le scienze fisiche nel settecento

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FISICA/
MENTE
LE SCIENZE FISICHE
NEL SETTECENTO
di Roberto Renzetti
SECONDA PARTE: BOSCOVICH,
D'ALEMBERT, LAGRANGE, LAPLACE
8 - RUGGERO GIUSEPPE BOSCOVICH (1711
- 1787)
Nei paragrafi precedenti abbiamo accennato alla celebre
argomentazione di Laplace:
Un'Intelligenza che, per un dato istante,
conoscesse tutte le forze da cui è animata la
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natura e la situazione rispettiva di tutti gli esseri
che la compongono, se per di più fosse abbastanza
profonda per sottomettere questi dati all'analisi,
abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti
dei più grandi corpi dell'universo e dell'atomo più
leggero: nulla sarebbe incerto per essa e
l'avvenire, come il passato, sarebbe presente ai
suoi occhi.
E' questo il manifesto del meccanicismo a cavallo dei
secoli XVIII e XIX che illustra bene il substrato culturale su
cui lavoravano i fisici-matematici francesi di quel periodo. Su
quanto ipotizzato da Newton, soprattutto nell'Optics, la
spiegazione del mondo consisteva nel ridurre tutti i fenomeni
naturali alle interazioni meccaniche di particelle considerate
come parti ultime della materia. Bastava, come abbiamo visto
or ora per Laplace, conoscere le condizioni iniziali (posizioni e
velocità) di un dato sistema di particelle per calcolarsi, con la
meccanica, la sua successiva evoluzione a stati diversi in
fenomeni diversi. Ed è importante notare che, con la
meccanica, non era soltanto possibile calcolarsi l'evoluzione in
avanti, ma anche l'evoluzione all'indietro. Niente infatti, a
partire dalla formulazione newtoniana, impediva la
reversibilità dei fenomeni naturali proprio perché le equazioni
della meccanica risultano simmetriche rispetto al tempo.
In questo contesto particellare si inseriscono i lavori del
gesuita Giuseppe Ruggero Boscovich che risultò un grande
«mediatore» tra la fisica di Newton e la critica di Leibniz.
Egli, il primo scienziato che dopo 100 anni fa riemergere
il nome dell'Italia, nacque a Ragusa (oggi Dubrovnik), in
Dalmazia, nel 1711. Nel 1726 entrò nell’ordine dei gesuiti ed
alcuni anni più tardi fu ordinato sacerdote a Roma. Iniziò i suoi
studi al Collegium Ragusinum e li proseguì al Collegium
Romanum a Roma. La sua carriera iniziò come docente alle
classi inferiori del Collegium Romanum e successivamente
(1740) come docente di matematica al medesimo Collegio.
Egli fu scienziato poliedrico che studiò astronomia,
matematica, fisica, geodesia. Gli furono assegnati importanti
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incarichi tecnici che assolse con grande perizia: la verifica
della stabilità della cupola di San Pietro dopo la comparsa di
alcune crepe e quella della guglia del Duomo di Milano; la
consulenza relativa alla bonifica delle pianure pontine; i
problemi dei porti di Rimini e Savona. Partecipò, insieme a
Cristoforo Maire e sotto il papato di Benedetto XIV, alla
misura dell'arco di meridiano (due gradi) da Roma a Rimini al
fine di definire al meglio la configurazione e le carte degli Stati
pontifici. Si occupò anche di questioni diplomatiche per le sue
capacità dialettiche, per la sua serietà ed i modi eleganti e
brillanti che a volte sapevano anche essere duri e spigolosi.
Viaggiò, tra l'altro, a Vienna dove si recò e per studiare la
stabilità della Biblioteca Cesarea e per dirimere delle questioni
di confine tra Repubblica di Lucca e Granducato di Toscana e
dove (1758) pubblicò una delle sue opere più importanti,
Theoria Philosophiae Naturalis redacta ad unicam legem
virium in natura existentium (altre opere degne di nota sono:
De viribus vivis -1745; De lumine - 1748; De centro gravitatis
- 1751). Anch'egli passò per l'intolleranza delle idee. Fu
costretto
ad abbandonare il suo insegnamento a Roma perché non erano
condivise le sue idee di newtoniano in generale e sulla
costituzione della materia in particolare. Nel 1759 viaggiò in
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Francia ed in Inghilterra dove fu fatto membro della Royal
Society. Si recò a Costantinopoli per osservare il passaggio di
Venere davanti al Sole ma arrivò in ritardo. Al ritorno visitò
vari Paesi dell'Est europeo e nel 1763 fu chiamato ad insegnare
matematica all'Università di Pavia. Negli anni che vanno dal
1763 al 1768 insegnò tra Pavia e le Scuole Palatine di Milano.
In questa città fondò l'Osservatorio astronomico di Brera, la
Specola, nel quale si occupò di
Specola di Boscovich
strumentazione e degli errori dovuti alla medesima
(eliminazione delle aberrazioni cromatica e sferica). Venuto in
contrasto con altri astronomi, lasciò Brera e, in simultanea con
l'abolizione dell'ordine dei gesuiti del 1773 da parte di Papa
Clemente XIV, accettò di andare a lavorare a Parigi come
direttore dell'Ottica della Marina. Qui ebbe molti scienziati
amici che lo stimavano moltissimo ma ebbe anche scontri
continui con Laplace sul metodo di determinazione delle orbite
delle comete. Nel 1782 ottenne licenza di rimettere piede in
Italia e, dopo un soggiorno a Bassano del Grappa dedicato alla
pubblicazione della sua opera in 5 volumi Opera pertinentia ad
opticam et astronomiam (1785), morì a Milano nel 1787.
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Oltre a quanto detto e a quanto dirò oltre, Boscovich
studiò le perturbazioni delle orbite di Giove e Saturno e della
determinazione dell'orbita di Urano e si occupò di geometria
sferica indagando la possibilità di geometrie non euclidee. Tra i
suoi grandi meriti c'è quello di essere stato uno tra i primi
grandi divulgatori dell'opera di Newton nel continente.
La ricerca di Boscovich, che presenta un approccio del
tutto diverso da quanto fino ad ora visto alla meccanica, partì
dal proposito di determinare il centro di oscillazione dei corpi
solidi. Per far questo passò attraverso lo studio dei fenomeni
d'urto tra due corpi. Da alcune osservazioni empiriche (tutte di
carattere qualitativo) egli iniziò a costruirsi un modello
microscopico dei fenomeni in oggetto. Se l'urto tra le particelle
ultime che costituiscono la materia è pensato come urto tra
corpuscoli duri ed estesi, allora bisogna ammettere che
nell'urto si crei una discontinuità nella velocità e quindi nella
quantità di moto delle particelle. Detto con linguaggio moderno
e supponendo l'urto unidimensionale, all'istante in cui i due
corpuscoli si urtano, il vettore velocità dovrebbe assumere, in
quell'istante, due valori (se non altro due versi opposti).
L'ammissione di ciò viola la legge di continuità che impedisce
si possa andare da un valore ad un altro, di una data grandezza,
senza passare attraverso valori intermedi. La prima assunzione
di Boscovich è quindi quella legge di continuità, di sapore
prevalentemente euristico, che spesso era stata utilizzata da
Leibniz. Per risolvere il problema occorre, secondo Boscovich,
sbarazzarsi dei corpuscoli estesi e duri ed ammettere una sorta
di parziale «penetrabilità» della materia. Dalle sue osservazioni
risultava che "immediatamente prima del contatto [nell'urto tra
corpi solidi] le stesse velocità [di questi corpi] cominciano a
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cambiare." (Da: Theoria philosophiae naturalis ...). Quindi, a
distanze piccolissime, non vi deve più essere attrazione
(gravitazionale) tra corpi, ma repulsione che aumenta al
diminuire della distanza tra gli stessi. Riportando ciò a livello
microscopico è impossibile pensare le ultime particelle della
materia come dure ed estese. Esse, secondo Boscovich, devono
essere punti (matematici), indivisibili, inestesi, dotati di inerzia
ma non di massa, disseminati nel vuoto immenso. Intorno a
questi punti vi è poi una sorta di atmosfera di forza, più densa
man mano che ci si avvicina al punto. In questo modo
Boscovich supera la difficoltà che sullo stesso problema si era
presentata a Leibniz(1), sviluppando, come osserva Bertrand
Russel, la monadologia in modo più logico e conseguente dello
stesso Leibniz. Le azioni che poi si esercitano tra punti di
Boscovich sono a distanza, di tipo cioè newtoniano, ma anche
se qui c'è un esplicito richiamo a Newton, quando si dovesse
formalizzare il problema, non potremmo introdurre la massa e
quindi in alcun modo potremmo parlare di forze alla Newton.
Eppure per Boscovich non c'è materia ma forze le quali sono
responsabili di quelle variazioni di velocità nell'urto tra due
corpi o tra punti inestesi, cui si accennava prima (per la verità
Boscovich sostiene che "l'universo non consiste di vuoto
disseminato tra la materia, ma di materia disseminata nel
vuoto e fluttuante in esso" ma, portando alle naturali
conseguenze la sua concezione atomica, si vede bene qual fine
faccia la materia).
E lo stesso urto sparisce nella meccanica di Boscovich;
esso è sostituito da azioni che, avvenendo tra punti inestesi,
sono sempre a distanza (tra le atmosfere di forza che si
lasciano penetrare per un poco e poi, gradatamente, originano
la repulsione che diventa sempre più intensa). La curva di forza
(meglio sarebbe il dire: di variazione di velocità) in funzione
della distanza tra punti è data dal nostro in modo da prevedere
attrazioni di tipo gravitazionale a grande distanza, che vanno
con l'inverso del quadrato, e repulsioni molto intense
(impenetrabilità della materia) a brevissima distanza. A
distanze intermedie si hanno delle altre intersezioni della curva
con l'asse delle ascisse che, nelle ipotesi di Boscovich,
debbono rendere conto di tutti gli altri fenomeni conosciuti
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come, ad esempio: l'evaporazione di un liquido, la coesione, il
gas prodotto da fermentazione di sostanze, ....
Questa concezione di Boscovich, che prende le mosse da
Leibniz, che si sviluppa con Newton, che è in contrasto con il
meccanicismo cartesiano (che si serviva di particelle estese e
dure nel tutto pieno), è in realtà un' elaborazione assolutamente
originale che Boscovich definiva un sistema che è a mezza
strada tra quello di Leibniz e quello di Newton;(2) e ad essa,
poiché si fonda sul concetto di forza, è stato dato il nome di
«dinamismo».
Il dinamismo, modello meccanicistico che si presterà bene
ad una elaborazione matematica, sta a metà strada tra
concezioni corpuscolari e fluidistiche; esso in qualche modo
concilia il punto di vista della continuità (forze presenti
dovunque) con quello della discontinuità (punti inestesi).
Questa teoria dinamica di Boscovich (dinamismo fisico)
fu molto ammirata ma non compresa nella sua grandezza tanto
che, per molto tempo, non fu ripresa da nessuno: anche essa
aveva il difetto di essere interamente qualitativa senza nessuna
base sperimentale. Saranno prima Schelling, quindi Faraday a
riprenderla con successo: il primo inserendola in un sistema
filosofico che ebbe grande influenza tra i fisici romantici ed il
secondo fornendo al dinamismo una gran mole di risultati
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sperimentali che intersecarono il dinamismo con l'azione a
contatto e quindi con la teoria di campo.
E' interessante osservare che un altro sostenitore del
dinamismo fu proprio Kant, che molto contribuì alla sua
affermazione per la grande influenza più generale che egli
ebbe sul pensiero filosofico e scientifico dell' '800.
Nonostante quindi i grandi successi dei fisici - matematici
francesi, le prime istanze critiche, che erano state di Leibniz e
di Berkeley, si facevano avanti ed andavano a mettere in
discussione proprio i fondamenti della meccanica stessa.
Questo bisogno di critica dei fondamenti era stato tra l'altro
esplicitamente manifestato da Kant nei suoi Primi principi
metafisici della scienza della natura (1786). Secondo Kant
occorre far avanzare la discussione sui principi della meccanica
ben oltre la loro accettazione acritica a priori. Bisogna arrivare
fino ai concetti base su cui l'intera meccanica poggia.(3)
Osservo a margine che siamo alla fine del XVIII secolo. La
formulazione di queste istanze critiche coincide, da una parte,
con la decadenza dell'Illuminismo(4) e, dall'altra, con
l'emergere della Germania che va, via via, a collocarsi al
centro del pensiero filosofico europeo. Il primo movimento di
rottura con il pur evanescente Illuminismo tedesco è quello
dello Sturm und Drang. Gli appartenenti ad esso (gli sturmer)
ebbero molto in comune con gli illuministi, soprattutto divisero
con loro la dura condanna per l'ancien regime, l'interesse per la
natura e lo spirito laico; nel contempo, però, si distaccarono
radicalmente da essi nel sostituire la categoria del 'genio' a
quella della 'razionalità'. Ma l'autentico superamento
dell'Illuminismo tedesco sarà rappresentato dal criticismo
kantiano. Kant, che si muoveva all'interno dell'Illuminismo
(essendone un appassionato difensore), si impadronì delle
esigenze di razionalità di esso, studiò i fondamenti di tali
esigenze ed arrivò a scoprirne i limiti.
9 - JEAN LE ROND D'ALEMBERT (1717 1783)
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D'Alembert nacque nel 1717 a Parigi da una relazione
illegittima tra la famosa donna di lettere madame Claudine
Guérin de Tencin ed il cavaliere Louis-Camus Destouches,
generale d'artiglieria. Per ordine della madre fu abbandonato da
un servo sui gradini di una cappella contigua ad una delle torri
di Notre Dame, quella di Saint Jean Le Rond, da cui il suo
nome. Fu portato in un orfanatrofio ma suo padre riuscì a
trovarlo e, pur non riconoscendolo, lo fece adottare, in cambio
di una rendita, alla moglie di un vetraio, Madame Rousseau,
con la quale Jean vivrà fino ai 50 anni e che riconoscerà
sempre come sua vera madre. Con la piccola pensione che il
padre dette a Jean, egli iniziò i suoi studi prima in forma
privata e poi, a partire dai 12 anni, al giansenista Collège des
Quatre Nations, fondato da Mazzarino. Fu uno studente
brillante che, dopo aver preso il diploma di scuola superiore
(baccalauréat en arts) nel 1735, proseguì gli studi alla Scuola
di Diritto, iscrivendosi con il cognome che aveva, Daremberg,
che fece cambiare in D'Alembert, divenendo avvocato nel 1738
ma rinunciando all'avvocatura. Si iscrisse poi a medicina ma
anche qui abbandonò. Il suo interesse era per le scienze e la
matematica. Nel 1739, infatti, presentò un primo lavoro di
matematica all'Académie des Sciences e nel 1742 fu assunto
come collaboratore nella sezione astronomica. Appena un anno
dopo pubblicò uno dei suoi lavori più importanti, il Traité de
dynamique dans lequel les lois de l'équilibre et du mouvement
des corps sont réduites au plus petits nombre possible ... e ad
esso seguirono altre opere di gran rilievo: Traité de l’équilibre
et du mouvement des fluides (1744);
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Théorie générale des vents (1745); Réflexions sur la cause
générale des vents (1746); Recherches sur les cordes vibrantes
(1747); Recherches sur la précession des équinoxes (1749)
oltre ad opere di carattere eminentemente filosofico. Tra queste
merita particolare rilievo il Discours préliminaire
all'Encyclopédie (alla quale D'Alembert contribuì anche
scrivendo molte voci), la monumentale opera che D'Alembert
intraprese insieme a Diderot a partire dal 1746 e che vide il suo
primo tomo uscire nel 1751 (tomo nel quale compariva il
suddetto Discours préliminaire). D'Alembert lasciò
l'Encyclopédie nel 1759 per divergenze con Diderot.
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Ancora nel 1746 egli fu eletto associato di geometria
all'Académie ma la sua carriera da quelle parti non fu brillante
a seguito della sua completa adesione al progetto
dell'Encyclopédie che gli creò vari nemici, tra cui l'accademico
Clairaut. In compenso, nel 1745, fu associato all'Accademia di
Berlino (declinò l'invito di Federico di Prussia a dirigere
l'Accademia perché: non voleva avere un grado accademico
superiore a colui che stimava come più grande matematico del
tempo, Euler; e perché sapeva che la cosa avrebbe creato
problemi politici in Francia) e, nel 1754, venne eletto membro
dell' Académie française della quale dal 1772 assunse la carica
di segretario a vita. Fu amico di Voltaire e Lagrange e grande
ispiratore dell'Illuminismo. Anche se non arrivò a vederla, fu
uno dei padri della Rivoluzione Francese. Si spense nel 1787
per una malattia alla vescica, sopravvivendo di 11 anni ad una
scrittrice, Julie de Lespinasse, che aveva conosciuto nel 1754 e
con la quale aveva diviso molti anni di tenera ed affettuosa
compagnia. Da ateo convinto qual era la sua sepoltura fu in una
fossa comune senza lapide.
Quando D'ando D'Alembert iniziò a lavorare, vi erano
varie incongruenze e contraddizioni nelle questioni di
meccanica. D'Agostino ricorda che le leggi meccaniche note a
quell'epoca (1743) contenevano alcune leggi del moto e
dell'urto elaborate da Descartes, le leggi di Galileo sulla caduta
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dei gravi, le leggi di Huygens sulla forza centrifuga e sul
pendolo composto, la conservazione della forza viva di Leibniz
e la gran mole di concetti e leggi dei Principia di Newton. Noi
oggi siamo portati a vedere solo Newton come il
sistematizzatore di tutto ma non doveva essere così in un'epoca
in cui tutti i contributi erano relativamente recenti e qualche
confusione poteva nascere. Pertanto doveva esservi e
certamente vi era in D'Alembert una esigenza di ordine tra le
varie cose che erano state elaborate, anche su medesimi
argomenti e che potevano sembrare trattazioni differenti. Nel
Traité de dynamique egli inizia a fare ordine spiegandolo nella
Premessa:
Si è avuta fortuna nell'applicare l'algebra alla
geometria, la geometria alla meccanica e ciascuna
di queste scienze a tutte le altre, delle quali ultime
esse sono la base e il fondamento. Ma non si è mai
prestata altrettanta cura nell'opera di ridurre i
principi di tali scienze al minor numero possibile o
in quella di fornir loro tutta quella chiarezza che
si può desiderare. A questo proposito, la
meccanica soprattutto è quella che sembra esser
stata maggiormente trascurata: e così la maggior
parte dei suoi principi ha dato luogo a molte
questioni spinose, vuoi perché tali principi sono
oscuri di per se stessi, vuoi perché essi sono
enunciati e dimostrati in modo oscuro. In
generale, sino ad oggi ci si è preoccupati più di
far crescere l'edificio che di far luce al suo
ingresso; si è pensato maggiormente all'ampiezza
dell'edificazione che a dare ai suoi fondamenti
tutta la solidità che ad essi converrebbe.
Io mi sono proposto, con quest'opera, di
soddisfare due istanze: far retrocedere i limiti
della meccanica e appianare l'accesso di
quest'ultima; e il mio fine principale è stato quello
di colmare ciascuna di tali istanze, in qualche
modo, per mezzo dell'altra, e cioè, non sola- .
mente di dedurre i principi della meccanica da
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nozioni che siano le più chiare, ma anche di
applicarli a nuovi usi; di mostrare sia l'inutilità di
molti principi che sino ad oggi sono stati impiegati
in meccanica, sia i vantaggi che si possono
ricavare, per il progresso di questa scienza, dalla
combinazione di altri; in una parola, di estendere i
principi riducendoli di numero [Da Bellone,
bibliografia 63].
Il programma di D'Alembert è dunque chiaro: è inutile
utilizzare tanti principi dove ne occorrono pochi. Vediamone
una qualche articolazione nel seguito della Premessa:
Il tempo per sua natura scorre uniformemente, e la
meccanica suppone una tale uniformità. D'altra
parte, senza conoscere il tempo in se stesso e
senza averne una misura precisa, non possiamo
con maggior chiarezza rappresentare il rapporto
fra le sue parti se non ricorrendo al rapporto fra
le porzioni di una linea retta indefinita. Orbene,
l'analogia che si ha tra il rapporto fra le parti di
una tal linea e il rapporto fra le parti dello spazio
percorso da un corpo che si muove in modo
qualsiasi può sempre essere espressa per mezzo di
un'equazione: si può dunque immaginare una
curva le cui ascisse rappresentano le porzioni di
tempo che sono trascorse dopo l'inizio del
movimento, mentre le ordinate corrispondenti
designano gli spazi percorsi durante quelle
porzioni di tempo. [...]
È allora evidente che, mediante la sola
applicazione della geometria e del calcolo, diventa
possibile, senza ricorrere ad alcun altro principio,
trovare le proprietà generali del movimento,
essendo quest'ultimo variabile secondo una legge
qualsiasi. Ma come accade che il movimento di un
corpo segue questa o quella legge particolare? La
sola geometria nulla ci può insegnare in
proposito: qui si può pensare che stia il primo
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problema che appartiene immediatamente alla
meccanica [Da Bellone, bibliografia 63].
Da dove iniziare a cambiare, allora ? Vi è qualcosa che non
torna nella meccanica che comunemente utilizziamo ?
[...] questo unico assioma, vago e oscuro, secondo
cui l'effetto è proporzionale alla causa. Non
esamineremo affatto se questo principio sia di
verità necessaria; confesseremo soltanto che le
prove che sino ad ora sono state portate in suo
favore non ci sembrano affatto libere da critiche:
e non lo adotteremo, come qualche geometra, in
veste di verità puramente contingente, poiché ciò
getterebbe in rovina la certezza della meccanica e
ridurrebbe quest'ultima a non esser altro che una
scienza sperimentale; ci contenteremo di
osservare che, vero o centro di dubbi, chiaro
oppure oscuro, esso è inutile per la meccanica e
ne deve, di conseguenza, essere bandito [Da
Bellone, bibliografia 63].
E qui siamo al nocciolo del problema da cui D'Alembert
prende le mosse. Su questa questione di causa ed effetto egli
specificherà ancora nella voce causa dell'Encyclopédie:
Sarebbe finalmente auspicabile che i Meccanici
riconoscessero che noi non conosciamo altro sul
moto se non il moto stesso [...] e che le cause
metafisiche di questo moto ci sono ignote e che ciò
che chiamiamo causa, anche quella [...] dell'urto,
sono chiamate così solo impropriamente; ma essi
sono effetti da cui derivano altri effetti.
In un urto un corpo in moto ne muove un altro e di
conseguenza il corpo che urta viene considerato
come causa del movimento del corpo urtato. Ma è
un modo improprio di esprimersi. La causa
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metafisica, la vera causa c'è ignota [citato da
D'Agostino].
E' una critica decisa al secondo principio della dinamica di
Newton e, come si vede, egli accettò le definizioni newtoniane
di spazio e tempo ma non accettò il fatto che la forza sia
proporzionale all'accelerazione come Euler aveva esplicitato.
Dietro questo principio vi è un qualcosa di vago, di metafisico
e di oscuro (che estendono tenebre sopra una Scienza che è
invece chiara di per sé), il fatto cioè che la causa deve essere
proporzionale all'effetto.
Naturalmente, per fare critiche così pesanti, D'Alembert
ha una visione diversa della meccanica che egli basa su tre
principi o leggi del movimento. Egli dice che possiamo ridurre
i Principi della Meccanica a tre, la forza d'inerzia, il moto
compostoi e l'equilibrio. Seguiamo l'impostazione di
D'Alembert, aiutandoci con D'Agostino.
PRIMA LEGGE DEL MOTO. E' la legge del moto
inerziale o principio della forza d'inerzia che D'Alembert
ritiene evidente di per sé in base al principio di ragion
sufficiente:
Un corpo non si può mettere in moto da solo [...]
ma una volta data l'esistenza del moto, la legge
più semplice che un corpo possa osservare [...] è
la legge dell'uniformità ed è per conseguenza
questa la legge che esso deve osservare [...]. Il
moto è dunque uniforme per natura.
Per alterare il moto di un corpo, secondo D'Alembert, è
necessario agisca o un peso o un urto. Le forze altrove invocate
sono ritenute entità occulte di origine metafisica. Da ciò
discende il fatto che D'Alembert non prenderà posizione nella
polemica delle forze vive.
Ed in termini di soli effetti (per noi è una sola ipotesi
mentre per tutti i geometri è eretta a principio) egli definisce la
forza acceleratrice:
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ϕ dt = du
dove le quantità du e dt sono gli incrementi infinitesimi delle
velocità e dei tempi. E dopo questa prima definizione egli ce ne
offre un'altra, quella della forza motrice che risulta essere il
prodotto della forza acceleratrice per la massa, senza però darci
alcuna definizione originale per quest'ultima che sembrerebbe
essere un dato a priori. In tal modo, nella Meccanica di
D'Alembert, la forza diventa una nozione derivata. In
definitiva: se si conosce il moto, quelle che chiamiamo forze
non sono che mere manifestazioni del medesimo moto che si
possono calcolare a partire da esso.
SECONDA LEGGE DEL MOTO. E' la legge del moto
composto che si ha quando un corpo in moto cambia direzione
a causa di un urto contro un ostacolo fisso (in tal caso il moto è
composto dal moto iniziale e da quello ricevuto dall'urto). E'
anche vero il viceversa quando il moto iniziale può essere
considerato come risultante dal moto assunto e da quello
perduto (termine usato per indicare l'opposto di ricevuto).
Nell'urto vi è un moto perduto ed uno mantenuto (si deve
osservare che D'Alembert considera i corpi come
completamente rigidi e quindi esenti da rimbalzi che solo
l'elasticità permette; conseguenza di questa posizione è
l'assenza di conservazione dell'energia meccanica).
Poiché il moto del corpo prima della collisione
può essere considerato come composto del nuovo
moto che egli assume o di un altro che è perduto
[...] ne segue che la legge del moto, cambiato da
un qualsiasi ostacolo, dipende unicamente dalla
legge del moto distrutto da quegli stessi ostacoli.
Ed osserva D'Alembert:
Alcuni lettori potrebbero restare sorpresi dal fatto
che io faccia la dimostrazione di una
proposizione, così semplice in apparenza, che è
parte di un caso generale molto più complesso ma
non si può, mi sembra, dimostrare altrimenti la
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proposizione in oggetto che nel considerarla come
un assioma incontestabile, che l'effetto di due
cause congiunte è uguale alla somma dei loro
effetti presi separatamente o che due cause
agiscono congiuntamente come agirebbero
separatamente, principio che non mi sembra molto
evidente né molto semplice e che d'altra parte ha
molto a che vedere con la questione delle forze
vive e con il principio della forze acceleratrici
[...]. E' la ragione che mi ha obbligato ad evitare
di farne uso, in accordo con quanto mi sono
proposto all'inizio di questo Trattato e cioè di
ridurre la Meccanica al più piccolo numero
possibile di principi, e di occuparmi solo di tutti
quei principi che hanno a che fare con il
movimento, cioè dello spazio percorso e del tempo
impiegato a percorrerlo, senza farci entrare in
alcun modo le forze e le cause motrici.
Il secondo principio di Newton, considerato una
tautologia, viene quindi enunciato da D'Alembert in altro modo
(principio di D'Alembert), che era stato anche di Jacob II
Bernouilli ma solo nel caso particolare del pendolo composto.
Secondo D'Alembert, in un sistema meccanico vincolato, deve
esservi una equivalenza tra le forze reali applicate al sistema e
le forze che sarebbero necessarie se non esistessero i vincoli
per dare al sistema il moto che esso ha. In tal modo le forze
vincolari vengono eliminate ed i problemi dinamici vengono
ridotti a problemi statici (stessi calcoli erano stati sviluppati,
senza ricorso al principio D'Alembert, anche da Euler).
TERZA LEGGE DEL MOTO. E' la legge che riguarda
gli urti tra due masse rigide quando si muovono con velocità
opposte. In caso di uguaglianza delle masse, dopo l'urto, si ha
equilibrio. L'equilibrio si ha anche quando le masse dei due
corpi, in moto in versi opposti, sono in ragione inversa alle loro
velocità. La giustificazione di ciò risiede, per D'Alembert su
ragioni di simmetria. Ogni altro caso, per D'Alembert può
essere ricondotto a questo come pretende dimostrare studiando
4 possibili casi. Ma la cosa è, in generale, del tutto errata.
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Questa terza legge serviva comunque a D'Alembert proprio per
non utilizzare il concetto di forza. Per far ciò introdusse un
moto virtuale che egli considerava una tendenza al moto. In tal
modo la statica diventava un caso particolare della sua
meccanica dell'urto nel caso di equilibrio che si ha quando
masse uguali tenderebbero a muoversi con velocità uguali ed
opposte, con l'integrazione (errata) già fatta secondo la quale è
possibile ridurre a questo tutti gli altri casi.
Dalle seconda e terza legge D'Alembert ricava il
principio che porta il suo nome e che riguarda gli urti sia che
essi avvengano direttamente sia che gli urti siano trasmessi da
un corpo intermedio (ad esempio un'asta rigida o una corda
non elastica). Il principio afferma che durante il moto di un
qualsiasi sistema di corpi, la risultante delle forze attive è
uguale alla risultante delle reazioni cinetiche, definite come il
prodotto della massa di ciascun punto per la sua accelerazione.
Esso può anche essere enunciato nel modo seguente: le azioni e
reazioni interne a un sistema di corpi rigidi in moto si fanno
equilibrio. O anche: in ogni istante, ogni stato del moto può
essere considerato come uno stato di equilibrio, qualora siano
introdotte delle appropriate forze d'inerzia. O ancora: Se si
considera un sistema di punti materiali legati tra loro in modo
che le loro masse acquisiscano velocità rispettive differenti a
seconda se esse si muovano liberamente o solidalmente, le
quantità di moto acquisite o perse nel sistema sono uguali.Ed
in definitiva, nel caso di un corpo vincolato (pendolo
oscillante, sfera che rotola su un piano inclinato, ...) vi deve
essere equivalenza fra le forze applicate al sistema e quelle che
occorrerebbero per dare al corpo vincolato il moto che ha
effettivamente, qualora non esistessero vincoli. In tal modo le
coordinate spaziali non risultano più indipendenti con la
conseguenza che la stessa cosa accade per le equazioni
differenziali che descrivono il problema; le forze vincolari non
producono moto ma sono effetti del moto. Egli dice:
Sia dato un sistema di corpi disposti gli uni in
rapporto agli altri in un modo qualsiasi;
supponiamo d'imprimere a ciascuno di questi
corpi un movimento particolare, che egli non
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possa seguire a causa dell'azione degli altri corpi:
trovare il movimento che ciascun corpo deve
prendere.
Si può sempre considerare, dice D'Alembert,
ciascuno dei movimenti a. b, c ..., impressi
rispettivamente ai differenti corpi A, B, C ...,
costituenti il sistema dato, come costituito di due
movimenti: a ed α, b e β, c e γ ... , in cui a, b, c ...
sono i movimenti realmente seguiti, cioè i
movimenti cercati e α, β, γ ... movimenti che
devono distruggersi mutuamente per il fatto dei
legamenti.
Tale è la scomposizione che d'Alembert eleva a principio:
Scomporre i movimenti a, b, c ... impressi a
ciascun corpo. ciascuno in altri due a, α; b, β; c,
γ ... che siano tali che se si fossero impressi ai
corpi soltanto i movimenti a, b, c ... essi avrebbero
potuto conservare questi movimenti senza nuocersi
reciprocamente; e che se non si fosse loro
impresso che i movimenti α, β, γ .... il sistema
sarebbe rimasto in riposo; è chiaro che a, b, c ....
saranno i movimenti che questi corpi prenderanno
in virtù della loro azione. Ciò che bisognava
trovare.
Se il principio di d'Alembert è chiarissimo, le
scomposizioni alle quali egli obbliga sono spesso laboriose. Ci
troviamo di fronte alle stesse difficoltà di Descartes e Leibniz
perché abbiamo ancora a che fare con il sistema nella sua
totalità e non con le parti che lo compongono; perciò esso
risulta insufficiente per risolvere i problemi generali della
dinamica. Comunque il principio di D'Alembert creò qualche
illusione come realizzazione del sogno di Descartes di scrivere
una meccanica basata solo su materia e moto, ed espresse la
sua potenza solo nelle mani di Lagrange, quando fu combinato
con il principio dei lavori virtuali per dar luogo alle equazioni
di Lagrange, come vedremo.
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Molti altri furono i contributi di D'Alembert ed almeno ad
un altro devo far riferimento. Nelle Recherches sur les cordes
vibrantes (1747) egli studiò il problema delle corde vibranti
riuscendo a ricondurre il fenomeno ad una equazione
differenziale che descrive la propagazione delle onde sonore
per la quale fornì anche la soluzione
u = (x + t) + (x - t).
dove e sono funzioni arbitrarie. Vediamo il ragionamento
che D'Alembert seguì per arrivare a tale soluzione, pubblicato
negli Atti dell'Accademia di Berlino del 1747.
Egli inizia affermando che se indichiamo
con p e
con q, si ha:
du = p dx + q dt.
Ma, poiché vale l'equazione
, allora p dt + q dx è
ancora un differenziale esatto che possiamo denotare con dv.
Da cui
dv = p dt + q dx.
E facendo i conti si ha
du + dv = (p dx + q dt) + (p dt + q dx) = (p + q)(dx
+ dt),
e
du - dv = (p dx + q dt) - (p dt + q dx) = (p - q)(dx dt).
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Così u + v deve essere una funzione di x + t e u - v deve essere
una funzione di x - t. Possiamo quindi scrivere
u + v = 2 (x + t)
e
u - v = 2 (x - t)
Da cui
u = (x + t) + (x - t).
D'Alembert osserva qui che le condizioni del problema
fisico di di una corda vibrante richiede che, quando x = 0, u
deve annullarsi per ogni valore di t. Deve quindi risultare,
identicamente:
(t) + (-t) = 0.
Assumendo che ambedue le funzioni possono essere sviluppate
in serie di potenze di t, ciò richiede che essi devono contenere
solo potenze dispari. Allora
(-t) = - (t) = (-t)
Quindi
u = (x + t) + (x - t).
Euler fece avanzare ulteriormente questo campo del
calcolo differenziale trovando, per l'equazione più generale
che l'integrale generale è
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u = (x + at) + (x - at).
dove
e
sono funzioni arbitrarie.
Posso ora passare a concludere con D'Alembert ritornando
al suo lavoro nell'Encyclopédie ed in particolare al suo
Discorso preliminare. In esso tracciò, tra l'altro, un quadro
organico dei rapporti tra le varie branche della conoscenza
guidato dal suo criterio di ricerca sistematica di principi
sempre più generali sotto i quali riunire i risultati parziali delle
singole scienze.
Per poco che si rifletta sulla connessione che lega
fra loro le varie scoperte, è facile accorgersi del
mutuo aiuto che le scienze e le arti si prestano, e
quindi della catena che le unisce. Ma se spesso è
dfficile ridurre a un esiguo numero di regole o di
nozioni generali ogni singola scienza e ogni
singola arte, non lo è di meno rinchiudere in un
unico sistema le articolazioni infinitamente diverse
della scienza umana.
Il primo passo che dobbiamo fare in questa
ricerca è quello di esaminare, ci si permetta una
simile espressione, la genealogia e la filiazione
delle nostre conoscenze, le cause a cui si deve la
loro nascita e i caratteri che le distinguono; in
breve di risalire fino all'origine e alla generazione
stessa delle nostre idee. [ ... ] Tutte le nostre
conoscenze possiamo dividerle in dirette e in
riflesse. Le conoscenze dirette sono quelle che noi,
senza alcun intervento attivo della nostra volontà,
riceviamo immediatamente; trovando aperte, se
così ci si può esprimere, tutte le porte della nostra
anima, esse vi penetrano senza trovare resistenza
e senza compiere sforzo alcuno. Le conoscenze
riflesse sono invece quelle che lo spirito acquista
operando sulle dirette, unendole e combinandole
insieme.
Tutte le nostre conoscenze dirette si riducono a
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quelle che riceviamo attraverso i sensi; ne segue
che noi dobbiamo tutte le nostre idee alle
sensazioni [...] la prima cosa che le nostre
sensazioni ci fanno conoscere, e che neppure si
distingue da esse, è la nostra esistenza. Ne
consegue che le nostre prime idee riflesse devono
avere come oggetto noi stessi, cioè quel principio
pensante che costituisce la nostra natura e che
non è affatto differente da noi. La seconda
conoscenza che noi dobbiamo alle nostre
sensazioni, è l'esistenza degli oggetti esterni, fra i
quali deve essere compreso il nostro stesso corpo.
[...]. L'effetto che questi innumerevoli oggetti
producono su di noi è così forte, così continuo e ci
unisce talmente ad essi che, passato il primo
momento in cui le nostre idee riflesse ci
richiamano dentro noi stessi, le sensazioni, che ci
assediano da ogni lato, ci costringono ad uscirne,
strappandoci alla solitudine in cui resteremmo
senza il loro intervento.
E, più oltre, D'Alembert indica la fisica come uno dei modi per
avvicinarci a conoscere il mondo esterno:
I primi uomini, aiutandosi l'un l'altro con le loro
conoscenze, ossia con i loro sforzi separati o
congiunti, sono pervenuti, forse in breve tempo, a
scoprire, almeno in parte, gli usi cui potevano
prestarsi i vari corpi. Avidi di conoscenze utili,
dovettero in un primo tempo rifuggire da qualsiasi
genere di speculazione oziosa e considerare
invece rapidamente, uno dopo l'altro, i vari esseri
che la natura presentava, combinandoli, per così
dire, materialmente, secondo le loro proprietà più
evidenti e sensibili. [...]. Ma per quanto lungo
possa essere stato il cammino che i primi uomini e
i loro successori seppero compiere, incalzati da
uno stimolo stringente quanto può esserlo quello
della propria conservazione, l'esperienza e
l'osservazione di questo vasto universo dovettero
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ben presto metterli davanti a difficoltà che con
tutti i loro sforzi non riuscirono a superare. La
mente umana, abituata alla meditazione e avida di
ricavarne qualche frutto, trovò allora una certa
qual risorsa nella pura curiosità di scoprire le
proprietà dei corpi: un campo di scoperte che non
conosce limiti. [...] Se l'utilità non costituisce il
diretto oggetto della nostra azione, essa può
esserne almeno il pretesto. Ci basta di aver
talvolta scoperto un reale vantaggio in certe
conoscenze che inizialmente non lo facevano
supporre, per ritenere che tutte le ricerche
compiute per pura curiosità potranno un giorno
esserci utili. Ecco l'origine e la causa dei
progressi di questa vasta scienza chiamata
generalmente fisica o studio della natura, che si
divide in tanti settori differenti.
Ma, a fianco di queste considerazioni d'interesse sullo sviluppo
delle scienze che si intersecarono con quelle delle religioni e
delle superstizioni (sia Diderot che D'Alembert non spinsero
troppo nei loro attacchi alla religione perché erano in regime di
monarchia assoluta con la Chiesa che condivideva il potere con
il sovrano), vi è anche il riconoscimento del lavoro manuale,
del lavoro artigiano della classe emergente borghese, che, dai
tempi di Galileo, era sparito dalle elaborazioni degli scienziati:
Il disprezzo per le arti meccaniche sembra avere
colpito fino a un certo punto anche i rispettivi
inventori. I nomi di questi benefattori del genere
umano sono pressoché sconosciuti, mentre la
storia dei suoi distruttori - vale a dire dei politici e
dei conquistatori - non è ignota a nessuno.
Eppure, forse, bisogna andare a cercare presso gli
artigiani le più ammirevoli prove di sagacia, di
pazienza, di ingegnosità. Ammetto che quasi tutte
le arti sono state inventate poco a poco, e che ci
sono voluti secoli perché gli orologi, ad esempio,
raggiungessero l'attuale perfezione. Ma non
accade lo stesso anche nelle scienze? Quante
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scoperte, che hanno reso immortali i loro autori,
non erano state preparate dalle fatiche dei secoli
precedenti, e spesso persino recate a un tal punto
di maturità, che restava un solo passo da fare?
Per restare nel campo dell'orologeria, perché mai
coloro a cui dobbiamo la piramide degli orologi,
lo scappamento e la ripetizione, non sono famosi
quanto coloro che nei secoli hanno recato a
perfezione l'algebra? D'altra parte, se debbo
credere ad alcuni filosofi che non si sono
vergognati di studiare le arti [meccaniche] perché
la moltitudine le disprezzava, esistono macchine
così complicate, fornite di parti talmente
interdipendenti, che difficilmente l'invenzione è da
attribuirsi a più persone. Quel genio raro, il cui
nome è sepolto nell'oblio, non sarebbe stato degno
di essere accolto nel ristretto novero degli spiriti
creativi, che hanno aperto strade nuove alle
scienze?
10 - GIUSEPPE LUIGI LAGRANGE (1736 1813)
Altro gigante del secolo è il piemontese Giuseppe Luigi
Lagrange (in origine la Grangia poi la Grange). Il suo
bisnonno era francese ma lasciò il servizio di Luigi XIV per
passare alle dipendenze di Carlo Emanuele II a Torino. Sua
madre era Maria Teresa Gros, figlia di un medico, e suo padre,
Giuseppe Francesco Ludovico, lavorava come tesoriere
dell'artiglieria del re e che portò alla rovina la famiglia per le
sue improvvide operazioni finanziarie (dirà più tardi il giovane
Lagrange: Se fossi stato ricco non mi sarei dato alle
matematiche). Fu primogenito di 11 figli dei quali solo due
raggiunsero la maggiore età. A soli 14 anni fu avviato a
studiare da avvocato nell'Università di Torino e divenne subito
un appassionato della lingua latina. I suoi interessi si
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spostarono verso la matematica dopo aver letto un libro del
famoso astronomo Halley. Studiò matematica e scienze sotto la
guida del fisico G. B. Beccaria (occorrerebbe una grande opera
di rivalutazione di questo fisico dimenticato che fece cose
eccellenti soprattutto in campo elettromagnetico). A soli 17
anni leggeva tranquillamente le opere di Newton, Euler,
Leibniz e dei Bernoulli. A 19 anni, nel 1755, iniziò a
corrispondere con Euler al quale comunicò alcuni suoi lavori
sul calcolo delle variazioni. Nello stesso fu chiamato ad
insegnare geometria nella regia scuola di artiglieria di Torino.
Due anni dopo prese parte alla costituzione della Società
privata torinese, nucleo della futura Accademia Reale delle
Scienze di Torino. Stabilì una relazione epistolare con
D'Alembert del quale divenne in seguito grande amico. Si recò
a Parigi a cavallo degli anni 1763-1764, dove fu volentieri
ospitato da vari studiosi. L'Académie di Parigi lo premiò per i
suoi studi sull'irregolarità nel moto della Luna. Quando Euler
lasciò Berlino, raccomandò Lagrange per sostituirlo. Carlo
Emanuele fu dispiaciuto ma accettò che questo grande si
recasse presso la corte di Federico II di Prussia, dove ottenne la
carica di direttore della classe di scienze nell'Accademia di
Berlino, che mantenne dal 1766 al 1787 quando, alla morte di
Federico II, decise di accettare l'invito a Parigi di Luigi XVI
dove, già in periodo rivoluzionario, divenne presidente della
Commission des Poids et Mesures (1790). Fu comunque a
Berlino dove Lagrange scrisse una delle sue opere più
importanti, la Méchanique analytique, pubblicata nel 1788.
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A Parigi, anche per la perdita recente della prima moglie
(1783), sua cugina Vittoria Conti, sposata nel 1766, fu preso da
profondo abbattimento: tutto lo annoiava, la vita e la
matematica. Si risollevò quando conobbe una giovinetta,
Adelaide Le Monnier figlia di un suo collega astronomo
dell'Académie, di circa 40 anni più giovane che nel 1792
divenne la sua nuova compagna. Riprese a scrivere opere
principalmente di matematica, ricercando formulazioni sempre
più rigorose(5). Tra queste notevoli sono le Leçons
élémentaires sur les mathématiques, données à l'École
Normale del 1795 (che ebbero un grandissimo successo e
furono subito importate dagli Stati Uniti d'America con il titolo
Lectures on Elementary Mathematics)(6), la Théorie des
fonctions analytiques (1797) e le Leçons sur le calcul des
fonctions (1806). Dal 1797, a seguito della chiusura dell' École
Normale, passò ad insegnare all'École polytechnique che nel
1794 era stata fondata dal geometra Monge e dall'ingegnere
idraulico Lazare Carnot come emanazione dei governi
rivoluzionari.
Si sarà notato che ci troviamo negli anni della
Rivoluzione Francese e Lagrange arrivò a Parigi proprio un
anno prima che scoppiasse. Furono anni molto difficili per
Lagrange per il fatto che egli era uno straniero e proveniva
dalla Prussia, uno Stato nemico della Francia. E, proprio nel
1793, sembrò imminente un decreto della Convenzione che
avrebbe fatto arrestare tutti gli stranieri di Stati nemici. Su
fortissime pressioni di Lavoisier, Lagrange fu risparmiato
anche se fu lo stesso Lavoisier a perdere la testa sotto la
ghigliottina nel 1794 (era un agente delle tasse, oltre che
chimico eccelso) e, in questa occasione, Lagrange fece del
tutto per ricambiare ma senza successo.
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L'esecuzione di Lavoisier
Morì nel 1813, dopo aver raccolto la grande ammirazione
dello stesso Napoleone che gli conferì la Legion d'onore, lo
fece Senatore e lo nominò conte dell'Impero.
Come Euler, fu estremamente prolifico e scrisse
praticamente su tutto e sempre in francese: astronomia,
aritmetica, analisi, fisica-matematica, algebra, meccanica,
calcolo delle probabilità, geometria e trigonometria. Non è il
caso, nell'economia di ciò che racconto, di trattare i suoi
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elaboratissimi contributi alla meccanica analitica (chi è del
mestiere sa bene in cosa consiste la lagrangiana) ma alcune
cose meritano molta attenzione a partire da una sua frase della
sua Méchanique analytique le cui conseguenze in alcuni
matematici dei miei studi universitari mi fecero molto soffrire.
Dice Lagrange:
Non si troveranno figure in quest'opera: I metodi
che io espongo non richiedono né costruzioni né
ragionamenti geometrici o meccanici, ma
solamente operazioni algebriche soggette ad un
andamento regolare e uniforme. Quelli che amano
l'analisi vedranno con piacere la meccanica
divenirne una nuova branca e mi saranno grati
d'averne esteso così il dominio.
A questo proposito osserva Forti:
Se io risolvo un problema con metodo geometrico
non perderò mai di vista le figure date e le
operazioni su di esse, fino alla soluzione. Così tale
soluzione si collega con continuità ai dati stessi,
attraverso una visione chiara, spesso semplice ed
elegante.
Se procedo invece analiticamente
(algebricamente) dovrò indicare con simboli le
incognite, legarle ad altri simboli che sprimono i
dati del problema, ed infine operare
meccanicamente su tali simboli, tenendo conto di
proprietà delle operazioni universalmente
riconosciute, ma dimenticando ogni significato
concreto della questione, ogni possibile
interpretazione dei passaggi(7).
Ed il Settecento rappresenta proprio il passaggio deciso ad
una trattazione analitica dei problemi, trattazione che viene
apertamente rivendicata da Lagrange. Si tratta di far vivere il
calcolo differenziale di vita propria non solo
indipendentemente dalle figure ma anche dall'esperimento che
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verrà dopo con un totale ribaltamento dell'impostazione
galileiana. Si osservi che siamo agli inizi della rivoluzione
industriale e della specializzazione del lavoro che vede via via
la separazione del fisico teorico dallo sperimentale. La cosa si
affermerà definitivamente con i lavori di Maxwell.
Entriamo ora in qualche dettaglio sull'opera di Lagrange,
che divide con Euler il titolo di massimo matematico del
Settecento, con particolare riferimento alla Méchanique
analytique.
Questo trattato ha una struttura generale del tutto
differente da altre opere su argomenti analoghi redatte in
quegli anni. La meccanica è ora del tutto trasformata in un
capitolo della matematica (e ciò era quanto si faceva all'epoca)
con una particolare idea del medesimo Lagrange che intendeva
la meccanica come una geometria a quattro dimensioni e
l'analisi meccanica come un'estensione della geometria
analitica. Da qui il nome di meccanica analitica che richiama
nel nome la geometria analitica di Descartes. E come
quest'ultimo nel caso delle proprietà geometriche, così
Lagrange per quelle meccaniche, si propone di trovare una
calzante traduzione simbolica, e quindi analitica, che accresca
il rigore logico. L'opera è divisa in due parti. La prima parte è
dedicata alla statica (o teoria dell'equilibrio) e la dinamica (o
teoria del movimento). E ciascuna di queste parti tratterà
separatamente dei corpi solidi e dei liquidi. Lo stesso
Lagrange, nelle Avvertenze alla prima edizione dice:
Esistono già diversi trattati di meccanica, ma lo
schema del presente trattato è completamente
nuovo. lo mi sono proposto di ridurre la teoria di
questa scienza, e l'arte di risolvere i problemi ad
essa relativi, a delle formule generali il cui
semplice sviluppo fornisce tutte le equazioni che
sono necessarie per la soluzione di ogni problema.
Spero che il modo in cui ho cercato di assolvere
pienamente il mio proposito non lasci alcunché a
desiderare.
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La presente opera avrà inoltre un ulteriore aspetto
d'utilità: essa riunirà e presenterà sotto un
medesimo punto di vista i diversi principi che sino
ad oggi sono stati trovati per facilitare la
soluzione delle questioni di meccanica, ne
mostrerà il legame e la dipendenza reciproca, e
porrà in condizione di poter giudicare della loro
giustezza e della loro estensione.
Ho diviso l'opera in due parti: la statica, ovvero la
teoria dell'equilibrio, e la dinamica, ovvero la
teoria del movimento; e ciascuna di queste parti
tratterà separatamente dei corpi solidi e di quelli
liquidi.
Più oltre, nel testo, spiega quale ruolo egli assegni alla forza
nella statica. La statica è basata sulla distruzione e
l'annientamento reciproco di diverse forze [...]. Lo scopo della
statica è quello di dare le leggi secondo cui si produce tale
distruzione. Esse sono basate su principi generali che si
possono ridurre a tre: quello delle leve, della composizione
delle forze e quello delle velocità virtuali(8). Più in dettaglio,
Lagrange ci descrive come debba essere considerata la forza
nella statica:
La statica è la scienza dell'equilibrio delle forze.
In generale, per forza o potenza si intende la
causa, quale essa sia, che imprime o tende a
imprimere del movimento al corpo al quale la si
suppone applicata; ed è sulla base del movimento
impresso, o imprimibile, che si deve valutare la
forza, o la potenza. Nello stato di equilibrio la
forza non compie un esercizio reale; essa non
produce altro che una semplice tendenza al
movimento; ma la si deve pur sempre misurare in
base all'effetto che essa produrrebbe qualora non
fosse arrestata. Assumendo per unità una forza
qualsiasi oppure il suo effetto, l'espressione di
ogni altra forza non è altro che un rapporto, una
quantità matematica, che può essere
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rappresentata per mezzo di numeri o di linee: ed è
sotto questo punto di vista che, in meccanica, si
debbono considerare le forze.
e come, oltre alla statica, anche la dinamica possa essere
completamente ridotta all'analisi matematica:
Nella prima parte di quest'opera abbiamo ridotto
tutta la statica a una sola formula generale che
fornisce le leggi dell'equilibrio di un sistema
qualsiasi di corpi sottoposti all'azione di tutte le
forze che si vogliono. Si potrà dunque ridurre a
una formula generale anche tutta la dinamica; in
effetti, per applicare al movimento di un sistema di
corpi la formula del suo equilibrio, sarà
sufficiente in essa introdurre le forze che
provengono dalle variazioni del moto di ciascun
corpo e che debbono essere annullate. Lo sviluppo
di tale formula, tenendo conto delle condizioni che
diipendono dalla natura del sistema, fornirà tutte
le equazioni necessarie per la determinazione del
movimento di ciascun corpo, e non resterà altro
da fare che integrare queste equazioni, il che
spetta all'analisi. [ ... ] In questo modo, le forze,
gli spazi, i tempi e le velocità non saranno altro
che dei semplici rapporti, delle quantità
matematiche ordinarie.
Si tratta quindi di una meccanica basata sul Principio di
D'Alembert coniugato con il principio dei lavori virtuali e delle
coordinate generalizzate. Alla fine del processo di riscrittura
della meccanica si arriva alle ben note equazioni dinamiche di
Lagrange. Scrive De Maria:
Lagrange derivò le sue equazioni partendo dalle
leggi di Newton (nella formulazione di Euler)
attraverso il passaggio da una formulazione
vettoriale ad una formulazione scalare. Nel
trattamento analitico lagrangiano è sufficiente
conoscere una singola funzione scalare
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(completamente determinata in ogni punto dello
spazio da un numero relativo) dipendente dalle
posizioni dei punti materiali in movimento; questa
"funzione lavoro" contiene implicitamente tutte le
forze agenti sui punti materiali del sistema. Un
altro vantaggio è quello di non richiedere la
conoscenza di forze come quelle che producono la
rigidità di un corpo o quelle che agiscono fra le
particelle di un fluido. Tali forze vengono
sostituite da una condizione cinematica: durante il
moto la distanza tra due punti del corpo non può
variare e, analogamente, il volume di ogni parte
del fluido deve conservarsi. Le n equazioni
differenziali del secondo ordine che descrivono il
moto di sistemi a n gradi di libertà in funzione
della loro energia cinetica T e delle forze
lagrangiane dovute a sollecitazioni attive Qh in
assenza di vincoli addizionali oltre quelli olonomi,
hanno la forma generale:
dove le qh sono le coordinate lagrangiane scelte
per descrivere il sistema, mentre le ph si dicono
velocità generalizzate. Se le forze in gioco sono
conservative, esprimibili cioè come derivate di un
potenziale, una funzione U(qh) tale che, istante per
istante, dipenda dalle sole posizioni occupate nello
spazio dal sistema meccanico alle quali si
applicano le Qh, per queste ultime vale appunto che
In tal caso, introdotta una funzione L = T - U, detta
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lagrangiana del sistema, le equazioni precedenti si
riscrivono:
Tali equazioni permettono appunto di confrontare
la dinamica di sistemi completamente diversi tra
loro dal punto di vista geometrico e materiale, pur
di scegliere un opportuno insieme di coordinate
lagrangiane: la loro invarianza rispetto ad
un'arbitraria trasformazione di coordinate implica
un'assoluta libertà nella scelta del sistema di
coordinate più adatto alla natura del problema.
Lagrange fu il primo ad esprimere in forma
matematica generale delle proposizioni espresse
fino ad allora in forma particolare, come la legge
delle forze vive, il moto del baricentro e il
principio di minima azione, applicando questi
risultati a problemi diversi come la meccanica
celeste, le corde vibranti e l'idrodinamica. La
meccanica analitica di Lagrange, pur essendo una
formulazione del tutto generale della legge del
moto, è tuttavia limitata alle sole forze
conservative, per le quali il lavoro compiuto
dipende unicamente dallo stato iniziale e dallo
stato finale e non dal modo in cui viene prodotto.
Tale denominazione deriva dal fatto che l'energia
totale di un corpo soggetto alle azioni del campo, e
in moto nel campo stesso, in assenza di cause
dissipative di energia si conserva, durante il moto,
invariata. Tutte le forze dissipative che
trasformano l'energia meccanica in calore, e che
rendono il moto irreversibile sono quindi
completamente escluse. Contrariamente alla
meccanica di Newton nella sua forma più
generale, quella di Lagrange è reversibile e non
contiene una freccia del tempo, il quale assume il
ruolo di semplice parametro.
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Come conseguenza delle equazioni di Lagrange si
ottiene, in una formulazione matematica, il
principio di minima azione(9). Lagrange aveva
dimostrato, per un sistema di punti sottoposti a
forze conservative (tutte le volte cioè che le forze
derivano da un potenziale), che l'azione minima è
una conseguenza delle equazioni di Lagrange che
governano il moto e, viceversa, si ottengono le
equazioni imponendo il principio di minima
azione. Tale principio è indipendente da qualsiasi
sistema particolare di coordinate, perché il minimo
di una quantità scalare non dipende dalle
coordinate rispetto alle quali una certa quantità
viene misurata,di conseguenza anche le equazioni
del moto sono appunto invarianti rispetto a una
qualsiasi trasformazione di coordinate.
Una osservazione di Truesdell è di grande importanza.
Egli dice che l'astrattezza del formalismo di Lagrange tende ad
occultare i principali problemi concettuali della meccanica:
l'idea di sistemi inerziali di riferimento e la nozione di
rigidezza, ambedue essenziali all'immagine classica di
osservatore, restano oscurate dall'invarianza dell'algebra(10).
Con Lagrange si chiude un periodo molto importante della
storia della fisica, diventata matematica. Si trattava di
giustificare quanto aveva fatto Newton nel modo più completo
possibile, di razionalizzare la meccanica. Da questo momento
l'interesse principale si sposterà sul rendere operativa la
meccanica proprio in connessione con quanto ho già
adombrato e cioè con le esigenze produttive.
11 - PIERRE SIMON LAPLACE (1749 - 1827)
Questo grandissimo matematico, astronomo e fisico
francese, nacque figlio di contadini poveri a Beaumont en
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Auge (Normandia). Per le sue capacità subito mostrate e per il
bell'aspetto, poté studiare grazie alla beneficenza di alcuni
vicini. E' questo il poco che si conosce della sua giovinezza dai
suoi primi studi in un convitto benedettino nel suo paese fino a
che arrivò ad insegnare nella medesima scuola. Passò quindi a
studiare teologia all'Università di Caen (tra i 16 ed i 18 anni)
perché quello era il destino dei poveri (o prete o soldato). Qui
scoprì il fascino della matematica grazie agli insegnamenti che
ricevette (Le Canu e Gadbled). Lasciò allora l'Università e si
recò a Parigi con una lettera di presentazione di Le Canu a
D'Alembert che colse subito il grande talento del giovane. E
D'Alembert non solo si prestò a fargli da insegnante ma lo
raccomandò anche per un posto di docente all' École militaire
(1768) che gli lasciava il tempo per approfondire i suoi studi.
Già nel 1770 presentò sue memorie di matematica
all'Académie del Sciences. Nel 1771 pubblicò il suo primo
lavoro, in latino, nei Nova Acta Eruditorum di Berlino. In tale
rivista continuò a pubblicare come pure pubblicò nei Mélanges
de Turin, rivista dell'Accademia delle Scienze di Torino,
fondata anche da Lagrange un importante lavoro, Recherches
sur le calcul intégral aux différences infiniment petites, et aux
différences finies (1771), che contiene equazioni importanti sia
per la meccanica che per l'astronomia. In questo anno Laplace
tentò di essere ammesso all'Académie ma non vi riuscì perché
gli fu preferito il matematico Vandermonde. L'anno successivo
fu ancora rifiutato per un tal Cousin che era molto più indietro
di lui nella graduatoria. Sia Laplace che D'Alembert restarono
molto amareggiati per queste decisioni e D'Alembert scrisse a
Lagrange, che dirigeva l'Accademia di Berlino, per trovare un
posto a Laplace in quella città. Ma prima che Lagrange
rispondesse si trovò un posto di associato presso l'Académie
nel 1773.
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In quei tre anni Laplace aveva scritto molto ed in
particolare aveva dato contributi allo studio delle equazioni
differenziali, alla teoria delle probabilità e all'astronomia
matematica con memorie che studiavano l'inclinazioni delle
orbite planetarie, le perturbazioni che i satelliti originavano nel
moto dei pianeti e, in generale, il moto dei pianeti e la stabilità
del sistema solare. Ma è tutto il suo lavoro sviluppato negli
anni Ottanta che gli darà fama di massimo scienziato mondiale,
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anche se non riuscì mai ad avere buoni rapporti con i suoi
colleghi, compreso D'Alembert, per la sua totale mancanza di
modestia. Egli diceva di sé di essere il migliore in campo
scientifico e metteva bocca praticamente su ogni argomento.
Nel 1780 fece un lavoro con Lavoisier, mostrando che la
respirazione è una forma di combustione, per la realizzazione
del quale costruirono un calorimetro a ghiaccio. Questo
episodio aprì un altro campo ai suoi studi, quello del calore al
quale si dedicò verso la fine della sua carriera.
Nel 1784 diventò esaminatore della scuola del Corps
Royal d’Artillerie in sostituzione del matematico Bezout. Ebbe
occasione, l'anno successivo, di esaminare il sedicenne
Napoleone. Questo suo incarico da una parte gli toglieva molto
tempo ma dall'altra lo metteva a contatto con personaggi
influenti di governo. E, finalmente, nel 1785, riuscì ad essere
ammesso come membro dell'Académie alla quale, nel 1787, si
aggregò anche Lagrange (proveniente da Berlino) che
comportò una gran rivalità tra i due.
Nel 1788 Laplace, a 39 anni, si sposò con una giovane di
19 anni, Marie-Charlotte de Courty de Romanges e nel 1790,
già in periodo rivoluzionario, divenne membro della
Commission des Poids et Mesures, presieduta da Lagrange.
Quando nel 1793 iniziò il periodo del terrore, l'Académie fu
chiusa e Laplace si ritirò in campagna con la moglie ed i due
figli. Ritornò a Parigi nel 1794, dopo che il suo amico
Lavoisier era stato ghigliottinato, per prendere parte ai lavori
della nuova Commission des Poids et Mesures (che portò a
termine la grande impresa dell'introduzione del Sistema
Metrico Decimale). L'anno successivo fu chiamato ad
insegnare teoria della probabilità all'École Normale, appena
fondata. Analogamente a quanto abbiamo visto per Lagrange,
anche Laplace fu costretto a trascrivere le sue lezioni per
pubblicarle. Si tratta della famosa Théorie analytique des
probabilités, con una introduzione dal titolo Essai
philosophique sur les probabilités, che vedrà la luce nel 1812.
In questo periodo cumulerà una gran quantità di incarichi di
prestigio(11) e pubblicherà alcune tra le
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sue opere piùimportanti. Nel 1796, quando diventò presidente
dell'Académie, pubblicò l'Exposition du système du monde e
nel 1799 i primi due volumi (dei 5 in totale) del suo Traité de
Mécanique céleste (in cui, indipendentemente da Kant che lo
aveva fatto nella sua Storia generale della natura e teoria del
cielo del 1755, formulò l'ipotesi della nebulosa secondo la
quale il sistema solare deriverebbe dalla rotazione di una
nebulosa di gas incandescente)(12).
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Finiti i momenti più duri della Rivoluzione si passò al
Consolato di Napoleone. Laplace fu nominato senatore ed ebbe
(1805) la Legion d'onore. Vi fu qui un episodio spiacevole che
ricorda i giudizi di Delambre ai quali ho accennato. Sembra per
insistenza dello stesso Laplace che Napoleone nominò il
medesimo come Ministro degli interni ma solo per sei
settimane e poi lo licenziò per manifesta incapacità avendo
portato lo spirito dell'infinitamente piccolo nel governo. Nel
1806 fu fatto Conte da Napoleone e nel 1817, in piena
Restaurazione, fu nominato Marchese da Luigi XVIII Borbone.
Nei suoi ultimi anni di vita si ritirò in campagna dove curò una
società, la Société d'Arcueil, per il sostegno dei giovani
scienziati tra i quali Claude Berthollet, Louis Joseph GayLussac, ... . Fu qui che scrisse le sue memorie ed ordinò i suoi
scritti ancora non pubblicati. Si spense nel 1827.
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Passiamo ora a vedere quali sono i principali contributi
scientifici, ma anche filosofici, di Laplace a partire dalla sua
concezione della natura e del ruolo che in essa svolgono le
forze. Abbiamo già detto che una delle sue opere più
importanti è l'Exposition du système du monde. Aggiungo ora
che questa è un'opera divulgativa, scritta in modo discorsivo e
senza formule che doveva costituire una sorta di premessa
all'opera tecnica successiva, la Mécanique Céleste. Sulla strada
aperta da Kant e rinunciando ad una delle sue ipotesi (quella
del caos originario), Laplace perfezionò e precisò l'idea di
nebulosa con i dati dell'astronomia disponibili che mostravano
che tutti i pianeti ed i satelliti noti ruotavano tutti nello stesso
verso e tutti si trovavano sullo stesso piano (qualche imbarazzo
si ebbe alla ristampa dell'opera nel 1808 quando Herschel
aveva mostrato già dal 1798 che alcuni satelliti di Nettuno e di
Urano hanno moto retrogrado). L'idea di Laplace era che tutto
il sistema planetario discendesse dalla rotazione e progressiva
condensazione di una massa gassosa incandescente la cui
temperatura andava in continua diminuzione. La forza
centrifuga avrebbe permesso il distacco dei pianeti dalla massa
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principale costituente il Sole, così come la stessa forza avrebbe
permesso il distacco dei satelliti dai pianeti. Nella descrizione
particolareggiata della dinamica della sua nebulosa, Laplace ci
offre appunto la sua concezione delle forze e di alcune leggi di
natura che coincidono con le idee di D'Alembert: le forze non
le conosciamo che dai loro effetti e sono questi che dobbiamo
studiare e tra questi vi è il moto che ha, come prima legge,
quella d'inerzia e come seconda la forza proporzionale alla
velocità. Lo studio della meccanica è più semplice nel cielo
che non sulla Terra perché in cielo esse si osservano con la
massima precisione mentre sulla Terra vi sono molte
circostanze che complicano lo studio di tale leggi, circostanze
dalle quali è difficile districarsi e che rendono difficile
sottomettere tali leggi al calcolo. Ma piano piano si riesce a
fare dei passi in avanti che ci aprono orizzonti inaspettati. Una
legge, ad esempio che ci ha aperto la conoscenza del cielo è la
gravitazione universale che è un vero ed immutabile principio
di natura. Più in generale la conoscenza delle leggi della
meccanica libera gli uomini dalla superstizione perché
razionalizza fenomeni che precedentemente non potevano che
essere misteriosi quando non terrorifici (eclissi, comete, ...).
Gli errori, le superstizioni, i vani terrori e tutti i mali che
l'ignoranza porta con sé si riprodurrebbero prontamente se la
luce della scienza venisse a spegnersi.
La centralità della gravità viene messa in grande risalto
nel Traité de Mécanique céleste(13). Qui vi è il dispiegarsi di
tutto l'apparato del calcolo differenziale che era stato elaborato
negli ultimi anni e Laplace interpreta la gravità mediante il
concetto di potenziale che Lagrange aveva introdotto nel 1777
e che egli sviluppa qui inserendolo in una celebre equazione
differenziale che porta il suo nome. Laplace si pone quello che
era uno dei massimi problemi di tutti gli studiosi da molti anni:
determinare la grandezza dell'attrazione gravitazionale che una
massa esercita su di un'altra in casi più complessi di quando,
date grandi distanze, è possibile considerare le masse come
puntiformi. Se si considera ad esempio la Terra che attrae un
qualunque oggetto (ad esempio: una particella P), diventa
importante la dimensione della Terra e la sua massa distribuita.
In tal caso la forza di attrazione non può essere calcolata come
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se la massa della Terra fosse concentrata nel suo centro. Per
calcolare tale forza si tratta di considerare la somma delle forze
che ogni piccola unità di massa della Terra esercita sull'unità di
massa P. Ciò comporta una mole considerevole di calcoli che
debbono essere estesi alle tre componenti spaziali. E' a questo
punto che subentra la funzione potenziale: invece di trattare
separatamente ogni componente della forza è possibile
introdurre la funzione V(x,y,z) le cui derivate parziali rispetto
ad x, ad y ed a z, siano rispettivamente le tre componenti della
forza e cioè, a meno di considerare la costante della legge di
Newton:
In tal caso il vantaggio consiste nel lavorare con la sola
funzione V invece che con le tre componenti della forza. Ma
anche qui le cose non risulterebbero semplici se Laplace non
avesse scoperto una proprietà del potenziale (per punti esterni
al corpo che attrae) e cioè che questa funzione ubbidisce alla
seguente equazione differenziale del secondo ordine alle
derivate parziali:
che è nota appunto come equazione del potenziale o equazione
di Laplace (misura la differenza tra il valore della funzione in
un punto e la sua media intorno a questo punto). Qualunque
funzione f che soddisfi l'equazione di Laplace è chiamata
armonica. E' d'interesse notare che una forza è originata da
una funzione potenziale ma la forza si perde nei simbolismi
dell'analisi matematica. Questa genesi di forza da potenziale
era già comparsa nell'Hydrodinamica (1738) di Daniel
Bernoulli. Era stata ripresa da Euler in un lavoro sui fluidi nel
1752 ma erano sorte difficoltà che egli non era stato in grado di
risolvere. Era stato poi Lagrange nel 1762 a riprendere e
chiarire le questioni (come abbiamo visto in modo analitico,
trattando di Lagrange). Infine il contributo di Laplace che
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riuscì anche a risolvere l'equazione del potenziale (dopo
importanti contributi di Legendre).
L'equazione di Laplace(14) si usa scrivere più agevolmente
in forma vettoriale:
dove il simbolo è un operatore chiamato di Laplace o
laplaciano o nabla che ha per componenti:
Con un apparato matematico che si serviva di ogni
avanzamento del calcolo, Laplace dedusse tutti i fenomeni dei
pianeti e dei satelliti dalla legge di gravità espressa in termini
di potenziale. E' appena il caso di osservare che questa
gigantesca operazione matematica, che lasciava solo qualche
piccola discrepanza, ha resistito fino alla relatività einsteniana.
Ed Einstein ha mostrato che non sempre le piccole discrepanze
sono sistemabili con il calcolo e che partendo da esse si può
arrivare ad una revisione completa dei concetti che sono stati
ritenuti alla base di precedenti formulazioni.
Si può dire a questo punto che una delle caratteristiche del
metodo di Laplace è l'accettare alcune indicazioni
dall'esperienza per costruirvi sopra, con il calcolo, una teoria
definita da Laplace come il legame analitico dei fatti
particolari con un fatto generale. Ed il calcolo, l'analisi
matematica, gioca un ruolo fondamentale nella conoscenza
della natura, perché, come dice Laplace, l'analisi matematica è
uno strumento dell'intelligenza umana che ha una grande
capacità di permettere la conoscenza della natura.
Vediamo ora i contributi di Laplace alla teoria delle
probabilità. Anche in questo campo egli seguì un procedimento
analogo a quello seguito per le questioni astronomiche: prima
un libro divulgativo, privo di formule, fatto per far
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comprendere quali sono i problemi, l'Essai philosophique sur
les probabilités, seguito subito dopo dalla Théorie analytique
des probabilités, che è invece un'opera rigorosa in cui si
sviluppa la matematica corrispondente con l'introduzione,
anche qui, dell'analisi per la trattazione del principio dei
minimi quadrati. Non è negli scopi di questo lavoro andare a
studiare i contributi di Laplace in questo campo, basti dire che
egli si inserisce nel filone aperto da Jacob Bernoulli,
proseguito da De Moivre ed altri. Suo merito è l'aver
ricondotto la probabilità a solidi fondamenti matematici,
riallacciandosi al concetto di probabilità a priori,
indipendentemente dalle aspettative individuali. Ciò permise
l'uso di questo calcolo nella fisica oltre che nei campi dove fino
ad allora si era fatto (economia, sociologia, gioco). All'interno
del Traité vi è il calcolo di diversi integrali tra i quali due sono
di particolare importanza. Il primo riguarda il calcolo dell'area
della curva di probabilità:
ed il secondo la funzione nota come trasformata di Laplace:
dove f(x) è la trasformata di Laplace della funzione g(x).
La parte comunque più nota, anche ai non cultori delle
matematiche, delle cose che Laplace scrisse sulla probabilità,
la si trova nel saggio introduttivo, che è in qualche modo il
manifesto del determinismo. Dice Laplace che se ci fosse dato
conoscere, ad un dato istante, le posizioni e le velocità di tute
le molecole costituenti l'Universo noi potremmo conoscere gli
eventi futuri e risalire a quelli passati. E' solo per mancanza di
dati noi non possiamo essere completamente deterministi:
Possiamo considerare lo stato attuale
dell'universo come l'effetto del suo passato e la
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causa del suo futuro. Un'Intelligenza che ad un
dato istante conoscesse tutte le forze che mettono
in moto la natura, e tutte le posizioni di tutti gli
oggetti di cui la natura è composta, se questa
Intelligenza fosse inoltre sufficientemente ampia
da sottoporre questi dati ad analisi, essa
racchiuderebbe in un'unica formula i movimenti
dei corpi più grandi dell'universo e quelli degli
atomi più piccoli; per una tale Intelligenza nulla
sarebbe incerto ed il futuro proprio come il
passato sarebbe evidente davanti ai suoi occhi.
E' evidente che queste concezioni derivano a Laplace dai suoi
studi astronomici e da lì egli ricava la fiducia che la
conoscenza del sistema del mondo, con le sue leggi, con
l'analisi che ce le fa scoprire,possa dissipare le paure
dell'uomo, paure che discendono dalla sua ignoranza. Le
regolarità astronomiche funzionano come le previsioni del
moto di una molecola d'aria ed è per questo possibile trattare
questi fenomeni con il calcolo delle probabilità. Il
determinismo meccanicista esclude quindi l'imprevedibile e la
metafisica garantendoci la razionalità del decorso dei fenomeni
naturali. Ma questo determinismo deve rispondere a due
precise condizioni. Innanzitutto occorre conoscere con
esattezza la posizione e velocità di tutti i corpi. Quindi occorre
saper trattare tali condizioni iniziali con gli strumenti
matematici. L'insieme di queste due condizioni ci fa capire che
Laplace aveva posto un limite alla conoscenza della natura che
era lo stesso limite delle capacità ora note dell'uomo. E' a
questo punto che occorre mettere insieme i troppi dati con il
calcolo delle probabilità che è il massimo strumento di
conoscenza del quale ora disponiamo.
12 - QUALCHE CONSIDERAZIONE
Soffermandoci su alcuni grandi pensatori del Settecento,
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siamo arrivati agli inizi dell'Ottocento. Se si fa un breve
excursus a marcia indietro si individuano alcuni punti fermi:
- la scienza, in particolare fisica e matematica, è
diventata adulta
- abbiamo visto pian piano emergere scienziati che
non appartengono a ceti benestanti
- abbiamo visto pian piano sparire la metafisica
dalla spiegazione scientifica
- l'impresa scientifica si estende sempre più come
portato dell'emergere della borghesia
- la compressione di questo ceto porterà alle
estreme conseguenze rivoluzionarie in Francia,
con l'inizio della fine dei privilegi di nobiltà e
clero.
Questi elementi saranno di grande importanza
nell'Ottocento, nel secolo del Romanticismo che si affermerà
come reazione irrazionale all'Illuminismo e che produrrà molta
più scienza di quanta si sia mai potuta pensare nel Settecento,
il secolo in cui tale scienza veniva esaltata. Naturalmente
questo processo si accompagna ad un'enorme espansione della
borghesia, alla rivoluzione industriale, alla creazione di un
grande ceto salariato, all'esplosione della tecnica, alla ricerca
dei mercati di sbocco, all'avviarsi delle grandi imprese
coloniali che daranno l'impronta che conosciamo al mondo
intero. Di questo discuterò in lavori successivi.
NOTE
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(1) Leibniz rifiuta l'azione a distanza ed allo stesso modo le
qualità occulte connesse alla gravitazione (in questo d'accordo
con i cartesiani). Se è vero che l'ammissione di inesistenza di
vuoto suggerisce a Leibniz il rifiuto dell'azione a distanza,
rimane il problema di stabilire come si possa trasmettere un'
azione da una parte all'altra dello spazio. E qui Leibniz si
schiera apertamente con i cartesiani affermando che le azioni si
trasmettono per contatto da 'materia' a 'materia'. Ma l'unico
modo per poter ammettere ciò era la conseguente ammissione
dell'urto tra particelle estese e dure (come faceva Descartes) e
ciò portava Leibniz in un vicolo cieco poiché richiedeva
l'ammissione di atomi (e quindi di vuoto) e comunque, in
accordo col meccanicismo di Huygens, di entità non
compatibili con la teoria delle monadi altrove sviluppata dallo
stesso Leibniz .
(2) Si osservi che Boscovich criticherà anche i concetti di
spazio e tempo assoluti oltre al principio d'inerzia, in base al
fatto che questi non sono sperimentalmente osservabili.
(3) Anche l' «osservatore», per Kant, comincia a diventare
importante nella indagine fisica. Come dice Popper, riportando
il pensiero di Kant:
Dobbiamo abbandonare l'opinione secondo cui
siamo degli osservatori passivi, sui quali la natura
imprime la propria regolarità. E' bene invece
adottare l'opinione secondo cui, nell'assimilare i
dati sensibili, imprimiamo attivamente ad essi
l'ordine e le leggi del nostro intelletto. Il cosmo
reca l'impronta della nostra mente ... Lo
sperimentatore non deve attendere che alla natura
piaccia rivelargli i propri segreti, ma deve
interrogarla. Egli deve fare ciò ripetutamente alla
luce dei propri dubbi, congetture, teorie, idee ed
ispirazioni.
In questo modo la scienza risulta una creazione umana come
l'arte e la letteratura.
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(4) Si osservi che, ispirate dalla grande atmosfera culturale
illuministica, si erano realizzate due grandi rivoluzioni che
avevano affermato gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità.
Nel contempo però i sovrani 'illuminati' di Russia, Prussia ed
Austria, con la prima spartizione della Polonia (1772),
mostrano come la politica di potenza possa più dei lumi della
ragione e come le aspirazioni progressiste non possano
coesistere con l'assolutismo monarchico. Sul finire del secolo,
poi, è proprio un "figlio della Rivoluzione", Napoleone, ad
interpretare fino in fondo gli ideali borghesi con le sue armate
dilaganti per tutta l'Europa. E certamente l'Illuminismo,
propagandato non dai Voltaire, dai Diderot, dai D'Alembert,
ma dalle armate napoleoniche, apre la strada ai nazionalismi
dei popoli che, per difendersi dall'invasore, ricercano una unità
(anche se fittizia) nei loro regnanti.
(5) E' certo che la struttura del calcolo a partire da Leibniz era
molto carente, soprattutto se confrontata con le elaborazioni
successive dei Bernouilli, degli Eulero, dei Lagrange, dei
Cauchy (1789 - 1857). Ci vorranno circa 100 anni per
conquistare il rigore in matematica: esso si può datare con le
Réflexions sur la métaphysique du calcul infinitésimal di
Lazare Carnot e la Théorie des fonctions analytiques di
Lagrange ambedue del 1797. La completa sistemazione
dell'analisi, all'incirca di come la conosciamo oggi fu invece
dovuta a Cauchy (con successivi contributi di Weierstrass),
anch'egli docente all'École Normale, che per questo stesso
fatto, scrisse tre fondamentali trattati di Analisi: Cours
d'analyse de l'École Polytechnique (1821), Resumé des leçons
sur le calcul infinitesimal (1823), Leçons sur le calcul
différentiel (1829). In queste opere vi è la caratteristica saliente
del rifiuto del metodo analitico di Lagrange, interamente
basato sullo sviluppo in serie di Taylor, e l'accettazione del
metodo indicato da D'Alembert basato sul concetto di limite
definito nel modo seguente:
Quando i valori successivi attribuiti ad una
variabile si avvicinano indefinitamente ad un
valore fissato così che finiscono con il differire da
questo per una differenza piccola quanto si vuole,
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quest'ultimo viene detto il limite di tutti gli altri (...)
Si dice che una quantità variabile diventa
infinitamente piccola quando il suo valore
numerico decresce indefinitamente in maniera da
convergere verso il limite zero
e con ciò ci si sbarazzava di quanti avevano inteso
l'infinitesimo come numero finito molto piccolo.
Altri matematici, non altrove citati, amplieranno di molto lo
studio del calcolo infinitesimale nel Settecento, nell'Ottocento
e nei primi anni del Novecento. Si avranno i contributi di
grandi matematici tra cui: Rolle (1652 - 1719), J. Riccati (1676
- 1754), Clairaut (1713 - 1765), De Moivre (1667 - 1754), L.
Carnot (1753 - 1823), Legendre (1752 - 1833), Fourier (1768 1830), Bolzano (1781 - 1848), Abel (1802 - 1829), Gauss
(1777 - 1855), Cauchy, Hamilton (1805 - 1865), Dirichlet
(1805 - 1859), Jacobi (1804 - 1851), Hesse (1811 - 1874),
Cantor (1845 - 1918), Volterra (1860 -1940) che fondò il
calcolo funzionale, Ricci-Curbastro (1853 - 1925) che, insieme
a Levi-Civita, creò il calcolo differenziale assoluto, alla base
della Relatività Generale di Einstein, Weierstrass (1815 1897), Peano (1858 - 1932), Levi-Civita (1873 - 1941), Hilbert
(1862 - 1943).
(6) Fu la Rivoluzione Francese ad obbligare i professori
universitari a scrivere il contenuto delle loro lezioni e la cosa
fu e resta di enorme importanza. Ancora oggi solo pochi si
dedicano a questo compito fondamentale.
(7) Dal punto di vista del giovane che apprende un tale
passaggio può diventare traumatico. Dipende dal livello di
capacità astrattive che si è conquistato al momento in cui si
affronta un tale studio senza sostegni materiali. Io affrontai lo
studio dell'analisi matematica ai 18 anni e della meccanica
analitica a 19 anni e non avevo ancora sviluppate
completamente le mie facoltà astrattive. Credo che questo
abbia iniziato a rappresentare un chiaro momento di rottura con
chi voleva capire ed iniziava a muoversi nei complessi campi
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delle scienze teoriche ed applicate. La riduzione della
meccanica alla matematica, per di più senza disegni, rese
particolarmente complessa la disciplina ad un certo tipo di
approccio alla conoscenza, come ad esempio il mio.
(8) Lagrange definisce velocità virtuale quella che un corpo in
equilibrio è disposto a ricevere, quando l'equilibrio viene
interrotto, cioè la velocità che il corpo assumerebbe realmente
nel primo istante del suo movimento; ed il principio [dei lavori
virtuali] consiste in ciò che delle potenze sono in equilibrio
quando stanno in ragione inversa delle loro velocità virtuali,
stimate nella direzione di queste potenze.
(9) Per Lagrange questo principio, visto analiticamente,
consiste nel fatto che, nel moto dei corpi che agiscono l'uno
sull'altro, la somma dei prodotti delle masse per le velocità e
per gli spazi percorsi è un minimo. Il principio fu ricavato da
Maupertuis nel caso particolare di riflessione e rifrazione della
luce e quindi non poteva essere generalizzabile finché Euler
non ha fatto vedere che nelle traiettorie descritte a causa di
forze centrali, l'integrale della velocità moltiplicato per
l'elemento della curva origina sempre un massimo o un
minimo. Lagrange estese questa proprietà, mediante il teorema
delle forze vive, al moto di di ogni sistema di corpi che
agiscano l'uno sull'altro in un modo qualsiasi.
(10) Truesdell così prosegue:
E' vero che le equazioni di Lagrange conservano la
stessa forma per tutti gli osservatori, ma non è
vero che un sistema di equazioni differenziali nella
forma di Lagrange debba corrispondere
necessariamente ad un sistema dinamico che
soddisfaccia le leggi di Euler in un dato sistema di
riferimento, ed ancor meno in un sistema di
riferimento inerziale. Con l'oscurare le forze, le
equazioni di Lagrange nascondono il gruppo
invariante della meccanica classica, che invece
risulta immediatamente dalle equazioni di Euler.
Inoltre le equazioni di Lagrange non riflettono la
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geometria spazio-temporale della meccanica
classica, la cui proprietà fondamentale è la
possibilità di sommare tra sé vettori localizzati in
punti differenti. Senza questo lontano parallelismo
possiamo parlare di energia ma ci risulta
impossibile costruire le rimanenti grandezze alla
base della meccanica classica: quantità di moto,
centro di massa e momento della quantità di moto.
Vedendo le equazioni di Lagrange non si capisce
se un sistema possiede quantità di moto o no; in
cambio le equazioni di Euler mostrano
immediatamente questa proprietà, risultando più
generali.
(11) In tali posti dove fu nominato presidente non sempre
riscosse l'approvazione dei colleghi come ad esempio
Delambre che affermò che mai un geometra dovrebbe essere
messo alla testa di un osservatorio perché egli si disinteresserà
sempre di tutto meno che di ciò che lo riguarda direttamente.
(12) Vi è un aneddoto che merita di essere raccontato. Quando
Laplace presentò a Napoleone la sua Mécanique céleste,
Napoleone osservò a Laplace che nella sua opera non
compariva mai Dio. E Laplace rispose che: Sire non ho avuto
bisogno di tale ipotesi. L'imperatore si rivolse allora a
Lagrange per sentire anche il suo parere su questa vicenda
dell'assenza di Dio. Lagrange, sorridendo disse: E' una bella
ipotesi, che spiega molte cose.
(13) Questo libro è di difficilissima lettura e la cosa fu fatta
notare a Laplace da Biot che lo aiutava nella correzione per la
pubblicazione. Biot racconta che spesso lo stesso Laplace non
si ritrovava. Spesso compare nel libro l'espressione "E' lasciata
al lettore la dimostrazione ..." o cose simili. Ricordo (si veda
nota 7) che il mio professore di analisi matematica, Giuseppe
Scorza Dragoni, che aveva il suo testo illeggibile, usava
regolarmente tale espressione in ogni teorema che dimostrava.
Ebbene, ad ogni espressione che Scorza usava "donde la
conclusione", dovevo riempire una decina di pagine di conti
per arrivare a quella banale conclusione. Dico questo come
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quello che ho già detto in nota 7 perché i professori non
abusino della loro posizione vessando in questo modo delle
persone che accedono all'università per apprendere e non per
essere torturati.
(14) L'equazione di Laplace è una equazione omogenea in
quanto eguagliata a zero. Nel caso elettrico è possibile definire
una funzione potenziale V che però non soddisfa l'equazione
omogenea di Laplace ma l'equazione che l'altro grande
matematico francese, Poisson, stabilì nel 1812. Tale equazione,
valida per lo spazio libero da materia attraente, è:
dove al secondo membro figura la densità ρ della materia nel
dato punto P preso in considerazione.
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