Scrivolo | Il giardino all'ombra
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Il giardino all'ombra
La signora Rosa, benché portasse il nome di un fiore, non aveva il pollice verde. Provava però una vera attrazione per le
piante e soprattutto per i fiori: era affascinata dall’infinita varietà dei loro colori, dai diversi profumi che emanavano, dalle
strane forme delle corolle e spesso tornava dal mercato settimanale carica di vasi e vasetti. A volte portava a casa piante
enormi e quando il venditore si offriva di aiutarla a caricare i vasi in macchina, perché era ovvio che la cliente doveva avere
un mezzo adeguato al trasporto di simili ‘baobab’, si scherniva dicendo “non si preoccupi, tanto abito qui vicino”. Ovviamente
non era vero.
Il suo grande amore, come spesso accade, non era però ricambiato: nonostante si prodigasse nelle cure non riusciva mai ad
avere un bel balcone fiorito: fuchsie, begonie, gerani e petunie, appena varcata la porta di casa, perdevano l’aspetto florido
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esibito sulle bancarelle, si intristivano e spesso non arrivavano neppure alla fine dell’estate.
Rosa aveva tentato di comprendere le cause dello strano spleen vegetale che affliggeva le sue piante leggendo riviste e
manuali di giardinaggio. Era in grado di riconoscere le principali malattie crittogamiche, oidio, ruggine, marciume radicale,
ticchiolatura, fusariosi e gli insetti dannosi più comuni, aleurodidi, afidi, ragnetti, oziorinchi e cocciniglie, ma quando metteva
in pratica i metodi di coltivazione e di difesa dalle avversità suggeriti dagli esperti non otteneva i risultati sperati: raramente le
malattie regredivano e, di solito, i suoi minuscoli avversari avevano il sopravvento. Rosa però si rassegnava facilmente alla
sconfitta pensando che in fondo le povere vittime, rinsecchite, divorate, spogliate del loro verde corpo, erano solo vegetali,
come gli spinaci o gli asparagi che preparava a pranzo. La morte di un animale domestico era tutt’altra cosa, lasciava un
segno a volte molto doloroso, la morte di una gardenia o di una camelia era semplicemente una promessa di bellezza non
mantenuta. E poi il venerdì, al mercato, poteva sempre comprare una nuova pianta, magari quella descritta nell’ultimo
numero della sua rivista di giardinaggio preferita. Ogni dipartita aveva dunque un lato positivo: liberava un posto nei balconi
degli appartamenti d’affitto in cui Rosa abitava.
Da bambina aveva vissuto in una casa con un giardino quasi del tutto spoglio. L’unica pianta che ricordava era un piccolo
cespuglio di rosa, di certo molto vecchio, che ogni anno si intestardiva a produrre due o tre fiori, ovviamente di un banale
color rosa. Sua madre sosteneva che in giardino era inutile piantare fiori perché i bambini, Rosa inclusa, calpestavano le
aiuole, ma lei non ricordava di avere mai compiuto un simile atto vandalico. In realtà sua madre non amava i fiori e riteneva il
giardinaggio una manifestazione di egoismo: chi lo praticava mostrava infatti di preferire la compagnia delle piante a quella
degli umani e, a conferma della sua teoria, citava casi esemplari nel parentado. Suo padre tornava tardi la sera ed
attraversava rapidamente il giardino: non si sedeva mai sulla panchina di legno a lato della porta di casa, neppure nelle sere
d’estate.
Evidentemente Rosa non aveva ereditato dai genitori la sua passione per i fiori.
Da bambina qualche volta era entrata nel giardino della casa di fronte: quasi tutto lo spazio era occupato da un’unica aiuola
quadrata piena di cespugli di rose con enormi fiori, in prevalenza gialli e screziati. Il vicino curava amorevolmente il suo
giardino e non sembrava né egoista né scontroso. Ma era un guaio se, giocando nel vialetto, la palla finiva dentro quella
foresta spinosa spezzando qualche ramo: per ritrovarla era inevitabile graffiarsi le braccia, senza contare le meritate
rampogne per il danno inflitto alle povere piante.
Un giorno finalmente Rosa riuscì a convincere il marito che era giunto il momento di comprare casa. Gli anni passavano ed era
stanca di traslocare da un appartamento all’altro, voleva mettere radici. Al marito non importava gran che della casa, dei
mobili o delle piante, sentiva solo la necessità di avere una tana, anche transitoria, da adeguare alle proprie esigenze, in
primis il disordine come espressione di controllo del territorio; ma alla fine si lasciò trascinare nell’impresa per amore della
pace domestica.
Dopo qualche superficiale esplorazione, per pigrizia, decisero di comprare un appartamento al piano rialzato con un piccolo
giardino. La scelta si rivelò infelice ma, del resto, negli affari non erano mai stati fortunati; Rosa però aveva finalmente
un’aiuola da coltivare.
I precedenti proprietari avevano lasciato cespugli di rose e peonie, un oleandro e qualche alberello di ibisco siriaco; lei
aggiunse un corbezzolo, un falso gelsomino, una palla di neve e rampicanti fioriti, caprifoglio, passiflora e clematide. Tentò
inutilmente di convincere una buganvillea gialla a vivere sulla scaletta che scendeva in giardino, poi comprò una datura,
versione domestica del velenoso artiglio del diavolo dal profumo inebriante, ma l’arbusto produsse i suoi vistosi fiori a forma
di trombone una sola volta. Grandi soddisfazioni ottenne invece coltivando l’aspidistra: da pochi rizomi ricavò due giganteschi
vasi, ma la resistenza di questa pianta ai giardinieri incapaci è leggendaria, come sottolinea anche Orwell.
Con un campo di battaglia così vasto la lotta contro le malattie e gli insetti si rivelò subito una guerra persa: sarebbe stato
necessario irrorare di continuo pesticidi d’ogni genere, e Rosa decise di darsi subito per vinta.
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Le rose fiorivano ma avevano poche foglie a causa delle più svariate malattie crittogamiche, i boccioli delle peonie cadevano,
e persino il robusto oleandro ingialliva, vittima di un’invasione di cocciniglie. Formiche stakanoviste trasportavano da un ramo
all’altro afidi avidi di linfa e voraci argidi ricamavano instancabili i loro intagli nelle foglie meno coriacee. Rosa si sentiva
assediata da tutti gli insetti nocivi raffigurati nel suo manuale di giardinaggio, cavallette comprese: ogni tanto vedeva
svolazzare un esemplare di coccinella dei sette punti, vorace predatrice degli afidi, ma il simpatico animaletto portafortuna di
solito spariva quasi subito, vittima forse di un’indigestione.
Tuttavia non era questo il principale problema di Rosa, la vera magagna del giardino consisteva nella sua esposizione: volto
ad ovest, stretto tra il muro della casa ed un’alta siepe di alloro che incombeva su tutta l’aiuola, era quasi completamente in
ombra. Le rose, per riuscire ad avere qualche ora di sole, si erano trasformate in scheletrici alberi spinosi.
L’alloro mostrava qua e là gli inconfondibili segni di un’infestazione di fumaggine e Rosa inizialmente sperò che morisse. Poi
cominciò a pensare ad un metodo rapido per eliminarlo, ma il marito la convinse che quel muro di sempreverde era utile
perché, oltre a garantire un po’ di privacy, proteggeva la casa dal vento invernale e dai miasmi del traffico. L’alloro, graziato,
dimostrò di possedere un’insospettabile vitalità: ogni anno una ditta specializzata doveva provvedere al taglio dei lunghi getti
nati in primavera.
Anche il più sprovveduto dei giardinieri sa che esistono piante da sole, da ombra e da mezz’ombra: i fiori più belli e profumati,
quelli prediletti da Rosa, richiedono luce diretta, mentre la scelta tra le piante da fiore che sopportano un’oscurità più o meno
intensa è molto limitata, se si escludono l’ortensia, la violetta, la pervinca, l’impatiens e la lobelia.
Nei manuali di giardinaggio si legge che le piante, per fiorire e rimanere in salute, devono essere collocate nella giusta
posizione e, dopo molti tentativi finiti male, Rosa giunse alla conclusione che i libri avevano ragione: è impossibile opporsi alle
leggi di natura e quindi quel giardino in ombra non sarebbe mai divenuto il fiorito angolo di paradiso che aveva sempre
desiderato.
Continuò tuttavia ad occuparsi della sua aiuola. Cercava di tenere in vita le piante malate, potava i rami secchi, sradicava i
ceppi morti ed ogni tanto comprava qualche vaso fiorito che collocava nei pochi punti del marciapiede esposti al sole. I nuovi
arrivati però non sopravvivevano a lungo.
Un giardino all’ombra è davvero difficile da coltivare, si ripeteva Rosa per giustificare i suoi fallimenti, ma di certo un pollice
verde avrebbe saputo ugualmente trasformare quel luogo oscuro in una selva fiorita, magari occorreva solo più costanza nel
cercare varietà poco esigenti in fatto di luce, ma comunque lì non sarebbero mai cresciuti cespugli di odorose “belle di notte”
o gigli, tulipani e fresie da mettere nel vaso del salotto.
Rosa intanto invecchiava e talvolta le capitava di sentirsi all’improvviso molto stanca; allora smetteva di zappettare,
appoggiava al muro la scopa con cui spazzava le foglie dal marciapiede o posava l’annaffiatoio e si sdraiava su una poltrona
da mare che aveva sistemato accanto al grande nespolo in fondo al giardino. L’albero da anni produceva solo fruttini
ammuffiti, ma le sue grandi foglie erano pur sempre belle da vedere. Rimaneva qualche minuto immobile, ad occhi chiusi,
senza pensare. Poi riprendeva il suo lavoro.
Un giorno, mentre si riposava sotto il nespolo, la sua attenzione fu attratta da uno strano rumore, come il pianto di un uomo.
Rosa aprì di scatto gli occhi e non vide nessuno ma notò subito che il giardino aveva un aspetto diverso dal solito: qua e là
sbucavano dal verde dei fiori che non ricordava di aver piantato e tra i rami di alloro facevano capolino corolle multicolori: in
lontananza intravedeva il rosso acceso delle rose. Eppure agosto è il loro periodo di riposo, pensò perplessa; sopra la testa
sentiva aleggiare l’odore intenso della grande rosa rampicante profumata che, per sbaglio, quindici anni prima aveva tagliato
all’innesto pensando di eliminare un pollone. Il ricordo del suo irrimediabile errore la rattristò: doveva trattarsi di una rara
varietà antica perché le rose moderne rifiorenti non sono mai così profumate. Poi si accorse che il giardino era illuminato
come se il sole, nel pomeriggio nascosto dietro la siepe di alloro, si trovasse allo zenit. Ma mezzogiorno era passato da un
pezzo e non poteva aver trascorso tutta la notte sotto il nespolo: prima che facesse buio suo marito l’avrebbe sicuramente
cercata, se non altro per esigere la preparazione della cena. Mentre si guardava intorno stupita avvertì che la luce
aumentava: l’ombra era del tutto scomparsa dal giardino. Udì in lontananza dei colpi ed una voce che sembrava provenire da
oltre la siepe disse “Ci spiace signore, non c’è più nulla da fare”. Forse un operaio del comune sta tagliando un vecchio albero
secco nel parco pubblico qui accanto, pensò distrattamente Rosa, abbandonandosi di nuovo sulla spalliera della sdraio.
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Ad occhi aperti, immobile, senza pensare, annusava i balsami portati da un venticello ristoratore e si godeva il suo giardino in
fiore inondato di luce: non riusciva a trovare una ragionevole spiegazione per quanto le accadeva e tuttavia sentiva che mai
era stata in vita sua più felice.
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