di quelli che non lo sono.
Ma al di là di queste variazioni il cuore dell’etica
cattolica relativo alla gola è sempre rimasto fermo:
ed invita se possibile a comprendere la provenienza
divina dei bisogni, dei piaceri e delle cose per soddisfare entrambi; in ogni caso a comportarsi con
senso della misura e della continenza nell’uso delle
cose per soddisfare (piacevolmente) i bisogni; se
possibile a ringraziare Dio per la soddisfazione dei
propri bisogni (panem nostrum quotidianum da nobis hodie); mentre qualifica come vizio della gola
l’assunzione di cibo e bevande in quantità gravemente sproporzionata (materia grave), accompagnata da piena avvertenza e deliberato consenso, e
con un comportamento inizialmente episodico che
con la sua ripetizione frequente diviene un modo di
vivere.
Quando non esprime un’abitudine inconsapevole o un desiderio dell’art pour l’art il rispetto della
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regola etica è normalmente radicato in una condivisione dei suoi valori, mentre il vizio manifesta
quantomeno un loro smarrimento se non un loro
rifiuto. D’altro canto a partire dall’Ottocento i vizi
capitali “sono considerati come la manifestazione
della psicopatologia dell’uomo” e “diventano
quindi malattie dello spirito” (cosı̀ la voce Vizi
capitali di Wikipedia scaricata il 13.3.2009): e da
questo punto di vista “i disturbi alimentari rivelano
[…] un vuoto di senso, una solitudine angosciante
che il sapore e il calore del cibo cercano di riempire
(nel senso letterale del termine)”, onde il vizio della
gola può essere letto “come un tentativo di riempire
un vuoto interiore, affettivo e spirituale” (cosı̀ una
mail indirizzatami da p. G. CUCCI s.j., autore di Il
fascino del male: vizi capitali, Roma, 2008, che tuttavia non vidi).
In sintesi. Il vizio della gola implica una perdita
del senso dei valori, della misura, delle proporzioni,
della continenza, e riguarda anzitutto l’alimentazione. Il medesimo approccio alla vita può tuttavia
riguardare anche altre “cose”: come il sesso, i denari, il potere. Per traslato si può allora parlare
anche per essi di gola, e qualificare qualcuno come
goloso, ingolosito, ingordo dell’uno o dell’altro possibile piacere della vita.
2. La sua raffigurazione in pubblicità.
La pubblicità di cibi e bevande ha dimensioni
notoriamente vistosissime. Si capisce perciò che in
essa vi è tutto ed il contrario di tutto. Se le si guarda
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dal punto di vista del vizio della gola, le pubblicità
di cibi e bevande possono essere ricondotte ad
alcune categorie, alcuni possibili Fallgruppen. E qui
mi pare appena il caso di precisare che le categorie
e gli esempi non sono esaustivi, e che tutti gli
esempi che seguiranno cercano specialmente di illustrare meglio le categorizzazioni proposte, senza
voler esprimere su di essi un giudizio di liceità
giuridica od etica: tanto più che molte delle pubblicità ricordate sono di indubbio livello tecnico e
forse anche artistico, sono caratterizzate dall’enfasi
che è consueta nella comunicazione commerciale ed
è immediatamente percepita come tale dal consumatore non sprovveduto, e sono spesso intonate ad
un forte senso dell’ironia se non addirittura della
parodia.
Alcune pubblicità si limitano a descrivere (con i
toni fisiologicamente piacevoli ed elogiativi propri
della comunicazione commerciale) il prodotto e le
sue caratteristiche. Alcuni suggeriscono per esse un
modello di consumo (almeno apparentemente) moderato: e cosı̀ ad esempio, seguendo il proverbio
meneghino on biccér de vin prima de la minèstra per
el dottor l’è ona tempesta Activia suggerisce uno
yogurt al giorno, e Actimel propone una confezione
ogni mattina. Ed entrambi questi tipi di pubblicità
non pongono a prima vista alcun problema di rapporti con il vizio della gola.
Alcune pubblicità più vicine al nostro tema reclamizzano invece il prodotto come oggetto di un
desiderio non misurato/equilibrato: ed anzi centrano tutto su questa sola “passione”. Cosı̀ ad esempio una pubblicità televisiva del gorgonzola rappre-
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senta due investigatori, maschio e femmina, che
cercano e trovano finalmente un club gorgonzola, vi
entrano e vi scorgono molte persone che intingono
il dito in fette abbaglianti di gorgonzola morbidissimo e lo assaporano con espressioni di estasi; l’investigatore uomo ne risulta smarrito; un anziano
signore chiede ad entrambi se vogliono favorire;
l’uomo dichiara di non poterlo fare perché “in servizio”; mentre l’investigatrice non sa resistere e si
dedica anche lei ad assaporare il gorgonzola cremoso col dito. Morale della favola: i membri del
club sono in Emmaus, e la poliziotta si getta ad
assaporare il gorgonzola anche lei nonostante sia
“in servizio”.
Altre pubblicità ancora associano il prodotto
reclamizzato ad altri piaceri della vita, e lo rappresentano come utile a conquistarli. Qui è noto e
notorio che negli ultimi decenni è progressivamente
dilagato l’uso pubblicitario della bellezza e della
sessualità come strumento di persuasione al consumo (anche) di cibi e bevande. Questa pubblicità
incarna una gerarchizzazione dei piaceri, che vede
la gola in posizione sottoordinata. E certo questo
tipo di pubblicità non è in linea con la concezione di
fondo delle regole monastiche cattoliche altomedievali, secondo cui “il desiderio di cibo è per sostentare la natura, non per stuzzicare la gola, per supplire la necessità, non per appagare l’avidità” (cosı̀
una mia parafrasi di un brano di Lotario de’ Segni,
Il disprezzo dei mondi, trascritto a p. 124 del libro
poc’anzi ricordato di C. CASAGRANDE - S. VECCHIO).
Altre pubblicità, infine, associano anch’esse il
cibo ad altri piaceri dei sensi, ma li gerarchizzano in
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modo da collocare la gola al loro vertice. Cosı̀ ad
esempio
— una pubblicità televisiva di Jaegermeister
rappresenta un piano bar elegante. Due giovani
uomini sono seduti in conversazione al bancone del
bar con una bottiglia di Jaegermeister ed un bicchiere ciascuno. Si scambiano occhiate con una
ragazza elegante. Questa percorre tutto il bar per
recarsi da loro. Quando giunge loro vicina simula
uno svenimento; viene immediatamente sostenuta
da uno dei due giovani che le impedisce cosı̀ di
cadere, mentre lei profitta del momento per impadronirsi del suo bicchiere di Jaegermeister e per
berlo davanti a lui. E la pubblicità termina con il
pay off “Jaegermeister: c’è sempre un perché”. Qui
la morale della favola è: Jaegermeister è preferibile
all’abbraccio ed al corteggiamento di un coetaneo;
anzi si può fingere uno svenimento per provocare il
suo abbraccio e soffiargli uno Jaegermeister;
— una pubblicità televisiva di Magnum vede in
sequenza un’immagine di una bella donna che cammina in una camera ed un corridoio lussuosi, mentre la sua voce suggerisce che “le brave ragazze
dicono che non bisogna cedere alle tentazioni”. A
questo punto la ragazza guarda dal buco di una
serratura e si rivede in alcune situazioni di piacere
sessuale, mentre la sua voce soggiunge “ma loro
non hanno mai giocato con il mistero, non si sono
mai abbandonate ai piaceri”. A questo punto la
ragazza conclude che “il mio nome è Eva e adoro la
tentazione”. E lo spot continua con alcune raffigurazioni molto invoglianti di Magnum, della sua composizione e del piacere di leccarlo, e termina poi con
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l’immagine di una confezione di Magnum e della
sua scritta/pay off “nuovo Magnun Temptation”.
Morale della favola: le tentazioni sono irresistibili;
possono essere resistite soltanto dalle “brave ragazze”; e la tentazione di Magnum è anche superiore a quella del piacere sessuale;
— una pubblicità televisiva di Campari mostra
una giovane donna molto bella che al ritmo di un
tango argentino lento passa in un corridoio accanto
ad alcune tentazioni costituite da una proposta di
divertimento a tre con sesso e droga, dal piacere di
un collier di diamanti da grande regina, da un invito
di una ragazza discinta ad un rapporto lesbico: ma
viene sedotta soltanto da Campari Red Passion, che
forse viene bevuto in solitudine, in una camera che
invita a do not disturb. Morale della favola: Campari può suscitare una passione; anzi una passione
senza limiti (do not disturb); e certamente una
passione superiore ad altre tentazioni che pure sono
molto intense;
— una pubblicità televisiva di Saila mostra una
macchina sportiva che arriva dai viali del parco
all’ingresso di una casa grande e magnifica. Da essa
esce la sua giovane padrona. Dalla macchina scende
invece uno chauffeur in livrea con una scatola di
mentine Saila in mano. La ragazza si scatena ad
ogni possibile prodezza tra la ginnastica ed i movimenti erotici intorno alla macchina, e ne viene
premiata dallo chauffeur con una mentina da lei
assaporata con vero piacere. Il pay off chiude infine
suggerendo che “faresti di tutto pur di averla”. E
questo pay off enuncia evidentemente in modo
chiarissimo la morale della favola.
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I due ultimi tipi di pubblicità sono naturalmente
sempre elogiativi del prodotto e della passione che
ispirano; usano parole che possono essere lette anche come indicative di tematiche proprie dell’etica
(come avviene con la “tentazione” di Magnum e la
“passione” di Campari); ma in realtà non fanno e
non vogliono fare mai alcun riferimento ai valori
dell’etica. Più in generale la pubblicità di cibi e
bevande centrata sul piacere della gola è quantomeno rigorosamente laica; alle volte propone esplicitamente la trasgressione della regola etica tradizionale; spesso ha provocato una metamorfosi del
linguaggio relativo alle valutazioni etiche: e cosı̀ ad
esempio ha sterilizzato la parola passione, che una
volta era indicativa di un eccesso, di una mancanza
di misura, mentre oggigiorno è normalmente usata
e percepita come espressiva di un’attenzione particolare ma non necessariamente priva di equilibrio.
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3. E la sua valutazione in diritto.
Se ben vedo lo stato italiano non ha mai introdotto regole espressamente relative al rispetto pubblicitario dei principi etici in materia di vizi capitali.
Questa circostanza non mi pare derivi necessariamente dalla scelta del modello della separazione tra
stato e chiesa e dalla costruzione storica dello stato
laico: perché quest’ultimo non è necessariamente
indifferente ai valori della morale (religiosa o laica),
ed anzi ha conosciuto forme di stato etico, e persino
le sue degenerazioni tragiche incarnate dal nazifascismo e dai socialismi c.d. reali. L’assenza di clau-
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sole statali di rispetto pubblicitario dei valori etici
mi sembra abbia invece prevalentemente altre ragioni: e cosı̀ come minimo è imputabile alla fiducia
del legislatore di potere regolare direttamente tutto
il necessario; e come massimo (quantomeno oggigiorno) all’avere il legislatore sposato in larga misura l’ideologia del consumismo (e per corollario
anche la sua valutazione di opportunità di non
limitare le persuasioni pubblicitarie con clausole di
rispetto delle concezioni etiche). L’assenza di regole
espresse statali non corrisponde tuttavia ancora ad
un’indifferenza totale ai temi dell’etica della pubblicità. La riprova è data dal sistema dell’autodisciplina pubblicitaria: che da un lato conosce clausole
che in qualche misura rinviano ai codici etici religiosi o laici; e dall’altro riposa su atti di autonomia
negoziale che lo stato ritiene meritevoli di tutela ex
art. 1322 c.c. anche in parte qua rinviano in qualche
misura a regole etiche.
L’autodisciplina pubblicitaria conosce anzitutto
alcune regole secondo cui la comunicazione rivolta ai
bambini ed agli adolescenti “non deve indurre a: [...]
adottare l’abitudine a comportamenti alimentari non
equilibrati” (cosı̀ l’art. 11 co. 2 trattino 5); e “la comunicazione commerciale relativa alle bevande alcoliche non deve contrastare con l’esigenza di favorire l’affermazione di modelli di consumo ispirati a
misura”, ed in particolare “deve evitare di: incoraggiare un uso eccessivo e incontrollato, e quindi dannoso delle bevande alcoliche; rappresentare situazioni di attaccamento morboso al prodotto [...];
rappresentare come valore negativo la sobrietà”
(cosı̀ l’art. 22 co. 1 e 2). Queste regole prescrivono
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l’astensione da pubblicità che propongano modelli di
consumo non “ispirati a misura”. Con ciò essi sembrano avere qualcosa in comune con le regole dell’etica su virtù e vizi che raccomandano misura e continenza, e cosı̀ dunque anche con quella che qualifica
la gola come un vizio. A ben vedere, in realtà, la regola autodisciplinare e quella etica qui considerate
hanno in comune soltanto l’obiettivo, costituito dalla
misura, ma divergono nella motivazione, nella ratio
della sua prescrizione: perché la regola etica si propone il miglioramento valoriale dell’uomo, mentre
quella autodisciplinare vuole evitare i pericoli per la
salute anzitutto fisica dell’individuo.
L’art. 10 del codice di autodisciplina stabilisce
inoltre che “la comunicazione commerciale non
deve offendere le convinzioni morali, civili e religiose dei cittadini”. L’art. 10 non è naturalmente
una regola etica ma una clausola giuridica di matrice negoziale (radicata nell’autonomia privata e
nella sua tutela ex art. 1322 c.c.). L’art. 10 ha certo
un rapporto con l’etica, ma è un rapporto che appare subito molto debole: anche perché non vieta il
vizio della gola ma soltanto alcune delle pubblicità
che lo riguardano; non proibisce qualsiasi comunicazione commerciale che raffiguri o addirittura promuova il vizio della gola, ma soltanto gli annunci
che offendono le convinzioni altrui relative ad esso;
non vuole dunque rafforzare una regola etica ribadendola con un’obbligazione di matrice contrattuale, ma vuole soltanto proteggere direttamente le
convinzioni altrui in materia di morale ed indirettamente gli interessi dei pubblicitari; non introduce il
suo divieto per ragioni di militanza e di missionari-
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smo etico, ma soltanto (lo ripeto) per proteggere gli
interessi della pubblicità, e cioè gli interessi della
categoria degli operatori pubblicitari ad evitare che
i loro “mestieri” siano screditati, per le conseguenze
negative che ciò potrebbe comportare loro specialmente in termini economici e sociali. D’altro canto,
e come è naturale in una società pluralista e ormai
caratterizzata da una lunga storia di radicamento
del diritto dell’uomo alla libertà di scegliere e professare la religione preferita, la regola qui considerata dell’art. 10 protegge tutte le convinzioni etiche,
anche se non sono proprie della maggioranza dei
cives, e purché non siano espressione di minoranze
patologiche: e dunque protegge in particolare anche
la religione e l’etica cattoliche qui considerate.
L’art. 1 del codice di autodisciplina prescrive
ancora che “la comunicazione pubblicitaria deve
essere onesta, veritiera e corretta”. Questa clausola
generale si riferisce in particolare anche all’onestà.
Con ciò essa sembra a prima vista la regola più
vicina al tema del rilievo dell’etica nella pubblicità,
e più precisamente quella che più direttamente potrebbe qualificare come illecito autodisciplinare una
pubblicità che raffiguri elogiativamente o persuada
al consumo esagerato (e vizioso) di cibi e bevande.
A ben vedere l’interpretazione dell’art. 1 ha tuttavia
depotenziato il possibile riferimento all’etica: ed ha
visto nella clausola dell’onestà un “riferimento ai
principi fondamentali dell’ordinamento giuridico e
della coscienza etica-sociale (Giurı̀ dell’Autodisciplina pubblicitaria 51/85, 32/78)” (cosı̀ TESTA, nel
commento all’art. 1 c.a., in UBERTAZZI, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e con-
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correnza, IV ed., Cedam, Padova, 2007, 2055): secondo una linea non isolata ma anzi molto diffusa
nell’interpretazione di clausole giuridiche generali,
e cosı̀ ad esempio anche nella lettura della clausola
dei principi della correttezza professionale ex art.
2598 n. 3 c.c., che ha da tempo abbandonato le
concezioni di questa regola come centrate in tutto o
in parte sulle concezioni etiche. Certo è comunque
che sino dalla massima di ULPIANO (Dig. 1, I, 10)
riprodotta sul frontone del palazzo di giustizia milanese — e secondo cui iuris precepta sunt haec:
honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique
tribuere — il rinvio all’onestà sembra riferito ai
comportamenti che incidono nei rapporti interpersonali più che a quelli puramente privati. E la
clausola dell’onestà pare allora lasciare pochi spazi
per qualificare come illecito autodisciplinare una
strumentalizzazione del vizio della gola alla persuasione pubblicitaria al consumo.
L’art. 1 del codice di autodisciplina impone infine alla pubblicità di “evitare tutto ciò che possa
screditarla”. Questa clausola generale costituisce la
matrice da cui sono tratte alcune specificazioni,
quali in particolare i divieti dell’art. 10. L’applicazione della regola puntuale dell’art. 10 esclude
quella della norma generale dell’art. 1. E la regola
del divieto del discredito pubblicitario mi pare non
aggiunga dunque alcunché sul piano dei rapporti tra
etica della gola e comunicazione commerciale.
In sintesi il codice di autodisciplina offre qualche spazio, anche se molto angusto, ad una possibile
valutazione etica del contenuto della pubblicità di
cibi e bevande.
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Questa offerta mi sembra tuttavia sia rimasta sin
qui sostanzialmente teorica. Anzitutto se ben vedo
il Giurı̀ non ha sin qui adottato alcuna decisione di
accertamento di illiceità autodisciplinare della pubblicità per contrasto con le concezioni etiche relative alla gola. Ancor più significative possono poi
essere forse le ragioni di questo mancato intervento:
e qui mi pare ragionevole pensare in primis che i
casi di violazione reale della regola etica siano sostanzialmente modesti; comunque anche per essi gli
interessati non abbiano proposto al Giurı̀ le istanze
del caso; e la secolarizzazione ed il consumismo
abbiano aumentato il livello di accettazione dell’utilizzo della raffigurazione della disobbedienza alla
regola etica come strumento di persuasione al consumo.
Il carattere teorico del riferimento del codice di
autodisciplina alla regola morale mi pare infine
confermato in qualche modo anche da un sondaggio
di opinioni che ho svolto quest’anno con la “classe”
dei miei studenti universitari pavesi. In questo sondaggio un primo gruppo di domande ha riguardato
il rapporto tra le regole etiche centrali e l’autodisciplina pubblicitaria, ed ha posto tre domande successive, per chiedere se l’esortazione pubblicitaria al
vizio della gola era considerata dagli studenti come
una violazione dell’art. 10, o del precetto dell’onestà
previsto dall’art. 1 c.a., o come un inadempimento
alla regola dell’art. 1 c.a. secondo cui “la comunicazione commerciale [...] deve evitare tutto ciò che
possa screditarla”: ed a tutte e tre queste domande
successive una larga maggioranza dei miei studenti
ha risposto negativamente. Un secondo gruppo di
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quesiti ha riguardato invece il rapporto tra l’autodisciplina pubblicitaria e le regole etiche relative al
cibo che ho poc’anzi qualificato come (secondo me)
meno centrali, ed ha chiesto in particolare una
valutazione dei rapporti tra l’autodisciplina ed una
pubblicità ipotetica che proponga ad un musulmano
di bere alcolici o ad un ebreo di mangiare carne di
porco: e qui la maggioranza dei miei studenti ha
ritenuto che questa pubblicità contrasterebbe con
tutte e tre le regole dell’art. 10, dell’onestà, e del
divieto del discredito della pubblicità. Questo sondaggio non è stato naturalmente condotto con l’osservanza di tutti i criteri messi a punto dalla sociologia per la verifica quantitativa delle opinioni. I
suoi risultati mi sembrano tuttavia ciononostante
indicativi di una linea di tendenza che potrebbe
essere seguita anche al di fuori della mia classe di
studenti. Essi confermano ancora una volta il carattere probabilmente teorico del raccordo possibile
tra il codice di autodisciplina e la regola etica che
vieta il vizio della gola. Mentre d’altro canto prenderei atto che i miei studenti sembrano apparentemente ritenere più grave l’esortazione ad un consumo di cibi ed alimenti in contrasto con le regole
etiche che a me sembrano invece minori.
Resterebbe da chiedersi se vi sia spazio per una
“resurrezione” della regola etica anche nell’applicazione del codice di autodisciplina. Per parte mia mi
esimo dal dare qui una risposta. E mi limito invece
ad osservare che la sopravvivenza ed il rigoglio
dell’etica sono affidati non tanto alle regulae iuris ed
alla loro applicazione coattiva quanto piuttosto o
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comunque specialmente all’istruzione, alla formazione ed alla cultura.
4. L’ingordigia dei pubblicitari.
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Già si è detto che il vizio della gola è un’abitudine di mancanza di misura nell’assunzione di cibi e
bevande. Per traslato è tuttavia qualificabile e qualificato come ingordo anche chi ha abitudini non
misurate in campi diversi dall’alimentazione. E qui
mi chiedo allora se possano essere qualificate come
ingorde/viziose anche alcune attività degli operatori
pubblicitari diverse dall’induzione a consumi alimentari non equilibrati. E penso qui in particolare
all’abitudine di alcune imprese di taluni settori merceologici alla violazione sistematica delle regole
(anche) autodisciplinari (e cosı̀ ad esempio al quantitativo di pubblicità ingannevoli nel campo della
telefonia ed alla tendenza alla pubblicità occulta che
pervade il settore dei prodotti cosmetici); al mordi e
fuggi della pubblicità che inizia con un illecito consapevole, conquista con esso una quota di mercato,
e subito si ferma alla prima “diffida”; e alla ostensione sistematica di messaggi pubblicitari in luoghi
pubblici non aperti/consentiti alla pubblicità.
A prima vista sembra ragionevole caricare le tre
attività ora dette di un giudizio di disvalore morale:
perché mi pare vi sia un precetto etico generale che
impone il rispetto delle regole giuridiche non eticamente scorrette, e perché quelle che vietano i tre
atti ingordi qui considerati appaiono eticamente
ragionevoli. Le attività qui considerate sono tutta-
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via già qualificate illecite dal diritto anche prima ed
a prescindere dalla loro valutazione etica. È da
chiedersi allora che cosa aggiunga in diritto la loro
qualificazione in termini di disvalore etico. A prima
vista si potrebbe rispondere: nulla. A ben guardare
la qualificazione dell’ostensione sistematica della
pubblicità in luoghi non consentiti dalla collettività
come una violazione delle regole autodisciplinari
qui considerate potrebbe avere due effetti rilevanti
sul piano dell’applicazione del codice di autodisciplina: perché ricondurrebbe ad esso anche questo
comportamento pubblicitario, e d’altro canto legittimerebbe il Comitato di controllo e “chiunque
ritenga di subire pregiudizio” dall’attività pubblicitaria qui considerata ad agire avanti al Giurı̀ per la
repressione dell’illecito.
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di MAURIZIO FUSI
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Confesso che la dottrina cristiana non è mai
stata il mio forte, e dai tempi in cui mi preparavo
alla prima comunione son passati tanti di quegli
anni che la mia memoria catechistica si è ormai
spaventosamente sbiadita. Il discorso vale, ça va
sans dire, anche per i peccati capitali: dei quali
l’unica cosa che so con certezza è che sono sette,
riuscendomi invece già più difficile enumerarli tutti
senza fare sbagli. Per non dire che per alcuni, come
ad esempio per l’accidia, mi è ancor oggi un po’
vago persino in cosa esattamente consistano.
In questo deplorevole stato d’ignoranza di un
solo vizio ho un’idea abbastanza precisa: ed è la
lussuria, ossia la brama di piaceri carnali. Della
quale ben difficilmente potrei dimenticarmi non
fosse altro perché anch’io, come credo tutti o quasi
tutti, di quella brama sono stato spessissino (e nonostante l’età sono a volte tutt’ora) colpevole
preda. Del resto ho l’impressione che — diversamente dalla maggior parte degli altri vizi capitali
come l’invidia, l’avarizia e la stessa accidia che
paiono in qualche modo connaturati all’indole e al
modo d’essere delle persone — la lussuria abbia
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invece, se cosı̀ mi è permesso esprimermi, un’origine soprattutto fisiologica e in quanto latente in
ogni essere umano possa affiorare quando meno ci
se l’aspetta anche nei soggetti più morigerati e
virtuosi: in altre parole, mi sembra più che altro un
problema ormonale e agli ormoni non è facile comandare.
Pur essendomi chiaro per grandi linee cosa la
lussuria sia, ho tuttavia non poche incertezze sui
suoi confini, cioè su dove cominci e su dove finisca.
Perché, se non c’è dubbio che attenga alle cose del
sesso e in qualche modo si identifichi con la morbosa ricerca nonché con la pratica d’ogni sorta di
libidinosa lascivia, e quindi con la dissolutezza, la
depravazione, la perversione, la ginecomania, la
ninfomania, il priapismo, la satiriasi, il sadismo, il
masochismo, la sodomia, il tribadismo e i riti satanici, mi è meno chiaro in che rapporto si ponga con
l’erotismo e la pornografia, e soprattutto se includa
anche l’impudicizia, l’inverecondia e la licenziosità
che — conveniamone — rendono cosı̀ piacevoli le
liaisons galantes. O, più semplicemente e per dirla in
termini da caserma (del che chiedo venia), a che
punto una salutare copula si trasformi nella peccaminosa lussuria.
Della lussuria ho insomma una nozione molto
sommaria, anche se, in definitiva, troppi distinguo e
sottigliezze fanno probabilmente solo perdere
tempo perché, a prescindere dal significato strettamente teologico, sembra indubbio che nel vissuto
popolare il nostro peccato sia inteso con riferimento
non tanto all’atto sessuale come tale o al desiderio
che normalmente lo precede quanto piuttosto a
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LUSSURIA
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quell’indefinito insieme di pruriti concupiscenti e di
comportamenti fra il malsano e il corrotto che la
mia nonna accomunava sotto l’etichetta “tutta roba
da sporcaccioni”. E che quel pilastro di saggezza di
questo nostro terzo millennio che è Woody Allen
sintetizza domandandosi: “Is sex dirty?” e rispondendo: “Only if it’s done right”.
Bene. Se è questa la prospettiva, qualcuno potrebbe chiedersi se la lussuria non sia per caso uno dei
principali tratti fisionomici della pubblicità commerciale. È un interrogativo che può venire spontaneo
soprattutto di fronte ai calendari che reclamizzano
marche di pneumatici o candele d’accensione per motori a scoppio e rallegrano le pareti di ogni autofficina
che si rispetti, i quali sono effettivamente veri e propri
peana ai più lubrichi e scostumati appetiti di godimenti venerei, mostrando ragazze procacissime pressoché ignude i cui sguardi, posizioni e atteggiamenti
maliziosi, sensuali e provocanti indurrebbero a pensieri impuri persino il più casto monaco di clausura.
A me questi calendari piacciono moltissimo, mentre
aspetto che il meccanico mi restituisca la macchina li
stacco dalla parete per sfogliarli con malcelato interesse, ed è questa la ragione per cui, a parte la spesa,
trovo non totalmente sgradevole farmi sostituire la
batteria. Anche se devo riconoscere che spesso sconfinano nel lussurioso.
Tuttavia mi chiedo: possono i calendari degli
elettrauto davvero considerarsi lo specchio della
pubblicità o non rappresentano piuttosto una forma
di comunicazione che esaurisce i suoi effetti nell’ambito di un target composto da lavoratori di sesso
maschile non particolarmente acculturati e mossi da
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primordiali ma sane pulsioni goderecce? Io opterei
per questa seconda ipotesi, pur se non posso escludere che qualcuno sostenga che sono invece solo la
punta di un iceberg, dal momento che il tema del
sesso è in varia misura presente in quasi ogni genere
d’annuncio commerciale per qualsivoglia tipologia
di prodotto, inclusi quelli che coi piaceri erotici
nulla hanno a che vedere come i servizi bancari, i
detersivi per stoviglie o i rimedi contro la stitichezza. Ma nei quali, al pari di quanto accade per
beni o prestazioni aventi maggiori attinenze con le
attività sessuali, il richiamo più o meno scoperto o
più o meno allusivo a tette, cosce, sederi, ombelichi,
come pure a mutandine e reggicalze, rappresenta un
ingrediente pressoché costante e quasi obbligatorio
del messaggio. O, se non a seni e giarrettiere, ai
muscoli pettorali e addominali nonché ai glutei di
vigorosi maschioni o di ambigui efebi, dal momento
che il mercato comprende, oltre agli eterosessuali,
anche gli homos, ciò che non può certo considerarsi
un portato della società contemporanea se è vero
che lo stesso padre Dante nel settimo girone del
Purgatorio faceva camminare nel fuoco i lussuriosi
divisi in due schiere, a seconda, appunto, che fossero rispettivamente secondo o contro natura. E
anche qui senza distinzione di ruoli; perché, come
un diavolo faceva osservare al divino poeta che
protestava: “Ma io sono Dante!” indignato per essere stato scambiato per sodomita e sottoposto alla
relativa pena, “Guardi che da noi, Dante o Prendente, la punizione è sempre la stessa”. Quest’ultimo episodio — è appena il caso di avvertire — non
appartiene alla Divina Commedia ma a una vecchia
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barzelletta anch’essa un po’ da caserma, del che mi
scuso nuovamente. Ma è lo stesso argomento della
lussuria, nonostante le buone intenzioni, a far inevitabilmente sconfinare nello scurrile.
Superato il primo impatto dei calendari osé,
però, alcune considerazioni si impongono. Anzitutto che non necessariamente il richiamo a tette o
chiappe ricade nella lussuria. O meglio: ci ricade se
uno le ha sempre in mente, ma non in circostanze
normali. Il problema è dunque molto soggettivo,
come nel caso di quel signore che, assatanato dal
sesso, va dallo psichiatra il quale lo sottopone a una
specie di test di Rorschach. Disegno di un rettangolo: “Cosa le suggerisce?” chiede il medico. Paziente: “Mi sembra chiaro, dottore, questo è un
letto, sopra c’è una magnifica ragazza, nuda, arrivo
io e me la faccio più volte …”. Lo psichiatra non
dice niente. Secondo disegno: due rettangoli. “E
questo?”. “Ma dottore, è ancora più evidente, due
letti gemelli, sul primo una bionda, sull’altro una
bruna, nude entrambe, arrivo io e passando dall’una
all’altra me le faccio ripetutamente …”. Lo psicanalista tace ancora, sospira, e tira fuori un terzo
disegno: un cerchio con all’interno dodici circoletti.
“E qui, cosa ci vede?” “Ma è elementare, dottore: il
cerchio è una piazza, i circoletti dodici alberi disposti intorno, dietro ogni albero c’è una ragazza, tutte
nude, arrivo io e di albero in albero faccio varie
volte il giro della piazza passandomele una via
l’altra …”. Il medico a questo punto sbotta: “Ma lei
non pensa che a questo?”. “Per forza, dottore —
replica il paziente — Finché lei continua a mostrarmi disegni pornografici!”. I famosi rapporti fra
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sesso, pornografia e lussuria continuano a restarmi
un po’ oscuri, ma quel signore — si deve ammetterlo — non era del tutto normale.
Una seconda osservazione è per sottolineare
come, se non si può negare che i messaggi commerciali presentino spesso un notevole spiegamento di
nudità o indugino più del necessario su particolari
anatomici decisamente allettanti, è anche incontestabile che, di solito, lo fanno in modo abbastanza
soft, con un certo buon gusto e misura, astenendosi
dal rappresentare situazioni boccaccesche, carnasciali, ammucchiate e mai o quasi mai scadendo
nell’osceno. Se ciò derivi dal senso di responsabilità
di chi realizza gli annunci o dal timore di passar dei
guai non saprei dire; ma è certo, stando a quel che
si vede in giro, che il modo di essere della società
attuale è alquanto più scollacciato, sbracato e inverecondo di quanto la pubblicità ci presenta; sicché,
se un rimprovero le si può muovere è semmai quello
opposto, cioè di tenere una irrealistica posizione di
retroguardia, mostrando una società ordinata e idilliaca che non esiste: famigliole lietamente riunite a
far la prima colazione, giovinetti sorridenti, rispettosi dei genitori e solleciti verso gli anziani, automobilisti non ubriachi che si fermano al rosso e,
quanto al sesso, molto molto meno ed in modo
decisamente meno cruento e volgare di quello abitualmente oggi praticato. Tanto che, a ben vedere,
gli stessi calendari delle autofficine potrebbero essere proposti come testi di bon ton alle allieve delle
Orsoline. Non ho alcuna pretesa di erigermi a Catone e tuonare contro il degradante rilassamento
dei costumi cui stiamo assistendo, anche perché —
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se vogliamo — la storia dell’umanità presenta al
riguardo un curioso andamento ondulatorio (e basti
pensare al settecento libertino cui fa seguito il rigore vittoriano, seguito a sua volta dall’odierno
sfascio: nihil sub sole novi, fra la Justine di Donatien
Alphonse François marchese de Sade e la Valentina
di Guido Crepax non ci sono poi molte differenze):
ma è certo che, almeno in fatto di lussuria, non è
sicuramente la pubblicità che merita di sedere sul
banco degli imputati, perché al massimo fotografa
la società contemporanea e per di più in forma non
esasperata.
Un’altra considerazione, infine, per osservare
come, anche a voler per assurdo vedere in ogni
riferimento pubblicitario al sesso un invito alla lussuria, non si tratterebbe comunque di un vizio della
pubblicità ma solo, semmai, di uno strumento cui,
vista l’indubbia grande popolarità dell’argomento,
questa ricorre per attrarre l’attenzione della gente,
renderle gradevole il messaggio e spingerla a comperare il prodotto pubblicizzato. Per cui, se proprio
di peccato capitale si volesse parlare, non sarebbe la
pubblicità come tale a rendersene autrice, limitandosi essa al massimo a suggerirlo a coloro cui si
rivolge: e quindi, in definitiva, un peccato di serie B,
allo stesso modo che l’istigazione a commettere un
reato è considerata un illecito meno grave della
commissione del reato stesso.
Tutte queste precisazioni mi sono sembrate, oltre che opportune per inquadrare le interrelazioni
fra lussuria e pubblicità, anche doverose. Infatti, dai
tempi in cui veniva ancora chiamata réclame e tutto
ciò che se ne diceva era che “è l’anima del commer-
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cio”, essa è stata caricata e imputata di tante responsabilità, di tante colpe, di tante perversioni e di
tante malefatte da far considerare, al confronto, lo
spaccio di stupefacenti alla stregua di un innocuo
passatempo per signorine di buona famiglia. La si è
accusata di perenne disinformazione e ingannevolezza, di manipolazione e condizionamento dei suoi
destinatari, d’esser causa del deterioramento dei
costumi, d’aver provocato la caduta dei valori individuali, famigliari e collettivi, dell’indebolimento
dei più elementari principi etici immolati sull’altare
di uno sfrenato consumismo, per non dire della sua
pervasività, invadenza e violazione della privacy
personale e della costrizione a sciropparsi interminabili serie di spot sui servizi di telefonia mobile e
sui dentifrici anticarie a chi vuol vedersi per intero
un vecchio film della serie di Don Camillo e Peppone (ciò che, per inciso, credo ben pochi desiderino avendo tutti noi visto quelle pellicole almeno
venti volte tanto da conoscerle a memoria. Meglio
passare sul Grande Fratello).
Non intendo mettermi a discutere, sia ben
chiaro, delle cosiddette responsabilità sociali della
pubblicità, delle quali si è tanto blaterato in tutte le
salse negli ultimi cinquant’anni da rendere inutile e
di pessimo gusto, oltreché fuori tema, parlarne ancora in questa sede. Mi si lasci però dire che sarebbe
sommamente ingiusto, infondato e persino ridicolo
aggiungere a quella serie di accuse anche quella di
propagandare e fomentare la lussuria sol per il fatto
di mostrare giovani donne poco vestite e di coscia
lunga. Le quali potran forse ridestare lubriche concupiscenze in chi morbosamente vede ragazze nude
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dappertutto come il signore fissato che consultava lo
psicanalista, ma non nelle persone normali. Né del
resto potrebbe pretendersi che, al posto delle appetitose fanciulle in minigonna, la presentazione dei
prodotti fosse affidata a matrone cellulitiche e baffute. Della saggezza popolare espressa dai proverbi
ho il massimo rispetto, ma sono convinto che
“donna baffuta sempre piaciuta” non la rispecchi e
sia la pietosa invenzione di qualcuno per consolare
una cara congiunta — probabilmente una zia zitella
— dalla quale gli uomini si tenevano alla larga
perché affetta da mustacchi. E quindi, vivaddio,
prosciogliamo questa bistrattata pubblicità almeno
dall’accusa di incentivare il libertinaggio perché,
oltre a rappresentare una forzatura, obiettivamente
non la meriterebbe.
In un’ottica inevitabilmente deformata dai miei
quasi sessant’anni d’avvocatura nello specifico
campo del diritto della comunicazione d’impresa,
vorrei anche aggiungere che il colpevolizzare la
pubblicità d’istigazione alla lussuria sarebbe anche
privo di basi giuridiche, dal momento che nessuna
norma, né dell’ordinamento dello Stato né dell’autodisciplina pubblicitaria, proibisce, reprime o comunque considera negativamente l’advertising che
strizza l’occhio al sesso. Alcuni divieti reperibili
nella legge e nelle regole autodisciplinari, come
quelli riguardanti l’oscenità e l’indecenza, o le offese alla dignità della persona e alle convinzioni
religiose e civili della collettività, o preordinati alla
tutela dei minori, coprono è vero aree assai prossime e in molti casi decisamente contigue all’argomento di cui mi sto occupando, ma non vi si iden-
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tificano né possono essere confusi con esso. Sicché
tutto quel che si può dire al riguardo è che alcune di
tali norme potrebbero essere utilizzate per colpire
le pubblicità che avessero il pessimo gusto di visualizzare o addirittura esaltare comportamenti e pratiche da sporcaccioni, fermo restando però che l’illiceità deriverebbe dalla loro accertata oscenità,
indecenza, ripugnanza, contrarietà alle convinzioni
collettive e pericolosità nei confronti di fanciulli e
adolescenti, ma non dalla loro attinenza alla sfera
delle brame carnali. Si tratta — è quasi superfluo
insistervi — di due problematiche differenti, in
qualche occasione interconnesse le une alle altre,
ma appartenenti a due diverse sfere. Le quali, benché nella storia dell’umanità siano state talvolta
commiste (si pensi alle streghe arse sul rogo, ai
tribunali dell’Inquisizione e in definitiva alla commissione Mc Carthy), è essenziale per il bene di tutti
mantenere rigorosamente separate.
Per lo stesso motivo, pur se la mia suaccennata
deformazione professionale mi invoglierebbe a
farlo, rifuggo dall’addentrarmi nella non numerosissima ma tuttavia cospicua casistica, soprattutto autodisciplinare, in qualche modo correlata ai rapporti
fra pubblicità e lussuria. Mi limito a ricordare che i
problemi presi in esame dalle varie decisioni non
hanno mai riguardato la natura più o meno lussuriosa dei messaggi, perché, come ho già detto, nessuna norma vieta la pubblicità basata sulla lussuria
e del resto i nostri amici pubblicitari sono in genere
molto attenti nell’evitare eccessive insistenze sul
tema. Qualche sconfinamento dai limiti del buon
gusto se non proprio della morale tuttavia vi fu,
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accostamenti lubrichi e volgarmente allusivi come
pure disturbanti scene di fornicazione o autoerotismo vennero condannati, e in particolare non ho
dimenticato (perché lo difesi io) lo spot per un
profumo che visualizzava una coppia impegnata in
giochi corporali da contorsionisti verosimilmente
ispirati al Kamasutra, del quale il Giurı̀ però dispose
solo la programmazione dopo le 22,30, non già in
quanto lussurioso ma perché di solito prima di
quell’ora i bambini non sono ancora andati a nanna.
Sull’argomento, del resto, la giurisprudenza del
Giurı̀ è stata sempre intelligentemente liberal: “Dovendosi escludere che la tematica sessuale sia, in sé,
contraria a principi codificati e non riscontrandosi
nella pur inequivocabile allusione all’intimità fisica
che l’annuncio porge alcun tratto di volgarità o
indecenza che possa offendere la sensibilità del
consumatore dei nostri giorni …. — si leggeva nella
motivazione della sentenza resa in uno dei leading
cases in tema di “donna-oggetto” che per almeno
due decenni rappresentò una delle più scottanti
issues dibattute avanti la giustizia autodisciplinare
— … la censura, probabilmente influenzata da un
residuo di irrisolto imbarazzo di fronte alla rappresentazione delle cose del sesso, non sembra fondata”. E concludeva: “La qualità dell’evocazione,
certo, è solo fisica; ma non è indispensabile che un
annuncio pubblicitario parli anche dello spirito, basta non avvilirlo”. Si trattava anche qui della campagna per un profumo maschile che il claim presentava come arma di seduzione. Eravamo negli anni
’80, e anche questa l’avevo difesa io.
A questo punto ho l’impressione di non aver più
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molto da dire sui possibili nessi fra lussuria e pubblicità, i quali — lo si sarà capito — non mi sembrano
particolarmente intensi. Cosı̀ come si sarà pure intuito che — fino a quando non degenerino in perversione e siano trattate con garbo — vedo le birichinate sessuali, incluso quel poco di esse che può
esser mostrato in pubblicità, con un certo occhio di
simpatia. E ad esser sincero non me ne vergogno affatto: cosa volete mai, sono decisamente già parecchio in là negli anni e nessuno ama la vita quanto
l’uomo che sta invecchiando, che è poi la stessa cosa
che con maggior realismo diceva Virginia Woolf:
“più uno diventa vecchio più ama le indecenze”. Non
vorrei però essere frainteso: non è che l’età ci trasformi in vecchi porcelloni; è solo che, pur non facendone un dramma, a un certo punto della vita si
comincia a percepire che ogni secondo scandito dalle
lancette avvicina alla fine. E poiché andarsene nel
migliore dei modi è un’aspirazione legittima, non si
può fare a meno, pur se sto un po’ esagerando con le
citazioni, di ricordare questa volta Ovidio: “O felice
chi si consuma nelle battaglie di Venere! Voglia il
cielo che sia questa la causa della mia morte!”.
Effettivamente dev’essere un modo tutt’altro
che spiacevole, probabilmente il meno squallido, di
tirar le cuoia. Certamente meno squallido e spiacevole che venir travolti da un motociclista che si è
fatto di droga mentre si sta attraversando la strada
sulle strisce pedonali.
P.S.: Non posso fare a meno di riaprire il discorso per riferire un fatto curioso. Alcune sere fa
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avevo appena finito di buttar giù queste note e mi
ero seduto in poltrona davanti al televisore quando,
nel far zapping tentando di dribblare le pubblicità
più noiose, mi sono imbattuto in uno spot che m’ha
fatto fare un salto. Perché, dopo aver scritto in
lungo e in largo sugli intrecci fra advertising e lussuria, per la prima volta mi trovavo di fronte, in
carne e ossa, a un telecomunicato che utilizzava
alcuni vizi capitali, fra cui manco a dirlo la lussuria,
come reason why del messaggio. Prodotto pubblicizzato un modello d’autovettura Chevrolet le cui
varie caratteristiche venivano volta a volta accostate
a questo o a quel vizio senza neppure la consueta
licenziosa mediazione di incantevoli glutei femminili o di mascolini bicipiti, ma in forma diretta e
quasi brutale, visualizzando la macchina accanto al
nome del peccato in block letters, cosı̀ da non lasciar
dubbi sull’intenzione di identificare il prodotto con
la lussuria, la gola, e via discorrendo.
Purtroppo, nonostante il mio girovagare per
diversi giorni fra gli station breaks di RAI e Mediaset, non sono riuscito a registrarlo e neppure a
rivederlo. E forse, tutto sommato, che non l’abbia
trovato ha scarsa importanza, sembrandomi probabile, almeno per quanto riguarda la lussuria, che i
suoi ideatori intendessero riferirvisi non tanto nel
suo primario significato di sfrenata brama di piaceri
carnali (difficilmente persino ai più sessualmente
deviati può venire in mente d’andare a letto con
un’automobile) quanto piuttosto nell’accezione secondaria e poco usata di “vivere nel lusso” che pure
qualche dizionario riporta. Tuttavia l’episodio potrebbe aprire nuovi scorci su ulteriori connessioni
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della pubblicità con i vizi capitali e in particolare
con la lussuria, chi mai può dirlo? E in ogni caso
resta la stranezza della coincidenza. Quando si dice
le combinazioni!…
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di PAOLINA TESTA
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SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Il primo vizio capitale: l’ingannevolezza. — 3. Falsità e mancanza di trasparenza. — 4. Gli asterischi. —
5. I super. — 6. Una parentesi. — 7. Il destinatario indifeso. — 8. Il
secondo vizio capitale: il mancato rispetto degli altri. — 9. Il terzo:
l’aggressione al patrimonio imprenditoriale altrui.
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1. Premessa.
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Dei Vizi Capitali intesi in senso proprio, e dei
loro rapporti con la pubblicità e con le norme che la
disciplinano, si sono già magistralmente occupati gli
Autori che hanno accettato di contribuire a questa
strana opera, di incerta collocazione fra il diritto, la
storia e la sociologia (ma proprio questa dovrebbe
essere la sua particolarità e, mi auguro, la sua specifica attrattiva).
Non penso di essere in grado di aggiungere
qualcosa di interessante, utile o anche solo sensato
a quanto è già stato detto, e quindi provo a cambiare prospettiva. Non mi occuperò di Vizi Capitali
e pubblicità, ma dei vizi capitali della pubblicità: la
differenza di prospettiva, non sarà sfuggito al lettore, è rappresentata dall’uso delle iniziali minuscole anziché maiuscole; i “vizi capitali” della pub-
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blicità, in una prima approssimazione, sono i difetti,
i difetti gravi, che affliggono la pubblicità.
L’ambito di indagine potrebbe essere vastissimo:
si potrebbe dire, ad esempio, che il primo vizio capitale della pubblicità, soprattutto televisiva, è di essere quantitativamente eccessiva: di occupare non
solo i tradizionali station breaks, o intervalli pubblicitari, ma di invadere persino i campi di calcio (o meglio, le riprese televisive dei campi di calcio), di interrompere sul più bello, anche se per pochissimi
secondi, lo svolgimento di una gara di motociclismo
o di Formula 1; di presentarsi, sotto forma di lecito
product placement, nel bel mezzo di un film, e fra
breve anche di uno spettacolo di intrattenimento. Ma
io non sono un sociologo, un esperto di comunicazione o un opinionista; sono solo un avvocato, e penso
che le mie opinioni personali interessino a pochi;
prendo atto che la tendenza legislativa, anche a livello
comunitario, è nel senso di ampliare gli spazi dedicati
alla pubblicità; e cosı̀ mi chiedo solo se i limiti posti
dal testo unico della radiotelevisione siano stati rispettati, e se l’inserimento del prodotto in un film, o
in uno spettacolo di intrattenimento, sia stato effettuato nel rispetto di quanto prescrive la legge.
Si potrebbe anche dire che un altro vizio capitale della pubblicità è di non sapersi rinnovare, di
essere scarsamente creativa: ma, sempre per i motivi di cui sopra, mi permetto di valutare la creatività di un messaggio pubblicitario solo per verificare
se questo sia proteggibile nei confronti dell’imitazione da parte di terzi, ai sensi dell’art. 13 del codice
di autodisciplina della comunicazione commerciale,
o se possa a sua volta formare oggetto di un’accusa
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di imitazione, sempre alla luce della stessa norma.
In casi più rari, mi permetto di valutarne la creatività ai fini di una eventuale proteggibilità in base al
diritto d’autore; più rari perché, si sa, agenzie e
utenti di pubblicità sono piuttosto restii a chiedere
la protezione d’autore ai tribunali; i quali, dal canto
loro, sono piuttosto restii a concederla.
Insomma, sono un grigio giurista positivo che si
occupa di pubblicità, e questo mi impone di parlare
di vizi capitali della pubblicità nell’unica ottica che
mi è realmente familiare, e nella quale riesco a
muovermi a mio agio: quella della disciplina giuridica della pubblicità. Dunque: vizi capitali della
pubblicità uguale illeciti pubblicitari.
Una rassegna delle norme esistenti, allora, e
della relativa casistica? Non esattamente.
Nella storia del cattolicesimo, il sistema dei Vizi
Capitali risponde ad un’esigenza di ordine, di classificazione: l’universo del male è ordinato gerarchicamente, e gli innumerevoli peccati di cui il genere
umano si può rendere colpevole sono comunque
riconducibili all’uno o all’altro dei sette peccati
maggiori, i sette Vizi Capitali (rinvio sull’argomento
a C. CASAGRANDE e S. VECCHIO, I sette vizi capitali.
Storia dei peccati nel medioevo ed età moderna,
Einaudi, Torino, 2000; e in questo volume a C.
CASAGRANDE, I sette vizi capitali: genesi e fortuna).
Ma l’esigenza di classificazione è tipica anche del
diritto, ed è una tentazione ricorrente per chi di
diritto si occupa; mi sono chiesta allora se non fosse
possibile ricondurre gli illeciti pubblicitari ad alcune
tipologie fondamentali, da considerarsi, appunto, i
vizi capitali della pubblicità.
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Gli illeciti pubblicitari sono molti: li troviamo
elencati, in primo luogo, nel codice di autodisciplina, nel codice del consumo e nel decreto legislativo 145/2007; ma li troviamo anche sparsi, qua e là,
nelle innumerevoli leggi speciali che disciplinano i
vari aspetti della commercializzazione di questo o
quel prodotto (si pensi agli alimenti, o ai farmaci, o
ai cosmetici) o servizio (si pensi, per tutti, ai prodotti finanziari), e dunque anche il fenomeno pubblicitario; figure particolari di illecito pubblicitario,
qualificate in funzione del mezzo utilizzato per la
diffusione del messaggio, sono contemplate nel testo unico della radiotelevisione; ed infine, alcuni
illeciti pubblicitari sono riconducibili all’una o all’altra figura di concorrenza sleale.
Cercando di classificare, unificare, restringere,
eliminare il superfluo, sono però giunta alla conclusione che tali illeciti, nonostante la loro numerosità,
siano riconducibili a non più di tre tipologie fondamentali: che proverei a definire, convenzionalmente, i vizi capitali della pubblicità.
2. Il primo vizio capitale: l’ingannevolezza.
Tra i vizi capitali della pubblicità uno si staglia
sugli altri, primo in ordine cronologico e di importanza: l’ingannevolezza.
È il primo in ordine cronologico: omnis mercator mendax, dicevano con un pizzico (abbondante)
di indulgenza i latini, e una giurisprudenza a noi
molto più vicina nel tempo. La disciplina della
pubblicità ha avuto come oggetto, inizialmente, il
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divieto della pubblicità ingannevole: la prima legge
che in Italia vieta l’inganno pubblicitario (relativamente ai soli prodotti all’epoca degni di rilievo: le
sostanze di uso agrario e i prodotti agrari) risale al
1925 (regio decreto legge n. 2033/1925, art. 51);
l’autodisciplina pubblicitaria è nata in Italia, nel
1966, con l’intento fondamentale di reprimere il
mendacio pubblicitario; e quando, nel 1984, l’Europa ha disciplinato per la prima volta il fenomeno
pubblicitario, lo ha fatto con l’emanazione di una
direttiva (84/450/CEE) sulla pubblicità ingannevole.
È il primo in ordine di importanza, se pensiamo
al numero di norme ispirate dall’esigenza di vietare
l’inganno pubblicitario: non solo quelle a contenuto
negativo, che si ritrovano in leggi generali e speciali,
ma anche quelle, numerosissime, di fonte comunitaria, statale e autodisciplinare, che impongono particolari obblighi informativi alla pubblicità di determinati prodotti, servizi o sistemi di vendita, e che
rispondono anch’esse all’intento fondamentale di
evitare l’inganno del destinatario per omissione di
notizie e informazioni ritenute rilevanti ai fini della
scelta del consumatore. E d’altro canto la direttiva
05/29/CE sulle pratiche commerciali sleali — seguita ovviamente dal codice del consumo — dedica
un ampio spazio alle pratiche commerciali ingannevoli, e uno spazio quantitativamente molto minore
alle pratiche commerciali aggressive. Gli interessi
delle imprese nei confronti della pubblicità ingannevole sono ora tutelati da un’apposita direttiva
(dir. 84/450/CEE, quale modificata dalla direttiva n.
29 del 2005), e in ambito nazionale da un apposito
decreto legislativo (d.lgs. 145/2007).
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Al divieto di ingannevolezza sono poi riconducibili anche le norme che impongono di mantenere
una netta distinzione fra pubblicità e informazione
(la distinzione fra pubblicità e spettacolo sta ormai
venendo a cadere, grazie alla liberalizzazione sostanzialmente generalizzata del product placement):
le quali rispondono all’esigenza di evitare l’inganno
del consumatore relativamente alla fonte di provenienza della comunicazione, al fine di impedirgli di
scambiare per giudizi indipendenti, e quindi più
affidabili, quelle che invece sono solo opinioni di
parte.
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3. Falsità e mancanza di trasparenza.
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L’ingannevolezza, come è noto, assume due vesti: la falsità e la mancanza di trasparenza.
Con un pizzico di ottimismo, mi sento di affermare che l’ingannevolezza intesa come falsità non è
più tanto di moda, almeno nel nostro paese. Oltre
quarant’anni (quarantatre, per l’esattezza) di attività dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria e
diciassette anni di attività dell’Autorità garante
della concorrenza e del mercato nello specifico settore pubblicitario hanno insegnato a tutti, con la
poco lodevole eccezione di qualche impresa particolarmente riottosa, o operante in settori particolari, che le bugie in pubblicità non si dicono.
La mancanza di trasparenza è, invece, drammaticamente attuale. La pubblicità non trasparente non
dice il falso, dice delle mezze verità, e della verità tace
la metà più sgradevole; contiene affermazioni peren-
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torie, che poi mitiga, circoscrive, limita a casi ben
determinati; afferma come universalmente valide determinate verità, salvo poi specificare che quelle verità sono vere solo in alcuni casi; oppure sommerge
il consumatore con una congerie di informazioni,
molte delle quali inutili, che affollano il messaggio e
impediscono al destinatario di soffermare l’attenzione su quell’unico dato veramente importante per
comprendere i reali vantaggi del servizio che gli viene
offerto, o la reale convenienza dell’offerta che gli
viene proposta; oppure ancora lo costringe a ricorrere a calcoli complicatissimi per determinare il vero
costo di una telefonata, o di un volo low cost, o di un
finanziamento proposto per l’acquisto di un’automobile o di una lavatrice.
A differenza della pubblicità ingannevole, la pubblicità non trasparente è un vizio di grande attualità.
La situazione è ben fotografata dal legislatore comunitario (con l’art. 6 comma 1 della direttiva n. 29/
2005), ed ancor meglio dal legislatore nazionale con
l’art. 21 comma 1 del codice del consumo, che considera ingannevole una pratica commerciale (nella
specie: una pubblicità) non solo quando “contiene
informazioni non corrispondenti al vero” (l’ingannevolezza intesa come falsità dell’affermazione), ma
anche quando “seppure di fatto corretta, in qualsiasi
modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore
medio”, relativamente a taluno degli aspetti espressamente elencati nella norma (l’ingannevolezza intesa come mancanza di trasparenza).
Se le pubblicità false sono relativamente poche,
le pubblicità non trasparenti sono tante, e ad esse si
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4. Gli asterischi.
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riferiscono la maggior parte delle pronunce del
Giurı̀ per violazione dell’art. 2 del codice di autodisciplina, e dei provvedimenti dell’Autorità garante
per violazione degli articoli da 21 a 23 del codice del
consumo (e, prima della riforma del 2007, per violazione degli artt. 20 e 21 dello stesso codice). E del
resto, secondo una recente ricerca di mercato svolta
su incarico dell’associazione che riunisce i principali
investitori pubblicitari (UPA), oggi i consumatori
richiedono alla pubblicità soprattutto trasparenza:
la trasparenza della pubblicità è percepita come una
assoluta necessità, una caratteristica fondamentale
che poche campagne possiedono.
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La mancanza di trasparenza si rivela attraverso
una pluralità di elementi sintomatici: ai quali, se
posso permettermi una notazione personale, va la
mia più cordiale antipatia, in quanto avvocato che
spesso si trova costretto — contro le sue più intime
convinzioni — a sostenerne in giudizio l’assoluta
idoneità ad evitare qualsiasi rischio di inganno del
consumatore. Un’avvertenza doverosa per chi mi
legge: all’occorrenza, negherò di avere mai scritto
queste parole, e se proprio sarò costretta ad arrendermi all’evidenza, ebbene … allora sosterrò che si
trattava di considerazioni di carattere generale, assolutamente inapplicabili al caso di specie, il quale,
come ognun vede, è radicalmente diverso. Non esiterò insomma a comportarmi come gli avvocati di
quelle gustosissime vignette di Daumier che hanno
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come protagonisti Les gens de justice, incarnazione
di tutti i (veri) luoghi comuni sugli avvocati.
Il primo posto fra gli elementi che denunciano la
mancanza di trasparenza della pubblicità va assegnato senza dubbio alcuno all’asterisco, capostipite
di tutte le avvertenze insufficienti, padre di altre e
più sofisticate forme di dico-e-non-dico. Non mi
riferisco qui all’asterisco corretto perché effettivamente esplicativo: all’asterisco cioè che funziona
come una nota a pie’ pagina, per precisare ad esempio che una certa quota di mercato risulta dalle
rilevazioni compiute da un certo istituto in una certa
data, o che un certo test di efficacia, di cui sono
citati i risultati, è stato effettuato da una certa
università o altra istituzione di ricerca.
Mi riferisco invece all’asterisco malizioso,
quello utilizzato per veicolare informazioni che ridimensionano fortemente, o addirittura contraddicono, la portata del claim principale: per precisare,
ad esempio, che il prezzo incredibilmente basso
pubblicizzato per un viaggio aereo non comprende
le tasse aeroportuali e altre voci che lo fanno lievitare enormemente; o che una certa tariffa telefonica, apparentemente molto conveniente, in realtà
si applica solo al traffico telefonico di un certo tipo,
e quindi in pratica ad un numero ristrettissimo di
chiamate; o che l’effetto di un certo cosmetico,
presentato come sostanziale e in grado di modificare la struttura della pelle o del corpo, deve in
realtà intendersi come riferito al solo aspetto estetico; o che il risultato conseguito nell’80% dei casi è
stato in realtà ottenuto nell’ambito di un test al
quale hanno partecipato dieci soggetti, sı̀ che sono
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solo otto coloro che hanno ottenuto il risultato
vantato; o che il tanto decantato “tasso zero” di un
finanziamento si riferisce solo al TAN, mentre il
TAEG si guarda bene dall’essere pari a zero.
Poco male se l’asterisco rinviasse ad una spiegazione collocata in un punto facilmente accessibile agli
occhi di chi legge, ben visibile, scritta con caratteri
chiari. No, questo non si verifica mai, o quasi: sennò,
perché ricorrere all’asterisco? L’asterisco in realtà
richiama una spiegazione che nessuno deve leggere,
se non l’avvocato che dovrà difendere quella pubblicità o l’organismo che dovrà giudicarla. Per arrivare alla spiegazione, è necessario girare ripetutamente la confezione da tutti i lati, ed individuare in
quale punto di quale facciata secondaria sia stata
stampata; oppure ruotare di novanta gradi il giornale,
per leggere quanto è scritto in senso verticale rispetto
all’annuncio e dunque rispetto al normale senso di
lettura; o ancor peggio ruotare di novanta gradi la
testa, quando la scritta in senso verticale compare su
un manifesto affisso per le strade; senza contare della
necessità, in ogni caso, di munirsi di strumenti ottici
potentissimi, senza i quali è impossibile decifrare
cosa sia stato scritto. A volte poi gli asterischi sono più
d’uno: uno precisa quale sia effettivamente l’azione
del prodotto, un altro quante persone abbiano partecipato al test, un altro ancora come debba leggersi
un certo risultato che è annunciato a caratteri di scatola nella head-line.
È trasparente una pubblicità del genere? Certamente no. L’asterisco è sufficiente a rendere conto
dell’effettiva natura dell’offerta pubblicizzata, o
dell’effettiva portata del claim? Altrettanto certa-
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mente no. Ha qualche seria probabilità, una pubblicità cosı̀ congegnata, di essere assolta da un’accusa
di ingannevolezza? Assolutamente no. Sostenere
che la spiegazione fornita attraverso l’asterisco è
sufficiente ad eliminare ogni equivoco rischia di
essere, in certe occasioni, un insulto all’intelligenza
di chi parla e di chi ascolta: vi prego di credere che
l’imbarazzo è grande quando si deve sostenere che
un’avvertenza scritta in verticale e in caratteri piccoli su un manifesto è facilmente leggibile dal passante e ancor più dall’automobilista …. Ma la domanda più importante è un’altra: qual è la reazione
del consumatore a fronte di una pubblicità cosı̀
congegnata? La mia impressione è sempre stata che
il consumatore dovrebbe sentirsi preso in giro, e
quindi sviluppare una sorta di avversione o quanto
meno un giudizio negativo nei confronti del prodotto pubblicizzato, o di chi lo ha pubblicizzato in
quel modo. La ricerca UPA che ho ricordato
poc’anzi sembra darmi ragione. E allora, per favore,
liberiamoci degli asterischi: attenuiamo la portata
del claim, indichiamo chiaramente il prezzo del volo
low cost (che tanto è sempre favorevole, favorevolissimo, se comparato con le tariffe normali delle
compagnie di bandiera), non parliamo di tasso zero
se non è proprio vero. Il consumatore non si sentirà
preso in giro, l’impresa risparmierà qualche decina
(in alcuni casi, qualche centinaio) di migliaia di euro
in sanzioni amministrative conseguenti all’accertamento della scorrettezza della pratica, la sua immagine e le sue finanze miglioreranno, e molto probabilmente le vendite del prodotto non subiranno cali
degni di nota.
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5. I super.
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Figlio televisivo dell’asterisco è il super, e per
essere più precisi quello che le aziende chiamano “il
super legale”: un nome che è tutto un programma,
verrebbe da dire.
Tutti hanno visto i super legali, anche se non
tutti sanno che si chiamano cosı̀. Si tratta di quelle
scritte che scorrono in basso sui teleschermi, abbastanza velocemente, in caratteri abbastanza piccoli
e senza particolare contrasto rispetto allo sfondo,
mentre lo spot prosegue nel suo regolare svolgimento, con parole e immagini spesso assolutamente
scollegate rispetto alle informazioni fornite con il
super; oppure di quelle scritte, sempre in caratteri
piccoli e non particolarmente visibili, che affollano
la scena finale del telecomunicato, restando sullo
schermo un paio di secondi, poco più o poco meno.
Insomma, caratteristica esteriore comune dei super
legali è la assoluta illeggibilità: e ancora una volta
l’imbarazzo del povero avvocato è grande, quando
si sente chiedere da qualche membro del Giurı̀
(dotato in verità di vista normalissima): “ma insomma, dov’è il super?” (nota bene: non “cosa dice
il super?”, ma “dov’è il super?”). Per la risposta, si
recita a soggetto.
Oltre che dall’illeggibilità, i super legali sono
accomunati anche dal contenuto: in ogni caso infatti
contengono informazioni essenziali sulla tariffa
pubblicizzata, sui limiti di validità dell’offerta, sulle
condizioni di finanziamento, sull’azione del prodotto pubblicizzato. Sotto questo profilo, il super
rappresenta un’evoluzione genetica rispetto a suo
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padre l’asterisco. È infatti più ricco di notizie e
informazioni rispetto alla nota cui l’asterisco rimanda; molte delle informazioni che nella pubblicità televisiva sono affidate al super, in una pubblicità stampa trovano posto nella body-copy, il che le
rende sicuramente più leggibili, con grande vantaggio per la completezza dell’informazione e per la
correttezza del messaggio.
Il super legale è volutamente illeggibile? Non
credo (in dubio pro reo, recita il latinetto dei giuristi).
Non credo cioè che le aziende volutamente nascondano al pubblico informazioni essenziali, fidando sull’inganno come elemento per attrarre la clientela.
Non dimentichiamo che i super legali trovano la loro
massima occasione di utilizzo nel caso di servizi (telefonia, internet, finanziamenti) che il consumatore
non trova sugli scaffali dei supermercati, ai quali accede soltanto dopo ulteriori e specifici contatti con
l’operatore pubblicitario, in occasione dei quali è in
condizioni di venire agevolmente a conoscenza delle
reali condizioni dell’offerta. Semplicemente, le informazioni legali sono noiose, sciupano il film, costringono a mettere in secondo piano la creatività a scapito dell’informazione, rischiano di trasformare lo
spot in un modulo contrattuale, ed è per questo che
vengono inserite per mettersi a posto la coscienza, ma
dedicando loro il minor spazio possibile. Forse, però,
esistono altre soluzioni. Il codice di autodisciplina
consente in alcuni casi messaggi che non contengano
tutte le informazioni richieste dalle norme che pongono a carico dell’inserzionista un particolare onere
di informazione, “quando i messaggi stessi si limitino
a enunciazioni generiche” (art. 16 secondo comma);
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6. Una parentesi.
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e il codice del consumo (art. 22, terzo comma) stabilisce che “qualora il mezzo di comunicazione impiegato per la pratica commerciale imponga restrizioni in termini di spazio o di tempo, nel decidere se
vi sia stata un’omissione di informazioni, si tiene
conto di dette restrizioni e di qualunque misura adottata dal professionista per rendere disponibili le informazioni ai consumatori con altri mezzi”. Insomma, qualcosa si può fare per coniugare efficacia
della comunicazione e informazione del consumatore: forse basta solo scindere i due momenti.
Quindi: dopo esserci liberati dell’asterisco, liberiamoci per favore anche della sua progenie, il super
legale. Ancora una volta, credo che avremo tutti da
guadagnarci.
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Apro a questo punto una parentesi, per osservare come la mancanza di trasparenza della pubblicità raggiunga risultati particolarmente umoristici
quando si combini con la smania di confronto, che
sembra affliggere una certa parte degli inserzionisti
pubblicitari. Parlo di smania di confronto, e non di
comparazione: la comparazione pubblicitaria è una
cosa seria, svolge una funzione informativa e proconcorrenziale, è seriamente disciplinata dall’art. 15
del codice di autodisciplina e dall’art. 4 del d.lgs.
145/2007, ed è abbastanza rara, forse perché i casi in
cui un’impresa sente di poter seriamente comparare
il suo prodotto con quelli della concorrenza non
sono frequenti. La smania di confronto è diversa: e
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caratterizza tutte quelle pubblicità che avvertono la
necessità di proclamare a gran voce un primato, o
una differenza, quando il primato o la differenza
non sussistono rispetto al resto del mercato, ma solo
rispetto ad altri prodotti della stessa impresa, o
comunque all’interno di un ambito ben limitato.
Cito, ad esempio, il caso della pubblicità che qualifica un prodotto come “il primo” o “il più venduto”,
salvo poi precisare — ecco l’asterisco che ritorna! —
che la qualifica di “primo” deve in realtà essere
riferita alla marca pubblicizzata, sı̀ che quel determinato prodotto non è il primo all’interno di una
certa categoria, ma è semmai il secondo, il decimo,
il ventesimo; o che il prodotto è sı̀ il più venduto, ma
solo nell’area Nielsen 2, canale super + iper, e solo
in un bimestre ormai trascorso da tempo.
Il risultato, come dicevo, è umoristico, ma chi
ricorre a questo tipo di affermazioni sembra non
accorgersene.
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7. Il destinatario indifeso.
Nell’ambito delle pubblicità ingannevoli, una
considerazione particolare merita la pubblicità che
approfitta delle disgrazie o delle debolezze dei destinatari, di coloro cioè che costituiscono il suo
target di riferimento. Alcuni esempi classici: la pubblicità delle pillole dimagranti (recte, come recita un
apposito regolamento autodisciplinare: degli integratori alimentari proposti per il controllo del
peso), che si rivolge a persone afflitte, a torto o a
ragione, dal problema del peso, promettendo un
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dimagrimento rapido e senza sacrifici; la pubblicità
degli istituti privati che promette il titolo di dottore
a chi è troppo pigro, o troppo occupato, per iscriversi ad una regolare facoltà universitaria, ma ha
ugualmente l’ambizione — la debolezza — di qualificarsi come “dott.” sui biglietti da visita o sull’elenco telefonico; la pubblicità dei corsi professionali che promette a chi si iscrive un lavoro sicuro; la
pubblicità degli istituti finanziari che promette di
erogare con rapidità prestiti a tutti, tacendo sul
tasso di interesse e sulle garanzie richieste.
Si tratta senz’altro di pubblicità ingannevoli:
spesso false, a volte poco trasparenti. Nel generale
panorama delle pubblicità ingannevoli, esse si caratterizzano tuttavia per la particolare gravità che
l’inganno riveste quando si rivolge a persone disposte a credere a tutto, e a comprare di tutto, pur di
risolvere i loro problemi, veri o presunti che siano;
persone che non si accorgono dell’inganno, anche se
l’inganno è evidente, anche se qualunque persona
dotata di normale intelligenza è in grado di rendersi
conto che non è possibile perdere tre chili in una
settimana continuando a mangiare come prima. E la
particolare gravità dell’inganno ha condotto dapprima la giurisprudenza (del Giurı̀, della Corte di
Giustizia, dell’Autorità garante: la citazione segue
l’ordine cronologico), e successivamente il legislatore, a formulare una regola particolare, applicabile
specificamente alla pubblicità che si approfitta delle
disgrazie dei destinatari: “Le pratiche commerciali
che possono falsare in misura rilevante il comportamento economico solo di un gruppo di consumatori chiaramente individuabile, particolarmente vul-
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nerabili alla pratica o al prodotto cui essa si riferisce
a motivo della loro infermità mentale o fisica, della
loro età o ingenuità, in un modo che il professionista può ragionevolmente prevedere, sono valutate
nell’ottica del membro medio di tale gruppo” (dir.
2005/29/CE, art. 5 comma 3; codice del consumo,
art. 20 comma 2).
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8. Il secondo vizio capitale: il mancato rispetto degli
altri.
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L’ingannevolezza dunque fa la parte del leone,
nell’ambito dei vizi capitali della pubblicità. Al confronto, gli altri due che ho individuato sono sicuramente meno rilevanti, se non altro dal punto di vista
quantitativo.
Al secondo posto fra i vizi capitali della pubblicità metterei il mancato rispetto degli altri, delle
loro disgrazie, delle loro ideologie, della loro dignità.
Ne è affetta, innanzitutto, la pubblicità che
sfrutta le disgrazie, sociali o individuali, come elemento di richiamo dell’attenzione del consumatore.
Il fenomeno non è più tanto di moda, mi sembra,
ma ha conosciuto grande fortuna negli anni novanta, con qualche epigono ai giorni nostri. Abbiamo visto cimiteri di guerra, malati di AIDS,
miliziani morti raffigurati nella pubblicità di una
marca di abbigliamento, regolamenti di conti fra
mafiosi nella pubblicità di automobili, morti ai quali
venivano rubate le scarpe, una ragazza gravemente
anoressica fotografata nuda per pubblicizzare una
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borsetta: tutte pubblicità condannate dal Giurı̀ perché in contrasto con l’art. 1 del codice di autodisciplina, in quanto volte a gettare discredito sulla
pubblicità come istituzione; oppure per violazione
dell’art. 10 (offesa alla dignità della persona).
Non rispetta gli altri la pubblicità che sbeffeggia
e ridicolizza ideologie e religioni, che utilizza il
corpo della donna — o dell’uomo, ma è molto più
raro — semplicemente come strumento di vendita,
che con la sua volgarità offende la sensibilità di una
parte del pubblico, che propone ai bambini modelli
di comportamento moralmente sbagliati, o dannosi
per la loro incolumità: tutti comportamenti puntualmente vietati dalle norme autodisciplinari (artt. 9,
10 e 11 del codice di autodisciplina), tutti comportamenti, in definitiva, riconducibili ad uno stesso
vizio capitale.
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9. Il terzo: l’aggressione al patrimonio imprenditoriale altrui.
Veniamo, brevissimamente, a quello che mi
sembra di poter indicare come il terzo vizio capitale
della pubblicità: l’aggressione del patrimonio imprenditoriale del concorrente. L’imitazione pubblicitaria (art. 13 comma 1 del codice di autodisciplina;
ma anche art. 2598 n. 1 cod. civ.) e l’agganciamento
alla notorietà altrui (art. 13 comma 2 c. a.; ma anche
art. 2598 n. 2 cod. civ.) sono sicuramente riconducibili al vizio di cui stiamo parlando. Ma anche la
denigrazione (art. 14 c.a., e art. 2598 n. 2 cod. civ.)
e la comparazione ingannevole o per altro verso
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scorretta (art. 15 c.a., art. 2598 n. 2 cod. civ., art. 4
d.lgs. 145/2007) sono espressioni dello stesso vizio
capitale.
E qui mi fermo. Mi sono accorta che tutti i
comportamenti richiamati sono manifestazioni dell’Invidia, e non vorrei invadere il terreno di altri.
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11.
NUOVI VIZI, NUOVE REGOLE?
di FEDERICO UNNIA
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1. I nuovi vizi. Quali regole?
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SOMMARIO: 1. I nuovi vizi. Quali regole? — 2. Pubblicità e informazione: binomio immorale? — 3. Tutti colpevoli nessuno responsabile.
— 4. La nuova bussola: verso un’interpretazione omnicomprensiva di
messaggio pubblicitario. — 5. 2020: il pianeta dei vizi pubblicitari. —
6. Post scriptum: per i nuovi vizi è tempo di scomunica pubblicitaria?
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Il mondo della pubblicità, e con essa quello dei
consumi, si trovano ad affrontare una realtà nuova.
Un super vizio aleggia nell’area. Un super virus —
stile febbre suina. Stiamo parlando della pratica
commerciale scorretta che, con le pesanti multe
inflitte dall’Autorità Garante della Concorrenza e
del Mercato, si pone come l’evoluzione darwiniana
dei tradizionali peccati pubblicitari. Mendacio, imitazione, denigrazione, comparazione, sfruttamento
della notorietà altrui; e ancora, violenza, volgarità,
indecenza, camuffamento della natura pubblicitaria; tutti poca cosa innanzi alla condotta posta in
essere sia prima che dopo la conclusione di un
contratto, facendo ricorso a mezzi e pressioni psicologiche inaudite.
Stiamo parlando di forme aggressive di comuni-
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cazione pubblicitaria, che arrecano al consumatore
non solo un pregiudizio economico, ma spesso ledono qualcosa di più prezioso. La propria integrità,
l’autonomia e la libertà di convincimento nella
scelta d’acquisto. La casistica è ricca, con riferimento sia alle grandi imprese, sia a piccoli operatori
senza scrupoli. Ma non è tutto: una ventata di
esistenzialismo pervade l’animo e il cuore di chi
giudica le pubblicità. Cosı̀, anche la sfera soggettiva,
la caratterizzazione esistenziale del consumatore cui
si rivolge un determinato prodotto, diviene un parametro di giudizio.
È il caso del grasso che cerca in ogni modo di
dimagrire utilizzando un prodotto miracoloso (sugli
altri!), spinto all’acquisto facendo leva sul disagio e
sulla riprovazione che la sua forma fisica gli induce
vedendosi circondato da modelli di magri. La salute
va bene, ma è lecito denigrare o svilire chi non sia in
linea con gli stilemi della moda? E ancora, il cuore
solitario, che cerca l’anima gemella, è giusto sia
indotto ad accedere ad un servizio di ricerca per
cuori solitari attraverso false promesse e sfrucugliando il suo patimento? Infine, il disoccupato, cosı̀
come l’anziano che ha difficoltà di accedere al credito, è corretto siano stuzzicati all’acquisto banalizzando rispettivamente l’accesso al lavoro (magari
attraverso un corso a pagamento!) o una semplice
apertura di una linea di credito?
Ebbene, è su queste figure, su queste relazioni
psicologiche che la pubblicità gioca molto della sua
credibilità presente e futura. È su questi illeciti che
il mondo degli spot mette in gioco la sua reputazione. Mai come in questi casi, vale il disposto
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NUOVI VIZI, NUOVE REGOLE?
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secondo cui “La pubblicità deve essere onesta, veritiera e corretta. Essa deve evitare tutto ciò che possa
screditarlo” (1).
2. Pubblicità e informazione: binomio immorale?
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L’illecito pluri-soggettivo per eccellenza. Una
delle forme più subdole d’inganno del consumatore.
Un illecito che presenta molteplici sfaccettature:
tutela del consumatore, tutela del concorrente che
ha diritto a competere ad armi pari; tutela del
mercato e dei limiti di affollamento. Stiamo parlando del vizio trasversale al mondo della comunicazione. Il camuffamento della pubblicità, ovvero
quando il messaggio promozionale, assunte le vesti
di un articolo redazionale, celi cosı̀ all’ignaro lettore
e al concorrente leale, la sua natura pubblicitaria.
Un inganno che sta non nella sostanza bensı̀ nella
forma del messaggio. Sfoglio un giornale, noto un
articolo, lo leggo, non attivo i naturali — e magari
inconsci — meccanismi di diffidenza che invece
operano per la pubblicità tradizionale, dichiarata.
Ebbene, il contenuto — che credo indipendente e
critico perché scritto da un giornalista — in realtà è
un testo pubblicitario, che mi prospetta una realtà
inclinata ad un legittimo (ma non esplicitato) interesse di parte.
Ebbene, negli anni, causa la crisi di autorevolezza dei media e dei giornalisti da un lato e il boom
(1) Art. 1, Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale, 2009.
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della tv commerciale e della convergenza tecnologica dall’altro, dalla carta stampata l’illecito camuffamento è migrato nell’etere. Cosı̀, nel corso di
trasmissioni d’intrattenimento, assistiamo sempre
più spesso ad inquadrature, citazioni, ostentazioni
di marchi e prodotti innaturalmente inseriti nel
contesto scenico e narrativo. La cronaca di questi
mesi è stata particolarmente generosa di sfacciati
inserimenti pubblicitari la dove, per dovere etico e
professionale, prima ancora che giuridico, non dovrebbero stare.
Perché tutto questo avviene? E poi, è realmente
tutto deprecabile e sanzionabile? Domande legittime, ma alla cui risposta concorrono differenti valutazioni. Viviamo in un mondo di spettacolo, in
una società che privilegia la forma, l’apparenza alla
sostanza. Se cosı̀ è, e la maggioranza del pubblico
dimostra di apprezzare questo modello, allora occorre capovolgere la scala dei valori. Ciò che fino ad
oggi era illecito, di colpo, corum populi, diviene la
regola.
Questo discorso vale anche per la carta stampata, quindi, dove mai come oggi, la voce del più
forte, dell’investitore, detta la linea. Del resto, umanamente e professionalmente parlando, tra il citare
un amico che mi aiuta ed uno indifferente alla mia
necessità, è facile intuire quale sia la scelta. In tutto
questo, infine, chi sono i protagonisti del gioco?
Non più solo i pubblicitari, ma anche i comunicatori, i giornalisti, i conduttori, i registi. Tutti soggetti
che a diverso titolo concorrono alla realizzazione di
questo illecito, ciascuno confidando in un proprio
ritorno.
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NUOVI VIZI, NUOVE REGOLE?
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Resta tuttavia un dilemma di fondo: fino a che
punto possono i giudici e la legge classificare una
citazione, un’inquadratura, una presenza come messaggio pubblicitario e non piuttosto espressione
della libertà e del genio creativo di un regista e di un
conduttore? Un indirizzo, questo, che ha trovato
spesso conferma nelle parole delle pronunce tanto
del Giurı̀ di autodisciplina quanto nei provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del
mercato, a conferma di quanto la questione sia
spigolosa.
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3. Tutti colpevoli nessuno responsabile.
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Innanzi al continuo divenire e mutarsi dell’illecito pubblicitario, viene da chiedersi se il sistema di
sanzioni previste dalle norme vigenti sia realmente
efficace. L’inibitoria alla diffusione del messaggio
riprovato, prevista sia in ambito statuale sia autodisciplinare. La pubblicazione di un estratto della
decisione di condanna, come sopra. La pubblicazione di un annuncio di rettifica, di cui la sola
Autorità garante della concorrenza e del mercato
può far uso. Infine, sanzioni pecuniarie che possono
arrivare fino a 500.000 Euro nei casi più gravi.
Orbene, tutte queste misure sono sufficienti e realmente efficaci per contrastare le forme più gravi e
scorrette?
La domanda sorge spontanea in quanto spesso
l’accusa che viene mossa ai giudici della pubblicità è
proprio quella di non essere in grado di contrastare
e fermare la diffusione di messaggi giudicati scorretti.
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Problema reale, considerato il duplice fatto che da un
lato le decisioni pervengono molto spesso a distanza
di tempo dalla diffusione del messaggio e dalla conclusione della campagna pubblicitaria stessa (anche
se in verità il Giurı̀ di autodisciplina chiude la pratica
mediamente in 4 settimane). Dall’altro, le campagna
si assomigliano e quindi, dopo una sanzione, apportando anche piccole modifiche, possono riprendere la
loro regolare diffusione. Senza per altro dimenticare,
incisivamente, che in sede autodisciplinare la decisione del Giurı̀ — come quella del Comitato di controllo — non è impugnabile, mentre quella dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che
viene emessa mediamente dopo 150-180 giorni dall’apertura del procedimento, lo è. E per ben due gradi
di giudizio.
Insomma, quanto è efficace la giustizia pubblicitaria? Cosa può farsi per renderla più stringente e per
farle esplicitare tutta la forza persuasiva e deterrente
necessaria a contrastare gli eccessi pubblicitari? Ad
oggi, sono state avanzate alcune proposte. Dall’introduzione di un regime sanzionatorio ancora più pesante, ad un sistema di pene pecuniarie calcolate percentualmente sull’investimento pubblicitario complessivamente sostenuto. E ancora; dalla previsione
di una multa calcolata sull’investimento pubblicitario
della campagna sanzionata da destinarsi ad una comunicazione di controinformazione e correttiva, fino
alla pena estrema del divieto di accesso ai mezzi pubblicitari per finestre di tempo e alla sospensione dall’attività (sia per il management aziendale sia per i
profili pubblicitari autori della campagna sanzionata)
per alcuni mesi.
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Insomma, un girone dantesco di pene pubblicitarie, tutte pensate e strutturate al solo fine di
sanzionare la condotta e punire i responsabili. Poca
attenzione è — per contro — rivolta al consumatore
e al concorrente. Non è un caso, quindi, che dalle
pirotecniche aule dei tribunali pubblicitari (ricordatevi che avanti al Giurı̀ ci si può difendere di persona. L’hanno fatto in tempi diversi tanto Renzo
Arbore quanto recentemente il compianto Mike
Bongiorno) molte aziende preferiscano poi spostarsi a quelle polverose dei tribunali civili, forti di
un provvedimento favorevole del Giurı̀, sul quale
basano la richiesta risarcitoria. Una giustizia nella
giustizia, quindi, che va estendendosi a conferma
della rilevanza che assume nella moderna economia
dei segni la quantificazione del danno d’immagine
da comunicazione pubblicitaria scorretta.
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4. La nuova bussola: verso un’interpretazione omnicomprensiva di messaggio pubblicitario.
Un sistema di controllo e repressione di illeciti
pubblicitari fatto a macchia di leopardo. Questa —
in estrema sintesi — l’immagine che si ha passando
a volo d’uccello sui banchi del Giurı̀ e dell’Autorità
garante della concorrenza e del mercato. Restano ai
margini, astutamente, alcuni settori della comunicazione che forse non assurgono agli onori della cronaca, ma che nei fatti concorono a mettere in essere
forme assai subdole di pubblicità.
Pensiamo alla categoria dei comunicatori d’azienda, i public relation manager, figure assai potenti
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nella struttura organizzativa dell’impresa, che svolgono un’attività border line sui temi della correttezza
pubblicitaria. Spesso chiamati in causa su questioni
scottanti quali le ipotesi di pubblicità camuffata, si
sono sempre difesi sostenendo la natura informativa
del loro lavoro. No pubblicità, please, ci occupiamo
solo di costruzione di consenso ed informazione. È
vero?
In linea teorica certamente si, ma nella prassi
dubbi ne esistono. E allora, sfogliando l’album dei
ricordi pubblicitari, si scopre che non sono mancati
casi in cui le attività prettamente di ufficio stampa,
e gli strumenti connessi, siano finiti sul banco degli
imputati. E sempre per ipotesi di pubblicità camuffata e contenuti ingannevoli. Il problema esiste,
quindi, e va assumendo un’importanza maggiore in
considerazione dell’evoluzione dei sistemi e delle
modalità di comunicazione da un lato, e della globalizzazione della comunicazione dall’altro. Che
fare? Quale potrebbe essere una soluzione percorribile per ricondurre ad unità il sistema di controllo?
A parere di chi scrive la strada da percorrere è
quella tracciata con le nuove norme sulle pratiche
commerciali scorrette e subito fatta propria anche
dallo Iap. Attraverso il concetto di messaggio pubblicitario e di pratica commerciale, interpretati in
senso omnicomprensivo, ricondurre al rispetto dei
principi di correttezza sanciti nel Codice del consumo e nel Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale tutto ciò che concorre all’accreditamento dell’immagine e della notorità di un
marchio e prodotto, tutto quello che comunque
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produce un anche minimo effetto promozionale in
favore della marca e del prodotto.
L’oggetto — e il campo di applicazione — delle
nuove norme devono essere le comunicazioni tour
court che provengono da un’impresa o che concorrono ad accreditare il suo marchio e il suo prodotto.
Una rivoluzione significativa, che quindi fa della
comunicazione un corpo unico, chiamato a rispettare regole diverse e a sottoporsi a giudizi e sanzioni
differenti. Un unico genus — fatto al tempo stesso
di contributi e messaggi differenti — tutti però
assoggettabili al rispetto delle medesime regole.
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5. 2020: il pianeta dei vizi pubblicitari.
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Il Pianeta delle scimmie, celebre film di Franklin
J. Schaffner, come ipotetico punto di arrivo del
sistema vigente di regole e giudici pubblicitari? Il
pensiero sorge spontaneo, proiettando lo sguardo e
la mente ai prossimi anni. Gli eccessi di normazione,
il proliferare di autorità e competenze, il sovrapporsi di norme e sanzioni, il moltiplicarsi, il parcellizzarsi ossessivo, di tutele, fa davvero bene alla
giustizia pubblicitaria? Immaginare, e da qui, realizzare un sistema di tutele e controlli che si presume sia perfetto, non può costituire l’anticamera di
una rivoluzione copernicana, di capovolgimento dei
valori e delle reali tutele?
Il dubbio esiste, è inutile nascondersi dietro un
dito. L’iper specializzazione genetica del vizio e
dell’illecito pubblicitario, non corre il rischio di far
perdere di vista le tutele essenziali? Inoltre, proprio
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nel mondo della pubblicità e della comunicazione,
ove il desiderio la fa da padrone, non è congenito un
minimo di inganno? Il celebre dolus bonus di romana memoria, è compatibile con un livello minimo
e fisiologico di decettività pubblicitaria?
Se questa è la cornice in cui muoversi, francamente non resta che rimpiangere i sani, vecchi cari
vizi pubblicitari; quelli, per intenderci, su cui sono
nate e cresciute generazioni di consumatori, creativi
e manager di successo, incappati magari in bufale
pubblicitarie ma cresciuti con anticorpi in grado di
farne soggetti tutelati e consumatori smaliziati. Se
proprio vogliamo, alcuni illeciti, più di altri, travalicano questo confine, ponendosi di fato a tutti gli
effetti come i veri, unici vizi capitali della pubblicità.
Stiamo parlando una volta ancora del camuffamento della natura pubblicitaria del messaggio;
condotta vietata dall’art. 7 del Codice di autodisciplina della comunicazione pubblicitaria.
La norma, che trova eguali in tutti i principali
codici di autoregolamentazione vigenti nei paesi
occidentali, e tra i doveri di alcune categorie professionali, quali giornalisti e pubblicitari, afferma un
principio basilare del sistema delle relazioni tra
pubblicità, consumatori, concorrenti ed operatori
dell’informazione. Infatti “L’art. 7 rappresenta da
sempre uno dei pilastri del Codice. Vuole assicurare
la separazione tra informazione giornalistica e comunicazione aziendale: separazione che meglio consente a ciascuno di svolgere in modo autonomo la
propria diversa, specifica funzione, e meglio consente in particolare alla pubblicità di essere, di presentarsi e di venir riconosciuta come messaggio che,
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pur se ricco di informazioni, resta necessariamente
espressione di un punto di vista pro parte, ed è volta
a promuovere gli interessi dell’impresa-utente pubblicitario. L’art. 7, d’altro canto, protegge tutti gli
interessi tipici cautelati dal Codice. Protegge innanzitutto gli interessi dei consumatori: che debbono
restare il più possibile liberi nelle proprie scelte, e
possono esserlo solo se il messaggio pubblicitario sia
chiaramente “riconoscibile come tale” e solo se i
consumatori possono dunque valutarlo con un senso
critico più vigile e maggiore di quello altrimenti
consueto di fronte alle informazioni giornalistiche.
L’art. 7 tutela inoltre gli interessi dell’intero sistema
pubblicitario: che è tanto più facilmente “accettato”
dai consumatori e dalla collettività in generale
quanto più la pubblicità “sia sempre riconoscibile
come tale” ed il mondo dei pubblicitari sia trasparente e si allontani dal modello negativo dei “persuasori occulti”. L’art. 7 protegge infine l’interesse delle
imprese concorrenti: evitando che una di esse riesca,
con una pubblicità camuffata da informazioni giornalistiche, ad avere più presa sui consumatori di
quanto i concorrenti non abbiano con annunci pubblicitari chiaramente identificabili come tali (2)”.
Infine il secondo è l’abuso sistematico del super
in pubblicità. Ovvero del ricorso a scritte mobili
sesso di impossibile decifrazione e lettura, collocate
nei posti meno accessibili dei messaggi, il cui contenuto è essenziale per al corretta comprensione
dell’offerta pubblicizzata. Un escamotage, astuto,
(2) Giurı̀ dell’Autodisciplina pubblicitaria 19 novembre 1989 n.
150, Giur. Pubbl., III, 1991, 436.
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grazie al quale creata l’attenzione sul contenuto
visivo e sonoro del messaggio, accreditata nel consumatore una certa idea dell’offerta pubblicitaria e
del suo costo, si ridimensiona, si completa o si
smentisce la portata del messaggio grazie a informazioni fornite ma con modalità impossibili da
comprendere.
Un’orchestrazione del messaggio dolosamente
scorretta, dove formalmente le informazioni sono si
fornite e presenti, ma lo sono con modalità e dimensioni impossibili di lettura agli umani. Una condotta
sleale, scorretta, mendace, che abusa della naturale
attenzione che il consumatore assorto dedica più al
parlato e al veduto, ingannandolo del tutto sul
messaggio propostogli. Il tutto aggravato, se possibile, dal ricorso a personaggi, storie, serialità narrative che molto attraggano lo spettatore, portato alla
fine a credere, ricordare e ricercare un’offerta che
non c’è.
6. Post scriptum: per i nuovi vizi è tempo di scomunica pubblicitaria?
In un mondo pubblicitario perfetto, conosciute
le regole, tutti sono padroni del proprio destino.
Conosco cosa la legge mi impone o vieta di fare, ne
conosco le conseguenze, quindi accetto liberamente
il livello di rischio che ritengo tollerabile affrontare.
Ma se poi vengo ritenuto responsabile, che ne è di
me e della mia impresa? Ecco che pare prospettarsi
all’orizzonte una soluzione sanzionatoria nuova.
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Che guarda caso trae la sua ragion d’essere dal
diritto canonico: la Scomunica pubblicitaria.
Si tratta di una sanzione che richiama alla memoria l’atto legale della chiesa cristiana che implica
vari gradi di esclusione di un suo membro dalla
comunità dei fedeli a causa di gravi e ostinate
infrazioni ai principi della morale e alla dottrina
riconosciuta. Nel XV secolo si inizia a distinguere
fra coloro che devono essere allontanati a causa di
gravi errori (i vitandi) e coloro che possono essere
tollerati (i tolerati, ma che dovevano essere solo
rigidamente esclusi dai sacramenti).
Nell’ambito del diritto canonico cattolico, la
scomunica è la più grave delle pene che possa essere
comminata a un battezzato: lo esclude dalla comunione dei fedeli e lo priva di tutti i diritti e i benefici
derivanti dall’appartenenza alla Chiesa, in particolare quello di amministrare e ricevere i sacramenti.
La scomunica, è una delle censure ecclesiastiche
previste dal diritto canonico con l’interdetto e la
sospensione a divinis (quest’ultima può essere inflitta solo ai chierici). Essa può essere inflitta solo a
una persona fisica, laica o ecclesiastica, non a enti e
confraternite, e cessa con l’assoluzione che può e
deve essere data non appena lo scomunicato si
pente sinceramente della colpa commessa.
In chiave pubblicitaria ecco la nuova prospettiva: chi sbaglia paga in prima persona. Via dal
sistema, fuori dai media, negato l’accesso ai mezzi
che fanno audience. Insomma, una cacciata dal paradiso pubblicitario, per finire dritti dritti nel
mondo dei peccatori pubblicitari.
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STAMPATO CON I TIPI
DELLA TIPOGRAFIA
«MORI & C. S.p.A.»
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