200 ANNI
1816-2016
GUIDA AI PARCHI CITTADINI
05 PARCO DI
VILLA BARAGIOLA
ASSESSORATO ALL’AMBIENTE E VERDE URBANO.
Area XI Attività Verde Pubblico
La presente collana è stata curata dai tecnici dell’Attività Verde Pubblico del Comune di Varese Dott.
For. Chiara Barolo, Arch. Lorenza Castelli, Dott. Agr. Ilaria Merico, Dott. For. Pietro Cardani.
Si ringrazia Silvia Motta per l’attività di ricerca bibliografica riguardante la mitologia degli alberi svolta
durante il periodo di servizio di leva civica regionale.
PRESENTAZIONE
Cari Varesini e cari turisti,
Un ringraziamento al Geom. Michele Giudici dell’Area IX - Ufficio Sistema Informativo Territoriale.
Riferimenti bibliografici
• Botanica Forestale – Volume Primo e secondo – Romano Gellini e Paolo Grassoni – Cedam Padova
1997;
• Cottini P. - “I Giardini della Città Giardino” – Edizione Lativa – dicembre 2004;
• Sulla Condizione dei Parchi Pubblici della Città di Varese – Tomo I-II-III-IV a cura del Prof. Salvatore
Furia – 1978- Atti in possesso del Comune di Varese - Attività Verde pubblico .
• Mitologia degli alberi – Dal giardino dell’Eden al legno della Croce, Jacques Brosse – BUR Rizzoli
Saggi, 1991 R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A. Milano;
• La Natura ed i suoi simboli – Piante, fiori e animali – Lucia Impelluso - Dizionari dell’Arte Edizioni
Varese è la nostra città-giardino. E come poterla scoprire meglio se non con
queste guide e mappe, molto comode e pratiche?
I parchi sono un bene prezioso che negli ultimi anni abbiamo preservato e
cercato di migliorare, anche ampliandone gli spazi verdi.
Varesini e turisti hanno la possibilità di scoprirne la ricchezza, dal patrimonio
arboreo e botanico alle peculiarità architettoniche presenti nei giardini principali.
Non mancano le info turistiche per raggiungere i sei parchi cittadini.
Palazzo Estense e Villa Mirabello, Villa Toeplitz, Villa Augusta, Castello di Masnago,
Villa Baragiola e Villa Mylius: le guide passano dai cenni storico-artistici alla
descrizione e al posizionamento, con le mappe, degli alberi monumentali.
Grazie al lavoro attento dell’assessorato al Verde pubblico, le guide sono state
ampliate e ristampate.
Non mi resta che augurarVi un buon giro all’aria aperta accompagnato da
un’ottima lettura.
Il Sindaco di Varese
Attilio Fontana
Cari tutti,
Della stessa collana
Giardini Estensi e Parco di Villa Mirabello
Parco di Villa Torelli Mylius “Achille Cattaneo”
Parco di Villa Augusta
Parco del Castello di Masnago (Mantegazza)
Parco di Villa Toeplitz
Progetto grafico e impaginazione: Magoot Comunicazione Costruttiva - www.magoot.com
Stampa: Bosetti Group S.r.l. - Gorla Maggiore (VA) - Maggio 2016
In questo 2016, anno del Bicentenario dell’elevazione di Varese a Città, è un
piacere avere l’opportunità di presentare al pubblico i libretti della collana,
“Guide ai Parchi Cittadini” quale contributo per testimoniare la bellezza e la
ricchezza della Città Giardino.
Nelle guide si trovano aneddoti e cenni della storia delle famiglie che hanno
creato questi parchi meravigliosi, che li hanno vissuti e che ce li hanno tramandati.
Si trovano le descrizioni degli alberi autoctoni, di quelli esotici, dei più rari e più
preziosi, oltre ai bellissimi alberi monumentali, tanto amati dalla Città, e alcuni
vero e proprio simbolo Bosino.
I Giardini sono Storia e Cultura insieme; rappresentano l’essenza della capacità e sensibilità degli uomini di plasmare il territorio nel rispetto della Natura
dei luoghi, con l’obiettivo di poter godere appieno delle meraviglie che offre.
Sono parchi pubblici, sono di tutti: ad ognuno di noi, quindi, il diritto di goderne
appieno delle bellezze che offrono, ma anche il dovere di rispettarli e averne
cura, per il presente, per il futuro.
L’Assessore al Verde Pubblico e Tutela Ambientale
Riccardo Santinon
CENNI STORICI
Nel corso del XVII secolo la maggior parte dei
terreni situati in corrispondenza del sedime
della attuale proprietà comunale risultavano
destinati a pascolo, incolto (zerbo in termine
locale) e prato soprattutto lungo l’attuale via
Caracciolo mentre, nella parte più interna e
verso il torrente Vellone, ad aratorio vitato e
bosco misto. Dal XVII fino al XVIII sec. tutta la
Castellanza di Masnago, ove è inserito il parco, è legata alle vicende della famiglia Castiglioni, proprietaria anche del limitrofo castello
di Masnago, noto oggigiorno come Mantegazza. Dal Catasto Teresiano del 1750 risulta che
in parte ne fu proprietaria anche la famiglia
dei nobili Bianchi d’Adda.
Le origini dell’attuale Villa Baragiola risalgono
al 1804 allorquando Andrea Baragiola De’Bustelli (1754-1823), avvocato del Canton Ticino,
acquistò una cospicua quantità di fondi e case
da massaro (mezzadro) situate tra l’odierna
piazza Ferrucci e l’area un tempo occupata
dall’antico cimitero di Masnago. La proprietà
crebbe con ulteriori acquisizioni di terreni sino
ad annettere l’intero dosso collinare attualmente compreso fra le attuali vie Caracciolo,
Saffi, Borghi, Bolchini, per merito del figlio di
Andrea, Pietro Baragiola, che nell’agosto del
1824 riunì in un’unica proprietà le varie parti che costituiranno la Villa ed il Parco. Dal
catasto lombardo si rileva che la proprietà si
estendeva, quindi, ben oltre gli attuali confini,
compreso il Vecchio Camposanto al quale era
possibile accedere mediante una stradina che
lo congiungeva alla Chiesa passando per la
proprietà. Da molti anni al posto del cimitero
vi è un’attività commerciale. Nel piazzale di
carico delle merci rimane una pregevole torre
funeraria neogotica della famiglia Baragiola.
Dopo la morte di Pietro, case e terreni passarono al genero Giovanni e quindi a suo nipote
Andrea Baragiola De’ Bustelli (1861-1899).
Nato a Como, conseguito il diploma di scuola
superiore, costui si trasferì dapprima a Milano
e poi a Torino. Nel 1886, laureatosi in legge, si
diede alla professione forense. Nel 1892 ereditò dallo zio banchiere Giovanni Baragiola la
stupenda Villa di Masnago, da lui poi ribattezzata Villa Emma in omaggio alla moglie Emma
Ronzini. Iniziò, quindi, la trasformazione dei
fabbricati rustici nella suddetta villa padronale
e dei fondi agricoli in parco paesaggistico. Del
complesso la parte più interessante della villa
era rappresentata proprio dal parco, costituito
da una parte inferiore, a contatto con l’edificio, attrezzata a lago artificiale da percorrere
anche con barche. Il lago non è più esistente:
fu interrato per la costruzione del fabbricato
longitudinale a tre piani detto “lo steccone”,
del 1951 ca., destinato dapprima ad aule per
seminaristi, oggi ad uffici del Comune di Vare-
se. La collina esposta a sud-ovest, invece, raccoglieva i più fastosi accorgimenti del parco
all’inglese: collezionismo botanico, berceaux,
viali curvilinei e sinuosi nel quale si trova una
lunga scalinata prospettica su modello di villa Cicogna a Bisuschio, ispirata, invece, alla
tradizione tardo-rinascimentale. Andrea offrì
il terreno per la costruzione dell’ippodromo a
favore della Società Varesina per le corse di
cavalli allo scopo di realizzare un nuovo ippodromo in sostituzione di quello ‘storico’ di Casbeno (1878) sito di fianco alla Villa Recalcati
(a quel tempo Grand Hotel Excelsior), divenuto
inadeguato in breve tempo. Quello dei coniugi
Baragiola fu uno dei primi d’Italia, inaugurato il
3 ottobre 1895, sviluppato su un’area di oltre
70.000 mq. (7 ettari) dall’Ingegnere milanese
Giulio Valerio. Ove si seguivano le corse dei
cavalli ora ci sono il Parcheggio di Piazzale De
Gasperi (2000). Ove c’erano le tribune, ora vi
è un complesso residenziale, un supermercato e la rotatoria di Piazza Mafalda di Savoia
con l’obelisco dedicato a Salvo d’Acquisto. In
quel periodo Varese contava 14.161 abitanti
(anno 1881), impegnati nella costruzione delle
ville S. Francesco Veratti, Pirinoli, Ponti, Dandolo Oppliger, Augusta, Mirabello, Barbò-Strada-Leonino (la odierna “La Quiete”), BellottiBaroggi, Esengrini-Montalbano, Torelli-Mylius,
De Cristoforis - San Pedrino etc., con parchi
ancora miracolosamente esistenti. Nel 1911
la popolazione era salita a 20.754 unità, la
stessa che vide costruire le testimonianze più
gloriose della Città Giardino, ovvero il Kursaal
(1905), il Grand Hotel Palace (1913), il Grande
Hotel Campo dei Fiori (1912) con la funicolare
e tutte le opere di viabilità stradale e ferroviaria necessarie. Fanno parte di questo periodo
i parchi di villa Agosteo, villa Ambra, villa Margherita, villa Moretti, villa Brusotti, villa Podreider, villa Adele etc. L’ippoddromo dei Baragiola
terminò la sua attività al termine della Bella
Epoque, due anni prima dello scoppio della
Grande Guerra (1914-1918), soppiantato dal
più grande centro ippico alle Bettole.
Poco sembrerebbe aver inciso la vicenda ippica sull’articolazione del parco, ancora caratterizzato da orti e aratori vitati sul versante meridionale e da boschi cedui, prati e aratori su
quello settentrionale. Andrea Baragiola morì
prematuramente nel 1899, pare in duello, e
gli interventi di trasformazione proseguirono
nel corso del ‘900 ad opera della vedova Signora Emma che decise “in omaggio al marito,
di proseguire i grandi lavori già iniziati a Masnago dal defunto consorte”, sino al 1925, anno
della morte di quest’ultima. È di quegli anni il
gazebo ottagonale in ferro sormontato da rose
rampicanti e ospitante dei troni con dei leoni
alati a guisa di sostegni laterali e braccioli. Il
complesso fu allora venduto al banchiere Giacomo Tedeschi. In questo periodo la Villa fu
ristrutturata completamente dall’Ing. Alfredo
Speroni (progettista di Villa Toeplitz) e rinominata Villa Alessandra in onore della signora
Alessandra Pecchio.
La bella dacia in stile ungherese, “Chalet in
legno per soggiorno invernale”, che svetta
sul colle, risale al 1932. Il 30 settembre di
quell’anno i figli di Giacomo Tedeschi, Guido e
Mario, ereditarono Villa e Parco in parti uguali. Già nel 1935 furono ceduti al Comune di
Varese i terreni attualmente occupati dallo
stadio comunale “Franco Ossola”. Oberato dai
debiti, tra il 1941 ed il 1942 Guido cedette
la sua parte a quattro religiosi: i Monsignori
Giuseppe Sala, Giuseppe Peconi, Mario Motta e Don Francesco Forlani. Già nel 1942, su
progetto dell’Ing. Giovanni Maggi, lo stesso
ideatore del Collegio di Sant’Ambrogio di Bosto e dell’imponente Seminario di Venegono,
venne costruito il “sopralzo di un piano alla
casa esistente” come da specifica richiesta del
Seminario di S. Martino al Podestà di Varese.
Acquistato dal Seminario Arcivescovile di Milano, la proprietà fu utilizzata fino al 1991 quale
sede scolastica con convitto nell’edificio a tre
piani a pianta rettangolare del dopoguerra. La
villa, ornata negli anni ’40 con la scritta Humilitas e la corona della famiglia Borromeo, era
adibita a rettorato e alloggi. All’interno della
dacia furono ricavate le abitazioni degli insegnanti del Seminario; il primo piano era infatti
dotato di stanze da letto, ciascuna provvista di
bagno privato.
Dopo un decennio di abbandono, dal febbraio 2001 tutto il compendio è di proprietà del
Comune di Varese che lo ha parzialmente destinato a finalità istituzionali dell’Ente: nello
“steccone” ove prima v’erano le aule scolastiche, ora vi sono una sede espositiva/museale
e una parte degli uffici tecnici comunali. La
villa è in attesa di restauro conservativo.
Tutte le trasformazioni sopra citate sono riconoscibili anche dal confronto dei rilievi aerofotogrammetrici del 1934 e del 1953 dell’Ing.
Nistri: negli anni ’30, a parte il vecchio caseggiato a corte, ben appaiono delineati il fabbricato della dacia sul colmo della collina ed
i numerosi e sinuosi vialetti interni, almeno
sino alla linea di demarcazione in corrispondenza del Vellone. Nell’aerofotogrammetrico
del 1953 la vecchia casa a corte di villeggiatura figura già sostituita dall’attuale fabbricato
longitudinale adibito a Collegio.
L’articolazione del parco con le piantumazioni
ed i vialetti rimane pressoché inalterata dalla
situazione del 1934 a quella odierna. Il parco,
sul declivio che dalla villa conduce alla dacia lignea, recentemente restaurata, è chiaramente
d’impronta paesistica, caratterizzato dall’inserimento di specie esotiche fra le quali spicca
una monumentale sequoia gigante (Sequoiadendron giganteum), varietà insolite di faggi e
secolari duglasie (Pseudotsuga menziesii). Sul
versante nord che guarda il Sacro Monte vi
è un lembo di autoctono querco-carpineto in
cui dominano la rovere, la farnia ed il carpino bianco. In prossimità del Vellone aumenta la presenza di frassino maggiore, acero di
monte, ciliegio selvatico. Nel prato da foraggio
posto fra la via Borghi, residuo dell’antico ippodromo dell’epoca Liberty ed il pendio boscato, verrà ricavata una vasca di espansione del
torrente Vellone, con ripristino delle condizioni
paesaggistiche attuali, a limitare i danni da
esondazioni provocate da uno sviluppo urbanistico disordinato della città durante il glorioso
sviluppo industriale. In un periodo di forte inurbazione ed immigrazione degli anni ’60 e ’70,
i varesini arrivarono a 79.019 abitanti (anno
1968), ovvero con una popolazione operaia e
impiegatizia quattro volte più numerosa rispetto a quella dei tempi della città aristocratica,
borghese e contadina che andava a vedere le
corse dei cavalli all’ippodromo dei Baragiola.
Dopo una crescita fino a 91.000 abitanti (anni
’90), una impermeabilizzazione selvaggia del
suolo, la copertura e riduzione di alvei dei torrenti che impongono onerose opere idrauliche
preventive, anche all’interno del Parco Baragiola, i varesini sono tornati quantitativamente
a circa 50 anni fa (ab. 79.333 come da dato
ISTAT, al primo marzo 2013). Ove prima c’era
un ippodromo ora c’è una città. Fortuna vuole che il suolo ospitante il parco della Sig.ra
Emma Ronzini si sia conservato per la più parte e che sia a disposizione dei varesini grazie
ad un investimento lungimirante.
DESCRIZIONE BOTANICA
1. ABETE DI DOUGLAS o DOUGLASIA
VERDE
*Fam. Pinaceae
Pseudotsuga menziesii (Mirbel.) Franco (= P.
douglasii (Lindl.) Carr.)
Proveniente dalla costa pacifica degli USA e
dalla Sierra Nevada californiana, raggiunge
notevoli altezze, sui 50-70 m; ha portamento
simile all’abete rosso, con chioma molto fitta
e fusto slanciato; la corteccia diventa rosso
bruna negli esemplari adulti; gli aghi, appiattiti,
di colore verde brillante o scuro, disposti in 2
serie diversamente inclinate, hanno consistenza erbacea e punta arrotondata; i fiori sono
piccoli, solitari o a gruppi, verdi i femminili,
giallo arancio i maschili; i coni, lunghi 6-8 cm,
sono penduli, con brattee trifide sporgenti dalle
squame, e cadono interi a terra dopo la disseminazione. Ha importanza sia come pianta forestale per l’utilizzo del legno (soprattutto nel
Paese d’origine) sia come pianta ornamentale.
Deve il suo nome al collezionista di piante David Douglas che ne introdusse i semi in Europa
nel 1827.
2. ACERO CAMPESTRE
*Fam. Aceraceae
Acer campestre L.
Poco citati nei testi antichi a causa del carattere funesto attribuito al colore rosso sangue
delle foglie della varietà acero sicomoro in
autunno, nella mitologia greca erano considerati alberi di Fobos, il dio della Paura. Per
questo motivo i Greci preferivano il platano le
cui foglie, pur molto simili, non assumono quel
colore sinistro. L’acero campestre è di piccole dimensioni, raramente supera i 15 m di altezza, con tronco spesso contorto, a crescita
lenta e longevità di 150 anni. I rametti sono a
volte muniti di creste suberose, le foglie sono
piccole, a 5 lobi con apici arrotondati, di color giallo intenso in autunno; i fiori, riuniti in
grappoli, compaiono insieme alle foglie; i frutti, detti samare, sono caratteristici, in quanto
provvisti di due “ali”, disposte a 180°. Ha un
vasto areale comprendente gran parte dell’Europa fino all’Inghilterra e al sud della Svezia, la
Russia centrale, l’Asia minore e l’Iran; in Italia
è presente in tutta la penisola e le isole, dalla macchia mediterranea fino alla zona delle
querce e del castagno. Spesso era mantenuto
isolato nei campi coltivati ad indicare i confini
tra gli appezzamenti
3. ALBERO DI GIUDA
*Fam. Fabaceae
Cercis siliquastrum L.
Albero a foglie decidue, originario delle regioni
orientali del Mediterraneo e dell’Europa meridionale; viene piantato frequentemente come
albero ornamentale in tutta l’Europa. Raramente lo si trova rinselvatichito nelle nostre
regioni. Può raggiungere un’altezza di 12 m,
ma generalmente si mantiene più basso e si
presenta ramificato a poca distanza dal suolo. I fiori, rosa intenso, sbocciano, molto nu-
merosi, in aprile e maggio sui rami vecchi e
perfino direttamente sul tronco (fenomeno detto caulifloria). I frutti sono baccelli e possono
misurare anche 10 cm di lunghezza: in estate,
maturando, assumono talvolta una colorazione
rosa vivo tendente al violaceo. Le foglie sono
arrotondato-cuoriformi o reniformi, alterne. Secondo varie leggende il suo nome deriverebbe
dal fatto che Giuda si impiccò ai suoi rami, oppure che i fiori rappresenterebbero le lacrime
di Gesù per la perfidia di Giuda.
4. BETULLA
*Fam. Betulaceae
Betula pendula Roth (= B. alba Ehrh., B. verrucosa Ehrh.)
Albero caducifoglio alto sino a 30 m, che può
raggiungere i 70 cm di diametro e i 100 anni di
età. Ha chioma molto leggera, con rami secondari penduli e flessibili, corteccia bianca che si
distacca in sottili foglietti papiracei, foglie romboidali, lunghe 2-7 cm, doppiamente dentate ai
margini, di colore verde chiaro, gialle in autunno; i frutti sono riuniti in infruttescenze cilindriche pendule, che a maturità liberano piccole
samare circondate da un’ala membranosa. Il
suo areale comprende Europa e Siberia in cui
forma estesi boschi puri, mentre più a sud ha
importanza secondaria e lo si trova associato ad altre specie. In Italia è diffuso principalmente su Alpi e Prealpi, meno frequente sugli
Appennini spingendosi comunque fino all’Etna,
dove esiste una varietà endemica (var. Aetnensis).
Di colore bianco è simbolo di luce e purificazione. Non a caso uno dei suoi utilizzi, nelle
saune scandinave e nei bagni turchi russi, prevedeva la fustigazione coi rami per stimolare
la circolazione e l’eliminazione delle tossine
dal corpo attraverso la traspirazione. Forse è
per questo motivo che, a Roma, i fasci intorno all’ascia che i littori portavano davanti ai
magistrati dell’imperium (il potere supremo)
erano composti da verghe di betulla. Questi
rappresentavano anche la flagellazione, ovvero
la purificazione del colpevole, dal cui corpo si
faceva uscire il male. Pur essendo una minaccia per lo più virtuale, portandole, i littori purificavano l’aria davanti ai magistrati. La betulla
era protagonista nelle cerimonie sciamaniche
siberiane, durante le quali i sacerdoti si arrampicavano su di essa per penetrare nella celeste dimora degli dèi e così ottenere guarigione
e prosperità. Pare che il segreto della funzione
dell’albero in questi rituali stia nel fatto che,
allo scopo di entrare in trance, gli sciamani assumessero un fungo, l’Amanita muscaria, che
vive in simbiosi con le radici della betulla. Il
suo consumo infatti, dopo un primo periodo di
sonnolenza, stimola chi l’assume a compiere
alte gesta fisiche. Nelle credenze popolari l’amanita, chiamata anche ovolaccio, è collegata
al rospo, animale delle streghe in rapporto da
una parte con le tenebrose potenze infernali e
dall’altra con la luna e la pioggia (così anche
per la betulla). Non a caso, in inglese, uno dei
termini vernacolari usati per designare l’amanita si traduce in “trono di rospo”. Sempre in
Siberia, una credenza popolare molto diffusa
attesta che lo spirito della betulla sarebbe
una donna che, in seguito all’invocazione di
un fedele, appare talvolta fra le radici dell’albero o nell’atto di uscire dal tronco. Rivelatasi
fino alla vita, con i capelli sciolti, tenderebbe le
braccia verso il credente, fissandolo con occhi
seri ed offrendogli il seno nudo. L’uomo, dopo
averne bevuto il latte, sente decuplicate le sue
forze. Questo fa pensare che in realtà si tratti
dello spirito dell’amanita.
5. BOSSO
*Fam. Buxaceae
Buxus sempervirens L.
Arbusto o piccolo albero sempreverde che
può raggiungere anche i 10 m di altezza; ha
crescita lenta ed elevata longevità, potendo
arrivare fino a 600 anni di età. Ha foglie opposte, piccole (10-25 mm), a margine intero e
leggermente ricurvo verso la pagina inferiore,
di colore verde scuro lucente sulla pagina superiore e più chiaro su quella inferiore. Viene
molto utilizzato allo stato arbustivo per la creazione di siepi e in “ars topiaria”. Il suo areale
comprende le regioni del Caucaso fino a tutta
l’Europa meridionale, spingendosi, lungo le
coste atlantiche, fino all’Inghilterra; allo stato
spontaneo lo si trova, sporadicamente, nei boschi di querce, più frequentemente di roverella.
Emblema della castità per la sua caratteristica
di autofecondarsi con notevole discrezione,
era opposto al mirto, le cui foglie somigliano a
quelle del bosso, che era invece consacrato ad
Afrodite. Agli uomini era quindi vietato deporre
i suoi rametti sugli altari della dea dell’amore,
pena la perdita della virilità. Il suo legno durissimo rappresentava per gli antichi la fermezza
e la perseveranza e, per questo motivo, ancora oggi viene utilizzato nella fattura di martelli
nelle logge massoniche. Era inoltre oggetto di
un culto arcaico dell’albero, dedicato ad Ade,
dio degli Inferi, e soprattutto alla dea Cibele
che, nel pantheon greco, incarnava la potenza
selvaggia della vegetazione scaturita dalle profondità sotterranee.
6. CASTAGNO
*Fam. Fagaceae
Castanea sativa Mill.
Albero che assume portamento maestoso, con
chioma espansa e rotondeggiante quando ha
molto spazio libero intorno, alto mediamente 15-20 m, talora anche 30 m con 6-8 m di
diametro; è anche assai longevo potendo raggiungere e superare i 400-500 anni di età. Le
foglie, decidue, lunghe 12-20 cm, dai margini
dentati, sono ellittico-lanceolate con apice brevemente acuminato, di consistenza coriacea e
di colore verde intenso; i fiori sono portati in
lunghi amenti, dal caratteristico e penetrante
odore emanato da quelli maschili. Il frutto è
racchiuso nel caratteristico riccio. L’areale originario è di difficile determinazione, in quanto il
castagno è stato coltivato fin dall’antichità, per
l’utilizzo del legno e del frutto: allo stato spontaneo lo si trova in un’ampia area gravitante
sul Mar Mediterraneo orientale, con limite settentrionale costituito dai Pirenei, dalle Alpi e
dal Caucaso. Se ne può ammirare uno monumentale sulle pendici dell’Etna, nel comune di
Sant’Alfio (Catania), a 700 m s.l.m. Nel tronco cavo di questo albero millenario era stata
ricavata una rientranza in cui, nel XVI secolo,
Giovanna d’Aragona, per sfuggire ad un temporale, si rifugiò sotto le sue immense fronde con
tutto il seguito e da allora prese il nome di “castagno dai cento cavalli”. Successivamente,
al suo interno, venne costruita una casettina
con un forno, alimentato coi pezzi della pianta stessa, per cuocerne i frutti; alla lunga un
simile trattamento lo danneggiò al punto che
l’enorme tronco si divise in tre.
7. CILIEGIO SELVATICO
* Fam. Rosaceae
Prunus avium L.
Il ciliegio è la rosacea europea di maggiori dimensioni e di maggiore interesse per il legno.
Può raggiungere i 25 m di altezza e i 100 anni
di età, ha corteccia bruno rossiccia che si sfoglia orizzontalmente, foglie caduche grandi,
pendule e dentate; la fioritura avviene prima
dell’emissione delle foglie, per cui i ciliegi appaiono come nuvole bianche in mezzo ai boschi ancora spogli, dove è comune incontrarlo, dal piano submontano a quello montano.
Presente in tutta Europa fino ai Pirenei e alla
Spagna atlantica, alla Gran Bretagna e al sud
della Scandinavia; assente in Sicilia. Da esso
derivano numerose varietà da frutto. Il ciliegio
selvatico, a quanto pare, non è una specie
indigena: è assai probabile che il suo areale
d’origine si situi intorno al mar Caspio; furono
gli uomini e, in parte anche gli uccelli, in tempi
preistorici, a propagarlo nell’Europa occidentale. Il vero ciliegio (Prunus cerasus L. o Prunus acida Gaertn.), invece, ha origine in Asia
anteriore, dove era coltivato da tempo, ma in
data più recente. Secondo Plinio il Vecchio, a
portarlo a Roma nel 73 a.C. fu Lucio Licinio Lucullo che, allora console, vinse Mitridate (re del
Ponto, regione storica che si estendeva nella
zona nordorientale dell’Asia Minore) e il suo regno, dove il ciliegio era coltivato maggiormente
nella regione di Cerasunte, sul mar Nero. È assai probabile che la specie abbia tratto il suo
nome latino da quello della città, infatti la parola cerasus indica l’una e l’altra. Pare tuttavia
che i Greci lo conoscessero da molto tempo:
Aristotele e Teofrasto lo citavano già nel secolo IV a.C., cosa che non sorprende affatto,
dal momento che Cerasunte era stata colonia
greca. Assai rare nel nostro folclore sono le
credenze relative a questo albero. Un tempo i
contadini usavano cingere i ciliegi con un cordone di paglia intrecciata, durante il solstizio
d’inverno, per minacciare quegli alberi che non
avevano fruttificato abbastanza di badare bene
a farlo l’anno seguente, pena l’abbattimento.
La minaccia magica, che presuppone che gli al-
beri siano provvisti di una coscienza, ha origini
preistoriche. Nel folclore germanico e slavo lo
si credeva visitato da creature malvagie, come
il demone Kirnis, in Lituania, che impedivano di
avvicinarglisi. Probabilmente si tratta di una variante dell’universale motivo del frutto proibito,
custodito spesso da serpenti. Al contrario, in
Giappone, il ciliegio è oggetto di un vero e proprio culto, lo shintoismo, religione della natura.
In questo caso si tratta di specie dai frutti non
commestibili, selezionate in base alla bellezza
dei fiori. Lo sbocciare di questi, dopo l’equinozio di primavera, è occasione di festeggiamenti
e cerimonie religiose in cui si rende grazie agli
dèi per la promessa di una beatitudine eterna. La figura del ciliegio, fragile ed effimera,
simboleggia anche la precarietà dell’esistenza
terrestre; la ciliegia rosso sangue è diventata
l’emblema del samurai, pronto in ogni istante
a sacrificare la propria vita.
8. FAGGIO
*Fam. Fagaceae
Fagus sylvatica L.
Albero che raggiunge i 30-35 m di altezza con
diametro anche superiore a 1,5 m; normalmente può vivere sino a 150 anni di età, ma in
circostanze particolarmente favorevoli può raggiungere anche 300 anni. La pianta si riconosce facilmente per la corteccia grigia e liscia,
le foglie ovali dal margine intero e leggermente ondulato di colore verde scuro a maturità e
rossastre in autunno; i frutti, detti faggiole, a
maturità si aprono in 4 valve liberando 2 semi.
Il faggio è una delle specie più importanti in
Italia sia per l’estensione dei suoi boschi sia
per l’uso del legno nell’industria del mobile,
nonché per la sua bellezza ornamentale; è
specie esclusiva dell’emisfero settentrionale
ed è presente in tutta Europa, dalla Spagna
all’Ucraina, fino alla Norvegia meridionale. Un
tempo si utilizzava la corteccia del faggio, febbrifuga e tonica, anche contro la dissenteria. Il
catrame del suo legno, distillato a secco, il creosoto, potente antisettico scoperto nel 1832
da Reichenbach, viene usato dall’industria
farmaceutica come disinfettante dei polmoni
nella composizione di molti sciroppi. La varietà
Asplenifolia, ornamentale, si caratterizza per le
foglie a margine molto inciso e lamina stretta;
il faggio pendulo, a differenza delle altre varietà, che si distinguono per il colore e la forma
delle foglie, si caratterizza per il portamento
del fusto e dei rami, eretto fino a una certa altezza e poi piangente; il faggio rosso ha foglie
di colore porpora al momento dell’emissione e
violetto scuro a maturità.
Nell’antica Roma l’esistenza di un quartiere
chiamato Fagutal, che ancora prima era stato un bosco sacro di faggi (secolo I a. C.), fa
pensare che in epoche remote il faggio fosse
oggetto di culto. Così, anche cento anni più tardi, all’epoca di Plinio, di fianco ad un faggio
sacro si trovava un tempio dedicato a Jupiter
Fagutalis (dal latino fagus). In Lorena e nelle
Ardenne lussemburghesi si credeva che non
ci fosse folgore che potesse colpire questo albero, cosa che lo metteva in contrapposizione
con la quercia e il frassino.
In un settore geograficamente limitato che
comprende la Francia orientale, la Svizzera e
la Baviera, la naturale apparizione di esemplari
dalle foglie porporine destava l’emozione popolare; si credeva fosse un segno di deplorazione divina per l’annuncio di feroci battaglie
o per il sangue versato di un delitto. Ancora
oggi, nella foresta di Verzy, in Francia, si possono ammirare dei vecchissimi esemplari di faggio i cui tronchi e i rami più bassi formano un
ammasso confuso di linee contorte e ritorte,
malformazioni dovute ad una presunta mutazione provocata dalla caduta di un meteorite
radioattivo, avvenuto moltissimo tempo fa. A
Terranova di Pollino, in Lucania, nel mese di
giugno si svolge la festa della Pita, rito arboreo
piuttosto antico celebrato in onore di Sant’Antonio da Padova. Nonostante Pita, nel dialetto
locale, designi il nome dell’abete, spesso è il
faggio a fare da protagonista. Si tratta della
rappresentazione rituale dell’unione tra due
piante, una di sesso maschile (solitamente un
abete o un faggio), l’altra di sesso femminile
(una “cima” generalmente sempreverde). Entrambe vengono tagliate e, mentre la “sposa”
viene doverosamente ornata con fiori e nastri,
il faggio “sposo”, viene pulito dai rami, dalla
corteccia e levigato. Il faggio e la cima vengono
poi innestati, a sigillare il loro “rudimentale”
matrimonio, simbolo arcaico di rigenerazione
della natura, auspicio di fertilità. In seguito
vengono innalzati e i più coraggiosi, a suon di
braccia, si dilettano nell’arduo tentativo di raggiungere la cima. I faggi che troviamo nei giardini ottocenteschi (“romantici”, “all’Inglese”)
sono spesso delle varianti della specie selvatica (morfotipi selezionati e riprodotti a scopo
ornamentale), ricercate dalle famiglie facoltose proprio per la loro diversità rispetto alla
forma rurale: così s’incontrano i faggi a foglia
di felce (F.s. “Asplenifolia”); a foglie profondamente e regolarmente dentate (F.s. “laciniata”
o “heterophylla”); a foglie rosse (F.s. “Purpurea”); tricolori (F.s.”Tricolor”); gialle dorate (F.s.
“Zlatia”); a ramificazione pendula-piangente
(F.s. “Pendula”) o addirittura colonnare (F.s.
“Dawyck”); nana e prostrata (F.s. “Cochleata”);
a corteccia rugosa (F.s. var. “Quercoides”).
Purtroppo, negli ultimi 15 anni, decine di faggi, amanti del clima oceanico, intristiscono
con vistose microfillie, colpiti spesso da cancri
(lesioni) alla fragile corteccia devitalizzata dal
sole cocente del 2003 e del 2005 che li ha
predisposti ad attacchi di parassiti secondari
altrimenti confinati (carie del legno, marciumi
radicali, cancri rameali etc.). “Le temperature
registrate in Giugno e in Agosto sono RECORD.
Anche Luglio è stato molto caldo, ma ci sono
stati anni con temperature più alte. Record anche i 35° di giugno e 36° di Agosto. Nel complesso l’Estate 2003 è stata la più calda dal
1965 grazie alle temperature dei mesi di Giugno e di Agosto – Le precipitazioni totali dell’Estate hanno raggiunto i 285.7 mm - contro una
media estiva in 37 anni di 415,2 lt/mq - tra le
più secche dal 1965” con un deficit di 129,5
lt/mq” come da dati in possesso del Centro
Geofisico Prealpino. La ancor peggiore siccità
del 2005 con maggio di oltre 2 gradi più caldo
della media e un deficit di acqua mensile di –
98,8 lt/mq quando la vegetazione era in pieno
sviluppo; tra giugno e agosto il deficit idrico,
rispetto ai dati registrati dal 1965, è di 171,7
lt/mq. Si ricorda che ad agosto 2005 vi fu l’abbassamento eccezionale del livello del lago di
Varese pari a – 1,5 m dallo zero idrometrico
che fece seccare molti secolari carpini bianchi
sull’Isolino Virginia. Le siccità estive 20032005, alle quali si aggiunge il calore estremo
di luglio 2015, sono state terribili anche per
l’anziano patrimonio botanico varesino: le conseguenze sono state immediate ma si notano
ancora a distanza di anni, come è normale avvenga con gli alberi: A subirne maggiormente
gli effetti i soggetti anziani, patriarchi, radicati
nei centri urbani, affetti da malattie croniche,
vulnerabili agli effetti delle alte temperature
e delle ondate di calore in funzione della «suscettibilità» individuale (stato di salute, caratteristiche ambientali), della capacità di adattamento e del livello di esposizione (intensità e
durata)”. Come per l’uomo. In tutta la città di
Varese, invero, è evidente che vi siano vistosi
e documentabili segni di deperimento a carico
di alcune specie che denotano un precoce invecchiamento multifattoriale non escluso il termine della loro vitalità e vigoria in un ambiente
estraneo da migliaia di anni se non da qualche
milione di anni alla zona d’origine.
9. FAGGIO A FOGLIE DI FELCE
*Fam. Fagaceae
Fagus sylvatica L. “Asplenifolia”
Questa varietà di faggio, ornamentale, si caratterizza per le foglie a margine molto inciso e la
lamina stretta. La coppia di faggi monumentali
del laghetto dei cigni, datato 1846 ca. ad opera dell’allora proprietario Carlo Pellegrini Robbioni, dei quali uno a foglia di felce l’altro a foglie rosse, è stata decritta fin dal 29 agosto del
1873 dal “Corriere di Milano”. Al pari del vicino
Ginkgo biloba, i due esemplari furono messi a
dimora da Cesare Veratti, nipote del Robbioni,
proprietario dei Giardini Estensi dal 1850 al
1882. Il faggio rosso è stato gravemente ferito
da un forte vento di tramontana l’11 novembre
2013 che ha provocato la rottura di un grosso
tronco codominante. Il suo controllato mantenimento temporaneo è necessario alla salvaguardia del vicino faggio coetaneo: si teme che
un repentino isolamento di quest’ultimo possa
condurlo rapidamente a morte per eccessiva
insolazione del tronco e conseguente devitalizzazione della fragile corteccia. Altri due esemplari che versano in pessime condizioni fitosanitarie, l’uno nei pressi della Villa padronale
di Giuseppe Toeplitz, per il quale è già stata
prevista la sostituzione, l’altro all’ingresso del
parco Baragiola.
10.FAGGIO ROSSO
*Fam. Fagaceae
Fagus sylvatica L. f. purpurea (Ait.) Schneid.
Il faggio cultivar “Purpurea” ha foglie di colore
porpora al momento dell’emissione e violetto
scuro a maturità. Si rinvia a quanto detto per
il faggio a foglia di felce per quanto riguarda i
Giardini Estensi. Al parco Toeplitz un patriarca
è in fase di sostituzione dopo una lenta agonia
le cui ragioni sono indicate nella parte generale riguardante la specie. Miglior stato di salute
mostrano due monumentali faggi rossi, uno
nei pressi del Castello Mantegazza e l’altro a
monte della Villa Baragiola. Discreto lo stato
fitosanitario di tre esemplari del parco Augusta, perduti per sempre altri due soggetti dopo
il fortunale del 13 luglio 2011 che s’abbattè
su Giubiano, prontamente sostituiti con giovani
piante.
11. MANDORLO
*Fam. Rosaceae
Amygdalus communis L. / Prunus dulcis
(Mill.) D.A. Webb
Pianta molto longeva, raggiunge gli 8-10 m
d’altezza. I rami, di colore grigiastro, portano
gemme a legno e a fiore che possono essere
isolate o a gruppi di 2-3 e diversamente combinate. Le foglie sono lanceolate e seghettate; i
fiori, bianchi o leggermente rosati, compaiono
fra gennaio e marzo, sono ermafroditi, costituiti
da 5 petali, 5 sepali e da 20-40 stami. Il frutto
è una drupa che presenta esocarpo carnoso,
di colore verde, a volte con sfumature rossa-
stre, spesso peloso, talvolta glabro, ed endocarpo legnoso contenente il seme, la mandorla. È originario dell’Asia centro occidentale e,
marginalmente, della Cina. Venne introdotto in
Sicilia dai Fenici, provenienti dalla Grecia, tanto che i Romani lo chiamarono “noce greca”.
Si diffuse in seguito anche in tutti i paesi del
Mediterraneo. Albero modesto, dalle dimensioni ridotte, si nota principalmente nel periodo
della fioritura, ma è il suo frutto, la mandorla,
ad essere protagonista di credenze e miti. La
parte commestibile del frutto, racchiusa in un
robusto guscio, ha fatto sì che per molti popoli diventasse simbolo dell’essenziale celato
sotto l’apparenza. Così tutti gli esoterismi, da
quello ebraico al musulmano, usarono proprio
la mandorla per rappresentare il cuore dell’essere divino nell’uomo. Per il Cristianesimo la
mandorla è il Cristo, la cui natura divina resta
celata dalla natura umana, o ancora prima, nel
corpo della Vergine Madre. Per questo motivo,
nell’iconografia medievale, la figura sacra del
Cristo e, talvolta, della Vergine, sono rappresentati nel seno della mandorla mistica, che
simboleggia inoltre la luce da loro emanata,
la loro aura. Secondo una tradizione ebraica
è proprio ai piedi di un mandorlo che si troverebbe la via d’accesso alla misteriosa città
sotterranea di Luz (“mandorla” in ebraico),
dimora di immortalità, dove Giacobbe ebbe la
sua famosa visione. Nel linguaggio dei mistici,
così come nel folclore, la mandorla ha sempre
rappresentato il segreto che è insito nell’uomo, la vita nuova che è immortalità. Troviamo
la mandorla, nel mito orientale di Attis, rappresentare il seme sparso da Zeus che diede
nascita all’ermafrodito Agdisti, poi castrato
dagli dèi, dal cui sangue nacque un mandorlo
(in altre versioni l’albero è un melograno). Il
frutto di questo albero, mangiato dalla vergine
Nana, fecondandola, diede origine al dio Attis.
Nei tempi eroici, Fillide, figlia del re di Tracia,
aspettando invano l’amato Acamante, morì di
crepacuore o impiccandosi, a seconda delle
versioni, e si trasformò in mandorlo per volere
di Era, dea degli amori fedeli. Quando Acamante giunse, trovando la sua amata tramutata
in albero, l’abbracciò e sui rami, ancor prima
delle foglie, come accade per questa essenza,
apparvero degli incantevoli fiori bianchi.
12. NOCE COMUNE
*Fam. Juglandaceae
Juglans regia L.
Albero con fogliame deciduo alto sino a 30 m,
con chioma globosa espansa, di colore verde
chiaro; tronco ramoso, presto diviso in grosse
branche, con corteccia di colore grigio-crema
chiaro liscia, fessurata sulle piante vecchie.
Le foglie, aromatiche, sono imparipennate,
lunghe15-25 cm, composte da 5-7-9 foglioline
ovali, ellittiche, con foglia terminale più grande;
dapprima di colore bronzo, poi verde chiaro. Infiorescenze maschili in amenti giallo verdastri,
lunghi fino a 10 cm, penduli, sui rami dell’anno
precedente, i femminili composti da 3-5 fiori
di 1 cm, all’ascella delle foglie terminali dei
ramuli nuovi, sulla stessa pianta. Fiorisce in
maggio-giugno. I frutti sono drupe globose di
4-5 cm di diametro, con superficie liscia, verde, con all’interno un seme globoso (noce) che
contiene due gherigli oleosi commestibili. Originario dell’Asia minore, fu introdotto in Europa
già al tempo degli antichi Greci; comunemente
coltivato in tutto il territorio italiano sia per il
legno, pregiato, sia per il frutto. Può raggiungere 150-200 anni di età. Votato alle divinità
infernali e sempre rimasto tale, pare che fosse consacrato a Kar o Ker, misteriosa divinità
della morte, presso i Greci la fanciulla rapita
da Ade e divenuta dea degli Inferi col nome di
Persefone (Proserpina per i Romani). Nel folclore italiano figura nei racconti di streghe, le
quali, la notte del sabbat (il sabato ebraico), si
radunavano sotto i noci. È doveroso citare il
noce di Benevento, per secoli punto di ritrovo
delle maghe della regione, che si bagnavano
nel vicino fiume chiamato Sabato; albero vecchissimo, scomparve in seguito ad un’opera
di eradicazione voluta dal patrono della città,
il vescovo Barbatus (secolo XVII), nel tentativo di esorcizzare il diavolo, esempio lampante
della lotta del clero contro il culto degli alberi.
Tuttavia, questo noce doveva essere piuttosto
resistente: dopo la morte del vescovo, ad opera demoniaca cocciuta, ne comparve un altro
nello stesso punto. Curiosa è anche la storia
di Caria, figlia di Dione, re di Laconia. Dioniso
si innamorò di lei, ma le due sorelle maggiori,
ingelosite, avvertirono il padre. Fu così che il
dio, indispettito, le fece tramutare in rocce e
Caria, forse preda della tristezza, morì anch’essa e venne trasformata in un noce. Artemide in
persona portò la notizia ai Laconi, i quali eressero poi un tempio ad Artemide Cariatide, le
cui colonne, scolpite nel legno di noce in forme
di donna, furono chiamate cariatidi. Il noce fu
accusato fin dall’antichità di provocare disturbi
alla testa a causa delle sue emanazioni velenose; pare infatti che il nome greco della noce,
kauron, derivi da kara, la testa. Questa superstizione non è però senza fondamento: le radici e le foglie del noce contengono la juglandina,
una sostanza tossica in grado di far morire gli
alberi che si trovano nelle vicinanze.
13. OLIVO
*Fam. Oleaceae
Olea europaea L.
Pianta sempreverde, assai longeva, può facilmente raggiungere alcune centinaia d’anni. Il
tronco è contorto, la corteccia, grigia e liscia,
tende a sgretolarsi con l’età. La chioma, che
assume senza intervento antropico la forma
tipicamente conica, ha foglie lanceolate, coriacee, disposte in verticilli ortogonali tra di loro,
di colore verde glauco e glabre sulla pagina
superiore, mentre presentano peli stellati su
quella inferiore che le conferiscono il tipico colore argentato e la preservano dall’eccessiva
traspirazione durante le calde estati mediterranee. I fiori ermafroditi, piccoli, bianchi e privi
di profumo sono raggruppati in infiorescenze
dette mignole di 10-15 fiori ciascuna. Il frutto è
una drupa ovale che può pesare da 2-3 gr per
le cultivar da olio, fino a 4-5 gr nelle cultivar da
tavola. L’esocarpo (la buccia) varia il suo colore dal verde al violaceo; il mesocarpo (la polpa)
è carnoso e contiene il 25-30% di olio, raccolto
all’interno delle sue cellule, sotto forma di piccole goccioline (è l’unico frutto da cui si estrae
un olio); il seme è contenuto in un endocarpo
legnoso, anch’esso ovoidale, ruvido e di colore
marrone. Sebbene sia considerata una pianta
prettamente mediterranea, grazie alla sua capacità di ambientarsi molto bene nel bacino
mediterraneo (comprendente Italia, sud della
Spagna e della Francia, Grecia e alcuni Paesi
mediorientali che si affacciano sul Mediterraneo orientale) si ritiene sia di origine sud caucasica (12.000 a.C.). Nonostante sembri inse-
parabile dal paesaggio greco, l’olivo ha il suo
habitat originario nell’Asia Minore dove forma
vere e proprie foreste che, partendo dall’Arabia
meridionale, risalgono passando dalla penisola del Sinai, dalla Palestina, la Siria e la costa
meridionale della Turchia, fino ai piedi del Caucaso. Non sorprende perciò trovarne una prima
menzione nei capitoli della Genesi in cui è narrato il Diluvio, dove si racconta di una colomba
che portò a Noè un ramoscello d’olivo a simboleggiare il rinverdimento della vegetazione e la
cessazione dello sdegno di Dio. Fin dalle origini, dunque, l’olivo fu considerato uno dei doni
più preziosi di Jahvé, il simbolo dell’alleanza
con gli uomini. L’olio d’oliva fungeva quindi da
consacrazione, così l’inviato di Dio veniva chiamato il Messia, in ebraico Maschiak, l’Unto del
Signore, tradotto in greco con Kristos, colui che
ha ricevuto l’unzione dell’olio. Albero cosmico
per eccellenza nell’Islam, centro e pilastro del
mondo, rappresenta l’Uomo universale, il Profeta. Viene considerato soprattutto fonte della
luce grazie all’olio che si produce attraverso
la spremitura dei suoi frutti. È anche definito
l’asse immobile del mondo creato, poiché si
ritiene che non sia in rapporto con la rotazione della Terra. Rappresenta inoltre un segno di
alleanza attraverso Abramo, il padre dei fedeli
e antenato comune di Ebrei, Cristiani e Musulmani. Così, salire nell’ulivo sacro significa rientrare nel “seno di Abramo”, ritornare alla fonte.
L’olio veniva adoperato dai greci per i più disparati motivi: grandi quantitativi erano utilizza-
ti per l’illuminazione, se ne faceva utilizzo nella
cura del corpo, nella medicina e nella magia,
veniva adoperato durante la preparazione delle
salme e addirittura se ne ungevano le statue.
I rami dell’olivo selvatico coronavano i vincitori
dei Giochi Olimpici e potevano essere tagliati
solo mediante un falcetto d’oro, da un giovinetto di nobili natali, i cui genitori fossero ancora
vivi. Pare che questa usanza sia entrata in uso
a partire dalla settima Olimpiade, in seguito a
un ordine dato dall’oracolo di Delfi, mentre in
precedenza si usavano rami di melo in frutto
a simboleggiare una promessa d’immortalità.
14. GLI OLMI
*Fam. Ulmaceae
Gen. Ulmus L.
Dal latino ulmus, derivato dalla radice europea
arcaica lm-, pare provenga il nome della prima
donna della mitologia germanica, Embla (il primo uomo invece si chiamava Askr, parola che
designa il frassino cosmico). L’olmo, dunque,
sarebbe un albero sacro ai Germani, femminile
e materno. Per i Greci e i Romani rappresentava l’albero di Oneiros, figlio della notte e dio
dei sogni, o di Morfeo, dio del sonno e delle
chimere, figlio di Hypnos, il sonno e fratello di
Thanatos, il trapasso. Morte, sonno e sogni
erano strettamente legati e pare che l’olmo
fosse il loro albero. Per questo motivo aveva
potere oracolare. L’olmo divenne un albero di
giustizia nel Medioevo, in Francia; si riteneva infatti che le sentenze giudiziarie fossero
ispirate dalla divinità. Era sotto un olmo, sul
poggio del castello, che veniva amministrata la
giustizia; da qui l’espressione francese “aspettare sotto l’olmo” che indicava le persone che,
non presentandosi alla convocazione giudiziaria, si facevano attendere.
OLMO CAMPESTRE
*Fam. Ulmaceae
Ulmus minor Mill.
Grande albero che può raggiungere i 30-40 m
di altezza e i 2-3 m di diametro, molto longevo (fino a 500 anni). Le foglie, caduche, sono
asimmetriche alla base, ovate, doppiamente
dentate al margine, di colore verde carico e
scabre; i fiori, ermafroditi, compaiono prima
delle foglie, sono molto numerosi e disposti
in glomeruli; le sàmare sono costituite da un
seme circondato da un’ala membranacea,
dapprima verdi, a maturità di colore marrone.
L’areale dell’olmo campestre comprende il
centro e il sud dell’Europa dalla Spagna agli
Urali. Purtroppo la specie è stata decimata,
negli ultimi 50 anni, da una malattia provocata dal Graphium ulmi, la grafiosi dell’olmo, una
tracheomicosi diffusa da un insetto scolitide;
pertanto non esistono praticamente più grossi
esemplari. Dannosa per questa specie è inoltre la Galerucella luteola, insetto che si nutre
delle foglie.
OLMO CILIATO
*Fam. Ulmaceae
Ulmus laevis Pall.
Albero caducifoglio originario dell’Europa centro-orientale e Caucaso. Rispetto all’olmo campestre ha foglie molto asimmetriche alla base,
fiori peduncolati e samare (i frutti) densamente ciliate. Introdotto in Italia perché resistente
all’insetto Galerucella luteola.
15. ONTANO NERO
*Fam. Betulaceae
Alnus glutinosa Desf.
Il nome Alnus deriva dal celtico “al” e “han”,
che significa “vicino alle acque”, alludendo al
suo habitat tipico. Albero deciduo di 20-25 m
di altezza con diametro fino a 50 cm, poco longevo (60-100 anni). Ha foglie simili a quelle del
pero, ma più grandi, di forma più o meno ovale,
cordate alla base, con margini a piccoli denti,
verde scuro lucido sulla pagina superiore, più
chiare su quella inferiore; i frutti sono costituiti
da piccoli coni legnosi, che in autunno liberano
i semi, provvisti di una piccola ala, che si disperdono grazie al vento. Considerato fin dalla
più remota antichità l’albero della vita dopo la
morte, nell’Odissea è il primo ad essere nominato dei tre alberi di resurrezione che, nell’isola di Ortigia, formavano un folto bosco intorno
alla grotta della ninfa Calipso; inoltre s’innalzava come una promessa di salvezza nell’isola
di Eea, luogo in cui la maga Circe praticava i
suoi malefici. Nell’antica Grecia l’ontano sacro
si identificava con l’eroe Foroneo, figlio del dio
fluviale Inaco e di Melia, ninfa del frassino, e, si
pensa, fondatore di una comunità umana. Foroneo pare essere stato il primo ad usare sulla
terra il fuoco di Prometeo, se non addirittura
l’inventore. Egli governava tutto il Peloponneso e regnava ad Argo, città di sua fondazione,
dove il suo culto sopravvisse a lungo. Probabilmente un tempo, in Grecia, esisteva quindi un
culto dell’ontano, sopravvissuto solo ad Argo,
di cui, tuttavia, si troverebbe traccia fin nell’Europa celtica: in Irlanda, per citare un esempio,
il taglio di un ontano sacro veniva punito severamente. Albero di carattere funesto, a volte
quasi diabolico, nella celebre leggenda celtica
chiamata Lotta degli alberi, i Bretoni (della Gran
Bretagna) ottennero la vittoria solo dopo esser
stati trasformati in ontani. In alcune vecchie
storie tedesche quest’albero, quando minacciato di essere abbattuto, piangeva e versava
gocce di sangue, oltre a consentire alle maghe
di resuscitare i morti. Grazie alla resistenza
del suo legno immerso in acqua, fu usato fin
dall’antichità per fabbricare pali di fondazione
e palafitte a Venezia. Un tempo se ne ricavavano tre tinture: il verde dai fiori, il bruno dai rami
e il rosso dalla corteccia. Così, per gli antichi,
i suoi fiori, i rami e la corteccia simboleggiavano rispettivamente l’acqua, la terra e il fuoco;
mentre coi suoi ramoscelli verdi, svuotati, si
facevano dei fischietti, richiamando un’affinità
col quarto elemento, l’aria.Nelle tradizioni del
Nord Europa l’ontano è l’albero nero e malefico
delle acque morte, allo stesso modo in cui il
salice è l’albero verde e benefico delle acque
sorgive. L’ontano delle paludi evoca le pianure
brumose e le terre mobili del Nord.
16. ROBINIA
*Fam. Fabaceae
Robinia pseudoacacia L.
Albero caducifoglio di 10-25 m proveniente
dalle regioni centro-orientali degli USA, da cui
fu importato in Francia dal botanico Jean Robin nel 1601. In conseguenza dell’incremento
demografico e dello sviluppo dei centri urbani
avvenuto nel corso del XVIII secolo, aumentò
molto la pressione sul bosco. Per sopperire a
tale situazione critica, anche i regnanti di casa
Savoia promossero l’introduzione in Piemonte
della robinia. Si rivelò subito essenziale per
il pronto recupero di una copertura forestale
nelle aree denudate e per la capacità di produrre in breve tempo, grazie alla presenza di
simbionti batteri azotofissatori tipici delle leguminose (Rhizobium sp.), ottime fascine, legna
da ardere e assortimenti validi per svariati usi
agricoli. In effetti l’introduzione della robinia ha
determinato un notevole contributo all’economia rurale sino almeno alla metà del XX secolo; in particolare, in seguito alle patologie che
colpirono il castagno (mal dell’inchiostro all’inizio del secolo, poi cancro corticale a partire dagli anni ‘50), si diffuse, dapprima piantata, poi
spontaneamente, nei castagneti e negli altri
boschi degradati, che fra l’altro avevano subito pesanti tagli nei periodi bellici. Dal secondo
dopoguerra, con il progressivo abbandono agricolo, la robinia è inoltre diventata la principale specie ricolonizzatrice delle terre marginali
lasciate incolte, originando estese superfici
forestali di neoformazione. La presenza di questa specie oggi viene spesso considerata ne-
gativa e infestante in quanto associata all’abbandono, ad ambienti forestali impenetrabili e
senza produzione di funghi pregiati. In effetti i
robinieti appaiono assai intricati perché sono
costituiti da una leguminosa che arricchisce il
terreno di azoto, favorendo lo sviluppo di un
sottobosco denso, con arbusti (in prevalenza
sambuco) e rovi. I boschi di robinia sono purtroppo ecosistemi semplificati, caratterizzati
da povertà floristica e limitata gamma di organismi viventi, se confrontati a quanto presente
in altre formazioni boschive naturali. Negativa
per il paesaggio è la vigoria della robinia nel colonizzare, partendo dalle formazioni esistenti,
prati e coltivi adiacenti, contribuendo a modificare l’alternanza bilanciata di coltivi e boschi,
caratteristica saliente di certe zone. Per tale
invadenza è ritenuta indesiderabile all’interno
dei parchi urbani dotati d’un disegno paesaggistico ben definito. La robinia, insieme con il
castagno e i tigli, è una delle più importanti
specie forestali arboree di interesse mellifero,
per la presenza di ghiandole capaci di produrre
abbondante nettare.
17. I SALICI
*Fam. Salicaceae
Gen. Salix L.
Alberi, più spesso arbusti, ma anche suffrutici
di dimensioni ridottissime. I giovani rami sono
cilindrici e portano gemme alterne, raramente
opposte o subopposte; le foglie sono penninervie, alterne (raramente subopposte), lanceolate, ma a volte ovaleggianti o, ancor più raramente, orbicolari, brevemente picciolate, con
stipole (piccole appendici inserite alla base
della foglia) caduche anche grandi e a volte
persistenti. Le infiorescenze maschili e femminili, separate, sono portate erette, lunghe 3-8
cm, sono senza picciolo nei salici a fioritura anticipata rispetto alla fogliazione, sono peduncolate nei salici che fioriscono contemporaneamente o dopo l’emissione delle foglie. Il frutto
è una capsula più corta di 1 cm che si apre in
2 o 4 valve e contiene 8-10 piccoli semi. Il genere è diffuso nelle Americhe, in Africa (in entrambi i casi manca nelle regioni desertiche o
in quelle equatoriali), in tutta l’Asia (compresa
quella insulare tropicale) ed Europa. Nell’emisfero boreale raggiunge le regioni artiche dove
18. SEQUOIA
spesso rappresenta l’unica pianta legnosa,
mentre nell’emisfero meridionale (Sud America) si ferma al 50° parallelo. Sono specie eliofile, vivono perlopiù in ambienti umidi o almeno
in ambienti in cui sia garantita una sufficiente
umidità al momento della germinazione; molti
salici prediligono acque non stagnanti e diversi tollerano periodi più o meno lunghi di sommersione dell’apparato radicale. Le specie di
alta montagna possono sopportare temperature molto basse anche grazie ad una serie di
adattamenti morfologici tra cui, il più evidente,
è la riduzione delle dimensioni che ha portato
a forme prostrate o addirittura nane in cui fusti e rami rimangono sotterranei. Tutti i salici
sono poco longevi e poche specie superano il
secolo di vita. Albero lunare, in stretta correlazione con l’elemento acquatico e in particolare
con la magia dell’acqua, associato alla ninfa
Elicé (nome arcadico del salice), aveva fama
di dispensare la rugiada nelle campagne e le
piogge necessarie sia all’agricoltura che all’allevamento. Nell’antichità era votato ad Ecate,
la luna, dea inizialmente benigna divenuta temibile il giorno in cui, colpevole di impurità,
fu precipitata dagli Inferi diventando così la
Signora degli incantesimi. In relazione con la
magia dell’acqua, a Gerusalemme fu venerata
una dea, Anatha, divinità del salice propiziatore
di pioggia. In Lituania il culto degli alberi è perdurato fino ai tempi moderni. Attraverso il salice si venerava Blinda, dea dell’albero (nome
del salice in lituano); secondo le leggende era
una dea talmente feconda da aver la facoltà di
partorire da ogni parte del corpo; questo fece
ingelosire la Terra al punto che un giorno, mentre Blinda camminava in un prato palustre, i
suoi piedi rimasero imprigionati nella terra ed
essa si trasformò in salice. Fino a poco tempo fa, in Bretagna, per determinare quanto a
lungo si sarebbe vissuti, si posava sull’acqua
di una sorgente sacra una croce composta da
due ramoscelli di salice: se la croce affondava
il termine sarebbe stato ancora lontano, se al
contrario galleggiava la morte non sarebbe tardata. La parola greca itea, il salice, e le parole
latine viere, intrecciare (soprattutto con vimini),
e vimen-viminis, legno flessibile, hanno dato Viminale, nome di uno dei colli di Roma che un
tempo era stato piantato a salici.
*Fam. Taxodiaceae
Sequoia sempervirens (D. Don) Endl.
L’albero più alto della terra, potendo raggiungere e superare i 100 m di altezza, la sequoia
è originaria della California e dell’Oregon; gli
aghi sono di 2 tipi: simili a scaglie e appressati
quelli sui rametti dell’anno, appiattiti e portati
orizzontalmente quelli sui rametti più vecchi,
che sono leggermente penduli; i coni sono piccoli, dapprima verdi, a maturità legnosi e marroni, lunghi fino a 2 cm; la corteccia è spessa
e fessurata, di colore rossastro, non a caso gli
americani la chiamano “Redwood”. La pianta
cresce velocemente nei primi anni di vita, richiedendo molta acqua e umidità, per rallentare in seguito. È specie longeva con esemplari
che superano i 2000 anni; ha un areale che
va dall’Oregon meridionale fino al di sotto della baia di Monterey in California, dal livello del
mare fino a circa 900 m. È un areale distribuito
lungo la cosiddetta “fog belt” (fascia delle nebbie, così chiamata per l’elevata frequenza di
questo fenomeno meteorologico). L’esemplare
più alto di questa specie si trova nell’Humboldt
Redwoods State Park e raggiunge un’altezza di
111 m e un diametro di 6,30 m.
19. SEQUOIA GIGANTE o WELLINGTONIA
SEQUOIA DELLA CALIFORNIA
*Fam. Cupressaceae
Sequoiadendron giganteum (Lindl.) Buchholz
In America, questi alberi imperiosi sono chiamati “Sentinelle della Sierra”. Sono considerati tra gli organismi più grandi e antichi, originari
della Sierra Nevada (catena montuosa che si
estende nello Stato della California, dalla parte
ad Est, e in quello del Nevada, dalla parte ad
Ovest). Raggiungono altezze tra gli 80 e i 100
m e diametri superiori a 3 m; alcune possono
raggiungere i 10 m di diametro. Il “Generale
Shermann”, all’interno del “Sequoia National Park”, ha un diametro alla base di 11 m
e un’altezza di 83 m; a circa 40 m dal suolo
ha un ramo di oltre 2 m di diametro; si stima
che abbia un volume di circa 1770 m3 e circa
3500 anni. Questi esemplari hanno una corteccia fibrosa, fessurata in profondità, di un colore rosso brillante. Le infiorescenze maschili e
femminili fioriscono sullo stesso albero: quelle
maschili compaiono in ottobre, diventano gialle
e liberano il polline in marzo; quelle femminili
sono costituite da coni verdi, formati da scaglie dalla punta spinescente e lunghi circa 1,2
cm. I coni maturano nel giro di due anni e raggiungono una lunghezza di 7,5 cm; cambiano
dal verde al bruno scuro e possono persistere
sull’albero per circa 20 anni. I semi sono alati.
Fuori dalla California viene coltivata come pianta ornamentale. Venne introdotta in Europa
verso la metà del XIX secolo e si contano già
esemplari che raggiungono i 50 m di altezza.
Il parco di Villa Baragiola si trova all’interno dello
storico quartiere di Masnago, nella parte alta della
città.
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Piazzale Mafalda Di Savoia
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Via Cola Di Rienzo
Orari di apertura al pubblico
primavera/estate
8.00 - 20.00
autunno/inverno
8.00 - 18.00
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