200 ANNI 1816-2016 GUIDA AI PARCHI CITTADINI 05 PARCO DI VILLA BARAGIOLA ASSESSORATO ALL’AMBIENTE E VERDE URBANO. Area XI Attività Verde Pubblico La presente collana è stata curata dai tecnici dell’Attività Verde Pubblico del Comune di Varese Dott. For. Chiara Barolo, Arch. Lorenza Castelli, Dott. Agr. Ilaria Merico, Dott. For. Pietro Cardani. Si ringrazia Silvia Motta per l’attività di ricerca bibliografica riguardante la mitologia degli alberi svolta durante il periodo di servizio di leva civica regionale. PRESENTAZIONE Cari Varesini e cari turisti, Un ringraziamento al Geom. Michele Giudici dell’Area IX - Ufficio Sistema Informativo Territoriale. Riferimenti bibliografici • Botanica Forestale – Volume Primo e secondo – Romano Gellini e Paolo Grassoni – Cedam Padova 1997; • Cottini P. - “I Giardini della Città Giardino” – Edizione Lativa – dicembre 2004; • Sulla Condizione dei Parchi Pubblici della Città di Varese – Tomo I-II-III-IV a cura del Prof. Salvatore Furia – 1978- Atti in possesso del Comune di Varese - Attività Verde pubblico . • Mitologia degli alberi – Dal giardino dell’Eden al legno della Croce, Jacques Brosse – BUR Rizzoli Saggi, 1991 R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A. Milano; • La Natura ed i suoi simboli – Piante, fiori e animali – Lucia Impelluso - Dizionari dell’Arte Edizioni Varese è la nostra città-giardino. E come poterla scoprire meglio se non con queste guide e mappe, molto comode e pratiche? I parchi sono un bene prezioso che negli ultimi anni abbiamo preservato e cercato di migliorare, anche ampliandone gli spazi verdi. Varesini e turisti hanno la possibilità di scoprirne la ricchezza, dal patrimonio arboreo e botanico alle peculiarità architettoniche presenti nei giardini principali. Non mancano le info turistiche per raggiungere i sei parchi cittadini. Palazzo Estense e Villa Mirabello, Villa Toeplitz, Villa Augusta, Castello di Masnago, Villa Baragiola e Villa Mylius: le guide passano dai cenni storico-artistici alla descrizione e al posizionamento, con le mappe, degli alberi monumentali. Grazie al lavoro attento dell’assessorato al Verde pubblico, le guide sono state ampliate e ristampate. Non mi resta che augurarVi un buon giro all’aria aperta accompagnato da un’ottima lettura. Il Sindaco di Varese Attilio Fontana Cari tutti, Della stessa collana Giardini Estensi e Parco di Villa Mirabello Parco di Villa Torelli Mylius “Achille Cattaneo” Parco di Villa Augusta Parco del Castello di Masnago (Mantegazza) Parco di Villa Toeplitz Progetto grafico e impaginazione: Magoot Comunicazione Costruttiva - www.magoot.com Stampa: Bosetti Group S.r.l. - Gorla Maggiore (VA) - Maggio 2016 In questo 2016, anno del Bicentenario dell’elevazione di Varese a Città, è un piacere avere l’opportunità di presentare al pubblico i libretti della collana, “Guide ai Parchi Cittadini” quale contributo per testimoniare la bellezza e la ricchezza della Città Giardino. Nelle guide si trovano aneddoti e cenni della storia delle famiglie che hanno creato questi parchi meravigliosi, che li hanno vissuti e che ce li hanno tramandati. Si trovano le descrizioni degli alberi autoctoni, di quelli esotici, dei più rari e più preziosi, oltre ai bellissimi alberi monumentali, tanto amati dalla Città, e alcuni vero e proprio simbolo Bosino. I Giardini sono Storia e Cultura insieme; rappresentano l’essenza della capacità e sensibilità degli uomini di plasmare il territorio nel rispetto della Natura dei luoghi, con l’obiettivo di poter godere appieno delle meraviglie che offre. Sono parchi pubblici, sono di tutti: ad ognuno di noi, quindi, il diritto di goderne appieno delle bellezze che offrono, ma anche il dovere di rispettarli e averne cura, per il presente, per il futuro. L’Assessore al Verde Pubblico e Tutela Ambientale Riccardo Santinon CENNI STORICI Nel corso del XVII secolo la maggior parte dei terreni situati in corrispondenza del sedime della attuale proprietà comunale risultavano destinati a pascolo, incolto (zerbo in termine locale) e prato soprattutto lungo l’attuale via Caracciolo mentre, nella parte più interna e verso il torrente Vellone, ad aratorio vitato e bosco misto. Dal XVII fino al XVIII sec. tutta la Castellanza di Masnago, ove è inserito il parco, è legata alle vicende della famiglia Castiglioni, proprietaria anche del limitrofo castello di Masnago, noto oggigiorno come Mantegazza. Dal Catasto Teresiano del 1750 risulta che in parte ne fu proprietaria anche la famiglia dei nobili Bianchi d’Adda. Le origini dell’attuale Villa Baragiola risalgono al 1804 allorquando Andrea Baragiola De’Bustelli (1754-1823), avvocato del Canton Ticino, acquistò una cospicua quantità di fondi e case da massaro (mezzadro) situate tra l’odierna piazza Ferrucci e l’area un tempo occupata dall’antico cimitero di Masnago. La proprietà crebbe con ulteriori acquisizioni di terreni sino ad annettere l’intero dosso collinare attualmente compreso fra le attuali vie Caracciolo, Saffi, Borghi, Bolchini, per merito del figlio di Andrea, Pietro Baragiola, che nell’agosto del 1824 riunì in un’unica proprietà le varie parti che costituiranno la Villa ed il Parco. Dal catasto lombardo si rileva che la proprietà si estendeva, quindi, ben oltre gli attuali confini, compreso il Vecchio Camposanto al quale era possibile accedere mediante una stradina che lo congiungeva alla Chiesa passando per la proprietà. Da molti anni al posto del cimitero vi è un’attività commerciale. Nel piazzale di carico delle merci rimane una pregevole torre funeraria neogotica della famiglia Baragiola. Dopo la morte di Pietro, case e terreni passarono al genero Giovanni e quindi a suo nipote Andrea Baragiola De’ Bustelli (1861-1899). Nato a Como, conseguito il diploma di scuola superiore, costui si trasferì dapprima a Milano e poi a Torino. Nel 1886, laureatosi in legge, si diede alla professione forense. Nel 1892 ereditò dallo zio banchiere Giovanni Baragiola la stupenda Villa di Masnago, da lui poi ribattezzata Villa Emma in omaggio alla moglie Emma Ronzini. Iniziò, quindi, la trasformazione dei fabbricati rustici nella suddetta villa padronale e dei fondi agricoli in parco paesaggistico. Del complesso la parte più interessante della villa era rappresentata proprio dal parco, costituito da una parte inferiore, a contatto con l’edificio, attrezzata a lago artificiale da percorrere anche con barche. Il lago non è più esistente: fu interrato per la costruzione del fabbricato longitudinale a tre piani detto “lo steccone”, del 1951 ca., destinato dapprima ad aule per seminaristi, oggi ad uffici del Comune di Vare- se. La collina esposta a sud-ovest, invece, raccoglieva i più fastosi accorgimenti del parco all’inglese: collezionismo botanico, berceaux, viali curvilinei e sinuosi nel quale si trova una lunga scalinata prospettica su modello di villa Cicogna a Bisuschio, ispirata, invece, alla tradizione tardo-rinascimentale. Andrea offrì il terreno per la costruzione dell’ippodromo a favore della Società Varesina per le corse di cavalli allo scopo di realizzare un nuovo ippodromo in sostituzione di quello ‘storico’ di Casbeno (1878) sito di fianco alla Villa Recalcati (a quel tempo Grand Hotel Excelsior), divenuto inadeguato in breve tempo. Quello dei coniugi Baragiola fu uno dei primi d’Italia, inaugurato il 3 ottobre 1895, sviluppato su un’area di oltre 70.000 mq. (7 ettari) dall’Ingegnere milanese Giulio Valerio. Ove si seguivano le corse dei cavalli ora ci sono il Parcheggio di Piazzale De Gasperi (2000). Ove c’erano le tribune, ora vi è un complesso residenziale, un supermercato e la rotatoria di Piazza Mafalda di Savoia con l’obelisco dedicato a Salvo d’Acquisto. In quel periodo Varese contava 14.161 abitanti (anno 1881), impegnati nella costruzione delle ville S. Francesco Veratti, Pirinoli, Ponti, Dandolo Oppliger, Augusta, Mirabello, Barbò-Strada-Leonino (la odierna “La Quiete”), BellottiBaroggi, Esengrini-Montalbano, Torelli-Mylius, De Cristoforis - San Pedrino etc., con parchi ancora miracolosamente esistenti. Nel 1911 la popolazione era salita a 20.754 unità, la stessa che vide costruire le testimonianze più gloriose della Città Giardino, ovvero il Kursaal (1905), il Grand Hotel Palace (1913), il Grande Hotel Campo dei Fiori (1912) con la funicolare e tutte le opere di viabilità stradale e ferroviaria necessarie. Fanno parte di questo periodo i parchi di villa Agosteo, villa Ambra, villa Margherita, villa Moretti, villa Brusotti, villa Podreider, villa Adele etc. L’ippoddromo dei Baragiola terminò la sua attività al termine della Bella Epoque, due anni prima dello scoppio della Grande Guerra (1914-1918), soppiantato dal più grande centro ippico alle Bettole. Poco sembrerebbe aver inciso la vicenda ippica sull’articolazione del parco, ancora caratterizzato da orti e aratori vitati sul versante meridionale e da boschi cedui, prati e aratori su quello settentrionale. Andrea Baragiola morì prematuramente nel 1899, pare in duello, e gli interventi di trasformazione proseguirono nel corso del ‘900 ad opera della vedova Signora Emma che decise “in omaggio al marito, di proseguire i grandi lavori già iniziati a Masnago dal defunto consorte”, sino al 1925, anno della morte di quest’ultima. È di quegli anni il gazebo ottagonale in ferro sormontato da rose rampicanti e ospitante dei troni con dei leoni alati a guisa di sostegni laterali e braccioli. Il complesso fu allora venduto al banchiere Giacomo Tedeschi. In questo periodo la Villa fu ristrutturata completamente dall’Ing. Alfredo Speroni (progettista di Villa Toeplitz) e rinominata Villa Alessandra in onore della signora Alessandra Pecchio. La bella dacia in stile ungherese, “Chalet in legno per soggiorno invernale”, che svetta sul colle, risale al 1932. Il 30 settembre di quell’anno i figli di Giacomo Tedeschi, Guido e Mario, ereditarono Villa e Parco in parti uguali. Già nel 1935 furono ceduti al Comune di Varese i terreni attualmente occupati dallo stadio comunale “Franco Ossola”. Oberato dai debiti, tra il 1941 ed il 1942 Guido cedette la sua parte a quattro religiosi: i Monsignori Giuseppe Sala, Giuseppe Peconi, Mario Motta e Don Francesco Forlani. Già nel 1942, su progetto dell’Ing. Giovanni Maggi, lo stesso ideatore del Collegio di Sant’Ambrogio di Bosto e dell’imponente Seminario di Venegono, venne costruito il “sopralzo di un piano alla casa esistente” come da specifica richiesta del Seminario di S. Martino al Podestà di Varese. Acquistato dal Seminario Arcivescovile di Milano, la proprietà fu utilizzata fino al 1991 quale sede scolastica con convitto nell’edificio a tre piani a pianta rettangolare del dopoguerra. La villa, ornata negli anni ’40 con la scritta Humilitas e la corona della famiglia Borromeo, era adibita a rettorato e alloggi. All’interno della dacia furono ricavate le abitazioni degli insegnanti del Seminario; il primo piano era infatti dotato di stanze da letto, ciascuna provvista di bagno privato. Dopo un decennio di abbandono, dal febbraio 2001 tutto il compendio è di proprietà del Comune di Varese che lo ha parzialmente destinato a finalità istituzionali dell’Ente: nello “steccone” ove prima v’erano le aule scolastiche, ora vi sono una sede espositiva/museale e una parte degli uffici tecnici comunali. La villa è in attesa di restauro conservativo. Tutte le trasformazioni sopra citate sono riconoscibili anche dal confronto dei rilievi aerofotogrammetrici del 1934 e del 1953 dell’Ing. Nistri: negli anni ’30, a parte il vecchio caseggiato a corte, ben appaiono delineati il fabbricato della dacia sul colmo della collina ed i numerosi e sinuosi vialetti interni, almeno sino alla linea di demarcazione in corrispondenza del Vellone. Nell’aerofotogrammetrico del 1953 la vecchia casa a corte di villeggiatura figura già sostituita dall’attuale fabbricato longitudinale adibito a Collegio. L’articolazione del parco con le piantumazioni ed i vialetti rimane pressoché inalterata dalla situazione del 1934 a quella odierna. Il parco, sul declivio che dalla villa conduce alla dacia lignea, recentemente restaurata, è chiaramente d’impronta paesistica, caratterizzato dall’inserimento di specie esotiche fra le quali spicca una monumentale sequoia gigante (Sequoiadendron giganteum), varietà insolite di faggi e secolari duglasie (Pseudotsuga menziesii). Sul versante nord che guarda il Sacro Monte vi è un lembo di autoctono querco-carpineto in cui dominano la rovere, la farnia ed il carpino bianco. In prossimità del Vellone aumenta la presenza di frassino maggiore, acero di monte, ciliegio selvatico. Nel prato da foraggio posto fra la via Borghi, residuo dell’antico ippodromo dell’epoca Liberty ed il pendio boscato, verrà ricavata una vasca di espansione del torrente Vellone, con ripristino delle condizioni paesaggistiche attuali, a limitare i danni da esondazioni provocate da uno sviluppo urbanistico disordinato della città durante il glorioso sviluppo industriale. In un periodo di forte inurbazione ed immigrazione degli anni ’60 e ’70, i varesini arrivarono a 79.019 abitanti (anno 1968), ovvero con una popolazione operaia e impiegatizia quattro volte più numerosa rispetto a quella dei tempi della città aristocratica, borghese e contadina che andava a vedere le corse dei cavalli all’ippodromo dei Baragiola. Dopo una crescita fino a 91.000 abitanti (anni ’90), una impermeabilizzazione selvaggia del suolo, la copertura e riduzione di alvei dei torrenti che impongono onerose opere idrauliche preventive, anche all’interno del Parco Baragiola, i varesini sono tornati quantitativamente a circa 50 anni fa (ab. 79.333 come da dato ISTAT, al primo marzo 2013). Ove prima c’era un ippodromo ora c’è una città. Fortuna vuole che il suolo ospitante il parco della Sig.ra Emma Ronzini si sia conservato per la più parte e che sia a disposizione dei varesini grazie ad un investimento lungimirante. DESCRIZIONE BOTANICA 1. ABETE DI DOUGLAS o DOUGLASIA VERDE *Fam. Pinaceae Pseudotsuga menziesii (Mirbel.) Franco (= P. douglasii (Lindl.) Carr.) Proveniente dalla costa pacifica degli USA e dalla Sierra Nevada californiana, raggiunge notevoli altezze, sui 50-70 m; ha portamento simile all’abete rosso, con chioma molto fitta e fusto slanciato; la corteccia diventa rosso bruna negli esemplari adulti; gli aghi, appiattiti, di colore verde brillante o scuro, disposti in 2 serie diversamente inclinate, hanno consistenza erbacea e punta arrotondata; i fiori sono piccoli, solitari o a gruppi, verdi i femminili, giallo arancio i maschili; i coni, lunghi 6-8 cm, sono penduli, con brattee trifide sporgenti dalle squame, e cadono interi a terra dopo la disseminazione. Ha importanza sia come pianta forestale per l’utilizzo del legno (soprattutto nel Paese d’origine) sia come pianta ornamentale. Deve il suo nome al collezionista di piante David Douglas che ne introdusse i semi in Europa nel 1827. 2. ACERO CAMPESTRE *Fam. Aceraceae Acer campestre L. Poco citati nei testi antichi a causa del carattere funesto attribuito al colore rosso sangue delle foglie della varietà acero sicomoro in autunno, nella mitologia greca erano considerati alberi di Fobos, il dio della Paura. Per questo motivo i Greci preferivano il platano le cui foglie, pur molto simili, non assumono quel colore sinistro. L’acero campestre è di piccole dimensioni, raramente supera i 15 m di altezza, con tronco spesso contorto, a crescita lenta e longevità di 150 anni. I rametti sono a volte muniti di creste suberose, le foglie sono piccole, a 5 lobi con apici arrotondati, di color giallo intenso in autunno; i fiori, riuniti in grappoli, compaiono insieme alle foglie; i frutti, detti samare, sono caratteristici, in quanto provvisti di due “ali”, disposte a 180°. Ha un vasto areale comprendente gran parte dell’Europa fino all’Inghilterra e al sud della Svezia, la Russia centrale, l’Asia minore e l’Iran; in Italia è presente in tutta la penisola e le isole, dalla macchia mediterranea fino alla zona delle querce e del castagno. Spesso era mantenuto isolato nei campi coltivati ad indicare i confini tra gli appezzamenti 3. ALBERO DI GIUDA *Fam. Fabaceae Cercis siliquastrum L. Albero a foglie decidue, originario delle regioni orientali del Mediterraneo e dell’Europa meridionale; viene piantato frequentemente come albero ornamentale in tutta l’Europa. Raramente lo si trova rinselvatichito nelle nostre regioni. Può raggiungere un’altezza di 12 m, ma generalmente si mantiene più basso e si presenta ramificato a poca distanza dal suolo. I fiori, rosa intenso, sbocciano, molto nu- merosi, in aprile e maggio sui rami vecchi e perfino direttamente sul tronco (fenomeno detto caulifloria). I frutti sono baccelli e possono misurare anche 10 cm di lunghezza: in estate, maturando, assumono talvolta una colorazione rosa vivo tendente al violaceo. Le foglie sono arrotondato-cuoriformi o reniformi, alterne. Secondo varie leggende il suo nome deriverebbe dal fatto che Giuda si impiccò ai suoi rami, oppure che i fiori rappresenterebbero le lacrime di Gesù per la perfidia di Giuda. 4. BETULLA *Fam. Betulaceae Betula pendula Roth (= B. alba Ehrh., B. verrucosa Ehrh.) Albero caducifoglio alto sino a 30 m, che può raggiungere i 70 cm di diametro e i 100 anni di età. Ha chioma molto leggera, con rami secondari penduli e flessibili, corteccia bianca che si distacca in sottili foglietti papiracei, foglie romboidali, lunghe 2-7 cm, doppiamente dentate ai margini, di colore verde chiaro, gialle in autunno; i frutti sono riuniti in infruttescenze cilindriche pendule, che a maturità liberano piccole samare circondate da un’ala membranosa. Il suo areale comprende Europa e Siberia in cui forma estesi boschi puri, mentre più a sud ha importanza secondaria e lo si trova associato ad altre specie. In Italia è diffuso principalmente su Alpi e Prealpi, meno frequente sugli Appennini spingendosi comunque fino all’Etna, dove esiste una varietà endemica (var. Aetnensis). Di colore bianco è simbolo di luce e purificazione. Non a caso uno dei suoi utilizzi, nelle saune scandinave e nei bagni turchi russi, prevedeva la fustigazione coi rami per stimolare la circolazione e l’eliminazione delle tossine dal corpo attraverso la traspirazione. Forse è per questo motivo che, a Roma, i fasci intorno all’ascia che i littori portavano davanti ai magistrati dell’imperium (il potere supremo) erano composti da verghe di betulla. Questi rappresentavano anche la flagellazione, ovvero la purificazione del colpevole, dal cui corpo si faceva uscire il male. Pur essendo una minaccia per lo più virtuale, portandole, i littori purificavano l’aria davanti ai magistrati. La betulla era protagonista nelle cerimonie sciamaniche siberiane, durante le quali i sacerdoti si arrampicavano su di essa per penetrare nella celeste dimora degli dèi e così ottenere guarigione e prosperità. Pare che il segreto della funzione dell’albero in questi rituali stia nel fatto che, allo scopo di entrare in trance, gli sciamani assumessero un fungo, l’Amanita muscaria, che vive in simbiosi con le radici della betulla. Il suo consumo infatti, dopo un primo periodo di sonnolenza, stimola chi l’assume a compiere alte gesta fisiche. Nelle credenze popolari l’amanita, chiamata anche ovolaccio, è collegata al rospo, animale delle streghe in rapporto da una parte con le tenebrose potenze infernali e dall’altra con la luna e la pioggia (così anche per la betulla). Non a caso, in inglese, uno dei termini vernacolari usati per designare l’amanita si traduce in “trono di rospo”. Sempre in Siberia, una credenza popolare molto diffusa attesta che lo spirito della betulla sarebbe una donna che, in seguito all’invocazione di un fedele, appare talvolta fra le radici dell’albero o nell’atto di uscire dal tronco. Rivelatasi fino alla vita, con i capelli sciolti, tenderebbe le braccia verso il credente, fissandolo con occhi seri ed offrendogli il seno nudo. L’uomo, dopo averne bevuto il latte, sente decuplicate le sue forze. Questo fa pensare che in realtà si tratti dello spirito dell’amanita. 5. BOSSO *Fam. Buxaceae Buxus sempervirens L. Arbusto o piccolo albero sempreverde che può raggiungere anche i 10 m di altezza; ha crescita lenta ed elevata longevità, potendo arrivare fino a 600 anni di età. Ha foglie opposte, piccole (10-25 mm), a margine intero e leggermente ricurvo verso la pagina inferiore, di colore verde scuro lucente sulla pagina superiore e più chiaro su quella inferiore. Viene molto utilizzato allo stato arbustivo per la creazione di siepi e in “ars topiaria”. Il suo areale comprende le regioni del Caucaso fino a tutta l’Europa meridionale, spingendosi, lungo le coste atlantiche, fino all’Inghilterra; allo stato spontaneo lo si trova, sporadicamente, nei boschi di querce, più frequentemente di roverella. Emblema della castità per la sua caratteristica di autofecondarsi con notevole discrezione, era opposto al mirto, le cui foglie somigliano a quelle del bosso, che era invece consacrato ad Afrodite. Agli uomini era quindi vietato deporre i suoi rametti sugli altari della dea dell’amore, pena la perdita della virilità. Il suo legno durissimo rappresentava per gli antichi la fermezza e la perseveranza e, per questo motivo, ancora oggi viene utilizzato nella fattura di martelli nelle logge massoniche. Era inoltre oggetto di un culto arcaico dell’albero, dedicato ad Ade, dio degli Inferi, e soprattutto alla dea Cibele che, nel pantheon greco, incarnava la potenza selvaggia della vegetazione scaturita dalle profondità sotterranee. 6. CASTAGNO *Fam. Fagaceae Castanea sativa Mill. Albero che assume portamento maestoso, con chioma espansa e rotondeggiante quando ha molto spazio libero intorno, alto mediamente 15-20 m, talora anche 30 m con 6-8 m di diametro; è anche assai longevo potendo raggiungere e superare i 400-500 anni di età. Le foglie, decidue, lunghe 12-20 cm, dai margini dentati, sono ellittico-lanceolate con apice brevemente acuminato, di consistenza coriacea e di colore verde intenso; i fiori sono portati in lunghi amenti, dal caratteristico e penetrante odore emanato da quelli maschili. Il frutto è racchiuso nel caratteristico riccio. L’areale originario è di difficile determinazione, in quanto il castagno è stato coltivato fin dall’antichità, per l’utilizzo del legno e del frutto: allo stato spontaneo lo si trova in un’ampia area gravitante sul Mar Mediterraneo orientale, con limite settentrionale costituito dai Pirenei, dalle Alpi e dal Caucaso. Se ne può ammirare uno monumentale sulle pendici dell’Etna, nel comune di Sant’Alfio (Catania), a 700 m s.l.m. Nel tronco cavo di questo albero millenario era stata ricavata una rientranza in cui, nel XVI secolo, Giovanna d’Aragona, per sfuggire ad un temporale, si rifugiò sotto le sue immense fronde con tutto il seguito e da allora prese il nome di “castagno dai cento cavalli”. Successivamente, al suo interno, venne costruita una casettina con un forno, alimentato coi pezzi della pianta stessa, per cuocerne i frutti; alla lunga un simile trattamento lo danneggiò al punto che l’enorme tronco si divise in tre. 7. CILIEGIO SELVATICO * Fam. Rosaceae Prunus avium L. Il ciliegio è la rosacea europea di maggiori dimensioni e di maggiore interesse per il legno. Può raggiungere i 25 m di altezza e i 100 anni di età, ha corteccia bruno rossiccia che si sfoglia orizzontalmente, foglie caduche grandi, pendule e dentate; la fioritura avviene prima dell’emissione delle foglie, per cui i ciliegi appaiono come nuvole bianche in mezzo ai boschi ancora spogli, dove è comune incontrarlo, dal piano submontano a quello montano. Presente in tutta Europa fino ai Pirenei e alla Spagna atlantica, alla Gran Bretagna e al sud della Scandinavia; assente in Sicilia. Da esso derivano numerose varietà da frutto. Il ciliegio selvatico, a quanto pare, non è una specie indigena: è assai probabile che il suo areale d’origine si situi intorno al mar Caspio; furono gli uomini e, in parte anche gli uccelli, in tempi preistorici, a propagarlo nell’Europa occidentale. Il vero ciliegio (Prunus cerasus L. o Prunus acida Gaertn.), invece, ha origine in Asia anteriore, dove era coltivato da tempo, ma in data più recente. Secondo Plinio il Vecchio, a portarlo a Roma nel 73 a.C. fu Lucio Licinio Lucullo che, allora console, vinse Mitridate (re del Ponto, regione storica che si estendeva nella zona nordorientale dell’Asia Minore) e il suo regno, dove il ciliegio era coltivato maggiormente nella regione di Cerasunte, sul mar Nero. È assai probabile che la specie abbia tratto il suo nome latino da quello della città, infatti la parola cerasus indica l’una e l’altra. Pare tuttavia che i Greci lo conoscessero da molto tempo: Aristotele e Teofrasto lo citavano già nel secolo IV a.C., cosa che non sorprende affatto, dal momento che Cerasunte era stata colonia greca. Assai rare nel nostro folclore sono le credenze relative a questo albero. Un tempo i contadini usavano cingere i ciliegi con un cordone di paglia intrecciata, durante il solstizio d’inverno, per minacciare quegli alberi che non avevano fruttificato abbastanza di badare bene a farlo l’anno seguente, pena l’abbattimento. La minaccia magica, che presuppone che gli al- beri siano provvisti di una coscienza, ha origini preistoriche. Nel folclore germanico e slavo lo si credeva visitato da creature malvagie, come il demone Kirnis, in Lituania, che impedivano di avvicinarglisi. Probabilmente si tratta di una variante dell’universale motivo del frutto proibito, custodito spesso da serpenti. Al contrario, in Giappone, il ciliegio è oggetto di un vero e proprio culto, lo shintoismo, religione della natura. In questo caso si tratta di specie dai frutti non commestibili, selezionate in base alla bellezza dei fiori. Lo sbocciare di questi, dopo l’equinozio di primavera, è occasione di festeggiamenti e cerimonie religiose in cui si rende grazie agli dèi per la promessa di una beatitudine eterna. La figura del ciliegio, fragile ed effimera, simboleggia anche la precarietà dell’esistenza terrestre; la ciliegia rosso sangue è diventata l’emblema del samurai, pronto in ogni istante a sacrificare la propria vita. 8. FAGGIO *Fam. Fagaceae Fagus sylvatica L. Albero che raggiunge i 30-35 m di altezza con diametro anche superiore a 1,5 m; normalmente può vivere sino a 150 anni di età, ma in circostanze particolarmente favorevoli può raggiungere anche 300 anni. La pianta si riconosce facilmente per la corteccia grigia e liscia, le foglie ovali dal margine intero e leggermente ondulato di colore verde scuro a maturità e rossastre in autunno; i frutti, detti faggiole, a maturità si aprono in 4 valve liberando 2 semi. Il faggio è una delle specie più importanti in Italia sia per l’estensione dei suoi boschi sia per l’uso del legno nell’industria del mobile, nonché per la sua bellezza ornamentale; è specie esclusiva dell’emisfero settentrionale ed è presente in tutta Europa, dalla Spagna all’Ucraina, fino alla Norvegia meridionale. Un tempo si utilizzava la corteccia del faggio, febbrifuga e tonica, anche contro la dissenteria. Il catrame del suo legno, distillato a secco, il creosoto, potente antisettico scoperto nel 1832 da Reichenbach, viene usato dall’industria farmaceutica come disinfettante dei polmoni nella composizione di molti sciroppi. La varietà Asplenifolia, ornamentale, si caratterizza per le foglie a margine molto inciso e lamina stretta; il faggio pendulo, a differenza delle altre varietà, che si distinguono per il colore e la forma delle foglie, si caratterizza per il portamento del fusto e dei rami, eretto fino a una certa altezza e poi piangente; il faggio rosso ha foglie di colore porpora al momento dell’emissione e violetto scuro a maturità. Nell’antica Roma l’esistenza di un quartiere chiamato Fagutal, che ancora prima era stato un bosco sacro di faggi (secolo I a. C.), fa pensare che in epoche remote il faggio fosse oggetto di culto. Così, anche cento anni più tardi, all’epoca di Plinio, di fianco ad un faggio sacro si trovava un tempio dedicato a Jupiter Fagutalis (dal latino fagus). In Lorena e nelle Ardenne lussemburghesi si credeva che non ci fosse folgore che potesse colpire questo albero, cosa che lo metteva in contrapposizione con la quercia e il frassino. In un settore geograficamente limitato che comprende la Francia orientale, la Svizzera e la Baviera, la naturale apparizione di esemplari dalle foglie porporine destava l’emozione popolare; si credeva fosse un segno di deplorazione divina per l’annuncio di feroci battaglie o per il sangue versato di un delitto. Ancora oggi, nella foresta di Verzy, in Francia, si possono ammirare dei vecchissimi esemplari di faggio i cui tronchi e i rami più bassi formano un ammasso confuso di linee contorte e ritorte, malformazioni dovute ad una presunta mutazione provocata dalla caduta di un meteorite radioattivo, avvenuto moltissimo tempo fa. A Terranova di Pollino, in Lucania, nel mese di giugno si svolge la festa della Pita, rito arboreo piuttosto antico celebrato in onore di Sant’Antonio da Padova. Nonostante Pita, nel dialetto locale, designi il nome dell’abete, spesso è il faggio a fare da protagonista. Si tratta della rappresentazione rituale dell’unione tra due piante, una di sesso maschile (solitamente un abete o un faggio), l’altra di sesso femminile (una “cima” generalmente sempreverde). Entrambe vengono tagliate e, mentre la “sposa” viene doverosamente ornata con fiori e nastri, il faggio “sposo”, viene pulito dai rami, dalla corteccia e levigato. Il faggio e la cima vengono poi innestati, a sigillare il loro “rudimentale” matrimonio, simbolo arcaico di rigenerazione della natura, auspicio di fertilità. In seguito vengono innalzati e i più coraggiosi, a suon di braccia, si dilettano nell’arduo tentativo di raggiungere la cima. I faggi che troviamo nei giardini ottocenteschi (“romantici”, “all’Inglese”) sono spesso delle varianti della specie selvatica (morfotipi selezionati e riprodotti a scopo ornamentale), ricercate dalle famiglie facoltose proprio per la loro diversità rispetto alla forma rurale: così s’incontrano i faggi a foglia di felce (F.s. “Asplenifolia”); a foglie profondamente e regolarmente dentate (F.s. “laciniata” o “heterophylla”); a foglie rosse (F.s. “Purpurea”); tricolori (F.s.”Tricolor”); gialle dorate (F.s. “Zlatia”); a ramificazione pendula-piangente (F.s. “Pendula”) o addirittura colonnare (F.s. “Dawyck”); nana e prostrata (F.s. “Cochleata”); a corteccia rugosa (F.s. var. “Quercoides”). Purtroppo, negli ultimi 15 anni, decine di faggi, amanti del clima oceanico, intristiscono con vistose microfillie, colpiti spesso da cancri (lesioni) alla fragile corteccia devitalizzata dal sole cocente del 2003 e del 2005 che li ha predisposti ad attacchi di parassiti secondari altrimenti confinati (carie del legno, marciumi radicali, cancri rameali etc.). “Le temperature registrate in Giugno e in Agosto sono RECORD. Anche Luglio è stato molto caldo, ma ci sono stati anni con temperature più alte. Record anche i 35° di giugno e 36° di Agosto. Nel complesso l’Estate 2003 è stata la più calda dal 1965 grazie alle temperature dei mesi di Giugno e di Agosto – Le precipitazioni totali dell’Estate hanno raggiunto i 285.7 mm - contro una media estiva in 37 anni di 415,2 lt/mq - tra le più secche dal 1965” con un deficit di 129,5 lt/mq” come da dati in possesso del Centro Geofisico Prealpino. La ancor peggiore siccità del 2005 con maggio di oltre 2 gradi più caldo della media e un deficit di acqua mensile di – 98,8 lt/mq quando la vegetazione era in pieno sviluppo; tra giugno e agosto il deficit idrico, rispetto ai dati registrati dal 1965, è di 171,7 lt/mq. Si ricorda che ad agosto 2005 vi fu l’abbassamento eccezionale del livello del lago di Varese pari a – 1,5 m dallo zero idrometrico che fece seccare molti secolari carpini bianchi sull’Isolino Virginia. Le siccità estive 20032005, alle quali si aggiunge il calore estremo di luglio 2015, sono state terribili anche per l’anziano patrimonio botanico varesino: le conseguenze sono state immediate ma si notano ancora a distanza di anni, come è normale avvenga con gli alberi: A subirne maggiormente gli effetti i soggetti anziani, patriarchi, radicati nei centri urbani, affetti da malattie croniche, vulnerabili agli effetti delle alte temperature e delle ondate di calore in funzione della «suscettibilità» individuale (stato di salute, caratteristiche ambientali), della capacità di adattamento e del livello di esposizione (intensità e durata)”. Come per l’uomo. In tutta la città di Varese, invero, è evidente che vi siano vistosi e documentabili segni di deperimento a carico di alcune specie che denotano un precoce invecchiamento multifattoriale non escluso il termine della loro vitalità e vigoria in un ambiente estraneo da migliaia di anni se non da qualche milione di anni alla zona d’origine. 9. FAGGIO A FOGLIE DI FELCE *Fam. Fagaceae Fagus sylvatica L. “Asplenifolia” Questa varietà di faggio, ornamentale, si caratterizza per le foglie a margine molto inciso e la lamina stretta. La coppia di faggi monumentali del laghetto dei cigni, datato 1846 ca. ad opera dell’allora proprietario Carlo Pellegrini Robbioni, dei quali uno a foglia di felce l’altro a foglie rosse, è stata decritta fin dal 29 agosto del 1873 dal “Corriere di Milano”. Al pari del vicino Ginkgo biloba, i due esemplari furono messi a dimora da Cesare Veratti, nipote del Robbioni, proprietario dei Giardini Estensi dal 1850 al 1882. Il faggio rosso è stato gravemente ferito da un forte vento di tramontana l’11 novembre 2013 che ha provocato la rottura di un grosso tronco codominante. Il suo controllato mantenimento temporaneo è necessario alla salvaguardia del vicino faggio coetaneo: si teme che un repentino isolamento di quest’ultimo possa condurlo rapidamente a morte per eccessiva insolazione del tronco e conseguente devitalizzazione della fragile corteccia. Altri due esemplari che versano in pessime condizioni fitosanitarie, l’uno nei pressi della Villa padronale di Giuseppe Toeplitz, per il quale è già stata prevista la sostituzione, l’altro all’ingresso del parco Baragiola. 10.FAGGIO ROSSO *Fam. Fagaceae Fagus sylvatica L. f. purpurea (Ait.) Schneid. Il faggio cultivar “Purpurea” ha foglie di colore porpora al momento dell’emissione e violetto scuro a maturità. Si rinvia a quanto detto per il faggio a foglia di felce per quanto riguarda i Giardini Estensi. Al parco Toeplitz un patriarca è in fase di sostituzione dopo una lenta agonia le cui ragioni sono indicate nella parte generale riguardante la specie. Miglior stato di salute mostrano due monumentali faggi rossi, uno nei pressi del Castello Mantegazza e l’altro a monte della Villa Baragiola. Discreto lo stato fitosanitario di tre esemplari del parco Augusta, perduti per sempre altri due soggetti dopo il fortunale del 13 luglio 2011 che s’abbattè su Giubiano, prontamente sostituiti con giovani piante. 11. MANDORLO *Fam. Rosaceae Amygdalus communis L. / Prunus dulcis (Mill.) D.A. Webb Pianta molto longeva, raggiunge gli 8-10 m d’altezza. I rami, di colore grigiastro, portano gemme a legno e a fiore che possono essere isolate o a gruppi di 2-3 e diversamente combinate. Le foglie sono lanceolate e seghettate; i fiori, bianchi o leggermente rosati, compaiono fra gennaio e marzo, sono ermafroditi, costituiti da 5 petali, 5 sepali e da 20-40 stami. Il frutto è una drupa che presenta esocarpo carnoso, di colore verde, a volte con sfumature rossa- stre, spesso peloso, talvolta glabro, ed endocarpo legnoso contenente il seme, la mandorla. È originario dell’Asia centro occidentale e, marginalmente, della Cina. Venne introdotto in Sicilia dai Fenici, provenienti dalla Grecia, tanto che i Romani lo chiamarono “noce greca”. Si diffuse in seguito anche in tutti i paesi del Mediterraneo. Albero modesto, dalle dimensioni ridotte, si nota principalmente nel periodo della fioritura, ma è il suo frutto, la mandorla, ad essere protagonista di credenze e miti. La parte commestibile del frutto, racchiusa in un robusto guscio, ha fatto sì che per molti popoli diventasse simbolo dell’essenziale celato sotto l’apparenza. Così tutti gli esoterismi, da quello ebraico al musulmano, usarono proprio la mandorla per rappresentare il cuore dell’essere divino nell’uomo. Per il Cristianesimo la mandorla è il Cristo, la cui natura divina resta celata dalla natura umana, o ancora prima, nel corpo della Vergine Madre. Per questo motivo, nell’iconografia medievale, la figura sacra del Cristo e, talvolta, della Vergine, sono rappresentati nel seno della mandorla mistica, che simboleggia inoltre la luce da loro emanata, la loro aura. Secondo una tradizione ebraica è proprio ai piedi di un mandorlo che si troverebbe la via d’accesso alla misteriosa città sotterranea di Luz (“mandorla” in ebraico), dimora di immortalità, dove Giacobbe ebbe la sua famosa visione. Nel linguaggio dei mistici, così come nel folclore, la mandorla ha sempre rappresentato il segreto che è insito nell’uomo, la vita nuova che è immortalità. Troviamo la mandorla, nel mito orientale di Attis, rappresentare il seme sparso da Zeus che diede nascita all’ermafrodito Agdisti, poi castrato dagli dèi, dal cui sangue nacque un mandorlo (in altre versioni l’albero è un melograno). Il frutto di questo albero, mangiato dalla vergine Nana, fecondandola, diede origine al dio Attis. Nei tempi eroici, Fillide, figlia del re di Tracia, aspettando invano l’amato Acamante, morì di crepacuore o impiccandosi, a seconda delle versioni, e si trasformò in mandorlo per volere di Era, dea degli amori fedeli. Quando Acamante giunse, trovando la sua amata tramutata in albero, l’abbracciò e sui rami, ancor prima delle foglie, come accade per questa essenza, apparvero degli incantevoli fiori bianchi. 12. NOCE COMUNE *Fam. Juglandaceae Juglans regia L. Albero con fogliame deciduo alto sino a 30 m, con chioma globosa espansa, di colore verde chiaro; tronco ramoso, presto diviso in grosse branche, con corteccia di colore grigio-crema chiaro liscia, fessurata sulle piante vecchie. Le foglie, aromatiche, sono imparipennate, lunghe15-25 cm, composte da 5-7-9 foglioline ovali, ellittiche, con foglia terminale più grande; dapprima di colore bronzo, poi verde chiaro. Infiorescenze maschili in amenti giallo verdastri, lunghi fino a 10 cm, penduli, sui rami dell’anno precedente, i femminili composti da 3-5 fiori di 1 cm, all’ascella delle foglie terminali dei ramuli nuovi, sulla stessa pianta. Fiorisce in maggio-giugno. I frutti sono drupe globose di 4-5 cm di diametro, con superficie liscia, verde, con all’interno un seme globoso (noce) che contiene due gherigli oleosi commestibili. Originario dell’Asia minore, fu introdotto in Europa già al tempo degli antichi Greci; comunemente coltivato in tutto il territorio italiano sia per il legno, pregiato, sia per il frutto. Può raggiungere 150-200 anni di età. Votato alle divinità infernali e sempre rimasto tale, pare che fosse consacrato a Kar o Ker, misteriosa divinità della morte, presso i Greci la fanciulla rapita da Ade e divenuta dea degli Inferi col nome di Persefone (Proserpina per i Romani). Nel folclore italiano figura nei racconti di streghe, le quali, la notte del sabbat (il sabato ebraico), si radunavano sotto i noci. È doveroso citare il noce di Benevento, per secoli punto di ritrovo delle maghe della regione, che si bagnavano nel vicino fiume chiamato Sabato; albero vecchissimo, scomparve in seguito ad un’opera di eradicazione voluta dal patrono della città, il vescovo Barbatus (secolo XVII), nel tentativo di esorcizzare il diavolo, esempio lampante della lotta del clero contro il culto degli alberi. Tuttavia, questo noce doveva essere piuttosto resistente: dopo la morte del vescovo, ad opera demoniaca cocciuta, ne comparve un altro nello stesso punto. Curiosa è anche la storia di Caria, figlia di Dione, re di Laconia. Dioniso si innamorò di lei, ma le due sorelle maggiori, ingelosite, avvertirono il padre. Fu così che il dio, indispettito, le fece tramutare in rocce e Caria, forse preda della tristezza, morì anch’essa e venne trasformata in un noce. Artemide in persona portò la notizia ai Laconi, i quali eressero poi un tempio ad Artemide Cariatide, le cui colonne, scolpite nel legno di noce in forme di donna, furono chiamate cariatidi. Il noce fu accusato fin dall’antichità di provocare disturbi alla testa a causa delle sue emanazioni velenose; pare infatti che il nome greco della noce, kauron, derivi da kara, la testa. Questa superstizione non è però senza fondamento: le radici e le foglie del noce contengono la juglandina, una sostanza tossica in grado di far morire gli alberi che si trovano nelle vicinanze. 13. OLIVO *Fam. Oleaceae Olea europaea L. Pianta sempreverde, assai longeva, può facilmente raggiungere alcune centinaia d’anni. Il tronco è contorto, la corteccia, grigia e liscia, tende a sgretolarsi con l’età. La chioma, che assume senza intervento antropico la forma tipicamente conica, ha foglie lanceolate, coriacee, disposte in verticilli ortogonali tra di loro, di colore verde glauco e glabre sulla pagina superiore, mentre presentano peli stellati su quella inferiore che le conferiscono il tipico colore argentato e la preservano dall’eccessiva traspirazione durante le calde estati mediterranee. I fiori ermafroditi, piccoli, bianchi e privi di profumo sono raggruppati in infiorescenze dette mignole di 10-15 fiori ciascuna. Il frutto è una drupa ovale che può pesare da 2-3 gr per le cultivar da olio, fino a 4-5 gr nelle cultivar da tavola. L’esocarpo (la buccia) varia il suo colore dal verde al violaceo; il mesocarpo (la polpa) è carnoso e contiene il 25-30% di olio, raccolto all’interno delle sue cellule, sotto forma di piccole goccioline (è l’unico frutto da cui si estrae un olio); il seme è contenuto in un endocarpo legnoso, anch’esso ovoidale, ruvido e di colore marrone. Sebbene sia considerata una pianta prettamente mediterranea, grazie alla sua capacità di ambientarsi molto bene nel bacino mediterraneo (comprendente Italia, sud della Spagna e della Francia, Grecia e alcuni Paesi mediorientali che si affacciano sul Mediterraneo orientale) si ritiene sia di origine sud caucasica (12.000 a.C.). Nonostante sembri inse- parabile dal paesaggio greco, l’olivo ha il suo habitat originario nell’Asia Minore dove forma vere e proprie foreste che, partendo dall’Arabia meridionale, risalgono passando dalla penisola del Sinai, dalla Palestina, la Siria e la costa meridionale della Turchia, fino ai piedi del Caucaso. Non sorprende perciò trovarne una prima menzione nei capitoli della Genesi in cui è narrato il Diluvio, dove si racconta di una colomba che portò a Noè un ramoscello d’olivo a simboleggiare il rinverdimento della vegetazione e la cessazione dello sdegno di Dio. Fin dalle origini, dunque, l’olivo fu considerato uno dei doni più preziosi di Jahvé, il simbolo dell’alleanza con gli uomini. L’olio d’oliva fungeva quindi da consacrazione, così l’inviato di Dio veniva chiamato il Messia, in ebraico Maschiak, l’Unto del Signore, tradotto in greco con Kristos, colui che ha ricevuto l’unzione dell’olio. Albero cosmico per eccellenza nell’Islam, centro e pilastro del mondo, rappresenta l’Uomo universale, il Profeta. Viene considerato soprattutto fonte della luce grazie all’olio che si produce attraverso la spremitura dei suoi frutti. È anche definito l’asse immobile del mondo creato, poiché si ritiene che non sia in rapporto con la rotazione della Terra. Rappresenta inoltre un segno di alleanza attraverso Abramo, il padre dei fedeli e antenato comune di Ebrei, Cristiani e Musulmani. Così, salire nell’ulivo sacro significa rientrare nel “seno di Abramo”, ritornare alla fonte. L’olio veniva adoperato dai greci per i più disparati motivi: grandi quantitativi erano utilizza- ti per l’illuminazione, se ne faceva utilizzo nella cura del corpo, nella medicina e nella magia, veniva adoperato durante la preparazione delle salme e addirittura se ne ungevano le statue. I rami dell’olivo selvatico coronavano i vincitori dei Giochi Olimpici e potevano essere tagliati solo mediante un falcetto d’oro, da un giovinetto di nobili natali, i cui genitori fossero ancora vivi. Pare che questa usanza sia entrata in uso a partire dalla settima Olimpiade, in seguito a un ordine dato dall’oracolo di Delfi, mentre in precedenza si usavano rami di melo in frutto a simboleggiare una promessa d’immortalità. 14. GLI OLMI *Fam. Ulmaceae Gen. Ulmus L. Dal latino ulmus, derivato dalla radice europea arcaica lm-, pare provenga il nome della prima donna della mitologia germanica, Embla (il primo uomo invece si chiamava Askr, parola che designa il frassino cosmico). L’olmo, dunque, sarebbe un albero sacro ai Germani, femminile e materno. Per i Greci e i Romani rappresentava l’albero di Oneiros, figlio della notte e dio dei sogni, o di Morfeo, dio del sonno e delle chimere, figlio di Hypnos, il sonno e fratello di Thanatos, il trapasso. Morte, sonno e sogni erano strettamente legati e pare che l’olmo fosse il loro albero. Per questo motivo aveva potere oracolare. L’olmo divenne un albero di giustizia nel Medioevo, in Francia; si riteneva infatti che le sentenze giudiziarie fossero ispirate dalla divinità. Era sotto un olmo, sul poggio del castello, che veniva amministrata la giustizia; da qui l’espressione francese “aspettare sotto l’olmo” che indicava le persone che, non presentandosi alla convocazione giudiziaria, si facevano attendere. OLMO CAMPESTRE *Fam. Ulmaceae Ulmus minor Mill. Grande albero che può raggiungere i 30-40 m di altezza e i 2-3 m di diametro, molto longevo (fino a 500 anni). Le foglie, caduche, sono asimmetriche alla base, ovate, doppiamente dentate al margine, di colore verde carico e scabre; i fiori, ermafroditi, compaiono prima delle foglie, sono molto numerosi e disposti in glomeruli; le sàmare sono costituite da un seme circondato da un’ala membranacea, dapprima verdi, a maturità di colore marrone. L’areale dell’olmo campestre comprende il centro e il sud dell’Europa dalla Spagna agli Urali. Purtroppo la specie è stata decimata, negli ultimi 50 anni, da una malattia provocata dal Graphium ulmi, la grafiosi dell’olmo, una tracheomicosi diffusa da un insetto scolitide; pertanto non esistono praticamente più grossi esemplari. Dannosa per questa specie è inoltre la Galerucella luteola, insetto che si nutre delle foglie. OLMO CILIATO *Fam. Ulmaceae Ulmus laevis Pall. Albero caducifoglio originario dell’Europa centro-orientale e Caucaso. Rispetto all’olmo campestre ha foglie molto asimmetriche alla base, fiori peduncolati e samare (i frutti) densamente ciliate. Introdotto in Italia perché resistente all’insetto Galerucella luteola. 15. ONTANO NERO *Fam. Betulaceae Alnus glutinosa Desf. Il nome Alnus deriva dal celtico “al” e “han”, che significa “vicino alle acque”, alludendo al suo habitat tipico. Albero deciduo di 20-25 m di altezza con diametro fino a 50 cm, poco longevo (60-100 anni). Ha foglie simili a quelle del pero, ma più grandi, di forma più o meno ovale, cordate alla base, con margini a piccoli denti, verde scuro lucido sulla pagina superiore, più chiare su quella inferiore; i frutti sono costituiti da piccoli coni legnosi, che in autunno liberano i semi, provvisti di una piccola ala, che si disperdono grazie al vento. Considerato fin dalla più remota antichità l’albero della vita dopo la morte, nell’Odissea è il primo ad essere nominato dei tre alberi di resurrezione che, nell’isola di Ortigia, formavano un folto bosco intorno alla grotta della ninfa Calipso; inoltre s’innalzava come una promessa di salvezza nell’isola di Eea, luogo in cui la maga Circe praticava i suoi malefici. Nell’antica Grecia l’ontano sacro si identificava con l’eroe Foroneo, figlio del dio fluviale Inaco e di Melia, ninfa del frassino, e, si pensa, fondatore di una comunità umana. Foroneo pare essere stato il primo ad usare sulla terra il fuoco di Prometeo, se non addirittura l’inventore. Egli governava tutto il Peloponneso e regnava ad Argo, città di sua fondazione, dove il suo culto sopravvisse a lungo. Probabilmente un tempo, in Grecia, esisteva quindi un culto dell’ontano, sopravvissuto solo ad Argo, di cui, tuttavia, si troverebbe traccia fin nell’Europa celtica: in Irlanda, per citare un esempio, il taglio di un ontano sacro veniva punito severamente. Albero di carattere funesto, a volte quasi diabolico, nella celebre leggenda celtica chiamata Lotta degli alberi, i Bretoni (della Gran Bretagna) ottennero la vittoria solo dopo esser stati trasformati in ontani. In alcune vecchie storie tedesche quest’albero, quando minacciato di essere abbattuto, piangeva e versava gocce di sangue, oltre a consentire alle maghe di resuscitare i morti. Grazie alla resistenza del suo legno immerso in acqua, fu usato fin dall’antichità per fabbricare pali di fondazione e palafitte a Venezia. Un tempo se ne ricavavano tre tinture: il verde dai fiori, il bruno dai rami e il rosso dalla corteccia. Così, per gli antichi, i suoi fiori, i rami e la corteccia simboleggiavano rispettivamente l’acqua, la terra e il fuoco; mentre coi suoi ramoscelli verdi, svuotati, si facevano dei fischietti, richiamando un’affinità col quarto elemento, l’aria.Nelle tradizioni del Nord Europa l’ontano è l’albero nero e malefico delle acque morte, allo stesso modo in cui il salice è l’albero verde e benefico delle acque sorgive. L’ontano delle paludi evoca le pianure brumose e le terre mobili del Nord. 16. ROBINIA *Fam. Fabaceae Robinia pseudoacacia L. Albero caducifoglio di 10-25 m proveniente dalle regioni centro-orientali degli USA, da cui fu importato in Francia dal botanico Jean Robin nel 1601. In conseguenza dell’incremento demografico e dello sviluppo dei centri urbani avvenuto nel corso del XVIII secolo, aumentò molto la pressione sul bosco. Per sopperire a tale situazione critica, anche i regnanti di casa Savoia promossero l’introduzione in Piemonte della robinia. Si rivelò subito essenziale per il pronto recupero di una copertura forestale nelle aree denudate e per la capacità di produrre in breve tempo, grazie alla presenza di simbionti batteri azotofissatori tipici delle leguminose (Rhizobium sp.), ottime fascine, legna da ardere e assortimenti validi per svariati usi agricoli. In effetti l’introduzione della robinia ha determinato un notevole contributo all’economia rurale sino almeno alla metà del XX secolo; in particolare, in seguito alle patologie che colpirono il castagno (mal dell’inchiostro all’inizio del secolo, poi cancro corticale a partire dagli anni ‘50), si diffuse, dapprima piantata, poi spontaneamente, nei castagneti e negli altri boschi degradati, che fra l’altro avevano subito pesanti tagli nei periodi bellici. Dal secondo dopoguerra, con il progressivo abbandono agricolo, la robinia è inoltre diventata la principale specie ricolonizzatrice delle terre marginali lasciate incolte, originando estese superfici forestali di neoformazione. La presenza di questa specie oggi viene spesso considerata ne- gativa e infestante in quanto associata all’abbandono, ad ambienti forestali impenetrabili e senza produzione di funghi pregiati. In effetti i robinieti appaiono assai intricati perché sono costituiti da una leguminosa che arricchisce il terreno di azoto, favorendo lo sviluppo di un sottobosco denso, con arbusti (in prevalenza sambuco) e rovi. I boschi di robinia sono purtroppo ecosistemi semplificati, caratterizzati da povertà floristica e limitata gamma di organismi viventi, se confrontati a quanto presente in altre formazioni boschive naturali. Negativa per il paesaggio è la vigoria della robinia nel colonizzare, partendo dalle formazioni esistenti, prati e coltivi adiacenti, contribuendo a modificare l’alternanza bilanciata di coltivi e boschi, caratteristica saliente di certe zone. Per tale invadenza è ritenuta indesiderabile all’interno dei parchi urbani dotati d’un disegno paesaggistico ben definito. La robinia, insieme con il castagno e i tigli, è una delle più importanti specie forestali arboree di interesse mellifero, per la presenza di ghiandole capaci di produrre abbondante nettare. 17. I SALICI *Fam. Salicaceae Gen. Salix L. Alberi, più spesso arbusti, ma anche suffrutici di dimensioni ridottissime. I giovani rami sono cilindrici e portano gemme alterne, raramente opposte o subopposte; le foglie sono penninervie, alterne (raramente subopposte), lanceolate, ma a volte ovaleggianti o, ancor più raramente, orbicolari, brevemente picciolate, con stipole (piccole appendici inserite alla base della foglia) caduche anche grandi e a volte persistenti. Le infiorescenze maschili e femminili, separate, sono portate erette, lunghe 3-8 cm, sono senza picciolo nei salici a fioritura anticipata rispetto alla fogliazione, sono peduncolate nei salici che fioriscono contemporaneamente o dopo l’emissione delle foglie. Il frutto è una capsula più corta di 1 cm che si apre in 2 o 4 valve e contiene 8-10 piccoli semi. Il genere è diffuso nelle Americhe, in Africa (in entrambi i casi manca nelle regioni desertiche o in quelle equatoriali), in tutta l’Asia (compresa quella insulare tropicale) ed Europa. Nell’emisfero boreale raggiunge le regioni artiche dove 18. SEQUOIA spesso rappresenta l’unica pianta legnosa, mentre nell’emisfero meridionale (Sud America) si ferma al 50° parallelo. Sono specie eliofile, vivono perlopiù in ambienti umidi o almeno in ambienti in cui sia garantita una sufficiente umidità al momento della germinazione; molti salici prediligono acque non stagnanti e diversi tollerano periodi più o meno lunghi di sommersione dell’apparato radicale. Le specie di alta montagna possono sopportare temperature molto basse anche grazie ad una serie di adattamenti morfologici tra cui, il più evidente, è la riduzione delle dimensioni che ha portato a forme prostrate o addirittura nane in cui fusti e rami rimangono sotterranei. Tutti i salici sono poco longevi e poche specie superano il secolo di vita. Albero lunare, in stretta correlazione con l’elemento acquatico e in particolare con la magia dell’acqua, associato alla ninfa Elicé (nome arcadico del salice), aveva fama di dispensare la rugiada nelle campagne e le piogge necessarie sia all’agricoltura che all’allevamento. Nell’antichità era votato ad Ecate, la luna, dea inizialmente benigna divenuta temibile il giorno in cui, colpevole di impurità, fu precipitata dagli Inferi diventando così la Signora degli incantesimi. In relazione con la magia dell’acqua, a Gerusalemme fu venerata una dea, Anatha, divinità del salice propiziatore di pioggia. In Lituania il culto degli alberi è perdurato fino ai tempi moderni. Attraverso il salice si venerava Blinda, dea dell’albero (nome del salice in lituano); secondo le leggende era una dea talmente feconda da aver la facoltà di partorire da ogni parte del corpo; questo fece ingelosire la Terra al punto che un giorno, mentre Blinda camminava in un prato palustre, i suoi piedi rimasero imprigionati nella terra ed essa si trasformò in salice. Fino a poco tempo fa, in Bretagna, per determinare quanto a lungo si sarebbe vissuti, si posava sull’acqua di una sorgente sacra una croce composta da due ramoscelli di salice: se la croce affondava il termine sarebbe stato ancora lontano, se al contrario galleggiava la morte non sarebbe tardata. La parola greca itea, il salice, e le parole latine viere, intrecciare (soprattutto con vimini), e vimen-viminis, legno flessibile, hanno dato Viminale, nome di uno dei colli di Roma che un tempo era stato piantato a salici. *Fam. Taxodiaceae Sequoia sempervirens (D. Don) Endl. L’albero più alto della terra, potendo raggiungere e superare i 100 m di altezza, la sequoia è originaria della California e dell’Oregon; gli aghi sono di 2 tipi: simili a scaglie e appressati quelli sui rametti dell’anno, appiattiti e portati orizzontalmente quelli sui rametti più vecchi, che sono leggermente penduli; i coni sono piccoli, dapprima verdi, a maturità legnosi e marroni, lunghi fino a 2 cm; la corteccia è spessa e fessurata, di colore rossastro, non a caso gli americani la chiamano “Redwood”. La pianta cresce velocemente nei primi anni di vita, richiedendo molta acqua e umidità, per rallentare in seguito. È specie longeva con esemplari che superano i 2000 anni; ha un areale che va dall’Oregon meridionale fino al di sotto della baia di Monterey in California, dal livello del mare fino a circa 900 m. È un areale distribuito lungo la cosiddetta “fog belt” (fascia delle nebbie, così chiamata per l’elevata frequenza di questo fenomeno meteorologico). L’esemplare più alto di questa specie si trova nell’Humboldt Redwoods State Park e raggiunge un’altezza di 111 m e un diametro di 6,30 m. 19. SEQUOIA GIGANTE o WELLINGTONIA SEQUOIA DELLA CALIFORNIA *Fam. Cupressaceae Sequoiadendron giganteum (Lindl.) Buchholz In America, questi alberi imperiosi sono chiamati “Sentinelle della Sierra”. Sono considerati tra gli organismi più grandi e antichi, originari della Sierra Nevada (catena montuosa che si estende nello Stato della California, dalla parte ad Est, e in quello del Nevada, dalla parte ad Ovest). Raggiungono altezze tra gli 80 e i 100 m e diametri superiori a 3 m; alcune possono raggiungere i 10 m di diametro. Il “Generale Shermann”, all’interno del “Sequoia National Park”, ha un diametro alla base di 11 m e un’altezza di 83 m; a circa 40 m dal suolo ha un ramo di oltre 2 m di diametro; si stima che abbia un volume di circa 1770 m3 e circa 3500 anni. Questi esemplari hanno una corteccia fibrosa, fessurata in profondità, di un colore rosso brillante. Le infiorescenze maschili e femminili fioriscono sullo stesso albero: quelle maschili compaiono in ottobre, diventano gialle e liberano il polline in marzo; quelle femminili sono costituite da coni verdi, formati da scaglie dalla punta spinescente e lunghi circa 1,2 cm. I coni maturano nel giro di due anni e raggiungono una lunghezza di 7,5 cm; cambiano dal verde al bruno scuro e possono persistere sull’albero per circa 20 anni. I semi sono alati. Fuori dalla California viene coltivata come pianta ornamentale. Venne introdotta in Europa verso la metà del XIX secolo e si contano già esemplari che raggiungono i 50 m di altezza. Il parco di Villa Baragiola si trova all’interno dello storico quartiere di Masnago, nella parte alta della città. Giu se pp e INFORMAZIONI TURISTICHE Gio van ni Bo lch ini Borg hi one Vell Via Via Via Piazzale Mafalda Di Savoia Via u affi A Via S Borghi Gio van ni Via llo nte Mo relio Rotatoria Borghi Giovanni Piazzale De Gasperi Alcide Via Via L a Gio rgio urizio Lig uria Ca Bolchini Via a Pir Giuseppe Via San Ma io cc ra Via lo Via Ligu ria Via Lig uria Via ep pe G iu s pp oli Gio va nn i Nie vo I Via Caracciolo: E Via Borghi: E P.za De Gasperi: P Vi a Am en do la Via Linee urbane co Pa ol o lo es Pie mo nte Di c an Fr an iP ao Via Ve rg Co la to Piazza Ferrucci F. Via Vi a ni te on Via Sc Via Petracchi Francesco ch i em Pi tta s ie As Bo l a Vi a Vi ta na ali Rie nz o F. ni r to Be Cris pi o i Rienz ola D Via C Via Cola Di Rienzo Orari di apertura al pubblico primavera/estate 8.00 - 20.00 autunno/inverno 8.00 - 18.00 Fr a nce sco