TESTIMONIANZE
STORICHE SUL LIBRO
DEGLI ATTI (4)
Le prime visite missionarie di Paolo in Europa si concentrarono in
città dell’antica Grecia: da Filippi a Tessalonica, da Berea ad
Atene. Alcune scoperte archeologiche hanno dato riscontri
interessanti alla descrizione che Luca fa di queste città.
Per la prima volta in Europa: la Macedonia
Nel secondo viaggio missionario, il punto di svolta è la visione che Paolo riceve
mentre si trova nel nord-ovest dell’Asia Minore, e che lo induce a trasferirsi in
Macedonia.
Da questo punto Luca prosegue il racconto usando la prima persona plurale (“ noi
cercammo subito di partire per la Macedonia”, Atti 16:6), che si spiega col fatto
che lo scrittore si era unito al gruppo dei missionari.
Imbarcatisi a Troas, Paolo e i suoi compagni, dopo due giorni di viaggio, arrivano
a Neapolis (l’attuale Kavala), sulla costa macedone, e proseguendo poi verso
l’interno per 10 km, raggiungono Filippi.
Questa era un’antica città, ribattezzata con quel nome da Filippo il Macedone
nel IV secolo a.C.
Nel 42 a.C. aveva visto lo scontro tra Antonio e Ottaviano (il futuro imperatore
Augusto) e Bruto e Cassio, gli uccisori di Cesare.
Filippi era colonia romana (cfr. Atti 16:12), cioè uno stanziamento per i veterani
delle legioni, dove erano abitualmente praticate le istituzioni romane.
Crea però qualche difficoltà l’affermazione successiva (secondo parecchie
traduzioni) che Filippi “ era la città più importante di quella regione della
Macedonia”.
Così in realtà non era, perché la Macedonia era una provincia romana divisa in
quattro sottoprovince, e Filippi apparteneva alla prima di queste quattro
sottoprovince, la cui capitale era Amfipoli. La traduzione, più rispondente alla
situazione di fatto, di questo testo greco per altro tormentato e poco chiaro,
dovrebbe essere: “ era una città del primo distretto della Macedonia” (come in
effetti fanno CEI e Garofalo).
Testimoni a Filippi
Dice Luca: “ Il sabato andammo fuori della porta, lungo il fiume, dove pensavamo
vi fosse un luogo di preghiera; e sedutici, parlavamo alle donne là riunite”.
Non c’era dunque una sinagoga a Filippi (occorrevano almeno dieci uomini per
aprirla), e le poche donne giudee e qualche proselito si riunivano, forse
all’aperto, in riva al fiume.
Troppo poco per trovare riscontri archeologici.
Comunque, dal 1914 al 1938, archeologi francesi hanno lavorato a Filippi, e
ispezionando la vecchia strada romana che attraversava la città, hanno scoperto
le fondazioni di una grande porta orientata a nord-ovest. E hanno anche
appurato che il solo corso d’acqua degno del nome di fiume, raggiungeva la strada
in un punto circa 2 km oltre questa porta: quello dunque dovrebbe essere il luogo
dove per la prima volta fu proclamato il Vangelo in Europa...
In seguito ad un esorcismo, Paolo e Sila furono messi sotto accusa, e trascinati
sulla piazza (agorà) davanti ai magistrati (archontes) o pretori (strategoi), che li
fecero poi battere con le verghe dai littori (rabdouchoi).
Questi termini greci richiedono una spiegazione.
Per la prima volta troviamo la parola agorà per indicare il luogo pubblico dove,
nelle città greche, si trattavano gli affari, si passeggiava e si amministrava
pubblicamente la giustizia (è la piazza che nelle città romane veniva chiamata
foro).
L’agorà di Filippi è stata portata alla luce dagli scavi, ed è oggi tra le cose più
notevoli che i visitatori possono ammirare fra le rovine dell’antica città.
Quanto ai magistrati di Filippi, essi non erano pretori ma duoviri (termine latino
che indica la funzione amministrativa svolta in una colonia).
La parola greca strategoi potrebbe essere, secondo alcuni, semplicemente
l’equivalente greco che più si accosta a quel vocabolo latino; oppure, secondo
altri, un termine più onorifico che i magistrati usavano per ostentazione.
Quanto ai littori, essi erano gli assistenti dei magistrati (“ guardie” ) e ne
eseguivano gli ordini; come segno dell’autorità dei magistrati stessi, portavano
delle verghe legate a fascio, delle quali si potevano servire per bastonare i
colpevoli (la punizione preventiva degli accusati mediante battitura era una
consuetudine in tutto l’impero, ne venivano esclusi soltanto i cittadini romani: da
qui la vivace protesta di Paolo riferita in Atti 16:37-39).
E’ noto poi che i predicatori furono gettati in prigione, coi piedi serrati nei
ceppi.
Chiunque oggi, nell’area archeologica di Filippi, potrà vedere la Prigione di San
Paolo, però non c’è alcuna prova che il rudere indicato con questo nome sia
veramente il carcere dove fu rinchiuso l’Apostolo.
Dopo una notte densa di eventi (terremoto liberatorio, conversione del
carceriere), il mattino successivo i missionari ricevono dai magistrati
l’ingiunzione (unita a tante scuse per l’accaduto), di lasciare immediatamente la
città.
Da Filippi a Tessalonica
Partiti dunque da Filippi, i missionari proseguono verso occidente percorrendo la
Via Egnatia, che collegava il Bosforo all’Adriatico attraversando tutta la
Macedonia.
Toccate Amfipoli e Apollonia, arrivano a Tessalonica (l’odierna Salonicco), che
era la vera capitale della Macedonia.
A differenza di Filippi, lì una sinagoga c’era, e logicamente Paolo se ne serve per
la sua campagna evangelistica, che porterà alla conversione molti Ebrei e
proseliti Gentili. Questo fatto però scatena la gelosia dei Giudei rimanenti, i
quali accusano i missionari di aver violato le leggi romane e di turbare la pace
pubblica; i magistrati cercano di tergiversare, ma alla fine, per evitare il peggio,
i fratelli (cioè quelli che avevano accettato il Vangelo) consigliano a Paolo e Sila
di lasciare la città (Atti
17:1-10).
Gli scavi a Salonicco sono resi assai difficili dal fatto che la città moderna sorge
sul sito dell’antica. Ma più che cercare le testimonianze della Tessalonica del
tempo di Paolo, è interessante soffermarsi su un problema che ha suscitato nel
passato molte polemiche e che oggi si può considerare risolto.
Il fatto è che il termine tradotto “ magistrato” è, nell’originale greco
“ politarca”, e questa parola non era mai stata trovata prima in alcun testo
letterario.
Oggi invece sappiamo — grazie al reperimento di circa venti iscrizioni — che
questo termine era impiegato in particolare per indicare i magistrati delle città
della Macedonia.
Intendiamo citarne due.
La prima (forse la dedica di una statua) è del 44-45 d.C. (quindi vicinissima ai
fatti narrati negli Atti), e vi si legge: “ Nell’anno 76 di Augusto(...).
All’imperatore Claudio (...), padre della patria, la città [di Tessalonica dedica],
mentre sono politarchi Nicerato (...) e Eracleide (...)“.
L’altra iscrizione (su una lastra di marmo proveniente dalla cosiddetta “Porta di
Vardar” di Tessalonica, oggi al British Museum di Londra), risale alla metà del 2°
secolo. Essa elenca, in otto righe di scrittura, i magistrati della città, citando i
nomi di sei politarchi. Il testo comincia con la parola poleitarchounton, una
forma del verbo politarcheo che significa “ esercitare la funzione di politarca”.
Alcuni dei nomi elencati nell’iscrizione ci erano già noti da vari passi del Nuovo
Testamento: Sosìpatro, Lucio, nominati in Romani 16:21. (Un Sòprato è ricordato
in Atti 20: 4 come nativo di Berea; forse Sosìpatro e Sòprato sono lo stesso
nome).
C’è poi ancora il nome Secondo, ricordato da Atti 20:4 come nativo di
Tessalonica; e, alla fine della riga 5, il nome Gaio, citato in Atti 19:29 come
macedone.
Questa coincidenza non significa, ovviamente, che i personaggi citati
nell’iscrizione (che è posteriore di circa 100 anni rispetto a Paolo) abbiano
qualche relazione con i personaggi del Nuovo Testamento, ma semplicemente sta
a dimostrare che quei nomi erano frequenti nella regione macedone sia nel 1° che
nel 2° secolo.
Da Tessalonica a Berea
Anche a Berea (oggi Verria) c’era una sinagoga, dove i missionari furono accolti
da persone di tutt’altro stampo, disponibili al dialogo e desiderose di verificare
personalmente con le Scritture ciò che Paolo andava dicendo.
Il testo di Atti gratifica i Bereani definendoli in possesso di sentimenti più
nobili rispetto ai Tessalonicesi.
Ma questo stato idilliaco cessò all’arrivo dei Giudei di Tessalonica, e i missionari
furono nuovamente costretti a sgomberare. In particolare, alcuni credenti di
Berea si diedero da fare per portare Paolo in salvo, conducendolo di nascosto
alla costa e poi, imbarcatisi con lui, accompagnandolo fino ad Atene.
Della Berea dei tempi apostolici non resta praticamente nulla.
La località oggi è soprattutto nota per la vicina Vergina, dove sono state
scoperte nel 1977 le famose tombe reali, tra cui quella di Filippo il Macedone.
Atene
Luca non ci dice quanto tempo Paolo si sia fermato ad Atene. Tuttavia riferisce
che, oltre a parlare, come era suo costume, con i Giudei della sinagoga, amava
trascorrere ogni giorno parecchie ore sulla piazza (agorà) a discorrere con la
gente, specialmente coi filosofi.
E ad un certo punto costoro lo invitarono sull’Areopago, dove l’Apostolo
pronunciò il ben noto discorso.
Al tempo di Paolo, anche se aveva ormai perduto la sua potenza economica, Atene
rimaneva il simbolo del sapere e della libertà.
L’Apostolo aveva certo a lungo sognato di poterla visitare.
Uomo di cultura e di lettere, competente di filosofia, di certo sensibile all’arte,
Paolo può ora finalmente aggirarsi da solo per Atene, ma il testo di Atti 17:16 ci
descrive laconicamente le sue reazioni: “ fremeva dentro di sé nel vedere quella
città piena d’idoli”.
Evidentemente, la istintiva repulsione per quel paganesimo così sfacciatamente
ostentato aveva fatto passare in seconda linea ogni altra considerazione di tipo
estetico o culturale.
L’archeologia ci permette di conoscere con sufficiente precisione l’Atene del
tempo di Paolo.
L’agorà è stata scavata, e la principale galleria porticata che la fiancheggiava (la
Stoà di Attalo, da cui presero nome i filosofi stoici che vi si radunavano) è stata
completamente ricostruita dalla American School of Classical Studies.
Tutt’intorno si elevavano i templi (il Theseion si è conservato quasi intatto).
Verso sud-est si ergeva l’Acropoli, imponente per i suoi monumenti, splendida,
dove oggi visitatori di ogni paese si recano in riverente pellegrinaggio,
desiderosi di vedere almeno una volta nella vita una delle più alte concentrazioni
di capolavori del mondo.
Soffermiamoci un momento a parlare dei templi.
Oltre alle pregevoli decorazioni scultoree, talvolta eseguite da sommi maestri,
va considerata l’armonia dell’insieme, derivante da un sapiente equilibrio dei
vuoti e dei pieni; e l’impressione di elasticità delle strutture, ottenuta con il
rigonfiamento (entasi) delle colonne e con la curvatura degli elementi dei
capitelli.
Ma gli architetti avevano adottato altri ingegnosi espedienti (linee curve o
convergenti, differenza fra gli intercolunni) per correggere la prospettiva
naturale.
Tuttavia quei monumenti architettonicamente perfetti ed esteticamente
affascinanti erano stati costruiti per custodire le statue delle divinità (gli
“ idoli”), e per servire a tutte le funzioni rituali connesse col loro culto.
E ciò bastava perché Paolo si sentisse fremere dentro di sé.
La ricostruzione sopra riportata fornisce una vista d’insieme di una parte
dell’Atene antica: in alto a sinistra si vede l’Acropoli; in basso a sinistra c’è
l’Agorà, circondata da portici; in alto a destra c’è la collina dell’Areopago, dove
Paolo annunziò il Vangelo davanti ai filosofi.
Il discorso di Paolo ai filosofi
Il discorso ai filosofi di Atene può essere preso come esempio tipico
dell’approccio paolino ad un pubblico di “ Gentili” di elevata cultura.
Dopo un inizio elogiativo, inteso ad accattivarsi la benevolenza dell’uditorio,
viene richiamata l’attenzione sul “ Dio unico” al quale, non di rado anche in
ambiente pagano, era stata attribuita la creazione dell’universo e degli uomini
(Paolo cita, a tal proposito, un brano del poeta Arato, ben noto ai suoi
ascoltatori).
Ne viene di conseguenza che, se siamo tutti “ discendenza” di quel Dio, dovremmo
cercare di conoscerlo.
E questo ora è possibile, dal momento che Dio stesso ha voluto rivelarsi agli
uomini per mezzo di Gesù, che Egli ha risuscitato dai morti.
Quest’ultimo passaggio provocò la reazione sarcastica dei filosofi, per i quali la
risurrezione corporale era improponibile, e la riunione si sciolse.
In effetti Paolo si era servito delle intuizioni dei saggi per attaccare le
credenze del volgo ateniese; gli epicurei avversavano la fede superstiziosa e
irrazionale negli dèi, fede che si esprimeva nell’idolatria, mentre gli stoici
ponevano l’accento sull’unità dell’umanità, sulla sua affinità di carattere con Dio,
e sui conseguenti doveri morali dell’uomo.
Paolo si era schierato con i filosofi per dimostrare che essi avrebbero dovuto
andar oltre e non fermarsi a metà strada.
Ma quello che ai filosofi rimaneva indigesto era il concetto di risurrezione.
I Greci effettivamente credevano nella sopravvivenza dell’anima.
Questa, preesistente alla nascita, con la morte si sarebbe liberata dal corpo, sua
prigione, per ritornare alla sua essenza divina.
Molta incertezza tuttavia essi avevano sulla condizione dell’anima nell’aldilà.
L’anima veniva immaginata come se fosse privata della sua personalità, e
pressoché immersa in uno stato di struggente nostalgia (nessuna credenza
ovviamente sulla risurrezione dei corpi, che era ritenuta impossibile).
Ma Paolo annunziava la speranza di una vita futura per i credenti, con anima e
corpo, legata alla fede nel Cristo, che Dio aveva risuscitato dai morti.
Gli archeologi hanno ritrovato nei cimiteri di Atene molte stele funerarie, i cui
bassorilievi esprimono assai bene il dolore intenso del distacco, lo strazio
della solitudine e l’incertezza per l’aldilà. Esse erano note a tutti, e con tutta
probabilità anche Paolo le aveva potute vedere nei giorni precedenti il discorso
dell’Areopago.
Dobbiamo far notare che c’è discordanza tra i commentatori sul luogo dove Paolo
pronunziò il discorso. Ciò dipende dal fatto che col termine “ Areopago” veniva
indicato sia il “ Consiglio dei saggi ateniesi” sia la collina dove esso si riuniva.
Siccome però gli incontri potevano avvenire anche sotto uno dei porticati
dell’agorà, il dubbio non può essere sciolto. Al riguardo, il testo greco non ci
aiuta: infatti dice che Paolo fu condotto “ epì ton Areion Pagon”, dove la
preposizione epì può significare sia “ sopra” sia “ presso, alla presenza di”.
Tuttavia, la tradizione indica come luogo la collina; e ai suoi piedi è stata posta
in tempi recenti una grande lastra di bronzo col testo completo del discorso,
come riportato in Atti 17:22-31.
“ Al dio sconosciuto”
Un brano del discorso di Paolo ha sollevato fra gli studiosi un acceso dibattito: è
quello dove l’Apostolo afferma che, girovagando per la città si è imbattuto in un
altare su cui stava scritto “ agnosto theo” (che viene tradotto da molti “ al dio
sconosciuto”, ma si potrebbe anche intendere, data la mancanza dell’articolo, “ ad
un dio sconosciuto”).
Il fatto è che nessun altare con questa scritta è stato trovato fino ad oggi ad
Atene, sebbene gli archeologi abbiano setacciato la città palmo a palmo. Ciò ha
portato alcuni ad asserire che quell’altare “ esisteva solo nell’immaginazione di
Paolo”.
Tuttavia c’è anche qualche indizio a favore.
Pausania, che visse nel 2° secolo e viaggiò parecchio, visitando Atene disse di
aver visto, sulla strada che conduceva al vecchio porto, altari di dèi “ chiamati
Ignoti “.
Apollonio, che visitò Atene non molti anni dopo Paolo, viene citato dal suo
biografo Filostrato per aver detto che “ faceva parte della saggezza dei Greci
parlare bene di tutti gli dèi, specialmente ad Atene, dove c’erano perfino degli
altari dedicati a divinità sconosciute”.
(4. continua)
Davide Valente
Tratto con permesso da «IL CRISTIANO» ottobre 2002 www.ilcristiano.it