Ágnes Heller: vivere per il bene nella democrazia insoddisfatta di Fabrizia Abbate Qualche anno fa l’americano Noam Chomsky, nella sua lezione dottorale all’Università di Bologna in occasione del conferimento della laurea ad honorem in psicologia, concluse il suo discorso in difesa dei diritti universali dell’uomo con un forte appello all’impegno, rivolto agli accademici e agli intellettuali. «Non siamo soltanto impegnati in seminari su principi astratti, o a discutere di culture lontane che non siamo in grado di comprendere. Noi stiamo parlando di noi stessi, e dei valori morali ed intellettuali delle comunità elitarie e privilegiate in cui viviamo. Se non ci piace ciò che vediamo quando ci guardiamo allo specchio onestamente, abbiamo tutte le opportunità di fare qualcosa» 1. È questa la frase che ci ha colpito di più, forse perché suonava come una sferzata, o piuttosto come una secchiata di acqua gelida che riscuote dal torpore e ridona energia, che «sveglia dal sonno dogmatico» direbbe qualcuno, se potesse tornare dai secoli addietro: abbiamo tutte le opportunità di fare qualcosa, se allo specchio non ci riconosciamo e non ci stimiamo. Non siamo quiescenti, non siamo paludati, non siamo «incantati» dalla stregoneria delle ideologie, dei pensieri dominanti, delle strategie economiche e finanziarie che diventano strutture sociali, e nelle strutture i meccanismi, e nei meccanismi le abitudini esangui, la democrazia soffocata. Non siamo trascinati nella ripetizione di un passato che non ci convince, ma possiamo fare qualcosa per andare avanti, per 118 Fabrizia Abbate riscoprire la vita sempre come una possibilità di cambiamento. Ci torna in mente anche una pagina cara ad Ortega Y Gasset, scritta quando ancora era giovanissimo, un brano delle Meditazioni del Chisciotte, in cui il filosofo spagnolo attacca lo spirito reazionario e passatista della Spagna del 1914. «La morte di ciò che è morto è la vita. C’è solo un modo di dominare il passato, regno delle cose trascorse: iniettare il nostro sangue nelle vene vuote dei morti» 2. A questa riflessione fa eco la citazione di un passo di Eschilo: «I morti uccidono i vivi», dice il servo a Clitennestra nella tragedia Coefore. Il pensiero fermo, la cristallizzazione dei riferimenti ideologici, la stasi delle dinamiche etiche e sociali, la politica che si chiude nel sistema di se stessa, non sono altro che l’esercito di morti che celebrano se stessi seppellendo i vivi del nuovo secolo. L’antidoto, e l’ultima speranza, è proprio quello di iniettare sangue nelle vene della democrazia. Come si fa questa trasfusione di vita? Per capirlo serve un po’ di umiltà, giusto quel tanto che ci consenta di fermarci dal fare proclami rivoluzionari, di abbassare la voce e i toni del protagonismo ideologico, e di ricucire la riflessione critica di oggi alle maglie della memoria: l’umiltà di ri-leggere, ri-studiare, ri-comprendere, ri-discutere le idee, le teorie, le prassi, le convinzioni e le cadute che hanno costruito il percorso da ieri all’attualità. Occorre l’umiltà di riflettere pacatamente e di ri-ascoltare tutte le voci che si sono fatte udire nei decenni trascorsi, finalmente senza il fragore delle mode che attanagliava il presente di quelle voci, ma sapendo bene che il passato è passato, e va chiuso in quanto tale per renderlo vivo di fermenti nel presente. Sfogliando il libro di Giovanna Costanzo dedicato ad Ágnes Heller, si ha davvero l’impressione che talvolta questo atteggiamento di pacata lucidità possa diventare concreto, e quindi efficace: c’è davvero chi oggi con pazienza e in sordina, senza il clamore della pubblicità, dei dibattiti amplificati e vuoti, delle dissertazioni piene di precetti ed esaltate come ricette di condotta illuminata, se ne sta in un luogo di paziente dialettica a ri-leggere, ri-studiare, ri-discutere le idee per innaffiare senza scopi utilitaristici la pianta delle idee che verranno: sembra essere questo il ruolo di Ágnes Heller nella cultura contemporanea, così come lo delinea Ágnes Heller: vivere per il bene nella democrazia insoddisfatta 119 con entusiasmo e competenza Giovanna Costanzo, che se ne fa interprete intelligente in un volume che per la prima volta qui in Italia vuole descrivere a tutto tondo il percorso intellettuale e biografico della filosofa ebrea ungherese vivente. Ágnes Heller: costruire il bene. Una teoria etico-politica della giustizia, è questo il titolo del bel libro pubblicato di recente dalle Edizioni Studium (pp. 236), con la prefazione di Paola Ricci Sindoni: un libro denso, storiografico, che non trascura nulla della materia trattata, in equilibrio costante tra l’approfondimento dei concetti filosofici, la descrizione del quadro sociale e politico dei decenni attraversati dalla Heller, e il racconto dell’esperienza umana ed emotiva, di donna, di pensatrice, di attivista politica e di esiliata. Tre registri che si combinano nella scrittura del testo con la modalità del racconto, della narrazione fluida ed avvincente che procede dagli esordi dell’impegno politico della Heller nel Partito Comunista nel 1947 a soli 18 anni, con la formazione intellettuale marxista alla Scuola di Budapest come allieva di George Lukács, e compagna di Ferenc Fehér, per procedere con il suo allontanamento critico dalla patria e dal comunismo reale nel 1977, il suo viaggio in Occidente, prima a Melbourne in Australia e poi negli Stati Uniti, insieme al marito Fehér e agli amici Gyorgy e Maria Marcus, anch’essi noti esponenti della Scuola di Budapest, fino al ritorno in terra ungherese, sempre mantenendo la docenza a New York. 1. La società insoddisfatta e la teoria dei bisogni radicali: tra comunismo e capitalismo Leggere il testo significa subire quella sferzata di cui parlavamo all’inizio, quella di chi ci invita con forza a cogliere l’opportunità di fare qualcosa, perché Ágnes Heller ci raccomanda che si può sempre fare qualcosa per uscire dal groviglio che attanaglia il presente, anche se la sua domanda sembra trasformarsi in una più radicale questione che davvero chiede risposte concrete: «È possibile riuscire ad essere soddisfatti in una società insoddisfatta?», ecco l’interrogativo che è chiave di volta del suo impegno. Nella questione aperta ci sono tutti i termini del problema helleriano: ci sono gli individui, di cui si chiede se possano essere soddisfatti o meno in quanto soggetti di capacità e d’azione; c’è la 120 Fabrizia Abbate società, con i suoi sistemi di organizzazione, nella quale naturalmente si compiono le dinamiche del soddisfacimento dei bisogni; c’è la giustizia politica, chiamata a mediare tra i beni, singoli, parziali, relativi, e «il bene», universale, comunitario. Il libro ordina la materia delle sue analisi in tre capitoli, che già soltanto nei titoli hanno in comune la prospettiva del «mondo» nella sua interazione con i soggetti della scelta morale: il mondo abitato, il mondo vissuto, il mondo partecipato. Scelta felice, perché ci fa capire subito come l’orizzonte della Heller sia il mondo, ovvero l’appartenenza ontologica, la relazione, l’essere-insieme: ed è in questo mondo che entrano in gioco i fattori che lo qualificano e ne accendono le dinamiche, vale a dire il «corpo» e i suoi bisogni agiti e subiti (da cui il mondo è abitato); vale a dire l’etica, ossia la sfera del «per noi», delle scelte personali e della responsabilità collettiva (attraverso cui il mondo viene vissuto); infine la giustizia, ossia le virtù del vivere civile (grazie alle quali è realizzabile un mondo partecipato). La terminologia è decisamente ermeneutica, frutto anche dell’assidua frequentazione di Giovanna Costanzo della via lunga del filosofare ermeneutico del maestro francese Paul Ricoeur, ed è vero che anche in questo caso l’ermeneutica offre uno strumento di analisi e di sintesi che rispetta la verità storica del cammino dei concetti helleriani: le tesi marxiste, la teoria dei bisogni radicali, l’ideale di comunità, il dialogo con la Arendt, con MacIntyre, con Habermas, la biopolitica, la teoria delle emozioni e dei sentimenti, l’etica universalistica, vengono spiegati e raccordati con la mediazione del pensiero interpretativo che apre un dibattito, senza mai chiuderlo nelle definizioni e nelle soluzioni. A sfilare di pagina in pagina, di paragrafo in paragrafo, è l’intera bibliografia della filosofa ungherese. Sul versante politico si comincia con La teoria, la prassi, e i bisogni del 1968, e poi La teoria marxista della rivoluzione e la rivoluzione della vita quotidiana, La teoria dei bisogni in Marx e Per una teoria marxista del valore dei primi anni Settanta, e si prosegue con Morale e rivoluzione e La filosofia radicale del 1979, Il potere della vergogna dei primi anni Ottanta, fino alla Condizione politica postmoderna ed Oltre la giustizia della fine degli anni Ottanta, primi Novanta; sul versante etico c’è la Teoria dei sentimenti già degli ultimi anni Settanta, fino alle opere più vicine nel tempo come Etica generale del 1994 e Filosofia morale del 1997. Ágnes Heller: vivere per il bene nella democrazia insoddisfatta 121 La riflessione della Heller nasce in contesto ebraico, di giovane donna ebrea scampata all’Olocausto e alla furia del totalitarismo hitleriano, destino che la accomuna a tanti fervidi pensatori del Novecento: da qui viene il primato da essa accordato all’antropologia, allo studio delle cose umane prima e sopra qualsiasi altro interesse politico, storico, filosofico, nel senso che tutto deve diventare un’antropologia filosofica, politica, storica, se deve servire all’uomo ed al rispetto della «astratta nudità dell’esserenient’altro-che-uomo», come ha scritto Hannah Arendt 3. La critica al totalitarismo comunista nascerà da questa stessa convinzione, laddove il partito, la burocrazia, e la dittatura sui bisogni come lei la chiama, si sono violentemente sostituiti alla libertà, alla dignità e alla felicità delle persone che liberamente si costituiscono in comunità viva, in «comunità concreta». Annota la Costanzo: «La difesa della democrazia socialista si accompagna alla convinzione che ancora prima della istituzione statale, occorre sostenere l’idea di una comunità intesa come quella aggregazione nata spontaneamente fra individui che si conoscono reciprocamente e che liberamente hanno scelto di formarla» 4. L’intervento repressivo del governo sovietico in Cecoslovacchia e la Rivoluzione di Praga del 1968 segnano innanzitutto il cammino professionale della Heller, che viene esclusa dalla vita politica e culturale della sua patria, rea di aver protestato apertamente nei confronti dei metodi repressivi, e a questa sua esclusione si accompagna lo scioglimento della Scuola di Budapest; quei fatti segnano soprattutto il cammino speculativo della filosofa, che da una parte si cimenta a smascherare il fallimento ideologico insito nella furia repressiva statalista dell’Est, ma dall’altra si cimenta anche a comprendere a fondo le rivolte studentesche dell’Occidente e la loro portata di sommossa contro i sistemi politici ed economici occidentali. La Heller individua come primi punti di riferimento ideologico, al fine di comprendere entrambi i moti di insurrezione nell’est così come nell’occidente, sia il tema caro a Lukács della «vita quotidiana» sia il concetto marxiano di «rivoluzione»: «Avevo allora terminato il libro sulla vita quotidiana ed ero giunta alla conclusione che presupposto di un’autentica società socialista avrebbe dovuto essere la trasformazione delle for- 122 Fabrizia Abbate me di vita, la creazione di nuove comunità» 5, insomma la rivoluzione della società civile. E fulcro della sua indagine filosofico-politica, a partire da La teoria, la prassi, e i bisogni appunto del 1968, diventano i temi classici del marxismo rivisitati in chiave helleriana: il nesso tra il cambiamento sociale e i bisogni, collegato al concetto di valore. La categoria antropologica interpretativa della storia e della società moderna è «l’uomo ricco di bisogni», come già suggerito da Marx: mettere al centro la storicità dei bisogni umani significa parlare del loro carattere rivoluzionario, della loro capacità di determinare mutamenti sociali. Il soggetto dell’antropologia helleriana è «soggetto agente, animato dal desiderio di colmare le proprie indigenze, è desiderio di qualcosa che motiva e fonda ogni sua azione: la capacità di attività concreta è uno dei maggiori bisogni dell’uomo, ma la sua azione dinamica è tale se intesa come capacità di trasformare il mondo mediante l’acquisizione di oggetti», giacché «il bisogno nasce in un determinato contesto sociale: tra me e il mondo vi è un mondo di oggetti, oggetti prodotti in un determinato contesto sociale» 6. Ed è mediante la tensione verso gli oggetti che l’uomo si individualizza, acquista coscienza di se stesso e della propria capacità: il corpo è il mezzo per acquisire gli oggetti, lavorare è l’attività concreta per soddisfare i bisogni materiali. Dopo aver riconosciuto i propri bisogni come materiali e soddisfacibili, l’uomo si innalza verso qualcosa che non è oggetto materiale, ma che è «tensione verso qualcosa, un progetto da realizzare, un valore da inverare: il bisogno umano si fonda del resto sempre sul desiderio, sull’aspirazione, sulla tensione verso un mondo ancora da realizzare, un mondo non semplicemente costituito da cose e oggetti. È nella relazione con altro da sé, mediante la realizzazione dei propri oggetti e la tensione verso i valori, che l’uomo si innalza dalla particolarità all’individualità» 7. Da qui l’accusa che ancora oggi risulta viva e aspra nei confronti del capitalismo: il concetto di bisogno non si identifica con il bisogno economico, proprio delle società capitalistiche, «società in cui il fine della produzione non è la soddisfazione dei bisogni, ma la valorizzazione del capitale», perciò attente solo ad aumentare la Ágnes Heller: vivere per il bene nella democrazia insoddisfatta 123 produzione, a moltiplicare e gonfiare i bisogni, che diventano solo una categoria del mercato, e vi compaiono «nella forma della domanda sensibile» 8 e dell’offerta. Se le tipologie dei bisogni sono varie in Marx (pensiamo ai bisogni naturali, ai bisogni sociali), la Heller usa il linguaggio dei bisogni concreti, esistenziali, al posto di quelli naturali e poi si concentra sui «bisogni radicali», ossia quei bisogni che mirano ad uno sviluppo radicale dell’individuo: il bisogno del tempo libero per attività diversificate, il bisogno di un lavoro che dia opportuna gratificazione e riconoscimento, il bisogno di relazioni autentiche, «umane, non alienate», perché in una vita autenticamente umana «l’oggetto più alto del bisogno umano diventa l’altro uomo». Eccoli dunque i bisogni densamente etici di cui parlava Marx, ma che Heller enfatizza, quei bisogni che qualificano intellettivamente ed emotivamente la vita umana, che soddisfano gli individui e li proiettano nella pluralità della comunità sana, li rendono capaci di futuro, non li stritolano e svuotano, rendendoli mere rotelle degli ingranaggi sociali: «l’attività culturale, il gioco degli adulti, la meditazione, l’amicizia, l’amore, la realizzazione di sé nell’oggettivazione, l’attività morale» 9. La difesa dei bisogni radicali è stata nel ’68 l’arma usata dalla Heller contro la distorsione del totalitarismo capitalistico ed utilitaristico a cui assistiamo anche oggi, nella speranza che il comunismo rappresentasse l’occasione di realizzare un’autentica società socialista; ma è diventata poi la stessa arma contro le distorsioni totalitarie del comunismo reale, contro il regime della paura e della «vergogna» che l’idea totalizzante del «partito» e della burocrazia avevano instaurato, trasformando le speranze della Heller in cocenti delusioni intellettuali e morali. Il bisogno di comunità, che è alla base di una giusta aggregazione politica, può nascere solo da relazioni umane autentiche, in cui le personalità degli individui si formano e si sviluppano in rapporto costante con il mondo e con la cultura, in rapporto di scambio e di partecipazione alla ricchezza sociale, «il soggetto isolato dalla storicità e dalla causalità non esiste e non può esistere, perché non può esistere soggetto senza oggetto», ci spiega la Heller 10. Il capitalismo erode dall’interno e progressivamente questo bisogno di comunità, perché conduce gli individui a riconoscersi non come compagni di interessi e di una condivisione di ricchezza sociale, ma come puri e semplici mezzi per la soddisfazione di 124 Fabrizia Abbate fini privati, «come l’aumento della ricchezza privata e del capitale, a cui corrisponde una povertà spirituale, una povertà di rapporti umani autentici, rapporti che assumono la forma di rapporti cosali» 11. Giovanna Costanzo ci guida in un percorso che ci fa ben comprendere il valore della teoria dei bisogni radicali nella dinamica di costruzione di una società giusta e soddisfatta, che può edificarsi e mantenersi solo arginando la deriva della «ragione strumentale», per dirla alla Horkheimer, ossia «la ragione completamente soggiogata al processo sociale [...] il cui unico criterio è diventata la sua funzione di mezzo per dominare gli uomini e la natura» 12. Gli individui diventano cose, e proprio come cose si trattano nelle relazioni reciproche, perdono di vista la capacità di ragionare per fini, e non si accorgono di trasformarsi poco a poco in merce che è in balia dei gruppi che detengono il potere, siano essi i burocrati dell’URSS, siano essi i capitalisti occidentali. «Il paradosso tipico della nostra epoca – commenta la Costanzo sulle scia delle analisi incrociate della Heller e di Horkheimer – è di essere completamente razionalizzata e tecnicizzata per quanto riguarda i mezzi, ma sospesa alle scelte irrazionali del potere per quanto riguarda i fini. Parlare di dittatura sui bisogni significa allora mettere in evidenza la crisi di un concetto di politico che si cela sotto ogni regime totalitario o dittatoriale, e la cui più disastrosa conseguenza per il pensiero è raggelare le possibilità stesse di un pensare intorno all’uomo, di un’antropologia. Interrogarsi sul concetto di politico per la pensatrice ungherese significa andare a scoprire le scaturigini delle possibilità della vita politica stessa, che alla maniera aristotelica corrisponde alla possibilità di una vita buona» 13. Negli anni Novanta si intensifica l’analisi delle strutture della modernità, ed il paradigma diventa quello della «società insoddisfatta»: è la società in cui viviamo, fatta di uomini moderni che non sono altro che uomini-consumatori di beni quantitativi, materiali, svuotati di ogni tensione ideale che dona il senso autentico all’agire e al vivere nella quotidianità, è la società che non ha saputo dare un indirizzo al corto circuito di industrializzazione, capitalismo e democrazia. La cura di questa insoddisfazione risiede nella capacità di cambiare che ancora una volta dobbiamo saper promuovere, spostando l’attenzione dal bisogno delle cose al bisogno dei valori. Ágnes Heller: vivere per il bene nella democrazia insoddisfatta 125 Scrive la Heller: «l’uomo moderno è identificato con l’uomo-consumatore poiché si suppone che il capitalismo, o in altri termini, la società industriale abbiano di fatto ridotto le persone a consumatori. Alcune critiche accusano in modo specifico i mass media di diffondere modelli di bisogni consumistici pericolosi e ritengono che la pubblicità sia responsabile della cosiddetta manipolazione dei bisogni. Cercano una panacea che identifichi i bisogni veri ed elimini i bisogni falsi, o sostengono un controllo centrale dell’evoluzione e della soddisfazione dei bisogni da parte di un’autorità mondiale che possa imporre un limite alla crescita stabilito scientificamente» 14. È il meccanismo perverso che ha reso gli individui cittadini insoddisfatti di una società insoddisfatta, un meccanismo che addirittura, secondo le analisi della filosofa, ha bisogno e si nutre di questa insoddisfazione per perpetuare il suo ciclo perverso di contraddizione tra democrazia, capitalismo e industrializzazione: è questa la forza motivazionale della insoddisfazione: «I propugnatori dello sviluppo della logica democratica saranno insoddisfatti della situazione attuale, che vede la democrazia ancora subordinata all’industrializzazione e al capitalismo, e da essi ostacolata. Spinti dall’insoddisfazione, costoro si rivolgeranno ad altri, ugualmente insoddisfatti di una democrazia incatenata, e li esorteranno a premere per una radicalizzazione delle istituzioni democratiche »15. Ma la cura dei bisogni radicali può intervenire ancora oggi, nell’attualità dei nostri sistemi di massificazione, proprio a spezzare questo meccanismo malato: i bisogni radicali ci indicano dei valori, valori universali a cui tendere per realizzare un senso proprio e comune. Perciò i bisogni radicali, scrive Costanzo, «svolgono nelle società odierne un ruolo importante, che non è quello di determinare un diverso modo di vivere, bensì una riflessione sui valori universalistici, che impone ad ognuno la scelta consapevole di norme e valori. La riflessione sui valori universalistici, dunque, può fornire alle persone, se non un modo di vivere, almeno una condotta di vita, un orientamento che dona alla vita un senso, che ci rende individui consapevoli e cittadini responsabili» 16. Insomma l’antica convinzione che esistano bisogni radicali dell’essere umano prepara oggi la convinzione che ci siano valori uni- 126 Fabrizia Abbate versalistici da individuare e da perseguire: l’insoddisfazione della società moderna, che include tutte le forme di protesta contro l’oppressione, la sofferenza, l’umiliazione, il dominio, fa appello all’unico terreno sul quale si è legittimati a parlare di valori universalistici, ossia l’etica. Ecco perché la Heller si proclama in pieno accordo con Aristotele, nel senso che «una vita senza attività politica, senza un impegno cosciente nella soluzione dei conflitti non può essere una vita buona. Di conseguenza una società della completa abbondanza, una società che soddisfi tutti i bisogni umani simultaneamente, non può essere una vita buona» 17, perché questa soddisfazione totalizzante dei bisogni umani «metterebbe fine alla tensione della vita umana – sottolinea la Costanzo – e renderebbe superflue le istituzioni che hanno la funzione di risolvere i conflitti» 18. Resta vero dunque che una vita buona, soddisfatta, felice, non può che essere una vita politica, impegnata nella ricerca della giustizia e dei valori universali condivisi dalla comunità. 2. La critica alle biopolitiche e al biopotere: per una politica dei mortali Un altro grande questionamento deve essere necessariamente aperto: qual è il concetto di «politico» oggi? Che ne è della politica nel momento in cui essa si allontana dalle questioni socio-economiche e dalla ricerca del bene pubblico e fa diventare invece centrali le questioni biologiche? Quando cioè la politica comincia ad occuparsi di cosa sia la vita in termini biologici totalizzanti, quasi con l’esito di pensare che sia la politica stessa a «creare» la vita, come pure ad interromperla, anziché pensare che essa sia e resti il luogo e l’ambito della normatività della vita, non della creazione o della sua coercizione. Così posto, il questionamento si avvia ad un evidente dissenso della Heller nei confronti delle biopolitiche e del biopotere di foucaultiana memoria, ossia delle politiche che prendono in ostaggio i temi della vita biologica dell’uomo 19. Il primo a coniare la parola «biopotere» fu proprio il filosofo francese Michel Foucault, intendendo per esso l’intreccio tra politica e vita nella forma necessaria del dominio politico, dell’asservimento degli uomini: solo un potere che si afferma come in grado di «assicurare o negare la vita», che si trasforma perciò in «bio-potere» riesce a Ágnes Heller: vivere per il bene nella democrazia insoddisfatta 127 controllare ciascun individuo nella sua corporeità elementare; e riesce a farlo in modo indisturbato, indiscernibile, anonimo 20. A partire dal XVII secolo la politica comincia a farsi carico dei problemi della salute, dell’alimentazione, delle questioni demografiche e della sicurezza dei viventi, esposta ai pericoli della natura e della incipiente tecnologia; e con il correre dei decenni si è arrivati ad una contemporaneità fatta di controllo dei problemi della fecondità, della natalità, della longevità, della mortalità, delle relazioni ambientali degli esseri umani. Come denuncia Foucault, i meccanismi del biopotere diventano le statistiche, le previsioni, il controllo, l’intervento, insomma la gestione della vita, dei «processi biologici dell’uomo-specie». L’evoluzione del concetto di politico è giunta sino a renderlo padrone della vita: senza qui soffermarci sul dibattito etico che ne può scaturire, tuttavia leggiamo con interesse la prospettiva nella quale nel libro sono inquadrate le tecniche attuali di controllo della popolazione, dal controllo delle nascite alla manipolazione genetica, la clonazione, l’eutanasia. Senza esaminare ciascuna di queste tecniche come un fenomeno etico a sé da discutere, la Heller si ferma su una soglia che resta politica prima ancora di diventare strettamente etica: una politica che accetta e vive di una tale progressiva commistione con il biologico finisce con il trasformarsi in un mostro che reclama il controllo su ogni processo vitale, che non tarderà a stabilire l’identità degli esseri umani soltanto su base biologica, e che con la scusa di prevenire malattie o di risolvere e curare problemi, in realtà fagociterà ogni individualità e libertà umana. Sembra quasi che il monito di Ágnes Heller sia rivolto a tutti, a prescindere dalle posizioni bioetiche e dai dibattiti che si sono innescati, come a dire che tutti dovrebbero fare un passo indietro: prima ancora di addentrarsi in quei dibattiti etici, e forse anche di dare ad essi rilevanza, clamore, continuità, strumentalizzazione, prima di tutto ciò, ci si dovrebbe fermare a quella soglia politica, anzi garantirla come autonoma nelle finalità, senza fare quel passo ulteriore che inesorabilmente la consegna all’identificazione con il biologico. Un monito di cui ci permettiamo di sottolineare il valore nel nostro contesto italiano, in cui talvolta, o forse troppo spesso, ci è sembrato che la comunicazione, sempre fruttuosa e sempre auspicabile, tra politica ed etica si chiudesse invece nei monologhi distanti ed autoappagati delle «politiche» e delle «bioetiche». 128 Fabrizia Abbate Sullo sfondo della riflessione helleriana c’è il «paradosso biopolitico» di Foucault: ossia la paradossale coincidenza cronologica a partire dalla Rivoluzione francese dei «grandi programmi di benessere, di salute pubblica e di assistenza sanitaria» con i più «grandi eccidi collettivi» 21; e, ancora sullo sfondo, le lezioni di Hannah Arendt sulla biopolitica con l’esperienza atroce e assurda dei campi di concentramento, dinanzi alla quale davvero tuona assordante nelle nostre orecchie la domanda di Foucault, come possa «un potere il cui obiettivo era far vivere, lasciare morire» 22. Attenzione! sembra gridare negli ultimi venti anni la Heller: attenzione perché il pericolo del biopotere è in agguato dietro le democrazie di massa di oggi, ed è per questo che occorre rifiutare «ogni visione aprioristica che minaccia i nostri diritti e la nostra identità». Fa bene la Costanzo a riannodare un’attenta riflessione storica della Heller sulla tradizione politica occidentale, che a partire dai Greci e fino ad Hegel e alla Arendt, ha marcato un’autonomizzazione della sfera politica dalla sfera biologica, intendendo per essa anche il discorso sulla razza, sulle etnie, sul sesso. Il terreno della politica è l’appartenenza ad un «comune corpo politico», e non la solidarietà in un «comune corpo biologico». «Se il concetto greco di politico su cui è fondata la tradizione occidentale è abitualmente associato alla politeia, e non alla razza, all’homo politicus e non al gender, alla città e non alle lobby, allo Stato e non piuttosto alla società, in quanto sfera animale spirituale per usare un’espressione di Hegel, nel termine biopolitica cosa è rimasto del concetto di politico?» 23. Notiamo subito che in una semplice frase sembrano riassunti tutti gli spettri della democrazia attuale: il primato delle lobbies, la chiusura nelle appartenenze di genere (il gender), il conflitto e la tolleranze delle razze e delle etnie, il privilegio accordato alla società nella sua diversificazione e relatività delle istanze, anziché all’idea di un Stato come comunità politica vissuta da tutti gli individui, ciascuno per le proprie opinioni personali, i propri diritti e doveri. La politica è il più alto livello di mediazione: la «biopolitica» abbassa questo livello e ripropone i conflitti, perché parla «dal punto di vista di un gruppo, che può essere individuato attraverso caratteristiche biologiche o puramente per scopi biologici», Ágnes Heller: vivere per il bene nella democrazia insoddisfatta 129 perché si concentra sulle categorie noi/voi, amici/nemici. Sulla scia del pensiero politico di Hannah Arendt, la Heller relega l’importanza delle identità biologiche e delle loro istanze alla sfera della società civile, ma non le introduce nella sfera politica tout court: «Il discorso sulla razza e il sesso non sono mai pubblici, anche se sono condotti in uno spazio che sembra pubblico, come ad esempio la stampa. Invece affinché un discorso sia pubblico, sia secondo il modello arendtiano che habermasiano, deve prevedere che ciascuno possa contribuirvi e deve fare attenzione ad ogni singolo contributo a seconda dell’argomento trattato. Se si rigetta tale modello, si rigetta lo stesso discorso pubblico» 24. Quando parliamo di biopolitiche oggi dobbiamo tenere presente gli argomenti relativi alla situazione delle donne, degli immigrati, delle minoranze, dell’ambiente, visti come grandi temi sociali: ebbene, lo sforzo a cui ci invita la filosofa ungherese è quello di tenere lo sguardo alto alla politica come mediazione alta per tutto il corpo sociale, da cui poi arrivano risposte anche per le urgenze della società civile. Ci viene suggerita ancora una volta un’espressione cara alla Arendt per definire questo tipo di politica, ossia la «politica dei mortali», una politica consapevole «della verità più banale della condizione umana: che siamo tutti mortali e consapevoli del limite imposto al nostro agire» 25. 3. L’etica della personalità e del racconto delle storie Negli ultimi venti anni di studi, le riflessioni politiche lasciano il campo alle lucide disamine etiche tra istanze di obbligazioni morali e scelte di responsabilità. Il pensiero contemporaneo della Heller si articola dunque nei temi della grande e piccola etica, e in particolare affronta l’argomento etico per eccellenza: la giustizia. Non possiamo soffermarci in questa sede sulla ricchezza degli spunti che il testo offre, ma citiamo solo alcuni passaggi che davvero chiedono di essere letti ed approfonditi se si vuole conoscere la Ágnes Heller di oggi. Le etiche del dovere, le etiche della personalità, le etiche del discorso ritornano nella elaborazione helleriana sotto la forma dei 130 Fabrizia Abbate confronti: il confronto con Habermas e la sua etica del discorso; con Max Weber e la sua etica della responsabilità; il confronto con l’universalismo formale dei liberali americani e con la proposta kantiana, con il pluralismo difeso da Alasdair MacIntyre, nella sua concezione della narratività etica. Giovanna Costanzo evoca altri possibili confronti con la contemporaneità: in primis citando il maestro Paul Ricoeur, le cui pagine etiche diventano strumento di comprensione ermeneutica del dibattito sulla giustizia. Ragionare Oltre la giustizia, come suona il titolo di una delle opere più recenti della Heller 26, significa ragionare dopo la messa in questione contemporanea delle teorie della giustizia, seguendo il filo di un dibattito statunitense molto acceso negli ultimi anni, in cui la Heller prende posizione, dopo John Rawls e in compagnia di altri autorevoli protagonisti, come Martha Nussbaum e la sua «teoria delle capacità». L’etica comunitaria tra universalismo e contingenza: la filosofia morale non può allora non calarsi tra i racconti delle vite degli uomini, dare parola ai sentimenti, alle emozioni, all’immaginazione, alla richiesta di felicità che è connessa alla problematica della giustizia e dell’etica. Si delinea un’etica del limite, della finitezza, così come allora si è delineata una politica dei mortali: il punto di congiunzione è il riconoscimento dell’impegno per la nostra contemporaneità, è la lotta per le «distinzioni», nel senso che ciascuno viene riconosciuto nella propria individualità e come tale riconosce gli altri nella confidenza e nella fiducia, è infine la possibilità di costruire una comunità concreta in nome di valori regolativi dell’agire. Commenta la Costanzo: «L’etica formulata dalla pensatrice ungherese risente fortemente non solo dell’universalismo kantiano, ma anche del concetto di contingenza, che circoscrive l’azione nella storia, per cui anche quando si interroga sulla responsabilità verso gli altri resta sul limite, cercando di tenere assieme autonomia dell’individuo e relazione. Potere e limite: perché se da un lato non vuole rinunciare ad un soggetto autonomo e autosufficiente, dall’altro non può non tenere conto che l’altro è vincolato e limitato dalla presenza dell’altro» 27. Abbiamo citato Martha Nussbaum per la teoria delle capacità, e in questo contesto possiamo ricordare la sua rivalutazione della immaginazione narrativa come immaginazione morale e pubblica; abbiamo citato Paul Ricoeur per la sua teoria ermeneutica della giustizia, e in questo contesto possiamo richiamare la sua Ágnes Heller: vivere per il bene nella democrazia insoddisfatta 131 idea della identità narrativa del soggetto etico; ancora possiamo citare MacIntyre ed il suo concetto di unità narrativa per racchiudere l’identità personale: il fatto è che l’etica di Ágnes Heller sbocca nella foce di un fiume denso dove l’etica della personalità nietzschiana (per capirci l’etica dell’individuo come arbitro volontaristico delle proprie azioni, autonomo, sganciato dai vincoli) va a fondersi con l’etica kantiana (secondo la quale l’azione morale è tale se sorretta e guidata da ciò che la ragione pura indica come valore universale). Chi legge uno dei suoi libri più recenti di etica, An Ethics of Personality 28, comprende bene come il mare che attende quell’addensarsi di acque che avevamo disegnato in metafora sia proprio l’aprirsi del legame profondo tra l’etica e la narrazione: la bontà di una persona, spiega Heller, può essere solo raccontata in mezzo ad altri racconti, e può essere raccontata perché ascrivibile a quell’individuo storico che la compie nella sua scelta esistenziale (proprio come la si ascrive al personaggio di un romanzo), raccontata perché ricade sotto gli occhi degli altri che la attestano nella pratica sociale (proprio come i lettori attestano le azioni narrate), e infine raccontata perché non può essere razionalizzata, non può essere dedotta e spiegata razionalmente (perché l’ingresso nella scelta morale è dato da un’immaginazione narrativa che è immedesimazione emotiva, compassione, direbbe Nussbaum): autonomia individuale ed appartenenza socio-politica sono i due poli dell’antropologia della Heller che conducono ad affermare l’identità narrativa del soggetto morale, il suo essere unità di una storia raccontata, personaggio delle proprie azioni che trovano senso nel racconto di se stessi fatto da sé e dagli altri. «Se l’etica si prefigge “il compito modesto di riassumere, di analizzare e di interpretare le azioni, le scelte, i caratteri e gli stili di vita degli uomini e delle donne migliori del proprio tempo, dei più retti ed onesti, e anche di rivelare il segreto della loro bontà”, significa che non ha ragion d’essere se non attraverso il racconto esemplare dei tanti uomini buoni che sono vissuti» 29. Il filosofo morale deve conservare questi racconti, deve riscoprirli per tutta l’umanità, deve narrarli una volta e una volta ancora, perché sono queste storie che contengono i valori vissuti nella pratica quotidiana. Come scrisse Paul Ricoeur, «intere fette della 132 Fabrizia Abbate mia vita fanno parte della storia della vita di altri. Le storie degli uni sono inviluppate nelle storie degli altri». Ci torna in mente una pagina di un noto quotidiano italiano che tempo fa ha dedicato le sue colonne della cultura ai racconti della tormentata vicenda storica di quella che fu la Jugoslavia di ieri, e che oggi è Croazia, Serbia, Bosnia-Erzegovina. Si tratta dei racconti del presente di quei popoli fatti dai contemporanei aedi di quella terra, gli scrittori giovani e i giornalisti con più lontana memoria. Uno dei racconti è firmato da Dusan Velickovic, scrittore e giornalista sessantunenne di Belgrado, che sotto il regime di Milosevic fu cacciato da Nin, il settimanale di punta di cui era caporedattore 30. Il suo articolo inizia con un ricordo nitido: «Un giorno ormai lontano, erano gli inizi degli anni Ottanta, Zoran [Dindic, il premier serbo ucciso, primo leader filoeuropeo democraticamente eletto] portò il libro di Ágnes Heller Filosofia della sinistra radicale dicendomi “io potrei tradurlo e tu potresti scriverne la prefazione”. E così facemmo. Zoran lo tradusse in un baleno, io indugiai un po’ di più, ma poi comunque scrissi una prefazione intitolata “Il marxismo e la nostalgia libertaria”. Alcuni anni dopo mi trovai nella condizione di poter conversare a Melbourne con Agnes Heller in persona proprio nel giorno in cui mi era arrivato un esemplare del libro che Zoran mi aveva mandato. E più in generale sono portato a collegare quel libro a tutta una serie di coincidenze, ovvero di miei associazioni personali. Poi riferii a Zoran della conversazione con Ágnes Heller. La quale diceva, vivendo ormai da diversi anni in esilio: “Quando si vive nel proprio ambiente naturale, cioè là dove uno ha le proprie radici, allora tutto ciò che accade in quella realtà, finisce con l’assumere ai nostri occhi un’importanza fin troppo accentuata. Quel significato locale porta sempre in sé qualcosa che potrebbe essere definito lo spirito della provincia più sperduta. Ci si trova dunque sempre sull’orlo del fango di provincia e degli intrighi e dei sotterfugi provinciali. In questo senso anche Parigi può essere una città di provincia. Se per contro si vive in esilio, allora è più difficile venire a trovarsi in una situazione provinciale, anche vivendo davvero in una città di provincia. In quel caso ci si trova indubbiamente vicini ad un punto di osservazione mondiale. In quel caso non si tratta di morte virtuale, ma di un nuovo orizzonte”. Era un’analisi che mi piacque. Zoran disse: “Sì, in effetti non è male. Solo che non sono sicuro che un uomo in esilio sia comunque in grado di combinare qualcosa anche con un punto di vista mondiale. Probabilmente l’unica cosa che può fare è adoperarlo contro di Ágnes Heller: vivere per il bene nella democrazia insoddisfatta 133 sé” [...]. Molti anni dopo, al tempo dei bombardamenti dello stato di guerra, mi tornò in mente la circostanza del libro. Mi domandai se allora fossimo in grado di presupporre, anche solo lontanamente, quali sarebbero stati i nostri percorsi e i nostri destini. Ecco, giusto in quel 1999, Zoran Dindic era il capo di un’opposizione che il governo di allora proclama traditore, cacciandolo in esilio, mentre Seseli rappresenta il potere e diventa l’uomo forte della situazione. Poi Seseli va all’Aja per annunciare l’uccisione di Zoran. E quindi nel 2003 è la fine di un’epoca» 31. Sullo sfondo delle ferite della storia, della perdita di persone che sulla politica hanno scommesso la propria identità, sullo scenario di una democrazia che stenta a camminare, ecco che il punto di vista «mondiale» di cui Ágnes Heller parlava, ha segnato una via di conoscenza e di riflessione pratica. Se allora tornassimo alla domanda iniziale: è possibile riuscire ad essere soddisfatti pur vivendo in una società insoddisfatta? la risposta data è questa: «Prima di poter essere soddisfatti della propria vita si deve essere riusciti a soddisfare il bisogno di utilizzare le proprie capacità, trasformando i doni naturali in talenti [...]. Parimenti è essenziale la soddisfazione del bisogno di un’affettività profonda significativa [...]. Non può essere del tutto soddisfacente la vita di chi non abbia mai avuto una relazione importante con un’altra persona» 32. Una vita buona è quella in cui il valore dell’abitare il mondo include se stessi e gli altri: ne faccia tesoro chiunque abbia davvero a cuore la democrazia. Fabrizia Abbate NOTE 1 N. Chomsky, Gli universali della natura umana, Lezione Dottorale Università di Bologna, 1° aprile 2005. 2 J. Ortega Y Gasset, Meditazioni del Chisciotte, tr. it. di B. Arpaia, Guida, Napoli 2000, p. 46. «Questa influenza del passato sulla nostra razza è una questione tra le più delicate. Attraverso di essa scopriremo il meccanismo psicologico del reazionarismo spagnolo. E non mi riferisco alla reazione politica, che è solo una manifestazione [...] della generale costituzione reazionaria del nostro spirito. In questo saggio avanzeremo l’ipotesi che il reazionarismo radicale non si caratterizzi in ultima istanza per l’avversione alla modernità, ma per la maniera di considerare il passato» (ibid.). 134 Fabrizia Abbate 3 H. Arendt, Le Origini del Totalitarismo, tr. it. di A. Guadagnin, Einaudi, Torino 2004, pp. 415. 4 G. Costanzo, Ágnes Heller: costruire il bene. Una teoria etico-politica della giustizia, Studium, Roma 2007, p. 30. 5 Á. Heller, Morale e rivoluzione, intervista a cura di L. Boella e A. Vigorelli, Savelli, Roma 1979, pp. 46-47; in G. Costanzo, op. cit., p. 39. 6 Á. Heller, La teoria dei bisogni in Marx, tr. it. di A. Morazzoni, pref. di P. A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 40-43. 7 G. Costanzo, op. cit., pp. 43-44. 8 Á. Heller, La teoria, la prassi e i bisogni, Savelli, Roma 1978, pp. 35-36. 9 Á. Heller, La teoria dei bisogni in Marx, cit., p. 155. 10 Á. Heller, Per cambiare la vita, intervista a cura di F. Adornato, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 51. 11 G. Costanzo, op. cit., p. 48. 12 M. Horkheimer, Eclisse della ragione, Einaudi, Torino 1969, p. 25. 13 G. Costanzo, op. cit., p. 61. 14 Á. Heller, La società insoddisfatta, ne Il potere della vergogna. Saggi sulla razionalità, tr. it. di V. Franco, Editori Riuniti, Roma 1985, p. 327. 15 Á. Heller, Sull’essere insoddisfatti in una società insoddisfatta, in Á. Heller - F. Fehér, La condizione politica postmoderna, Marietti, Genova 1992, pp. 21-22. 16 G. Costanzo, op. cit., p. 85. 17 Á. Heller, Sui veri e falsi bisogni, in Il potere della vergogna, cit., p. 341. 18 G. Costanzo, op. cit., p. 85. 19 Á. Heller, Biopolitica e modernità. In dialogo con Ágnes Heller, in AA.VV., Questioni di biopolitica, Bulzoni Editore, Roma 2003. 20 M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998. 21 M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1993, p. 120. 22 M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 220. 23 Á. Heller, La biopolitica ha davvero cambiato il concetto di “politico”?, in AA.VV., Questioni di biopolitica, cit., p. 15. 24 Ibid., p. 22. 25 Á. Heller, Il paria e il cittadino, in Á. Heller - F. Fehér, La condizione politica postmoderna, cit., p. 114. 26 Á. Heller, Oltre la giustizia, tr. it. di S. Zani, Il Mulino, Bologna 1990. 27 G. Costanzo, op. cit., p. 145. 28 Á. Heller, An Ethics of Personality, Basil Blackwell, Oxford 1996. 29 G. Costanzo, op. cit., p. 159; nella citazione Á. Heller, L’etica della personalità, l’altro e la questione della responsabilità, in Società degli individui, 2/1998, p. 135. 30 Alcuni suoi racconti sono presenti nella raccolta Casablanca serba, racconti da Belgrado, Feltrinelli, Milano 2003. 31 Da Il Sole-24 ore, supplemento di cultura Domenica, n° 129, 11 maggio 2008, p. 44. 32 Á. Heller, Sull’essere insoddisfatti in una società insoddisfatta, cit., p. 51.