Come decidono i clienti:
l’importanza del neuromarketing
e delle emozioni
L’articolo consente
di comprendere
meglio le modalità
con cui si formano
le decisioni.
Chiarisce quali sono
le nuove idee che le
neuroscienze
possono fornire
al management
per migliorare
l’efficacia della
comunicazione, dei
punti vendita, della
relazione con i
clienti e
la comprensione
dei processi
decisionali, grazie
alle metodologie
e agli strumenti
di neuromarketing.
L
Francesco Gallucci
1to1lab e Politecnico di Torino
La teoria delle scelte economiche è stata investita recentemente da una rivoluzione
culturale dovuta all’effetto combinato dell’economia comportamentale, che cerca
di adeguare alla realtà quotidiana alcuni segmenti importanti della teoria economica, e delle neuroscienze, ovvero la raccolta e l’interpretazione delle informazioni
frutto dell’osservazione diretta delle attività cerebrali che si attivano quando si prende una determinata decisione. Il contributo delle neuroscienze al mondo del management è stata la rivelazione che la componente razionale delle decisioni conta molto poco, per capirci in una scala da uno a cento è il 5%. E il restante 95%, cos’è? È
la componente più profonda delle decisioni che agisce al di fuori del controllo razionale.
Da meno di dieci anni le neuroscienze stanno fornendo un grande aiuto al marketing per comprendere meglio come e perchè i clienti scelgono, non importa che si
tratti di una confezione di profumo o di una polizza vita, e quali sono i livelli di coinvolgimento emozionale attivati nel corso della decisione. In effetti, lo studio dei
comportamenti umani ci dice che mediamente ognuno di noi si trova coinvolto in
circa 10 mila contesti decisionali, più o meno importanti, che vanno dalla scelta del
mezzo pubblico da prendere fino all’acquisto di un abito nuovo.
Sappiamo ormai che molte di tali scelte non richiedono sforzi cognitivi intensi; si
tratta di decisioni su attività ricorrenti nella nostra vita, di cui conosciamo le caratteristiche e i rischi, che il nostro cervello affronta attivando la modalità “pilota automatico” che comporta l’applicazione di schemi decisionali di routine.
In alcuni casi, la scelta avviene in condizioni critiche che richiedono ragionamenti
lunghi, spesso accompagnati da stati di panico e ansia. Il rischio di errore è elevato
e le decisioni assumono per noi un significato drammatico perchè gli esiti possono
essere giusti o sbagliati con risultati semplicemente fastidiosi in alcuni casi, o addirittura catastrofici in altri.
Come funziona la decisione di routine?
In effetti, il nostro cervello possiede una libreria di schemi cognitivi che funzionano
come delle procedure di comportamento e consentono di risolvere quasi tutte le si-
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tuazioni “normali” che incontriamo ogni giorno. I meccanismi principali che il cervello umano pone in atto sono tre:
• prevedere l’azione e svolgerla come l’esperienza suggerisce;
• concatenare le situazioni di filiera decisionale (per esempio la sequenza delle
azioni che svolgiamo nel prelievo Atm);
• associare schemi analoghi per risolvere situazioni dubbie o ambigue.
Certo, l’esperienza ci aiuta a comprendere ciò che potrebbe accadere mentre ci apprestiamo ad effettuare una sessione di navigazione sul sito della nostra banca.
La sequenza è nota, si digita il nome del sito, quindi si inseriscono le chiavi di accesso (user id e password) e poi si entra nelle aree dove si intende svolgere l’operazione. La decisione in ogni fase coinvolge il nostro cervello in modo blando. Tutto scorre come al solito. Ma se il giorno prima la struttura è stata modificata cambiando l’interfaccia e l’organizzazione logica dei percorsi, il cervello deve aggiornare la propria esperienza sulle task specifiche cercando di riorganizzare i propri
schemi decisionali. Il modo più semplice per farlo è fissare nella memoria le sequenze ricorrenti, dopo A viene B e poi immancabilmente C. Ad esempio, io mi
muovo al buio in una stanza dove so che c’è una lampada, l’accendo e vedo la mia
mano, oppure non la trovo e aggiorno lo schema della lampada e della stanza.
Tali tecniche, note anche come mnemotecniche, sono utili espedienti di memorizzazione che ognuno di noi adotta più o meno consapevolmente, per fissare sequenze di concetti o di azioni di uso ricorrente come gli acronimi (parole o sigle
che si formano con le lettere iniziali delle parole da ricordare), gli acrostici (frasi o
versi che forniscono le iniziali delle parole da ricordare), le rime (per esempio “trenta dì conta novembre con aprile, giugno e settembre, di ventotto ce n’è uno tutti gli altri ne han trentuno”) oppure la trasformazione
in lettere, per ricordare date o numeri.
Quando il nostro cervello non riesce a capire immediatamente cosa sta
guardando, risolve il problema richiamando schemi interpretativi analoghi
Coniugare le conoscenze
economiche e di marketing
alle tecniche di brain imaging
e di eeg-tracking
che gli consentano di definire il più probabile dei significati.
L’effetto combinato di tali tecniche interpretative consente di valutare le
situazioni e decidere rapidamente, anche in condizioni molto difficili.
In breve, il neuromarketing consente di monitorare i processi decisionali
che si sviluppano nel nostro cervello utilizzando tecnologie non verbali,
quali l’eeg-biofeedback e l’eyetracking. In particolare, l’eeg-biofeedback
rileva l’attività elettrica innescata da una serie di stimoli (la comunicazione) nel nostro cervello e la trasforma in neurometriche quali l’attenzione,
la capacità di apprendimento, l’attività di evocazione, l’ansia o la complessità di calcolo. Il tutto con una frequenza nell’ordine di un ottavo di
secondo.
L’eyetracking, invece, consente di verificare con grande precisione dove è
rivolto lo sguardo attraverso i punti di fissazione e tracciare il percorso visivo seguito per analizzare, ad esempio, una pubblicità su un poster o la vetrina di un negozio. Ma le neuroscienze hanno fornito un altro importante
contributo allo studio delle decisioni, riconoscendo il peso delle emozioni e
spostando l’attenzione sulla dimensione esperienziale dei processi mentali.
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La funzione collante delle emozioni
Grazie alle neuroscienze sappiamo che il cervello registra le informazioni e le emozioni associate ad ogni nostra esperienza e attribuisce a queste ultime una funzione
di rinforzo, potremmo dire un collante che le fissa nella memoria di lungo periodo.
Infatti, possiamo facilmente verificare che, a distanza di anni, quando si presenta
una situazione simile, riusciamo a far tesoro dell’esperienza richiamandola per valutare la bontà o meno della situazione che stiamo vivendo. La funzione richiamata ci
appare alla mente come un’illuminazione improvvisa o come un’intuizione e ci aiuta a prendere delle decisioni, a scegliere e a discernere facendo leva sulle nostre
emozioni.
Che cos’è un’emozione?
È una reazione ad uno stimolo caratterizzata da aspetti fisiologici (cambiamenti a
livello di battito cardiaco, sistema respiratorio, sudorazione, espressione facciale,
ecc.), e da aspetti cognitivi (la valutazione dell’emozione stessa).
In che modo le emozioni sono in relazione con i processi
decisionali?
Durante la scelta possiamo essere interessati da emozioni immediate scatenate
dalla presenza fisica di uno stimolo e sono generalmente caratterizzate da un cambiamento fisiologico della persona. Se questa si trova in uno stato d’animo positivo l’elaborazione dell’emozione è basata su euristiche. Ciò vuol
Le implicazioni dell’impatto
delle emozioni sul processo
decisionale possono riguardare
l’ambiente della filiale
o l’aspetto di un sito web
dire che la persona affronta il problema decisionale con maggiore superficialità, non svolge una ricerca efficace delle alternative, sovrastima l’esito positivo dell’evento e adotta, di conseguenza, un comportamento più
rischioso. Se, invece, lo stato d’animo è negativo, la persona attiva una
modalità di pensiero più analitica e approfondita. Di conseguenza, il processo decisionale diventa più lungo e si caratterizza per una maggiore
attenzione ad ogni singolo attributo.
Secondo il neuroscienziato Antonio Damasio le persone imparano a marcare le situazioni come connotate positivamente o negativamente. Questo permette loro di
anticipare le sensazioni affettive connesse agli esiti futuri. In tal modo la risposta
fisiologica viene utilizzata come una sorta di segnale inconsapevole
che riflette l’accesso a memorie di precedenti esperienze soggettive. La funzione chiave del marcatore è di orientare il decisore verso la scelta che massimizza i benefici e minimizza le perdite. Ovvero,
la persona è avvertita dalla propria esperienza inconscia se la situazione decisionale richiama un marcatore negativo (comportamento
da evitare) o un marcatore positivo (comportamento di avvicinamento).
Le implicazioni di tali dinamiche profonde per il marketing bancario
sono rilevanti e riguardano, ad esempio, l’ambiente di una filiale o il
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“look and feel” di un sito web, la capacità di ridurre lo stress da coda o da attesa,
la comprensione del linguaggio tecnico utilizzato dai consulenti e la leggibilità dei
documenti. Comprendere meglio il ruolo delle emozioni in ogni fase della relazione con il cliente è quindi una priotità per il marketing dei prossimi anni: le emozioni possono essere determinanti per prendere le decisioni giuste nella sfera personale e professionale.
Daniel Goleman, Richard E. Boyatzis e Annie McKee1, pongono l’accento proprio
sulle intuizioni del leader citando uno studio condotto su sessanta imprenditori che
avevano fondato e guidato aziende di grande successo in California. Tutti
dichiararono di affidarsi alle proprie sensazioni viscerali quando si trattava
di ponderare le informazioni essenziali per concludere un affare.
Se per esempio un progetto prometteva bene sulla carta ma sembrava “non
quadrare” a livello intuitivo, essi procedevano con estrema cautela, oppu-
Le emozioni possono essere
determinanti per prendere
le decisioni giuste
re vi rinunciavano del tutto. I tre studiosi ritengono che in un contesto complesso come quello attuale, in cui sono disponibili quantità di informazioni inimmaginabili solo qualche decennio fa, la capacità di interpretare i dati disponibili facendo leva sulle emozioni è diventata una qualità indispensabile.
C’è una relazione tra pensiero (mente) e funzioni decisionali
(cervello)?
Sappiamo che la mente e il cervello sono correlate (in fondo siamo una rete di neuroni collegati da sinapsi) e che vi sono aree cerebrali che presidiano specifiche funzioni (es. linguaggio, calcolo, ecc.). Grazie agli studi condotti con l’eeg-biofeedback
e l’fMRI possiamo identificare molte delle zone del cervello interessate dai processi
decisionali e capire quali sono le situazioni che li influenzano, quali ad esempio:
• le opzioni disponibili;
• il contesto nel quale sono presentate;
• i fattori emotivi;
• le interazioni con altri individui.
In definitiva, le scelte sono influenzate dal nostro patrimonio biologico e genetico.
In altre parole la nosta vita è il risultato di tre fattori chiave: i geni, l’ambiente e il
caso. Dei tre solo l’ambiente sembra garantire qualche margine di controllo da parte della persona.
Come si formano le decisioni?
L’originalità degli studi di che si fregiano del suffisso “neuro” è di riuscire ad abbinare le conoscenze tradizionali e consolidate dell’economia e del marketing alle
tecniche più moderne di brain imaging o di eeg-tracking.
Come dicevamo, le neuroscienze affermano che le decisioni sono prese solo minimamente dalla parte razionale del cervello. In effetti, le scelte, soprattutto quelle
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Boyatzis R.E., Goleman D., McKee A., Essere leader, BUR, 2004.
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fondamentali, maturano in profondità, ai livelli preconsci se non inconsci e inducono i consumatori a comportamenti che sono legati all’esperienza dei consumatori,
alle loro conoscenze e a ciò che i comunicatori definiscono i valori del brand. Nella
confusione mediale e nell’iperofferta di prodotti l’esperienza e la fiducia nel brand
sono le guide fondamentali per ognuno di noi per scegliere un prodotto.
Il filosofo Edgard Morin, afferma che il messaggio deve essere pertinente, ovvero
deve toccare le corde della sensibilità profonda delle persone. Se una pubblicità,
una marca, un prodotto non riescono a farlo non avranno alcuna possibilità di creare “engagement”, ovvero il coinvolgimento emozionale che può portare il consumatore ad entrare in sintonia con il brand, il prodotto o la pubblicità.
Il mito del bottone dell’acquisto, evocato continuamente da certa pubblicistica non
attenta alle reali potenzialità di ogni nuova scoperta o direzione di ricerca è solo
una metafora che con poca fantasia accompagna la storia del marketing e della
pubblicità dalle proprie origini.
Qualcuno ricorderà probabilmente lo scalpore suscitato dal libro di Vance Packard
“Persuasori occulti” negli anni Sessanta e l’ondata di proteste sul presunto potere della pubblicità di influenzare le scelte di acquisto. Niente è
cambiato e dopo cinquant’anni ecco che si torna a parlare del bottone che
se schiacciato (come?) porta il cliente a fare ciò che il persuasore occulto
desidera.
Se ciò fosse vero, sarebbe la fine del libero arbitrio e della capacità di con-
Le ricadute per il mondo
bancario dell’interazione
tra neuroscienze e marketing
possono essere molto importanti
trollo sul mondo che l’homo sapiens ha perseguito abilmente negli ultimi
diecimila anni di progresso delle conoscenze. In definitiva, se libertà non
consiste nella scelta tra bianco e nero ma si riduce a sottrarsi dall’obbligo
della scelta, come spiegava Theodor W. Adorno ai suoi studenti di Francoforte, allora c’è poco da fare: siamo tutti schiavi e pronti per essere manipolati. Tuttavia, le neuroscienze ci stanno confermando che non siamo
schiavi, ma fortemente indirizzati dalle scelte che i nostri neuroni fanno
per noi. Dove? Il luogo dove avvengono tali scelte è la corteccia orbitofrontale ed è stato scoperto a Boston, nei laboratori della Harvard Medical School.
In pratica a farci decidere tra uno spuntino dolce o salato, un paio di jeans o
un pantalone elegante oppure tra una svolta a destra o a sinistra, sono le cellule nervose situate in una parte specifica del nostro cervello.
In tale zona sono stati osservati gruppi di neuroni che si accendono o si spengono per indirizzare le nostre scelte, aiutandoci a valutare benefici o svantaggi di opzioni anche molto diverse fra loro.
Neuroscienze e marketing si incontrano:
nasce il neuromarketing
Il recente incontro delle neuroscienze con il marketing, sta alimentando un nuovo
filone di metodologie di ricerca, il neuromarketing, che può spiegare, se ben utilizzato, quali sono i meccanismi che regolano la decisione. Le ricadute per il mondo
bancario possono essere molto importanti. Basti pensare all’impatto emozionale sui
clienti delle filiali o allo stato psicologico che accompagna la relazione del cliente
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con il consulente. Quest’ultimo presenta un grado di complessità a livello emozionale che lo rende assimilabile a quello tra medico-paziente.
Sia il consulente che il medico, ad esempio, sono convinti che i termini tecnici
che utilizzano siano chiari ed evochino una rappresentazione univoca.
Ma il cliente, in una situazione che è nuova e non controllabile, può
sviluppare anche interpretazioni personali estremamente eterogenee. Nella comunicazione tra l’esperto e il cliente si crea una sorta
di terra di mezzo che gli economisti chiamano “common knowledge”, nella quale si gioca la comprensione del messaggio da parte del
destinatario (il cliente) e del feedback verso l’esperto.
Può accadere che gran parte delle informazioni importanti restino confinate nella mente dei clienti e altrettanto può accadere nel caso degli esperti a svantaggio della creazione di una common knowledge basata sul reciproco apprendimento. Il fatto è che il nostro cervello ha la
tendenza ad utilizzare poco gli stimoli pronienti dall’esterno e molto
quelli prodotti al proprio interno sulla base di informazioni già esistenti.
Questo meccanismo interpretativo, frutto di milioni di anni di evoluzio-
Una delle aree di applicazione
del neuromarketing è quella
della pubblicità e della capacità
di creare storie coinvolgenti
ne, tende a trasformare le decisioni di comportamento in pratiche routinarie che non obbligano il cervello a sforzi e calcoli complessi. È ciò che accade, ad esempio, quando ci apprestiamo ad effettuare un’operazione articolata allo sportello della nostra banca oppure quando interroghiamo lo
sportello Atm svolgendo sequenze di azioni che ci impegnano in decisioni
complesse.
Il neuromarketing aiuta a costruire pubblicità
con storie ed esperienze coinvolgenti
Se pensiamo alla pubblicità televisiva, una delle aree innovative da esplorare con il
neuomarketing è lo storytelling ovvero la capacità della pubblicità di creare storie.
Quando l’azienda definisce i temi e gli obiettivi di una campagna (copy strategy) affida all’agenzia la responsabilità di sviluppare la storia. Si parte dalla sceneggiatura
che esprime gli obiettivi di marketing e li traduce in una comunicazione usando il
suo stile narrativo distintivo che dipende dalla scuola creativa che essa adotta. Misurare la capacità dello storytelling di essere effettivamente coinvolgente (ovvero creare engagement) significa tenere alta l’attenzione e la capacità evocativa.
Ai fini del miglioramento della fruizione emozionale di una pubblicità, l’obiettivo
del neuromarketing è di capire l’effetto prodotto da un determinato stimolo e quali sono le dinamiche (attenzione, evocazione, apprendimento, ansia, ecc.) prodotte.
Da qualche anno 1to1lab studia gli effetti della pubblicità – ha compiuto oltre 400
test di neuromarketing su pubblicità tv – e in particolare cosa genera coinvolgimento.
Utilizzando i dati forniti dal database storico (TvLens database) ha ottenuto alcuni
indicatori di benchmark che riguardano la capacità del cervello di partecipare o meno alla storia narrata.
Ad esempio, i ricercatori di 1to1lab hanno scoperto che l’efficacia dello storytelling
di una pubblicità raggiunge il massimo ed è produttiva in termini di memorabilità e
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di awareness quando l’indicatore di coinvolgimento – misurato con l’eeg-biofeedback – supera la soglia 52 (scala di intensità 0-100).
Superare tale livello di soglia vuol dire accrescere notevolmente la comprensione e
il ricordo del messaggio in tutte le proprie componenti.
A che punto è il neuromarketing in Italia?
Il neuromarketing, dopo alcuni anni di sperimentazioni, comincia a suscitare l’interesse dei manager italiani, sulla scia di quanto sta avvenendo nei principali
paesi Ocse. La ricerca Neuromarketing Online Survey, realizzata da 1to1lab alla
fine del 2009 su un campione di 3.633 manager e professionisti del mondo del
marketing e della comunicazione, ha fornito un quadro del grado di conoscenza
e di utilizzo delle principali metodologie di neuromarketing. I risultati che emergono dallo studio sono stimolanti: in primo luogo, l’elevata percentuale di rispondenti – il 6,9% del totale campione – evidenzia che il neuromarketing è sì
Il neuromarketing
per accrescere
la comprensione
e il ricordo
del messaggio
un fenomeno di nicchia ma è altresì conosciuto da un numero consistente di manager italiani.
Il campione dei rispondenti è formato per il 55,2% da uomini, quindi non c’è un
divario netto di genere, il 35,5% è formato da dirigenti, la fascia di età più rappresentata è quella centrale (36-45 anni con il 35,9%) ma, questo è il dato più interessante, i giovani manager e quadri (età tra 26-35 anni) sono più numerosi della fascia dei 46-55enni. I primi rappresentano il 29,7% del campione contro il
24,5%. Lo spostamento del campione verso i più giovani evidenzia la domanda di
innovazione e di nuove metodologie di ricerca che risulta molto più marcata tra i
più giovani.
L’eyetracking – ovvero la misurazione dei movimenti degli occhi su qualunque
immagine a schermo – è la metodologia di neuromarketing più conosciuta (85,9%
dei rispondenti) e anche la più utilizzata (20%), seguono la facial expression reading – ovvero la lettura di un comportamento facciale che suggerisce un significato emozionale a un osservatore esterno – con il 47,1% di conoscenza e l’8,8%
di utilizzo e l’eeg-biofeedback – analisi delle reazioni generate da uno stimolo
esterno ed elaborate dal cervello – con il 42,4% di conoscenze ed il 5,9% di utilizzo.
Il 73,4% del campione intervistato ritiene che lo studio dell’advertising sia il più
importante e immediato campo di applicazione del neuromarketing. Il 61,6% indica l’in-store marketing come seconda area di utilizzo, il 57,6% considera il packaging come terza area di studio e il 46,8% vede il neuromarketing come strumento da applicare allo studio di nuovi prodotti.
Come evolverà il rapporto delle imprese
con il neuromarketing nei prossimi anni?
Come è avvenuto per tutte le innovazioni radicali, il processo di adesione delle imprese al neuromarketing è lento (basti pensare al ciclo di vita di Internet nelle azien-
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de per avere un riferimento chiaro). Tuttavia, la velocità di adozione del neuromarketing dipende dalla rapidità di divulgazione degli effetti benefici sul marketing, a
partire dalla formazione post-universitaria di marketing e comunicazione che dovrebbe arricchire i percorsi didattici di contributi da altre disclipline quali le neuroscienze, l’antropologia culturale, il design e quant’altro consenta di uscire da visioni esclusivamente sociologiche per arrivare a visioni sistemiche.
Ormai non si può fare a meno di questo, non si può più ragionare in termini di percorsi lineari quando tutto si muove in modo fluido: quando si tratta di analizzare il comportamento del consumatore in un ambiente complesso
come un ipermercato, per esempio, è necessario coinvolgere le teorie dei sistemi.
Il problema è dunque quello di creare una sorta di camera di
compensazione tra il mondo accademico che conosce e discute ampiamente queste teorie ma è chiuso in se stesso, e il mondo delle aziende che è
Il cliente deve percepire
messaggi che lo aiutino
a capire ed essere coinvolto
altrettanto chiuso e abbastanza bloccato. La nostra attività si colloca a
metà tra questi due mondi come operatore che cerca di mettere in atto
l’unione tra questi due mondi, operazione che necessariamente, vista la
natura e l’entità dei due attori principali, richiederà molto tempo. È necessario sottolineare che, nel panorama attuale, ci sono alcune aziende
che capiscono e sposano subito questa visione salvo poi trovarsi a gestire problemi interni. Le emozioni sono il modo in cui il nostro cervello codifica le cose di valore, e un marchio che ci coinvolga emotivamente vincerà sempre, in tutte le occasioni.
Come applicare il neuromarketing per migliorare
la relazione con i clienti?
Un buon consiglio potrebbe riguardare l’efficacia della comunicazione, a partire
dalla sua costruzione per arrivare all’erogazione al cliente potenziale: il cliente deve
percepire dei messaggi giusti e pertinenti che lo aiutino a capire e ad essere coinvolto.
Normalmente ci viene insegnato a comunicare in modo logico e razionale non riuscendo a rivolgerci al vero decision maker – ovvero a quella parte di cervello che
controlla il processo decisionale – in un linguaggio ad esso comprensibile.
È di fondamentale importanza che il processo comunicativo vada oltre la sfera razionale dei bisogni e sia rivolto esattamente a quella parte di cervello che controlla
il processo decisionale. È un errore concentrarsi solo su quelle aree del cervello funzionali all’elaborazione dei dati razionali, perché – è bene ricordarlo – la maggior
parte delle decisioni di acquisto nasce in regioni profonde del cervello ed è guidata
dalle emozioni.
Francesco Gallucci; Presidente – 1to1lab e Professore di Sociologia della Comunicazione – Politecnico di Torino
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