n.9 GENNAIO 2012

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EAN– European Astrosky Network
n. 9, gennaio 2012
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ASTRONOMIA & INFORMAZIONE
INDICE
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Editoriale
Daniele GASPARRI, Le variabili pulsanti
Marco CATTELAN, Le meteoriti, una rassegna (II parte)
Stefano COVINO, La distanza dei lampi di “luce” gamma
Chiara RIEDO, Progetto “RA”: la spettroscopia astronomica amatoriale con strumenti
autocostruiti
Mirco VILLI, Nicolò CONTE, Censimento delle strutture astronomiche non professionali
Recensione a cura di Rodolfo Calanca: “Cosa resta da scoprire” di G. BIGNAMI
Recensione a cura di Rodolfo Calanca: “Moonbook69” a cura di L. AVALLONE e A.
VINCENSI
Pagina 2
ASTRONOMIA NOVA
n. 9, gennaio 2012
REDAZIONE
Direttore editoriale: Rodolfo Calanca, [email protected]
Co-direttore: Angelo Angeletti, [email protected]
Redattore responsabile: Manlio Bellesi, [email protected]
Redattore: Lorenzo Brandi, [email protected]
Responsabile dei servizi web: Nicolò Conte [email protected]
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PROGETTI EAN
ASTRONOMIA NOVA
n. 9, gennaio 2012
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EDITORIALE A CURA DELLA REDAZIONE EAN
Nicolò Conte, della redazione EAN e Mirco Villi, quest’ultimo storico scopritore di SN e astrofilo tra i più noti,
hanno promosso, dal sito EAN, un censimento delle strutture astronomiche non-professionali. L’iniziativa è
importante e noi di EAN—ASTRONOMIA NOVA la sosteniamo in pieno perché mai, con in questo periodo, è
necessario conoscere la realtà astronomica non professionale e comprenderne la crisi. E’ un dato di fatto che
l’astrofilia non gode buona salute. Il censimento delle strutture astronomiche non professionali, un’iniziativa
che viene riproposta dopo oltre un decennio - l’ultima volta risale infatti al 1997-1998 per iniziativa della rivista
Nuovo Orione - dovrebbe rispondere ad alcune domande fondamentali:
•
Quante sono, nella realtà, le strutture astronomiche non professionali che si occupano di divulgazione e di
ricerca?
•
Come sono attrezzate? Possono svolgere efficacemente le loro attività?
•
E’ in atto un ricambio generazionale, oppure si deve prendere atto di un tragico invecchiamento
dell’astrofilia nazionale?
Quali sono le prospettive future dell’intero movimento astronomico nazionale?
Nel momento in cui esce questo numero della rivista, hanno risposto al questionario EAN una settantina di associazioni e singoli. Ci auguriamo che questo sia un numero destinato ad aumentare (ovvero, si raggiungano
almeno 100-120 strutture censite), tanto da consentirci di eseguire un’analisi efficace dei dati raccolti. Per ulteriori dettagli rimandiamo alla lettura della nota di Mirco Villi e Nicolò Conte a pagina 38.
•
Il primo numero di ASTRONOMIA NOVA del 2012 è ricco di articoli interessanti.
Daniele Gasparri ci propone un’ampia esposizione sulle caratteristiche generali delle variabili pulsanti, che è
anche un’ottima introduzione ad uno dei settori di maggior interesse della moderna astrofisica.
Marco Cattelan, responsabile dell'Area Astronomica e Naturalistica del Museo del Cielo e della Terra del Comune di S.G. Persiceto è autore della seconda parte di una rassegna assai esauriente sulle meteoriti, la cui prima
parte è uscita nel numero di dicembre ad opera di Romano Serra.
Stefano Covino, dell’Osservatorio Astronomico INAF di Brera, ci parla invece di lampi gamma e della loro distanza, mentre Chiara Riedo presenta il suo bel progetto di spettroscopio autocostruito a basso costo ma in grado di fornire risultati di notevole interesse divulgativo e didattico.
Infine le recensioni dei libri del professor Giovanni Bignami, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica
(INAF) che ringraziamo per aver realizzato appositamente per i lettori di ASTRONOMIA NOVA un video illustrativo, e quello sulla storia della conquista della Luna, “Moonbook69”, curato da Luigileone Avallone e Antonio Vicensi che raccoglie numerosi contributi di autori come Piergiorgio Odifreddi e Aurelio Magistà.
LA REDAZIONE DI ASTRONOMIA NOVA
Da sinistra: Rodolfo Calanca, Angelo Angeletti, Manlio Bellesi, Lorenzo Brandi, Nicolò Conte
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ASTRONOMIA NOVA
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D. Gasparri, Le variabili pulsanti
Le variabili pulsanti
Daniele Gasparri
[email protected]
Le variabili pulsanti sono stelle che cambiano in modo
periodico la loro luminosità. La fase di pulsazione riguarda quasi tutte le stelle che, a seguito della loro età
abbandonano la sequenza principale e si trasferiscono
nella striscia di instabilità o nel ramo delle giganti. Il
loro studio, anche da parte dell’astronomo non professionista, è fondamentale per determinare con precisione le distanze dell’Universo, poiché molte di esse possono essere usate come candele standard.
Se avete pensato alle stelle come dei giganteschi oggetti
sferici dalla forma fissata e definita, purtroppo vi sbagliate e neanche di poco.
Le variabili pulsanti sono stelle che cambiano in modo
periodico la luminosità in conseguenza di variazioni importanti della loro struttura.
La fase di pulsazione riguarda quasi tutte le stelle che a
seguito della loro età abbandonano la sequenza principale e si trasferiscono nella striscia di instabilità o nel
ramo delle giganti. Il loro studio è fondamentale anche
per determinare con
precisione le
distanze
nell’Universo, poiché molte di esse possono essere usate
come candele standard (e tra poco vedremo cosa significa).
Si tratta sempre, a prescindere dai tipi, di stelle che variano la loro luminosità a causa di pulsazioni dei loro
strati superficiali, modificando quindi le loro dimensioni
ad intervalli generalmente regolari (ma non sempre).
Le pulsazioni possono essere radiali a simmetria sferica,
del tutto simile all’espansione di un palloncino, oppure
non radiali, con espansione (o contrazione) asimmetrica
e con una forma che risulterà allungata e/o deformata.
I vari tipi si differenziano per:
•
Regolarità o meno del periodo;
•
Durata del periodo di pulsazione;
•
Masse delle stelle;
•
Età e quindi stato evolutivo;
Tipologie di pulsazioni (radiali o non).
Analizziamone alcuni tipi, con le relative proprietà e
curve di luce.
Posizione delle variabili pulsanti nel diagramma HR. Quasi ogni variabile di questo tipo (tranne le Mira e le irregolari) si trova nella cosiddetta striscia di instabilità, una
zona di transizione tra la sequenza principale e
l’inevitabile morte della stella. Ogni variabile pulsante
(tranne le giovani stelle pre-sequenza principale) è una
stella che ha ormai esaurito il combustibile principale,
l’idrogeno, è sta per terminare la sua vita.
Cefeidi
Sono le variabili pulsanti più importanti, quelle che hanno permesso di allargare i confini dell’Universo conosciuto alla fine degli anni Venti dello scorso secolo.
Le variabili Cefeidi sono stelle evolute con massa compresa tra 3 e 20 volte quella del nostro Sole e luminosità
tra 300 e 40.000 volte maggiore.
Esse, dopo aver lasciato la sequenza principale, si sono
portate in una regione del diagramma HR detta striscia
di instabilità. Nel loro nucleo, dove avvengono le reazioni di fusione nucleare, l’idrogeno, che è stato il combustibile per centinaia di milioni di anni, è ormai quasi
esaurito e si sta innescando la combustione dell’elio che
le porterà alla successiva fase di giganti rosse. Si tratta
di stelle pulsanti (radialmente) che variano forma, quindi anche temperatura, colore e luminosità, da un minimo di un decimo di magnitudine fino a 2 magnitudini,
in un periodo compreso tra 1 e 100 giorni.
D. Gasparri, Le variabili pulsanti
La loro classe spettrale al massimo della luminosità è F,
mentre al minimo possono arrivare sino alla G-K; un
“salto” di temperatura di oltre 1.000 °K.
Il motivo delle pulsazioni regolari è da ricercare nel gigantesco inviluppo gassoso che circonda le regioni nucleari nelle quali avviene la produzione di energia. In
parole semplici, quando la stella è contratta, l’inviluppo
diventa piuttosto opaco alla radiazione prodotta al suo
interno. L’accumulo di energia riscalda il gas che si ionizza ed espande, diventando trasparente: i fotoni sfuggono e il gas comincia a raffreddarsi, anche a causa
dell’espansione. La pressione a questo punto diminuisce
e la stella si contrae di nuovo a causa della forza di gravità, ricominciando il ciclo fino a quando, dopo qualche
milione di anni, uscirà da questa fase instabile, cessando
di essere una Cefeide.
Quando la stella è compressa, è più calda e più luminosa; quando invece si espande diventa più fredda, meno
luminosa e di un colore tendente al rosso.
Nel 1912 Henrietta Leavitt (1868-1921), studiando questo tipo di stelle nella grande Nube di Magellano, scoprì
che il periodo di pulsazione è direttamente legato alla
luminosità assoluta della stella: maggiore è il periodo,
maggiore è la luminosità.
Misurando quindi il periodo di pulsazione delle Cefeidi
possiamo ricavare direttamente la magnitudine assoluta
e, dalla conoscenza della magnitudine apparente, troveremo la distanza. Il metodo funziona piuttosto bene, ma
ci sono dei problemi, di natura sia osservativa che fisica. Innanzitutto esso va tarato o, meglio, calibrato.
Questo implica che dobbiamo conoscere la distanza di
alcune variabili attraverso altri metodi, altrimenti non
potremmo mai conoscere la loro luminosità assoluta.
Uno dei maggiori problemi che in passato ha falsato, e
non di poco, la calibrazione delle distanze è dovuto
all’esistenza di due diverse classi di Cefeidi, facenti capo
a due differenti popolazioni stellari.
Alla prima classe, con stelle più giovani e ricche di me-
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Posizione delle Cefeidi nel diagramma HR.
talli, (popolazione I), appartengono le Cefeidi classiche
(Tipo I) il cui prototipo è la stella delta della costellazione del Cefeo. A questo gruppo appartengono anche altre
stelle “blasonate”, tra cui la Polare.
Il secondo gruppo è invece costituito da stelle vecchie,
quindi povere di metalli, come se ne trovano in abbondanza negli ammassi globulari e nell’alone galattico, il
cui prototipo è una stella nella costellazione della Vergine, chiamata W Virginis.
Sebbene il meccanismo di pulsazione sia del tutto simile, la diversa abbondanza di elementi pesanti (metalli)
provoca una lieve differenza nella relazione periodoluminosità. Si pensa che tutte le stelle con massa superiore alle 3 volte quella solare passino attraverso questo
stadio nelle fasi finali della loro vita. Questa fase è transitoria e relativamente breve (qualche decina di milioni
di anni), tanto che non è facile trovare variabili di questo
tipo; fortunatamente abbiamo a disposizione un gran
numero di stelle tra cui scegliere.
Negli ammassi globulari, ad esempio, se ne trovano in
generale qualche decina (tra le centinaia di migliaia totali).
Fortunatamente tutte le Cefeidi sono piuttosto luminose
e questo consente loro di essere rilevabili anche nelle
galassie a noi più vicine (entro un centinaio di milioni di
anni luce).
Tipico andamento della curva di luce di una variabile Cefeide, classe idi stelle mportantissima per la determinazione
delle distanze galattiche e cosmologiche. Il periodo di pulsazione è funzione della luminosità assoluta. In realtà esistono
due tipi di Cefeidi, che differiscono per il contenuto di metalli (diversa popolazione stellare).
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D. Gasparri, Le variabili pulsanti
Relazione periodo-luminosità per i due tipi di variabili
Cefeidi. Quelle di tipo II sono più vecchie ed appartengono alla popolazione II. Quelle di tipo I appartengono alla
classe delle giovani (relativamente) componenti di popolazione I.
RR-Lyrae
Le variabili di tipo RR-Lyrae sono stelle pulsanti
(radialmente) simili alle Cefeidi, ma profondamente
diverse in massa, luminosità e stadio evolutivo.
Questa classe di stelle, il cui prototipo è la stella RR nella costellazione della Lyra, hanno generalmente masse
simili o di poco inferiori al Sole e si trovano in una regione, nel diagramma HR, detta braccio orizzontale,
all’interno della striscia di instabilità.
Si tratta di giganti bianche prossime alla fine della loro
vita, dopo aver già attraversato la fase di giganti rosse.
Nel loro nucleo il combustibile nucleare è l’elio, mentre
l’idrogeno viene bruciato in gusci superiori.
La loro età è sempre superiore a quella delle Cefeidi,
poiché si tratta di stelle meno massicce che quindi vivono molto più a lungo, per questo motivo sono anche più
abbondanti. Appartengono sempre alla vecchia popolazione II e si trovano maggiormente concentrate
nell’alone galattico e negli ammassi globulari; non a caso una vecchia classificazione le individuava come
“Cefeidi degli ammassi”. Il periodo di pulsazione è piuttosto breve e compreso tra qualche ora e 2 giorni, con
oscillazioni comprese tra 0,3 e 2 magnitudini e luminosità circa 50 volte maggiori della nostra stella. Studiando diverse curve di luce, si è capito che il meccanismo di
pulsazione può avvenire in due modi diversi; l’uno
(RRab), del tutto simile a quello delle Cefeidi produce
curve di luce simmetriche e regolari, l’altro (RRc), genera curve di luce asimmetriche, caratterizzate da un rapido aumento della luminosità e da un calo più graduale.
Curva di luce tipica di una variabile di tipo RR-Lyrae.
L’andamento è meno simmetrico rispetto alle Cefeidi, con
un aumento di luminosità piuttosto rapido, seguito da una
discesa lenta. Il processo fisico alla base delle pulsazioni è
lo stesso, Le differenze sono da imputare alle diverse masse tra questi due tipi di stelle pulsanti.
Anche le variabili RR-Lyrae possono essere utilizzate
come candele standard.
Si è scoperto infatti che tutte le stelle di questo tipo possiedono circa la stessa luminosità assoluta, a prescindere dal colore e dalla loro temperatura; se ne ricava quindi una relazione molto più semplice di quella trovata per
le Cefeidi.
Sfortunatamente sono stelle piuttosto deboli, soprattutto se paragonate alle Cefeidi, tanto che possono essere
utilizzate solo per la stima delle distanze galattiche.
Delta Scuti
Altro tipo molto interessante di variabili pulsanti, spesso
classificate anche come cefeidi nane per la forma di alcune curve di luce. Le delta Scuti, dal nome della stella
delta della costellazione dello Scutum, che ne rappresenta il prototipo, sono molto interessanti e presentano
forti differenze con le Cefeidi e le RR-Lyrae.
Il loro posto nel diagramma HR si colloca nella linea di
instabilità ed interseca la sequenza principale. Questo
significa che c’è una grande varietà di stelle che può ap-
D. Gasparri, Le variabili pulsanti
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Relazione periodo-luminosità per le variabili RR-Lyrae.
Tutte le stelle appartenenti a questa classe hanno all’incirca
la stessa luminosità assoluta.
Posizione delle variabili RR-Lyrae nel diagramma Hertzsprung-Russell
partenere a questa classe: stelle evolute, come le subgiganti, altre appena nate, dette pre-sequenza principale, ed anche alcune di sequenza principale di classe spettrale tra la A2 ed F8.
Le masse sono comprese tra 1 e 2,5 masse solari e dipendono anche dal contenuto di metalli (le delta scuti con
minore contenuto di metalli sono meno massicce, tra 1 e
2 masse solari, mentre quelle di popolazione I, con contenuto metallico simile al Sole, hanno masse comprese
tra 1,5 e 2,5 masse solari).
Il periodo di pulsazione varia tra qualche decina di minuti fino a 10-12 ore.
Posizione delle Delta Scuti nel diagramma HertzsprungRussell
Una tipica stella di questo tipo presenta pulsazioni (a
volte con più di un periodo) ad intervalli di qualche ora,
con oscillazioni comprese tra qualche centesimo ed una
magnitudine.
La particolarità delle delta Scuti è che possono avere
pulsazioni sia radiali che non radiali. Il loro studio può
dare quindi molte informazioni sulla struttura interna,
attraverso una tecnica chiamata astrosismologia, in modo analogo allo studio delle onde sismiche terrestri (i
terremoti) che ci da informazioni sulla struttura interna
della Terra.
Spesso la loro curva di luce non è simmetrica, o altamente periodica, come tutte le altre stelle pulsanti finora
viste: la combinazione di diversi modi di pulsazione, sia
radiali che non, genera delle curve di luce con periodi
multipli che si sovrappongono gli uni agli altri.
Curva tipica di una variabile di tipo Delta Scuti. Generalmente
hanno periodi di qualche ora e ampiezze ridotte. Il meccanismo di pulsazione è lo stesso delle Cefeidi. Non a caso vengono
anche definite cefeidi nane.
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D. Gasparri, Le variabili pulsanti
La scoperta di queste variabili è quindi molto importante per conoscere a fondo la struttura e il comportamento
stellare e non ultimo per stimare la loro distanza, poiché
quelle più regolari e con oscillazioni maggiori possono
essere utilizzate come candele standard.
Come le RR-Lyrae, anche le delta Scuti possono essere
suddivise in diversi sottotipi, in base al contenuto di
metalli e all’ampiezza delle oscillazioni.
Il tipo con oscillazioni elevate (HADS) presenta variazioni superiori a 0,1 magnitudini, mentre il tipo con oscillazioni ridotte (LADS) ha variazioni anche di 1-2 centesimi di magnitudine. Sebbene il confine tra i due tipi
non sia rigoroso, alla base della classificazione ci sono
elementi fisici. Le HADS sono più simili alle Cefeidi o
RR-Lyrae, hanno generalmente un solo modo di pulsazione, che avviene in maniera radiale, descritte anche da
una relazione periodo-luminosità come nei casi precedenti. Sono generalmente stelle evolute fuori dalla sequenza principale, nel braccio delle sub-giganti.
Le LADS ,contrariamente, presentano diversi modi di
pulsazione, sia radiale che non, e sono principalmente
stelle di pre-sequenza principale e sequenza principale;
questa classe di delta Scuti è la più interessante da studiare per scoprire la struttura interna ed i modi con cui
cambiano forma.
Un’altra tipologia di classificazione prende in esame il
contenuto di metalli, quindi l’appartenenza ad una delle
due popolazioni stellari.
Le delta Scuti classiche sono stelle di popolazione I, relativamente giovani, simili, per composizione chimica,
al nostro Sole, mentre quelle vecchie di popolazione II
sono classificate come SX Phoenicis, del tutto simili alle
classiche.
Curva di luce tipica di una RV-Tauri, stelle pulsanti minori
di 8 volte la massa del Sole, che sono prossime allo stadio
finale della loro vita: la perdita degli strati esterni, che formeranno una nebulosa planetarie, e la trasformazione del
nucleo in nana bianca.
RV-Tauri
Le RV-Tauri sono stelle supergiganti gialle situate, nel
diagramma HR, tra le Cefeidi e le variabili di tipo Mira
(che analizzeremo nelle prossime pagine) e sembrano
rappresentare l’anello di congiunzione tra questi due
importanti (e molto diversi) tipi di variabili pulsanti.
Si pensa che le RV-Tauri siano stelle giunte al termine
della loro vita, in quel momento di transizione, della
durata di appena qualche migliaio di anni, nel quale una
stella non troppo massiccia si accinge ad abbandonare
lo stadio di supergigante e a diventare una nana bianca,
espellendo i suoi gusci esterni e trasformandosi in una
nebulosa planetaria. Non a caso, nel diagramma HR la
loro posizione, vicino al braccio delle giganti, indica proprio che esse sono in uno stadio evolutivo successivo, il
cui ultimo fine è la creazione di una nana bianca ed eventualmente una nebulosa planetaria. Non tutte le stelle post giganti che sono destinate a diventare nane bianche sono variabili RV-Tauri; si pensa infatti che la massa e la metallicità giochino un ruolo fondamentale. La
breve durata di questa fase è confermata anche dal fatto
che le RV-Tauri sono il tipo di variabili meno abbondante nella nostra galassia; molte di esse sono stelle vecchie di popolazione II e vengono scoperte nell’alone galattico.
L’importanza di queste variabili è legata al fatto che la
scoperta e il successivo studio possono fornire dati sulle
ultime fasi evolutive delle stelle di massa medio-grande,
visto che il passaggio tra gigante-supergigante e nana
bianca non è ancora stato ben compreso dalla comunità
astronomica.
Posizione delle RV-Tauri nel diagramma HR
D. Gasparri, Le variabili pulsanti
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Le pulsazioni sono radiali ma non sempre regolari. Ci
sono, anche in questo caso, periodi multipli che si sovrappongono, compresi tra 30 e 150 giorni, e ampiezze
fino a 4 magnitudini. Le curve di luce presentano più
massimi o minimi e possono differire notevolmente le
une dalle altre, al punto che sono stati definiti diversi
sottotipi:
•
Tipo RVa, nelle quali la luminosità media resta co-
stante;
Tipo RVb, nelle quali la luminosità media varia con
un periodo compreso tra 600 e 1.500 giorni.
In realtà alcuni studi recenti lasciano pensare che la differenza tra questi due tipi non sia di tipo fisico. Attorno
a queste stelle sono stati osservati dei gusci di polvere in
rapida evoluzione, tanto che si pensa che il tipo RVb sia
in una fase attiva, in cui il guscio viene disperso dalle
pulsazioni ma continuamente alimentato.
Se non c’è un fenomeno di auto alimentazione della polvere, il guscio tende ad essere spazzato via rapidamente,
o al limite a rimanere sostanzialmente invariato se posto
a grandi distanze: il risultato e che la stella mantiene
una luminosità media costante, “trasformandosi” nel
tipo RVa.
•
Variabili di lungo periodo: Mira e semiregolari
Le variabili Mira prendono il nome dalla stella Omicron
Ceti, nella costellazione della Balena, chiamata anche
Mira (meravigliosa) per il comportamento che la porta a
variare di svariate magnitudini in qualche mese, rendendola facilmente visibile ad occhio nudo o invisibile
anche attraverso molti binocoli. Si tratta di stelle giganti
rosse, di massa inferiore a 2 masse solari, estremamente
estese, tanto da poter occupare facilmente l’orbita di
Giove, se si trovassero al posto della nostra stella, e decine di migliaia di volte più luminose.
Posizione delle variabili Mira e semiregolari all’interno del
diagramma HR. Contrariamente agli altri tipi di stelle pulsanti, esse fanno parte del ramo delle giganti e supergiganti rosse.
La classe delle variabili di tipo Mira appartiene a quello
che viene definito braccio asintotico delle giganti, una
regione del diagramma HR che raccoglie le stelle non
troppo massicce che sono evolute in giganti rosse, estremamente luminose ma con temperature superficiali
molto basse (comprese tra 2.000 e 3.000 K).
Il loro periodo di pulsazione è compreso tra 100 e 1.000
giorni, con ampiezze elevate, superiori a 2,5 magnitudini, che possono arrivare fino a 10; sono variabili molto
appariscenti, facilissime da seguire anche visualmente o
addirittura ad occhio nudo (il caso di Omicron Ceti).
Queste stelle hanno una vita media di solo qualche milione di anni, periodo durante il quale parte della loro
massa, a causa di un fortissimo vento solare, viene espulsa e probabilmente andrà a formare gli anelli esterni
di quella che sarà presto una nebulosa planetaria con al
centro una nana bianca molto compatta e calda.
Curva di luce tipica di una variabile Mira. L’andamento è
simile a quello delle Cefeidi, benché si sviluppi su tempi scala
nettamente
maggiori
(dell’ordine dei mesi). Il prototipo di questa classe è la stella
Omicron Ceti, detta Mira.
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D. Gasparri, Le variabili pulsanti
Il tasso di perdita di massa delle variabili Mira è elevato, fino ad 1 milionesimo di massa solare ogni anno; poiché si tratta di stelle simili quanto a massa al
Sole, si capisce come con questo tasso di perdita non
possano avere una vita superiore al milione di anni.
Il nostro stesso Sole, tra circa 5 miliardi di anni, attraverserà questa fase turbolenta ed instabile.
Le variabili semiregolari
Esse si trovano nella parte alta del braccio asintotico
delle giganti; si tratta quindi di stelle più luminose,
in generale di supergiganti, ma anche giganti, molto
simili alle variabili Mira, ma con una curva di luce
che non mostra una periodicità netta e costante.
Spesso la comunità astronomica tratta allo stesso
modo questa classe di variabili, le Mira e le RVTauri, poiché il loro comportamento è così simile da
indurre a pensare sia generato da meccanismi fisici
analoghi (si pensa che la fase RV-Tauri rappresenti
l’evoluzione delle variabili Mira).
Come ogni classe che raccoglie stelle dal comportamento non perfettamente definito, le variabili semiregolari presentano caratteristiche diverse le une
dalla altre, e possono essere suddivise in 4 sottotipi:
•
SRa: sono le più regolari, con un periodo supe-
riore ai 35 giorni e ampiezze inferiori a 2,5 magnitudini, molto simili alle Mira;
•
SRb: periodi superiori ai 20 giorni e ampiezze
inferiori alle 2,5 magnitudini. Sono piuttosto irregolari; spesso nelle curve di luce appaiono zone costanti
o con variazioni di luminosità imprevedibili;
•
SRc: stelle supergiganti che occasionalmente
variano la loro luminosità in modo irregolare e con
ampiezze ridotte. La stella più famosa di questo tipo
è Betelgeuse, nella costellazione di Orione;
•
SRd: giganti e supergiganti gialle, di tipo spettrale tipicamente compreso tra F e K. Sono piuttosto
diverse dalle Mira e dalle altre semiregolari e presentano solo occasionalmente delle variazioni di luminosità, generalmente superiori ad una magnitudine
(fino a 4 magnitudini).
Le variabili pulsanti come candele standard
Alcune tra le stelle pulsanti viste nelle pagine precedenti possono essere utilizzate per stimare distanze
galattiche ed extra-galattiche.
Il periodo di pulsazione di alcune stelle dipende dalla
loro luminosità assoluta, quindi dall’energia che emettono nell’unità di tempo; in altre parole, conoscendo il periodo di pulsazione possiamo ricavarci la magnitudine
assoluta. Dalla misura della magnitudine apparente ricaviamo il cosiddetto modulo di distanza, che ci fornisce
direttamente la distanza dell’oggetto.
Alcune di queste stelle pulsanti sono così luminose da
rendersi visibili anche in altre galassie, fino a distanze di
qualche centinaio di milioni di anni luce. Esse costituiscono degli strumenti fondamentali per la calibrazione di
altri indicatori di distanza, prima fra tutte la legge di
Hubble.
Non tutti i tipi di variabili pulsanti possono essere utilizzati come candele standard, ma solamente le Cefeidi
(tipo I e II), le RR-Lyrae, le RV-Tauri e il sottotipo ad
elevata ampiezza delle Delta Scuti.
Per ogni tipo esiste una relazione, più o meno semplice,
detta relazione periodo-luminosità, la quale lega il periodo di pulsazione alla loro luminosità assoluta, previa
un’opportuna calibrazione.
E’ molto importante capire questo punto: il periodo di
pulsazione dipende dalla magnitudine assoluta della stella, che è una proprietà intrinseca, non da quella apparente, che dipende da vari fattori come la distanza e
l’assorbimento causato dalle polveri e gas posti nel cammino della radiazione che giunge fino alla Terra.
Per conoscere la luminosità intrinseca di ogni stella occorre conoscere la sua distanza, altrimenti l’unico dato
che possiamo ricavare è la luminosità apparente.
Pare di essere entrati in un circolo vizioso: come è possibile utilizzare le candele standard per misurare le distanze quando occorre conoscere la distanza per determinare
la luminosità assoluta della stella?
Possiamo superare l’empasse solamente se, utilizzando
altri metodi, arriviamo a conoscere la distanza di alcune
stelle che serviranno per calibrare l’unità di misura. Il
procedimento di calibrazione va fatto (nel caso ideale)
solo una volta, su degli oggetti che già conosciamo.
Una volta eseguito, abbiamo una legge universale: il guadagno netto è senza dubbio notevole!
Il procedimento è a grandi linee il seguente:
•
Si individuano delle regioni ricche di stelle che
possiamo assumere tutte poste alla stessa distanza
dalla Terra (con buona approssimazione), come ad
esempio quelle negli ammassi aperti, globulari o
in galassie a noi vicine e di piccole dimensioni,
come le Nubi di Magellano. Poiché tutte le stelle in
D. Gasparri, Le variabili pulsanti
ASTRONOMIA NOVA
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osservazione le assumiamo alla stessa distanza, le
loro variazioni di luminosità apparente corrisponderanno a variazioni di luminosità assoluta: in
questo modo possiamo scoprire alcune proprietà
importanti. Nel nostro caso specifico, scopriamo
che variazioni del periodo di pulsazione corrispondono a variazioni di luminosità apparente, e
quindi, per la scelta del campione di stelle, a variazioni di luminosità assoluta: scopriamo così
che esiste un legame tra luminosità intrinseca
della stella e periodo di pulsazione;
•
Ora dobbiamo cercare di capire qual è in termini
matematici il legame: dobbiamo trasformare la
magnitudine apparente in quella assoluta. Per
fare questo è sufficiente conoscere la distanza di
almeno una stella qualsiasi dell’agglomerato considerato. Questo è sicuramente il passo più delicato. Se la distanza non è elevata, possiamo tentare
di utilizzare qualche metodo geometrico, come la
parallasse trigonometrica o quella di gruppo;
spesso si utilizzano più metodi insieme per ridurre al minimo gli inevitabili errori. Conosciuta la
distanza, e conoscendo la magnitudine apparente,
possiamo ricavare facilmente la magnitudine assoluta e sostituire tali valori nel grafico che riporta la luminosità apparente in funzione del periodo
di pulsazione: finalmente abbiamo calibrato il
grafico. Ora possiamo applicare il metodo ad ogni
stella di quel tipo, poiché non si ha più la dipendenza critica dalla distanza.
Relazione periodo-luminosità per i due tipi di variabili Cefeidi.
tipo ha una propria relazione periodo-luminosità.
Una volta calibrato, il grafico ha l’andamento mostrato
nella figura qui sopra.
Le funzioni matematiche che descrivono i due andamenti sono identiche, ma differiscono solo per il valore
delle costanti.
Per le Cefeidi di tipo I, si ha:
M V = −2,78 log( P) − (1,35 ± 0,1)
Studiando quindi una qualunque Cefeide di questo tipo
e misurando il suo periodo di pulsazione possiamo ricavarci subito la magnitudine assoluta (media).
Ricordando ora l’espressione del modulo di distanza:
m − M = −5 + 5 log d
,
ricaviamo direttamente la distanza (in parsec):
d = 10
Il procedimento appena descritto fu utilizzato nei primi
anni del Novecento da Henrietta Leavitt, astronoma
americana che per prima trovò la relazione periodoluminosità per le variabili Cefeidi osservando quelle
all’interno della grande Nube di Magellano.
Vediamo ora, brevemente, le relazioni-periodo luminosità per le variabili più importanti: Cefeidi classiche e
RR-Lyrae.
Relazione periodo-luminosità per le Cefeidi
La procedura di calibrazione è particolarmente delicata,
tanto che solamente negli ultimi anni si sono ridotti gli
errori grazie all’impiego di telescopi di ultima generazione e tecniche digitali avanzate di ripresa delle immagini.
L’esistenza di due tipi di Cefeidi ha portato in passato ad
errori grossolani nella stima delle distanze, poiché ogni
m−M +5
5
Vediamo una semplice applicazione.
La stella W nella costellazione dei Gemelli è una variabile Cefeide del tipo I. Effettuando osservazioni di natura
fotometrica ricaviamo un periodo di pulsazione di 7,915
giorni, con picchi di magnitudine apparente di
mV , Max = 6,72
e
mV , Min = 7,58
, con un valore medio
mV , Mean = 7,15
pari a
.
Possiamo calcolare facilmente la luminosità assoluta
dalla relazione:
trovando
mula:
M V = −2,78 log( P) − 1,35
M V , Mean = −3,85
m−M +5
5
d = 10
, quindi la distanza dalla for-
, ottenendo così 1.590 parsec.
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ASTRONOMIA NOVA
n. 9, gennaio 2012
D. Gasparri, Le variabili pulsanti
modo la distanza dell’ammasso? E’ molto più semplice e
divertente di quando comunemente si crede.
Conoscendo il periodo di pulsazione di una stella Cefeide qualsiasi, possiamo, attraverso un grafico calibrato,
come questo, risalire istantaneamente alla sua magnitudine assoluta e, dal modulo di distanza, alla sua distanza dalla Terra.
Un calcolo semplice e veloce, anche se è bene non
dimenticare gli sforzi enormi, prodotti da generazioni di astronomi, per consentire a noi cotanta facilità.
Spesso le relazioni più semplici sono proprio quelle
che hanno richiesto il più elevato investimento di
energie intellettuali.
Relazione periodo luminosità per le RR-Lyrae. La relazione è
piuttosto semplice, poiché tutte le variabili di questo tipo hanno luminosità assoluta fissata.
RR-Lyrae
La relazione di luminosità per queste variabili pulsanti è molto semplice, visto che abbiamo già detto
che possiedono tutte circa la stessa magnitudine assoluta. Non occorre quindi applicare una relazione
più o meno laboriosa, ma soltanto tenere in mente
0,6 < M V < 0,7
che la luminosità assoluta media è
; il
valore, variabile di 1/10 di magnitudine, è dovuto sia
ad una leggera dipendenza dal periodo di pulsazione,
che dal contenuto di metalli.
Per affinare ulteriormente le stime di distanza occorre tenere conto di queste due variabili.
E’ importante notare come queste stelle, benché oltre
50 volte più luminose del Sole, siano molto più deboli delle Cefeidi e non possono essere osservate in altre galassie (tranne rarissime eccezioni), limitando il
loro utilizzo agli ambienti della Via Lattea.
Le RR-Lyare sono molto importanti nella stima delle
distanze degli ammassi globulari, all’interno dei quali se ne possono osservare qualche decina, molte alla
portata della strumentazione amatoriale.
Perché gli astrofili che possiedono un telescopio ed
una camera CCD non si cimentano in uno studio fotometrico che consentirebbe di ricavare in questo
Per Daniele Gasparri, l’astronomia è, contemporaneamente, una passione e una professione. Studia astronomia a Bologna ma, allo stesso tempo, cerca, con la propria strumentazione amatoriale, di condurre progetti di ricerca professionale,
ottenendo spesso risultati di qualità, come la scoperta di un
pianeta extrasolare in transito nel settembre 2007, di qualche
nuova stella variabile e lo studio in alta risoluzione dei corpi
del sistema solare. Accanto allo studio del cielo vi è la passione, nata da poco, di comunicare, in un linguaggio nuovo e
coinvolgente, tutte le meraviglie che esso contiene, che non
necessariamente devono coinvolgere solo la vista ma, anzi,
devono afferrare il lettore ad un lato superiore, più profondo,
e proiettarlo nel vero mondo che ci circonda, che spesso non è
come lo vogliamo vedere.
Articoli e video di Daniele Gasparri:
www.eanweb.com/2011/ottenere-parametri-planetariosservazione-transito-extrasolare/
http://www.youtube.com/watch?v=YEAGSnHY9-o
http://www.youtube.com/watch?v=IQT8qxacjDg
M. Cattelan, Meteoriti (II)
ASTRONOMIA NOVA
n. 9, gennaio 2012
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Meteoriti, una rassegna*
(parte seconda)
Marco Cattelan
CARATTERI FISICI
Le caratteristiche di una meteorite, che la differenziano
da un comune “sasso” terrestre sono varie. Nella grande maggioranza dei casi, se si ha già un po’ di dimestichezza con le meteoriti, è facile riconoscere un “ sasso
extraterrestre”. Vi sono però casi in cui l’alterazione
prodotta dal tempo o dalle caratteristiche intrinseche
della struttura rende veramente difficile il riconoscimento di un oggetto senza un’adeguata analisi.
Peso – Dimensione.
Le meteoriti hanno generalmente un peso superiore a
quello di un sasso comune di uguale dimensione. Ciò è
dovuto alla presenza del ferro.
La densità di una meteorite può variare da 3,5 a 8 gr/
cm3, mentre le sue dimensioni possono andare da pochi millesimi di millimetro, nel caso delle micrometeoriti e della polvere cosmica, fino a diversi metri e quintali in peso per certe meteoriti metalliche. La più grande, in assoluto, è quella di Hoba, una meteorite ferrosa
trovata in Namibia agli inizi del 1900 (fig. 15).
Proprietà magnetiche
Le meteoriti si distinguono dai comuni sassi terrestri
perché quasi tutte ( tranne le più rare) hanno proprietà magnetiche (fig. 16) Se il campione è piccolo la risposta la si avverte solo utilizzando un pendolo di cui
la massa oscillante è appunto un magnete. La sensibilità del pendolo consente quindi di segnalare anche una
minima presenza di metallo libero nel campione. Generalmente un sasso terrestre non ha la concentrazione di metallo necessaria per far orientare un magnete
a meno che non sia un basalto o una roccia di origine
vulcanica in genere. Spesso tra i falsi meteoriti vi sono
proprio basalti e porfidi. Il metallo di cui è composta
* La prima parte di questo articolo è stata scritta da Romano
Serra, www.eanweb.com/2011/le-meteoriti-una-
rassegna/
Fig. 15. La grande meteorite ferrosa di Hoba, in Namibia.
una meteorite è essenzialmente ferro a cui è associato
il nichel. Proprio da questa associazione, rara nelle
rocce terrestri, si ha spesso la certezza che il campione
in esame è di origine extraterrestre. La lega ferro - nichel acquista una polarità magnetica quando viene calamitata, per questo è meglio evitare di esporre ad un
forte campo magnetico il campione, in quanto si possono alterare con ciò varie proprietà e quindi perdere
preziose informazioni.
Fig. 16. Un magnete,
sospeso a pendolo,
attira una piccola meteorite ferrosa.
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ASTRONOMIA NOVA
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M. Cattelan, Meteoriti (II)
Fig. 17. Le meteoriti sono ricoperte da una sottilissima
crosta nera, di natura vetrosa per quelle petrose, mentre è
costituita essenzialmente da magnetite per le ferrose.
Crosta nera superficiale
Altro carattere principale delle meteoriti è una crosta
sottilissima dello spessore di alcuni decimi di millimetro
o poco più, nera o nerastra, sempre ben distinta dal
colore interno del campione (fig. 17). La crosta è essenzialmente vetrosa se ricopre una pietra mentre è fatta
principalmente di magnetite ( Fe3O4) nelle meteoriti
ferrose. Il colore può essere nero opaco, a volte lucido
come una cera, oppure nera lucente come la lacca nelle
meteoriti pietrose oppure nero con riflessi bluastri se il
campione e di composizione metallica. Se la meteorite è
rimasta esposta per molto tempo agli agenti atmosferici
la crosta si perde o si ossida, in pratica si forma uno
strato di ruggine. Questa cosa è molto pronunciata nelle
meteoriti metalliche, mentre invece in quelle pietrose
solo la parte interrata quando il campione è ancora al
suolo, risente fortemente del processo di ossidazione.
Spesso le meteoriti, in particolare quelle metalliche
hanno una crosta solcata da numerose linee sottili prodotte da rivoli di sostanza fusa le quale indicano la parte
frontale del corpo nel tratto terminale della traiettoria a
velocità cosmica. La crosta è nera, anche se raramente,
può essere di colore caffelatte - biancastro. I fulmini
possono produrre a volte sulle rocce una specie di vernice vetrificata che può avere qualche analogia con la
crosta delle meteoriti. E’ per questo che un tempo si credeva che le meteoriti fossero rocce terrestri vetrificate
superficialmente dal fulmine.
Regmaglipti
La superficie delle meteoriti appare spesso cosparsa di
caratteristiche depressioni e concavità arrotondate paragonabili alle impronte lasciate dalle dita su di un pezzo di argilla o pasta molle (fig. 18). Queste concavità, a
volte di forma poligonale e talvolta così profonde da
formare tra l’una e l’altra delle creste, si chiamano” regmagliti o piezoglipti”. Le dimensioni vanno da pochi
millimetri a molti centimetri, e comunque sono proporzionate alle dimensioni della meteorite. La superficie
delle meteoriti può essere anche ricoperta da varie irregolarità, come fessure, cavità, protuberanze. Questo è
dovuto principalmente all’azione atmosferica nel tratto
della traiettoria di volo prima della perdita della velocità
cosmica. Alcune meteoriti mostrano un pronunciato
orientamento aerodinamico. Hanno una forma che ricorda un cono o un tronco di cono. La sommità del
campione è generalmente liscia mentre le superfici laterali possono essere ricoperte di regmagliti. Queste meteoriti che si dicono “orientate” indicano chiaramente
che il meteoroide ha mantenuto un’ orientazione fissa
durante la traiettoria aerea.
Forma aerodinamica orientata e poliedrica
Molte meteoriti che non hanno subito processi di disgregazione in atmosfera mostrano spesso una struttura
che può essere approssimata ad una figura a fuso, ed a
scudo e comunque una geometrica regolare. Parallelepipedi, piramidi, coni, prismi a diversa base sono le
figure geometriche più comuni (fig. 19). Già
nell’Ottocento si fecero esperienze per studiare il comportamento di un prisma d’acciaio durante l’esplosione
di una cartuccia di dinamite. I campioni si frammentano dando sempre origine ad altri prismi di forma poliedrica ed i piani di rottura tendono a prodursi perpendicolarmente alla superficie. In questo modo si può capire meglio il processo di disgregazione di un meteoroide
prima di perdere la velocità cosmica, considerando anche che gli angoli smussati dei meteoriti sono il prodot-
Fig. 18. Remaglipti molto marcate sulla superficie di questa
meteorite.
M. Cattelan, Meteoriti (II)
Fig. 19. Meteorite di forma poliedrica.
to dei contatti tra i frammenti del meteroide stesso.
Struttura interna
Le meteoriti sono generalmente composte da materiale
solidamente aggregato. Raramente e solo nelle meteoriti
pietrose, possiamo osservare campioni che semplicemente al contatto con le mani tendono a sbriciolarsi. Le
meteoriti pietrose si classificano in base alla struttura
del materiale al loro interno, in indifferenziate e differenziate. La grande maggioranza di quelle recuperate
sono indifferenziate cioè sono composte da un agglomerato di piccolissime sferule chiamate condruli amalgamati in una matrice rocciosa più o meno ricca di pagliuzze metalliche. Queste sono le meteoriti più antiche.
Sezionando e lucidando quindi una meteorite condritica
appaiono tanti piccolissimi “circoletti” di materiale roccioso (fig 20). Questa struttura, ad un attento esame, la
si può osservare già anche sulla crosta di fusione o, dove
questa manca, sulla materia rocciosa. Le differenziate
sono invece quelle che mostrano diversi cristalli agglomerati in una matrice rocciosa, dove la presenza dei
condruli e del metallo libero è minima o completamente
assente.
Questo materiale mostra cioè un processo di ridistribuzione dei componenti chimici partendo da corpi di composizione condritica o indifferenziata. La parte metallica
di questi corpi poi è quella di cui sono composti i meteoriti ferrosi. Questi ultimi hanno una composizione prevalentemente costituita di ferro e nichel cioè il metallo
delle condriti, che grazie a forti pressioni agenti per lungo tempo, si è distribuito nel campione con forme caratteristiche di un cubo o di un tetraedro. Sezionando e
trattando con opportuni acidi le meteoriti ferrose, quindi, si possono osservare delle figure particolari che nessun materiale terrestre mostra e che assomigliano agli
intrecci di fili o ai disegni di un tappeto: le figure di
Widmanstatten (fig. 21).
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Fig. 20. I condruli, piccole strutture circolari rocciose che
si evidenziano sezionando e lucidando una meteorite.
Venature nere e metallo libero
Sezionando alcune meteoriti si sono notate delle venature nere che sembrano come prolungamenti della crosta.
Ciò è probabilmente dovuto alla penetrazione della materia fusa e quindi vetro, nell’interno del meteoroide
durante l’interazione con l’atmosfera. Questo materiale
interagendo poi con la roccia interna produce delle figure o linee che sembrano assomigliare ad un marmo. Oltre a ciò si può spesso osservare del metallo libero costituito da una lega ferro/nichel (fig. 22).
COMPOSIZIONE CHIMICA
E’ noto che le meteoriti contengono gli stessi elementi
presenti sulla Terra. Ciò che le differenzia sono i rapporti delle abbondanze, sia in peso che isotopiche, di alcuni
particolari elementi. Oltre a questo, nelle meteoriti si
possono trovare dei composti che sono molto rari sulla
Terra o sono evidentemente il prodotto di processi di
trasformazione della struttura molecolare o cristallina
dovuti ad agenti fisici a cui sono stati sottoposti durante
la loro formazione. L’elemento che molto spesso offre la
certezza di trovarsi di fronte ad una meteorite è il nichel
(fig 23).
Fig. 21. Le figure di Widmanstatten.
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ASTRONOMIA NOVA
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M. Catellan, Meteoriti (II)
Fig. 23. Nello spettro di un condrulo meteoritico si rileva la presenza, in elevata quantità, di ferro e nichel.
Fig. 22. Struttura interna di una meteorite con conglomerati di una lega di Fe/Ni
Questo metallo è sempre associato al ferro con il quale
generalmente forma delle leghe con rapporti più o meno
grandi ma nei quali il nichel è sempre in minore quantità.
Un secondo elemento importante è il magnesio, il quale
si associa in sali con il ferro ed il silicio per formare la
principale materia rocciosa delle meteoriti.
Le quantità percentuali dei vari elementi variano relativamente ai diversi tipi di meteorite.
Minerali nelle meteoriti
Nelle meteoriti sono presenti molti minerali e composti
come carburi, feldspati, fosfuri ossidi, pirosseni, silica-
ti, solfuri, composti del ferro metallo, ecc.
Dove trovare meteoriti
Nella grande maggioranza delle meteoriti esiste una non
trascurabile presenza di ferro. Questo è, per il ricercatore, positivo e negativo al tempo stesso. E’ positivo perché la presenza del ferro aiuta nella distinzione da un
comune sasso, in quanto con una calamita si può dare
velocemente una stima della presenza del minerale metallico, e quindi del riconoscimento del materiale extraterrestre. Ciò in realtà non è determinante, perché esistono rocce terrestri di origine vulcanica ricche di metallo che si confondono facilmente.
Elementi presenti nelle meteoriti pietrose (condriti)
paragonati alle tipiche rocce ignee terrestri
Elemento
O
Condriti (%)
34.55
Fe
Si
26.86
17.62
5.00
27.74
Mg
14.02
2.06
S
2.06
0.06
Ca
1.20
3.63
Ni
1,37
0.08
Al
1.21
8.16
Na
0.57
2.80
Cr
0.25
0.02
C
0.1
0.03
Altri
0.19
3.82
Alla voce “Altri” figurano l’Azoto, l’Idrogeno il Fosforo ed il Manganese
Rocce (%)
46.60
M. Catellan, Meteoriti (II)
Composizione tipica di un siderite
o meteorite metallico
Fe 89.50 %
Ni 9.32 %
Co 0.66 %
Cu 0.04 %
Altri 0.48%
Per “Altri” mi riferisco principalmente all’iridio , al
gallio ed al germanio.
E’ negativo perché il ferro si deteriora presto se esposto
agli agenti atmosferici e questo produce prima o poi
l’ossidazione del campione, e quindi lo smembramento
del pezzo. Ovviamente l’agente principale responsabile
del fenomeno è l’umidità. Si pensi che evidenti fenomeni
di ossidazione avvengono anche nelle vetrine dei musei.
I posti migliori per trovare le meteoriti, quindi, sono i
deserti sia caldi che freddi, cioè il Sahara e l’Antartide.
Il polo sud è un posto dove comunque la temperatura è
sempre troppo bassa per permettere la presenza di una
elevata umidità. Le meteoriti in Antartide hanno un
meccanismo particolare di concentrazione. Lo scorrimento di ghiacciai verso il mare, la presenza di colline e
montagne ed il formarsi di forti venti che flagellano la
base delle stesse, è la miscela necessaria per
l’affioramento e la concentrazione di meteoriti cadute
anche varie migliaia di anni orsono. In Antartide sono
state trovate migliaia di campioni di eccezionale interesse, compresa la famosa meteorite marziana ALH 84001,
che secondo recenti studi sembra contenere delle tracce
compatibili con la passata esistenza di forme di vita primordiale su Marte.
Un secondo posto è sicuramente il deserto arido e secco.
Il deserto di Atacama in America del sud, la pianura di
Nullarbor nell’Australia sud occidentale e, soprattutto,
il deserto del Sahara, sono posti meravigliosi per cercare
meteoriti (fig. 24). Vi sono delle zone piatte con un terreno ghiaioso abbastanza duro e di colore biancastro,
che sembrano fatte apposta per osservare oggetti di colore scuro. Questa selezione è molto importante perché come detto le meteoriti sono generalmente di un
colore nerastro. Le “cose” brune quindi possono essere
solo: sterco di dromedario, rari sassi soprattutto di selce
(a volte questo materiale si rivela un manufatto preistorico), barattoli arrugginiti o, appunto, meteoriti. E’ ve-
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ramente incredibile come questo materiale si possa trovare semplicemente appoggiato sul terreno o appena
interrato come se fosse caduto il giorno prima. E’ curioso rilevare come, dalla lettura dei cataloghi delle meteorite classificate, siano molto rare le meteoriti sahariane
completamente ferrose ( sideriti). Forse questo è un effetto di selezione dovuto alla presenza dell’uomo, che
potrebbe avere raccolto ed utilizzato quel materiale per
ricavarne attrezzi o manufatti, oppure che il processo
di deterioramento è molto maggiore, e rapido, nelle meteoriti ferrose rispetto a quelle rocciose ( aeroliti). Comunque questa, potrebbe essere, anche una prova che
di meteoriti ferrose ne cadono in percentuale molto minore rispetto a quelle rocciose.
Come trovare le meteoriti
Cercare e trovare meteoriti non è facile. La cosa più importante è l’esperienza e comunque “il colpo d’occhio”.
Queste qualità si acquisiscono anche in brevissimo tempo specialmente se si ha la possibilità di osservare bene
e da vicino dei campioni, o si è a contatto con persone
che hanno una buona esperienza in materia. Lo strumento principale rimane però sempre un buon magnete
con il quale verificare se un “ sasso” sospetto ha buone
possibilità di essere extraterrestre. Un altro strumento è
il “cerca metalli”. Di questi attrezzi ve ne sono molti in
commercio a diversi prezzi. Certamente più è grande la
piastra sensibile, maggiore è la probabilità di captare
qualche segnale positivo.
Non è necessario uno strumento che analizzi molto in
profondità perché poi bisogna scavare e nella stragrande
maggioranza dei casi quello che si trova è materiale ter-
Fig. 24. Meteoriti sul terreno piatto e desolato di una sperduta località sahariana.
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M. Catellan, Meteoriti (II)
restre. Quindi si rischia di perdere tempo per nulla e ci
si demoralizza. Le aree su cui cercare dovrebbero essere il più possibile prive di vegetazione ed il suolo il più
possibile antico e non mescolato. Comunque è certo che
la dote che bisogna avere, in buona quantità, è la costanza e soprattutto la fortuna. Una volta recuperato un sasso sospetto bisogna osservare se esiste qualche traccia di
crosta di fusione o provare se esiste una apprezzabile
quantità di nichel, e per tale analisi la cosa più semplice,
rimane quella di mostrare il campione a qualche centro
specializzato (Museo, Università, ecc.) per fare
un’analisi ed una classificazione appropriata. La proprietà rimane di chi lo ha trovato. In Italia non esiste
una legislazione appropriata per la meteoriti.
Quando si ha la certezza di aver trovato un “sasso cosmico” si prova una grande soddisfazione.
Come conservare le meteoriti
Le meteoriti vanno conservate in posti asciutti. Negli
armadi, dove vengono esposte, è bene apporre dei sali
per estrarre l’umidità. Le meteoriti metalliche hanno
sempre il problema della ruggine che può essere combattuto con opportuni prodotti specifici come ad esempio una soluzione formata da una parte di citrato di sodio e 5 parti di acqua. Qualcosa di buono si ottiene anche utilizzando prodotti per lo sbloccaggio di pezzi arrugginiti, anche se alcuni preferiscono tagliare drasticamente le meteoriti metalliche. Il campione è bene conservarlo immerso in petrolio o olio di vasellina dentro
ad un contenitore vetro, anche se la “carie” degli ossidi
tende a formarsi lo stesso assieme a bei cristalli di cloruro ferrico. Le meteoriti rocciose hanno meno problemi
rispetto a quelle metalliche, bisogna solo, come tutti
questi “sassi”, maneggiarle con cura, magari con i guanti.
Fig. 25. Una classificazione semplificata delle meteoriti.
più comune e tra quelli più antichi. Si definisce così perché la roccia di cui sono composte è un amalgama di
oggetti più o meno sferici chiamati condruli.
Di dimensione diversa partendo da qualche centinaio di
micrometri fino a qualche millimetro, questi condruli
sono immersi in una matrice rocciosa. Si associa un
numero che va da 3 a 7 in base alla loro piccolezza. Al
numero 3, sono associati condruli distinti ed evidenti,
al numero 7 praticamente indistinti rispetto alla matrici. Una importante distinzione viene fatta anche in base
al contenuto di metallo libero, principalmente ferro. Si
associa la lettera “H” quando il valore è alto attorno al
20% della massa; “L” quando è basso attorno al 10%;
“LL” quando è molto basso attorno al 5%. Le componenti principali sono l'olivina, la bronzite e l'iperstene
(fig. 26).
CLASSIFICAZIONE
Le meteoriti si classificano in base alla quantità di ferro
in 3 grandi gruppi. Aeroliti: essenzialmente roccia;
Sideroliti: circa la metà del peso di questi campioni è
roccia e l’altra metà è costituita di metallo; Sideriti:
costituite essenzialmente da metallo e sopratutto ferro.
Questa classificazione viene ulteriormente suddivisa in
base a certe caratteristiche fondamentali. Di tutte le
meteoriti viste cadere il 94 % sono aeroliti, il 5 % sono
sideriti e l’1% sono sideroliti (fig. 25).
Aeroliti
Condriti ordinarie. Questo tipo di meteorite è quello
Fig. 26. In alto meteorite acondrite quasi priva di metallo
in basso meteorite condrite ricchissima di metallo.
M. Catellan, Meteoriti (II)
Condriti Carboniose.
E ' una classe di meteoriti estremamente antica, e ricca
di carbonio. In alcuni casi sicuramente proveniente da
comete o da primitivi asteroidi carboniosi. Le condrule
possono essere estremamente evidenti oppure praticamente assenti. Nella sigla di classificazione si associa
una lettera che rappresenta il tipo in base a meteoriti
capostipiti già ampiamente studiate ed analizzate. In
base alle dimensioni dei condruli viene associato un numero tra 1 e 5 (fig. 27). Alle condriti carboniose appartiene anche la classe delle condriti Bencubbiniti cioè
carboniose ricche di metallo.
Condrite a enstatite
Sono meteoriti molto rare dove la matrice è costituita
da cristalli di enstatite. Hanno il più alto contenuto di
ferro libero ed il più basso tasso di ossidazione tra tutte
le condriti. Vengono indicate con le lettere “H” ed “L” in
base alla abbondanza di metallo e solfuro. In base alle
dimensioni dei condruli viene associato un numero tra 3
e 6 (fig. 28).
Condriti Rumuruti
Queste meteoriti sono estremamente rare, per anni sono
state definite condriti anomale prima di essere costituite
in un gruppo proprio. Il nome deriva dalla località di
Rumuruti in Kenia dove nel 1934 caddero diverse pietre
di questo tipo. Le caratterizza il basso contenuto di metallo libero una minore quantità di condruli rispetto alle
altre condriti e la più alta ossidazione ferrosa di tutta la
classe delle condriti (fig. 29).
Acondriti
Le acondriti sono meteoriti molto rare anche perché
Fig. 27. Particolare di una condrite carbonacea con una
elevata quantità di condruli.
ASTRONOMIA NOVA
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Fig. 28. Esempio di condrite a enstatite.
non sempre vengono riconosciute facilmente essendo
molto simili a certe rocce terrestri. Si definiscono anche
meteoriti differenziate in quanto l’omogeneità tipica
delle condriti, formate da un miscuglio di rocce e metallo, viene sostituita da un miscuglio assolutamente povero di metallo libero e praticamente privo di condruli.
Sono presenti diversi cristalli di silicati che danno poi
le caratteristiche petrografiche alla meteorite stessa.
Aubriti
Sono povere di calcio e consistenti soprattutto di enstatite. Sembra siano correlate alle condriti a enstatite e
provenienti da asteroidi del tipo” E”. Secondo alcune
teorie sembrano provenire dal pianeta Mercurio, (fig.
30).
Ureiliti
Sono povere di calcio e ricche di silicati di magnesio e
ferro e soprattutto carbonio Sono le sole che contengono una quantità significativa di metallo libero, attorno al
5% e la più alta concentrazione di gas rari. L’origine non
Fig. 29. Un esempio di condrite rumurute.
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M. Catellan, Meteoriti (II)
Fig. 30. Campioni di aubrite, una tipologia di meteorite
che potrebbe provenire da Mercurio
è chiara anche se sembra probabile la formazione partendo dalle condriti carbonacee (fig. 31).
Brachiniti
Le Brachiniti sono composte quasi interamente da piccoli grani di olivina ( silicato di ferro e magnesio) granulare ed assomigliano al tipo di meteorite marziana chiamata Chassigny.
Furono originariamente confuse con questo tipo di meteorite. Il metallo è molto raro o assente, in totale è
quasi il 20% ma legato alle olivine (fig. 32).
Winonaiti
Le Winonaiti sono una classe di meteoriti primitive; l'analisi isotopica le distingue dalle Brachiniti e da altre
classi delle acondriti.
Queste meteoriti sono ancora in fase di studio. La meteorite di Winona, da cui deriva il nome Winonaite, fu recuperata all'interno di una tomba preistorica.
Fig. 31. Campione di ureilite
Fig. 32. Piccolo campione di brachinite
Acapulcoiti/Lodraniti
Le Acapulcoiti sono considerate delle acondriti primitive
e strettamente simili alle Lodraniti ( sideroliti). Le Acapulcoiti hanno una composizione condritica ma una tessittura acondritica. Le prime classificazioni le consideravano una condrite anomala. Le Acapulcoiti sono eterogenee sia nella tessitura che nella composizione mineralogica e isotopica. Esse hanno una tessitura a grana fine
in confronto alle Lodraniti e si pensa che questi due tipi
di meteoriti hanno subito delle variazioni di fusione parziale, probabilmente nello stesso corpo progenitore (fig
33).
Gruppo HED
“HED” significa meteoriti Howardite - Eucrite –
Diogenite. Questi sottogruppi di meteoriti, pur essendo diverse nella composizione del minerale, come ad
esempio l’abbondanza di calcio basaltico, hanno diverse
caratteristiche che le accomuna come la composizione
isotopica. Sembrano tutte provenire dallo stesso corpo
celeste, l’asteroide Vesta (fig. 34).
Fig. 33. Campione di lodranite
M. Catellan, Meteoriti (II)
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Fig. 34. Un meteorite del sottogruppo Howardite—eucrite,
probabilmente precipitato sulla Terra dall’asteroide Vesta.
Fig. 35. Un campione di meteorite “SNC”, probabilmente
proveniente da Marte.
Angriti
Le Angriti sono un piccolo gruppo di meteoriti composte da pirosseni, olivine e plagioclasi.La tessitura delle
angriti è variabile, però si è cristallizzata da un basalto
vulcanico. Analisi isotopiche della composizione delle
Angriti hanno rilevato che sono indinstinguibili dal
gruppo HED, ma la chimica di queste meteoriti ha indicato che provengono da un corpo progenitore separato.
questo si aggiunge poi un indice “S” seguito sempre da
un numero da 1 a 6 che indica il livello crescente di
frantumazione o shock del campione dovuto a impatto.
Gruppo SNC
“SNC” significano Shergotty ( India), Nakhla ( Egitto),
Chassigny( Francia), sono località dove sono cadute in
tempi diversi delle meteoriti molto rare che hanno una
composizione isotopica e petrologica simile. Sono diventate capostipiti di un gruppo di meteoriti che si pensa abbiano origine dal pianeta Marte. Alcune sono estremamente giovani ( rispetto alla stragrande maggioranza
delle meteoriti), si è calcolato un’età attorno al miliardo
e 200 milioni di anni (fig. 35).
Lunari.
Anche queste sono meteoriti molto rare. Sino ad oggi ne
sono state trovate 22 soprattutto nell’Antartide e nel
deserto del Sahara. Ci sono campioni che provengono
dall’Australia e dall’Oman. Tutte le meteoriti sono brecce cioè sono rocce formata dalla fusione, di roccia frammentata durante il fenomeno dell‘impatto di un meteoroide. Sembrano provenire sia dai mari che dalle montagne lunari. Sono molto importanti perché danno informazioni sulle rocce lunari situate in zone che gli astronauti non hanno potuto esplorare (fig. 36). La classificazione viene poi completata con una scala di valori di
degrado del campione dovuto all’esposizione agli agenti
atmosferici indicato con “W” seguito da un numero da 0
a 6 riferito alla crescente alterazione del campione. A
Sideroliti
Questa è una classe di meteoriti differenziate che dovrebbero provenire da un settore di un meteoroide che
si trova tra il nucleo e la superficie. Si caratterizzano per
la quasi identica quantità di metallo libero e di roccia
(fig. 37).
Pallasiti. Queste meteoriti, se sezionate, sono tra le
più belle, in quanto consistono di cristalli di olivina inglobati in una matrice metallica. Sono tra le più difficili
da conservare perché il processo disgregativo della ossidazione attecchisce con maggiore efficacia.
Mesosideriti
Si pensa che queste meteoriti si formino quando un asteroide prevalentemente roccioso impatta su di uno
prevalentemente metallico.
Fig. 36. Meteoriti di provenienza lunare.
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M. Catellan, Meteoriti (II)
Esaedriti
Queste sono le meteoriti metalliche più povere di nichel. E’ possibile trovarlo con una abbondanza tra il 4%
ed il 6% . In pratica queste meteoriti sono formate solo
da camacite la lega più povera di nichel. Lucidando una
superficie ed attaccandola con l’acido nitrico diluito si
ottengono delle figure dette di Neumann (fig. 39).
Fig. 37. Campioni di siderolite.
La fusione del materiale creerebbe la mesosiderite.
Questa si differenzia dalla pallasite perché non mostra
una struttura compatta di metallo libero.
SIDERITI
Le sideriti sono una classe di meteoriti differenziate
che proviene dal nucleo di un meteoroide distrutto dalla collisione con un altro corpo cosmico. Frammenti del
nucleo poi possono essere stati coinvolti in ulteriori
impatti producendo ulteriori frammentazioni. La classificazione è determinata dalla composizione chimica
in particolare dalla abbondanza del nichel e dalla struttura della matrice metallica (fig. 38). Nelle sideriti sono
presenti anche, se in piccolissima quantità, il germanio,
il gallio e l’iridio. Se la superficie viene lucidata ed attaccata con acido nitrico molto diluito possono apparire
delle figure particolari intrecciate simile ad un tappeto.
Questi drappeggi sono di diverso spessore e caoticità in
relazione alla quantità di nichel presente. Queste meteoriti sono formate da grandi cristalli di taenite e camacite: due leghe di ferro-nichel.
Fig. 38. Sideriti; da sinistra: esaedrite, ottaedrite,
atassite.
Ottaedriti
Sono meteoriti con un contenuto di Nichel variabile tra
il 6% ed il 17%. Se lucidate e trattate con l’acido mostrano delle figure caratteristiche chiamate di Windmastatten. Questi “drappeggi” sono prodotti dall’unione della
tenite e della camacite, e per questo quando sono in
quantità variabili possono dare origine a diversi disegni.
Le lamelle possono essere per questo più o meno grossolane, questo anche in relazione al piano di taglio della
meteorite.
Atassite.
Queste sono meteoriti con un contenuto di nichel molto
alto, oltre il 18%. Questo significa che solo la lega ferronichel è presente solo sotto forma di tenite. Lucidate e
trattate con acidi corrosivi non mostrano più nessuna
figura o drappeggio, sulla superficie.
La meteorite più pesante al mondo è proprio una atassite è stata rinvenuta in Namibia e pesa 55 tonnellate.
Negli ultimi anni sono state individuate nuove classi di
meteoriti o riclassificate, grazie a strumenti migliori,
diverse meteoriti un tempo definite anomale.
Questo sta a testimoniare quanto sia complessa e ricca
l’evoluzione geologica dei corpi del sistema solare che
questi “sassi cosmici” rappresentano.
Fig. 39. Campione di siderite esaedrite, meteoriti a basso
contenuto di nichel.
M. Catellan, Meteoriti (II)
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ETA’ DELLE METEORITI
Si definisce età di una meteorite il tempo trascorso tra
la formazione del meteoroide o corpo genitore ed il momento della caduta o della raccolta. Per la sua misura
utilizza il metodo del decadimento radioattivo, cioè la
proprietà che hanno alcuni isotopi di decadere e trasformarsi in altri con tempi e abbondanze ben precise.
La radioattività presente nelle meteoriti è molto bassa e
prodotta da diversi elementi, la cui abbondanza può
essere modificata dalla storia termica del meteoroide.
Questo vuol dire che gli errori che si commettono sono
molto ampi. L’analisi della radioattività inoltre ci permette di stimare anche il tempo che il meteoroide ha
trascorso nello spazio planetario. Infatti il Sole emette
particelle ad alta energia ( raggi cosmici) che inducono
specialmente negli elementi delle parti superficiali del
meteoroide, delle reazioni nucleari che producono nuovi isotopi. Ad esempio è noto che dal ferro, opportunamente irradiato, si può produrre un isotopo instabile
del manganese. Misurando quindi la quantità di questo elemento si possono stimare le misure dei tempi che
un meteorite ha trascorso nello spazio dopo
l’espulsione, a seguito di un impatto, dal corpo progenitore. Per meteoriti molto antiche, statisticamente, in
base a differenze, si riesce a stimare anche il tempo
trascorso dalla caduta sulla Terra.
Tectiti e vetri naturali
Sulla Terra sono stati scoperti oltre 150 crateri da impatto. Il fenomeno della craterizzazione è assai comune
nel sistema solare. Basta osservare la Luna con un semplice binocolo per rendersi conto del “bombardamento”
che ha subito il nostro satellite naturale nel corso di
alcuni miliardi di anni. Quello che è successo alla Luna,
in passato, è successo anche alla Terra. La teoria che
descrive il meccanismo di caduta di un corpo cosmico e
quindi la formazione del cratere da impatto prevede la
formazione di un’onda termica che raggiunge il suolo.
Questa energia viene poi dissipata producendo deformazioni nella roccia (fig. 40) chiamate “ coni di frattura o più comunemente, in inglese, “Shatter Cone”, rocce brecciate. E producendo dei corpi vetrosi denominati “tectiti” e “vetri naturali” (fig. 41). In altre parole la
sabbia presente nel terreno si fonde grazie al calore e si
trasforma in corpi vetrosi del peso variante da pochi
grammi ad alcuni chilogrammi. La differenza tra le
due denominazioni trae origine dalla diversa composizione e dal fatto che nella maggioranza delle tectiti ci
Fig. 40. Rocce brecciate, con i caratteristici “coni di frattura” (Shatter Cone), prodotte dall’onda termica di impatto
sulla superficie terrestre di un meteorite.
sono segni di orientamento del campione ( a goccia, a
perla, ecc.) che indicano sicuramente che il pezzo è stato lanciato in aria assumendo quindi movimenti rotatori e traslatori che hanno prodotto delle particolari
forme aerodinamiche, mentre tra i “vetri naturali” segni
di ablazione e comunque di volo sono quasi assenti. La
composizione chimica rivela una grande abbondanza
di silice oscillante tra un 60% per le tectiti del bacino
asiatico-australiano e circa il 98 % per il vetro del deserto libico. La presenza di questi corpi indica quasi
sempre l’esistenza di un cratere da impatto di non tarda età. Le aree dove è possibile trovare le tectiti sono
tutti i continenti. In Europa si possono trovare le “
moldaviti” bellissime tectiti di color verde scuro. L’area
interessata si trova nelle regione della Boemia e Slovacchia. Certamente però il materiale più bello e da cui si
ricavano spesso anche gioielli, è il Libyan Desert Glass
( L.D.G.) un “ vetro naturale” che si trova nel sud ovest
dell’Egitto , in quella parte del deserto libico chiamato “
Gran Mare di Sabbia”.
Fig. 41. Tectiti e vetri naturali.
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M. Catellan, Meteoriti (II)
Fig. 42. Al centro splendido manufatto paleolitico realizzato in LDG.
L’edificio che accoglie il Planetario e l’esposizione museale di meteoriti a San Giovanni Persiceto (BO)
In quelle aree sono situate delle bellissime dune di sabbia quasi parallele. Nei corridoi interdunali semplicemente appoggiato sul terreno o a poca profondità si
può trovare questo splendido vetro con colori e trasparenza diversa rispetto alla posizione. Il colore va dal
bianco opaco al verde molto scuro quasi nero. Mediamente però i campioni sono trasparenti e di un bel colore verde giallo. Da questo vetro l’uomo preistorico ha
ricavato dei bellissimi manufatti come amigdale, raschiatoi, ecc. (fig. 42).
Al planetario di San Giovanni in Persiceto
(BO) è aperta al pubblico una grande e completa collezione di meteoriti di tutti i tipi
(circa 800 campioni diversi) oltre ad una
collezione completa di tektiti, vetri e rocce
da impatto!
Per concordare visite telefonare allo 051 827067
Marco Cattelan, laureato in Scienze Naturali all'Università di Bologna, è “astrofilo” fin da bambino e
membro da subito del Gruppo Astrofili Persicetani. E'
tra i fondatori dell'Osservatorio Astronomico Comunale
di S.G. Persiceto, dove da sempre svolge una intensa
attività didattica e divulgativa. Attualmente e responsabile dell'Area Astronomica e Naturalistica del Museo
del Cielo e della Terra del Comune di S.G. Persiceto, che
comprende: Planetario, Osservatorio Astronomico,
Stazione Meteorologica ed Orto Botanico. E' coordinatore e conferenziere del Planetario, fin dalla sua istituzione, nel 1998. E' il conservatore delle Collezioni dei
Reperti di “Storia Naturale”, ivi presenti.
Video correlati:
http://www.youtube.com/watch?v=V1_mds2WdjY&feature=related
http://www.youtube.com/watch?v=IbvQ3qWyF18&list=UUhapkJ_i90aBpkXt--C6ioA&index=11&feature=plcp
http://www.youtube.com/watch?v=uwqaJBpHO7A&list=UUhapkJ_i90aBpkXt--C6ioA&index=175&feature=plcp
S. Covino, Distanza GRB
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La distanza dei “lampi” di luce gamma
Storia di un’affascinante avventura scientifica
Stefano Covino
INAF / Osservatorio Astronomico di Brera
Sarebbe stata un’esperienza interessante essere parte,
negli anni’ 60, del gruppo di scienziati responsabili dei
satelliti di primo allarme lanciati dagli Stati Uniti. Si
tratta di una serie di satelliti noti come serie “Vela” (fig.
1) ed il cui scopo era quello di controllare il rispetto da
parte dell’Unione Sovietica del trattato di non proliferazione nucleare. A tutti gli effetti la firma di quel trattato
fu uno dei primi tentativi di tenere sotto controllo gli
effetti nefasti della guerra fredda e, nello specifico, il
potenziale devastante per l’ecosistema terrestre delle
esplosioni nucleari sulla superficie della terra, anche se
non in contesto bellico, condotte dalle due superpotenze.
Tuttavia quegli scienziati ebbero ben presto una sorpresa, in quanto quei satelliti registrarono dei lampi di luce
gamma della durata di pochi secondi, una caratteristica
delle esplosioni nucleari, diverse volte alla settimana.
Non ci volle molto, naturalmente, per rendersi conto
che non si trattava di esperimenti nucleari a terra ma
eventi provenienti dallo spazio. Dopo alcuni anni di
osservazioni, nel 1973, studiando in maggiore dettaglio
gli eventi visti da più di un satellite contemporaneamente per avere dati di migliore affidabilità, viene pubblicato il primo articolo scientifico sui lampi di luce
gamma, o come si dice in inglese Gamma-Ray Burst
(GRB). Nasce quindi una quarantina d’anni fa, per mezzo di osservazioni per certi versi casuali, una dei settori
di ricerca più vitali ed innovativi della moderna astrofisica!
I GRB sono dal punto di vista osservativo emissioni di
raggi gamma, onde elettromagnetiche ad energie milioni di volte maggiori di quelle della luce visibile, di durata molto breve, da frazioni di secondo a qualche minuto. In questi brevi istanti questi oggetti diventano le più
brillanti sorgenti del cielo. Fin da subito ci si rese conto
che i processi fisici in grado di generare tale flusso di
radiazioni dovevano essere diversi da quelli all’opera ad
esempio nelle stelle. Tuttavia non si ebbe per molto
tempo alcuna idea della provenienza, e quindi della di-
Fig. 1: Un satellite della serie Vela in laboratorio.
stanza, degli oggetti in grado di generare questa emissione. Esistevano di fatto almeno due famiglie di teorie
in competizione. Una ipotizzava che questi eventi avessero origina da una qualche popolazione di oggetti nella
nostra Galassia. L’altra suggeriva che fossero eventi
provenienti da distanze cosmologiche, e quindi caratterizzati da un’energia intrinseca prodigiosa.
Per poter avere una prima risposta a questa domanda si
dovette attendere la prima metà degli anni ’90 quando
fu lanciato un satellite dalla NASA completamente dedicato alle osservazioni di radiazione di alta energia: il
satellite Compton Gamma-Ray Observatory (GRO). Si
trattava di un complesso di strumenti di osservazione
molto avanzato per l’epoca e dopo alcuni anni di osservazioni sistematiche, registrando la provenienza di
qualche migliaio di GRB, si ottenne una notevole scoperta. La direzione di provenienza dei GRB sembrava
essere del tutto isotropa in cielo (fig. 2), ovvero i GRB
non sembravano provenire da zone privilegiate del cielo
ma mostravano una rimarchevole uniformità.
La conseguenza di questa scoperta fu subito chiara. Se
osserviamo il cielo notturno vediamo che le stelle non
sono distribuite uniformente ma esistono zone molto
più ricche di stelle. In particolare la fascia della Via Lat-
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S. Covino, Distanza GRB
tea, il piano della nostra Galassia visto dalla Terra, appare prominente e ben visibile sotto cieli limpidi e lontano da luci artificiali.
In realtà tutto questo rispecchia la forma della Via Lattea ed il fatto che il Sole è in una posizione non centrale
nel nostro sistema. Ed a parte le stelle visibili ad occhio
nudo o con un binocolo, questo vale per il gas, le polveri
ed in generale per quasi ogni oggetto astrofisico galattico. Al contrario, come confermato da osservazioni sempre più accurate, su grande scala le galassie riempiono
l’universo in maniera del tutto omogenea, e di fatto ogni direzione di osservazione è in media del tutto equivalente alle altre. Apparve così naturale associare i GRB
a galassie od oggetti parte di galassie a distanze cosmologiche, e quindi i GRB stessi oltre ad essere per brevi
istanti gli oggetti più brillanti del cielo divennero anche
le sorgenti intrinsecamente più potenti.
Tuttavia era sempre (marginalmente) possibile tentare
di associare i GRB a qualche popolazione ancora
sconosciuta di oggetti parte dell’alone della nostra Galassia. Se questo alone si estendesse a sufficienza potrebbe in effetti simulare una distribuzione quasi isotropa in quanto la distanza del Sole dal centro della Galassia, centro di simmetria dell’alone, sarebbe ben poca
cosa rispetto alle dimensioni dello stesso.
La prova definitiva invece dell’origine cosmologica dei
GRB avvenne però solo pochi anni dopo, nel 1997, ad
opera di un satellite lanciato dall’Agenza Spaziale Italiana per l’osservazione ad alta energie: BeppoSAX.
SAX era dotato di un’ampia serie di strumenti diversi
per l’osservazione del cielo X e gamma, ma soprattutto
aveva una caratteristica tecnologica estremamente
innovativa: la capacità di cambiare direzione di puntamento in poche ore senza preavviso anziché in giorni o
settimane come era stato fino ad allora.
Il problema principale nell’osservazione dei GRB era,
ed è tutt’ora, il carattere improvviso ed imprevedibile
di questi eventi.
Di fatto, quindi, non sappiamo che zona di cielo osservare con i nostri telescopi fino a che il GRB non è stato
rilevato da un satellite per alte energie.
Ai raggi gamma, però, gli strumenti hanno tipicamente una ridotta capacità di misurare posizioni con
precisione e l’errore sulla stessa è quindi troppo
grande per usare con efficacia, per esempio, un telescopio ottico.
Alcuni scienziati avevano predetto, per altro, che dopo
l’evento principale ai raggi gamma ci potesse essere
una seconda fase di emissione molto meno intensa ma
osservabile a tutte le frequenze (raggi X, ottico, radio,
ecc.) e di durata molto maggiore: da diverse ore ad
alcuni mesi a seconda della banda.
Questa fase è nota in inglese come afterglow. Con la
capacità di ripuntare relativamente velocemente, SAX
era quindi in grado di verificare questa previsione grazie a dei telescopi a raggi X a bordo del satellite che
potevano osservare solo una ridotta zona di cielo, in
cambio però di una risoluzione molto migliore.
Fig. 2. La distribuzione in cielo di
2512 GRB rivelati dallo strumento
denominato BATSE a bordo del satellite Compton.
S. Covino, Distanza GRB
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Fig. 3. Immagini di BeppoSAX
il 28 febbraio ed il 3 marzo
1997 dell’afterglow del GRB
scoperto il 28 febbraio 1997
(GRB970228). Si vede chiaramente la presenza di una sorgente la cui luminosità decade
velocemente.
L’occasione migliore arrivò il 28 febbraio 1997 con un
intenso GRB che fu quindi ripuntato in circa 8 ore per
scoprire al centro del campo di vista dei telescopi X una
nuova sorgente che stava velocemente decrescendo di
luminosità (figura 3). Il previsto afterglow!
Con l’accurata posizione ottenuta con i telescopi X anche molti telescopi da terra furono puntati verso questa
sorgente ed anche nell’ottico fu rivelata l’emissione
dell’afterglow. Fu possibile però fare anche altro, ovvero ottenere uno spettro della sorgente ed identificare
nello stesso delle righe di assorbimento attribuite alla
galassia che ospitava l’oggetto che ha generato il GRB.
Con l’applicazione di normali tecniche spettroscopiche
quindi si poté misurare lo spostamento verso il rosso di
questa galassia ed in conseguenza, con grande precisione, la distanza. E si ebbe così la tanto cercata conferma
con una misura diretta dell’origine cosmologica dei
GRB. La distanza risultò essere di qualche miliardo di
anni luce, ovvero molto più lontana delle stelle della
nostra galassia (fino a circa centomila anni luce) o delle
galassie vicine (qualche milione di anni luce). I GRB
aprivano la prospettiva di studiare delle sorgenti di luce
così intense da essere osservabili, anche se solo per pochi giorni, da praticamente tutto l’universo osservabile
diventando in breve obiettivo primario degli studi cosmologici.
Ma cosa in definitiva sono i GRB? Ancora molti dettagli
ci sfuggono, e forse è più corretto dire che cominciamo
solo ora ad avere delle idee affidabili sulla natura di
questi oggetti. Quello che è certo è che una certa percentuale di essi sono associati al collasso di una stella di
grande massa, 20-30 volte almeno il nostro Sole. In
alcuni casi queste stelle terminano la loro vita evolutiva
con un’esplosione di supernova molto peculiare ed estremamente energetica, le cosiddette ipernove. Il fenomeno è decisamente complesso, ma si pensa che nelle
regioni polari queste supernove possano emettere due
getti in direzioni opposte con materia lanciata a velocità
molto vicine a quella della luce.
Se accade che la Terra sia nella direzione di uno di questi getti, noi non osserveremmo la supernova a causa
dell’enorme distanza e al contrario saremmo investiti
dalla radiazione emessa dal getto che per effetti relativistici ci apparirebbe per lo più ai raggi gamma. Alcune
disomogeneità nella generazione del getto dovrebbero
poter rendere conto della variabilità osservata durante
il GRB vero e proprio, mentre successivamente il getto
che ancora si muove a velocità relativistiche dovrebbe
cominciare ad interagire con il mezzo interstellare attorno al progenitore dando luogo all’emissione ritardata nota come afterglow (figura 4). E’ abbastanza interessante notare che un fenomeno simile si pensa possa
avvenire anche se invece di avere una stella di grande
massa abbiamo un sistema binario stretto di due oggetti compatti, stelle di neutroni o buchi neri. Sistemi del
genere con stelle di neutroni sono stati in effetti osservati e l’orbita delle due stelle tende a restringersi per
l’emissione di onde gravitazionali. A lungo andare i due
oggetti dovrebbero coalescere l’uno sull’altro formando
un sistema dove ancora, durante le fasi della veloce interazione, possono formarsi due getti opposti con in
parte le stesse caratteristiche dei precedenti.
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S. Covino, Distanza GRB
Fig. 4. Uno schema esemplificativo di come viene modellato un GRB. Un getto ultrarelativistico, velocità vicine a quelle
della luce, viene emesso ed interazioni fra varie componenti del getto danno luogo al GRB vero e proprio. Successivamente, con vari fenomeni molto complessi da descrivere, il getto interagisce con il mezzo interstellare generando
l’afterglow.
Di conseguenza ci potrebbe essere anche la possibilità
che il fenomeno GRB possa essere espressione di diversi canali evolutivi anche se sempre coinvolgenti fenomeni di collasso gravitazionale, la cui comprensione
senza dubbio richiede uno sforzo concettuale ed osservativo ancora solo agli inizi.
Video correlato di Stefano Covino:
http://www.youtube.com/watch?v=S2oky5xkgb0
Stefano Covino nasce nel 1964. In piena era spaziale, come si diceva con un po' di enfasi, ma lui non ne era allora
cosciente sebbene l'eco e l'eccitazione per le missioni Apollo lo ha accompagnato per tutta l'infanzia (prolungatasi
probabilmente fino a pochi anni fa'). Laureato in fisica e dottorato in astronomia all'Università degli Studi di Milano, sotto la direzione di Laura Pasinetti, ha cominciato fin da subito ad essere parte di collaborazioni internazionali
sostenendo diversi periodi di lavoro in istituti esteri. Di formazione è un astrofisico stellare, con particolare attenzione allo studio delle popolazioni stellari, ma con il tempo si è sempre più avvicinato all'astrofisica delle alte energie divenendo parte del gruppo ricerca dedicato presso INAF - Osservatorio Astronomico di Brera. E' quindi divenuto membro della collaborazione Swift, volta allo sfruttamento scientifico dei dati di questa missione, lanciata nel
2004 e tutt'ora proficuamente attiva, frutto di una collaborazione tri-nazionale fra Stati Uniti, Regno Unito ed Italia. "Principal Investigator" in numerossime occasioni di progetti osservativi volti allo studio di GRB, dal 2007 è
divenuto membro della collaborazione MAGIC volta allo studio di raggi gamma di altissima energia attraverso la
radiazione Cerenkov da essi prodotta in atmosfera. Si è occupato però anche di sviluppi tecnologici come responsabile del software per il telescopio robotico a puntamento veloce REM, al momento operativo presso l'osservatorio
di La Silla dell'ESO (Cile).
Sposato con un bravo medico pneumologo che, fortunatamente, lo costringe a casa per almeno il 50% del suo tempo, è stato fino al matrimonio un attivo alpinista sebbene tutt'ora, occasionalmente, non disegni pareti e vette insieme alla relatività e la fisica dei processi radiativi.
C. RIEDO, Progetto RA
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Progetto “RA”: la spettroscopia astronomica amatoriale
con strumenti autocostruiti
Chiara Riedo
[email protected]
Nel campo dell’astronomia amatoriale la spettroscopia
è ancora un campo poco indagato, probabilmente perché i pochi strumenti alla portata dell’astrofilo hanno
ancora prezzi paragonabili a quelli di telescopi di buona
qualità.
Come hanno però dimostrato Lovato e Villa (si vedano
gli articoli su ASTRONOMIA NOVA, nn. 2, 3 e 5) è possibile realizzare in proprio, ed in economia, spettroscopi di ottima qualità. In particolare, questo è lo scopo del
mio Progetto Ra (da Ra, divinità del Sole dell’antico
Egitto), la cui prerogativa irrinunciabile è l’utilizzo di
materiale per lo più di recupero e quindi di contenimento dei costi.
sto che la spettroscopia riveste un ruolo fondamentale
nello studio dei corpi celesti.
La spettroscopia fonda la sua teoria sulla duplice natura
ondulatoria e corpuscolare della luce.
Molte proprietà della luce possono essere descritte per
mezzo del modello classico ondulatorio attraverso i parametri quali la lunghezza d’onda, la frequenza, la velocità e l’ampiezza.
Il modello ondulatorio non è però in grado di spiegare
fenomeni connessi all’assorbimento e all’emissione ed
in questi casi è necessario invocare un modello corpuscolare in cui la luce viene rappresentata come un flusso di particelle discrete detti fotoni, la cui energia risulta proporzionale alla frequenza della radiazione (E= h
INTRODUZIONE
La spettroscopia è un metodo di indagine della materia
basato sulla scomposizione della radiazione elettromagnetica, più nota nella sua parte visibile all’occhio umano come luce. Attraverso la spettroscopia è possibile
indagare la composizione chimica e le condizioni fisiche
di sorgenti poste anche a grandi distanze ed è per que-
ν). Questa visione duale della luce non è mutuamente
Fig. 1.
esclusiva, ma risulta essere piuttosto spesso complementare.
Per capire la struttura degli spettri sono rilevanti sia
l’aspetto corpuscolare (emissione e assorbimento) che
quello ondulatorio (propagazione). Per capire come
funziona la strumentazione e come si origina lo spettro
l’aspetto rilevante è quello ondulatorio (ottica classica).
Senza entrare nei dettagli della fisica è sufficiente sapere che gli atomi di cui si compone la materia sono costituiti da livelli elettronici discreti con energie ben determinate. Quando l’energia della radiazione elettromagnetica è esattamente la stessa che separa due livelli
essa viene assorbita e l’elettrone del livello più basso
viene promosso al livello superiore : l’atomo passa dallo
stato fondamentale a quello eccitato e lo spettro presenta una riga di assorbimento.
Quando l’elettrone decade dallo stato eccitato viene
emessa una radiazione elettromagnetica di energia esattamente identica a quella che era stata necessaria
per la promozione e lo spettro presenta una riga di emissione. Poiché ogni atomo è caratterizzato da un numero di elettroni disposti in livelli dalle energie ben
definite ogni atomo avrà uno spettro di emissione/
assorbimento caratteristico che permette di identificarlo in modo univoco.
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C. RIEDO, Progetto RA
Il tipo di spettro che si può ottenere non dipende solo
dalla natura chimica del corpo, ma anche dallo stato
fisico in cui si trova, come si può osservare nello schema riportato in figura 1.
In campo astronomico è molto frequente imbattersi in
spettri di assorbimento: lo spettro sarà composto da un
continuo di fondo, dovuto all’emissione della parte della fotosfera (comparabile all’emissione del corpo nero
di temperatura prossima a quella della stella), mentre le
righe di assorbimento derivano dai gas rarefatti e relativamente più freddi presenti nella cromosfera. Alcuni
tipi di stelle, particolarmente giovani e massicce, hanno
temperature sufficientemente alte da poter eccitare gli
atomi dei gas rarefatti più esterni e quindi i loro spettri
mostrano delle righe di emissione.
Gli strumenti per la spettroscopia, dai più semplici ai
più sofisticati, hanno il compito di raccogliere e scomporre la luce delle fonti da studiare in uno spettro. Il
più semplice, ma non meno spettacolare esempio di
spettro che la natura ci offre è costituito
dall’arcobaleno, che altro non è che lo spettro del Sole
ottenuto grazie alla diffrazione provocata dalle molecole d’acqua. Un passo avanti verso la scomposizione della luce si ottiene attraverso l’ausilio di un prisma di vetro, come per primo fece Newton. Attualmente la maggior parte degli spettroscopi utilizza come mezzo disperdente un reticolo di diffrazione, che può essere di
tipo a trasmissione o riflessione. Il tipo di reticolo più
utilizzato grazie alle sue maggiori prestazioni è il reticolo in riflessione, fondamentalmente costituito da una
superficie su cui vengono incise a distanza regolare migliaia di righe. L’immagine in figura 2 mostra il funzionamento del reticolo in riflessione, basato
sull’equazione fondamentale
Fig. 3
diffrazione. La figura 3 mostra come da un singolo raggio incidente abbiano origine più spettri di ordine diverso, compreso lo spettro di ordine zero che altro non
è che l’immagine della sorgente di radiazione.
Solitamente un reticolo in riflessione è ottimizzato per
concentrare la maggior parte della luce nello spettro di
ordine 1 ad una determinata lunghezza e questo è un
parametro di cui occorrerà tener conto nella progettazione di uno spettroscopio. Come si vedrà in seguito
occorrerà anche tener conto che ad un maggior numero
di linee/millimetro corrisponde una maggior dispersione e una distanza maggiore tra i vari ordini spettrali.Gli
strumenti realizzati in questo lavoro sono di due tipi e
utilizzano rispettivamente un reticolo in trasmissione e
un reticolo in riflessione.
A prescindere dal tipo di reticolo e dalla focale delle
ottiche le parti fondamentali dei due strumenti sono
analoghe, mentre è differente la geometria ottica, come
si può vedere in figura 4 e figura 5.
nl = d (sen i + sen i’)
dove n è l’ordine dello spettro, d la distanza tra i singoli
gradini (o linee), i l’angolo di incidenza e i’ l’angolo di
Fig. 2
Fig. 4. schema di spettrografo con reticolo in riflessione
C. RIEDO, Progetto RA
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Fig. 6. Mosaico di 9 immagini dello spettro solare ottenuto il
10 aprile 2005.
Fig. 5. Schema di spettrografo con reticolo in trasmissione.
1° fase : spettrografo con reticolo in trasmissione
Il primo strumento realizzato è uno spettroscopio in
trasmissione, dalle prestazioni modeste, ma molto valido specialmente dal punto di vista didattico. Lo strumento è stato costruito utilizzando materiale esclusivamente di recupero a parte i reticoli. I reticoli in trasmissione sono del tipo a film olografico e sono stati acquistati presso Edmund Optics scegliendo due differenti
rapporti linee/millimetro (500 e 1000 l/mm). I reticoli
non sono ottimizzati per una particolare lunghezza.
Le ottiche sono costituite da una lente recuperata da un
proiettore per diapositive, la cui focale si aggira intorno
ai 100 mm e da un vecchio obiettivo fotografico da 45
mm. L’obiettivo fotografico funge da collimatore, mentre la lente del proiettore è stata utilizzata come ottica
dell’obiettivo. Il collimatore è montato su un supporto
unito al corpo dello spettroscopio con una vite che ne
permette la messa a fuoco tramite scorrimento.
La fenditura non è regolabile ed è stata realizzata accostando due lame smontate da una lametta da barba usa
e getta. Il barilotto di un oculare montato a valle della
fenditura serve per l’accoppiamento al telescopio, mentre davanti all’obiettivo è stato montato un porta oculari che può ospitare un oculare per l’osservazione diretta
dello spettro o una webcam per la ripresa e può essere
messo a fuoco grazie al semplice scorrimento e bloccato
con una vite.
I reticoli olografici vengono venduti già montati in un
telaietto tipo diapositiva, pertanto il fissaggio di fronte
al collimatore è ottenuto tramite semplice fissaggio con
un paio di mollette da ufficio.
Poiché l’accoppiamento delle ottiche con i due tipi di
reticolo utilizzati da origine ad uno spettro abbastanza
disperso e quindi non osservabile interamente nel campo dell’oculare è stato necessario realizzare uno snodo
che consenta di far ruotare l’obiettivo rispetto al reticolo.
La realizzazione di questo strumento non è stata preceduta da un vero e proprio progetto ed è basata piuttosto
su prove empiriche in fase di costruzione. Le varie parti
sono state dimensionate e posizionate in modo da avere
il minimo ingombro possibile. Con il reticolo da 500 l/
mm si ottiene uno spettro nell’ordine 1 disperso su un
angolo di circa 10°, mentre con il reticolo da 1000 l/
mm lo spettro risulta di circa 24°, considerando un intervallo di lunghezze d’onda compreso tra 3800 e 7300
Å.
Applicazione: valutazione della temperatura
della fotosfera
Lo spettro presentato in queste pagine è stato ottenuto
con lo spettrografo auto costruito dotato di un reticolo a
trasmissione a 500 l/mm. Precedenti prove con un reticolo a 1000 l/mm non sono andate a buon fine in
quanto con una maggiore dispersione la quantità di
luce che giunge al sensore è inferiore ed è praticamente
impossibile la messa a fuoco delle righe di assorbimento.
Per uno strumento a maggior dispersione occorre una
costruzione meccanica più accurata e delle ottiche di
qualità maggiore di quelle utilizzate, in modo da ridurre
il più possibile le perdite di luce lungo il percorso ottico.
Lo spettrografo con il reticolo da 500 l/mm è stato
montato al fuoco diretto del rifrattore acromatico Konus Vista 80/400, puntato in direzione di una zona di
cielo a pochi gradi dal Sole.
Le immagini sono state acquisite con una webcam Toucam Pro. Ogni ripresa consente di inquadrare una zona
dello spettro solare ampia circa 750 angstrom. Per coprire tutto lo spettro nel visibile ( più piccole porzioni di
UV e IR ) occorrono circa 5 immagini da 640 x 480
pixel, qualcuna di più se si tiene conto che occorrono
riprese con delle linee in comune per la sovrapposizione. Ogni immagine è stata ottenuta dalla media di 100
frames effettuata con Iris ed è stata elaborata per rendere più nitide le righe di assorbimento. La fig. 6 rappresenta un mosaico ottenuto da 9 immagini riprese il
10 aprile 2005, che copre lo spettro da 3800 a 7300
angstrom circa.
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C. RIEDO, Progetto RA
Spettro del Sole
1,25
1,15
1,05
0,95
Fig. 7. Calibrazione dello spettro solare.
U.A.
0,85
0,75
0,65
0,55
0,45
0,35
3800
4300
4800
5300
5800
6300
6800
7300
angstrom
Per effettuare il riconoscimento delle righe di assorbimento e uno studio sulla temperatura della fotosfera è
necessario calibrare lo spettro in lunghezza d'onda e
sulla risposta spettrale del sensore utilizzato. A questo
scopo è stato utilizzato il programma Visual Spec,
http://astrosurf.com/vdesnoux/ .
Poiché nella sovrapposizione delle immagini per realizzare il mosaico è possibile che vi siano dei piccoli errori
di allineamento che potrebbero falsare la calibrazione,
si è scelto di lavorare sulle singole immagini. I dati sono
stati quindi estratti da 6 immagini scelte tra le 9 acquisite. La calibrazione in lunghezza d'onda è stata effettuata identificando in ogni immagine due linee note.
Per calibrare il profilo sulla risposta del sensore si è
operato con i seguenti passaggi, che si descrivono in
sintesi:
• ricerca nel database dello spettro tipo del Sole (G2V)
• rapporto tra lo spettro grezzo e lo spettro tipo
• estrazione del continuo dal rapporto : il risultato è la
curva di risposta del sensore.
• rapporto tra lo spettro grezzo e la curva di risposta
Dopo quest'ultimo passaggio il profilo che si ottiene è lo
spettro calibrato sulla risposta del sensore. Su questo
spettro si può effettuare il riconoscimento delle righe di
assorbimento e tramite l'utilizzo della distribuzione di
Plank e della legge dello spostamento di Wien si può
valutare la temperatura della fotosfera.
Il grafico di fig. 7 rappresenta il profilo dello spettro del
Sole calibrato, ottenuto con lo spettrografo auto costruito, messo in confronto con il profilo teorico della
classe spettrale G2V.
I dati sono stati ottenuti estraendoli da ciascuna delle
sei immagini, quindi unendole in un unico grafico con
l'ausilio di Excel. La corrispondenza dei dati sperimentali con quelli teorici è notevole, considerando che lo
strumento utilizzato è stato costruito praticamente a
costo zero. Dallo spettro sperimentale è stata infine
possibile una valutazione della temperatura della fotosfera. Con l'opportuno comando in Visual Spec è stato
estratto il profilo del continuo dai dati sperimentali e da
questa è stata ricavata la lunghezza d'onda a cui corrisponde il massimo di emissione .
λ max = 5011 Å
E' quindi stata applicata la formula inversa della legge
dello spostamento di Wien:
T = 2.90 x 10-3 /λmax K
Inserendo la lunghezza d’onda al massimo di emissione
nella formula si è ottenuto un valore di temperatura :
T=
2.90x10 −3
= 5787
5011x10 −10
La temperatura ricavata, di 5787 °K, è perfettamente
compatibile con il dato in letteratura sulla temperatura
della fotosfera, calcolata essere prossima ai 5800 °K.
Ad ulteriore conferma si può confrontare il profilo dello
spettro continuo estratto dai dati sperimentali con il
profilo di Plank per un corpo nero che emette alla temperatura di 5800 °K. Il grafico di fig. 8 seguente mostra
che la corrispondenza è molto buona. Inoltre la lun-
C. RIEDO, Progetto RA
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1,2
Spettro del Sole
1,1
Continuo
Profilo di Plank a 5800 K
1
U.A.
0,9
Fig. 8. Confronto tra lo spettro continuo
ottenuto dai dati sperimentali e il profilo di
Plank a 5800 Å.
0,8
0,7
0,6
0,5
3600
4100
4600
5100
5600
6100
6600
7100
angstrom
ghezza d'onda per il massimo di emissione del corpo
nero a 5800 K risulta essere di 4996 Å, dato confrontabile con il valore di 5011 Å ottenuto dai dati sperimentali.
2° fase : spettrografo con reticolo in riflessione
In seguito ai risultati incoraggianti ottenuti per mezzo
dello strumento con reticolo in trasmissione è stato
progettato e realizzato uno spettroscopio basato su reticolo a riflessione. I calcoli e la teoria necessari alla progettazione sono stati acquisiti dal web, in particolare
sono stati di particolare aiuto i fogli di calcolo Excel
realizzati da Christian Buil (www.astrosurf.com/buil).
Il foglio di calcolo è stato modificato e semplificato ed
ha permesso di verificare se le ottiche di recupero reperite fossero adatte alla realizzazione e compatibili con il
tipo di telescopio da utilizzare in accoppiamento allo
spettroscopio.
La tabella 1 mostra i risultati dei calcoli comparati con
le caratteristiche delle ottiche a disposizione e riguardano le dimensioni dei fasci in entrata ed in uscita dalle
varie parti dello strumento. La non concordanza dei
valori calcolati con quelli effettivi può provocare vignettatura e relativa perdita di luce.
Il reticolo preso in considerazione è un reticolo in riflessione da 1200 l/mm ottimizzato per la lunghezza
d’onda di 500 nm nel 1° ordine. Le caratteristiche costruttive del reticolo lo rendono adatto ad una geometria con un angolo totale di 38°. L’allontanamento da
questo valore può provocare delle distorsioni
nell’immagine dello spettro, ma come si vedrà più avanti è un buon compromesso, accettabile per lavorare anche nel 2° ordine o con reticoli con un differente numero di linee/millimetro.
E’ possibile osservare che prendendo in considerazione
un telescopio con rapporto focale f/8 i parametri calcolati rientrano ampiamente nelle caratteristiche effettive
delle ottiche considerate. Con un telescopio a f/5 il fascio in uscita è di maggiori dimensioni, ma i valori rientrano ancora in quelli effettivi.
Per un telescopio più aperto (f/4) il diametro e la focale
del collimatore coincidono con il minimo necessario,
mentre il reticolo risulta essere troppo piccolo per contenere il fascio in uscita dal collimatore. Un telescopio
f/4 può essere però utile nel caso di riprese di spettri
stellari, in questo caso un reticolo da 1200 l/mm, come
quello considerato, potrebbe essere troppo dispersivo
ed un reticolo di 600 l/mm montato con la medesima
geometria farebbe rientrare tutti i parametri entro quelli effettivi.
In base ai calcoli effettuati è stato preparato un disegno
in scala 1:1 dello schema ottico dello spettroscopio sulla
quale ci si è basati per realizzare le varie parti.
Il collimatore è stato ricavato dall’ottica di un piccolo
binocolo, già intubata e munita del proprio dispositivo
di messa a fuoco. L’obiettivo è un doppietto acromatico
proveniente da un cercatore. A differenza del precedente modello con reticolo in trasmissione la fenditura è
stata acquistata a meno di 15 euro su Internet ed anche
se la sua lavorazione non è di precisione consente comunque di regolarne l’apertura. Tutte le parti di supporto delle ottiche e la scatola esterna dello spettroscopio sono realizzate con fibra MD a 4 mm di spessore.
La lente dell’obiettivo, non essendo intubata è tenuta in
posizione da 3 barre filettate fissate anch’esse su supporti in MD. Il sistema di messa a fuoco dell’obiettivo è
costituito da due tubi di teflon scorrevoli in cui può essere alloggiato un oculare o una webcam.
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C. RIEDO, Progetto RA
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Tabella 1
Fc
Dc
fc
Fo
Do
Fo
Lato reticolo
Effettivo
100 mm
25 mm
4
180 mm
50 mm
3,6
30 mm
Valore minimo calcolato per telescopio f/8
Valore minimo calcolato per telescopio f/5
-
12,5 mm
8
-
15,7
-
15,7
-
20 mm
5
-
25,2 mm
-
25,2 mm
Valore minimo calcolato per telescopio f/4
-
25 mm
4
-
31,5 mm
-
31,5 mm
A monte della fenditura regolabile è stato montato un
anello T2 di recupero in modo da poter accoppiare lo
spettroscopio con qualsiasi tipo di telescopio.
Una parte particolarmente importante e delicata è risultato essere il supporto del reticolo, che deve consentire di ruotare il medesimo con sufficiente precisione e
in modo che non si muova dalla posizione selezionata.
La soluzione è stata trovata in un cuscinetto a sfere
(anch’esso di recupero e di ignota provenienza!). Due
barrette filettate chiuse da un tassello orizzontale tengono in posizione il reticolo mentre il perno che va ad
inserirsi nel cuscinetto è molto banalmente il tappo di
un pennarello, risultato essere di diametro idoneo.
Tutta la struttura è stata montata su una base in fibra
MD, quindi dopo i primi test positivi si è proceduto a
chiudere lo strumento con pareti e coperchio. Ulteriori
dettagli sono stati aggiunti in seguito, quali due fori per
l’accesso alla messa a fuoco del collimatore e la regolazione della fenditura e una vite che permetta di montare lo strumento su un cavalletto fotografico. Un particolare importante è la presenza di una finestra posta dietro il reticolo, dalla quale, ruotando il medesimo, è possibile osservare l’immagine della fenditura attraverso il
collimatore. Servendosi di un cannocchiale messo a
fuoco sull’infinito l’immagine della fenditura aatrverso
il collimatore deve risultare a fuoco, in caso contrario
occorre agire sulla regolazione di messa a fuoco del collimatore. Questa è l’unica regolazione preliminare che
occorre operare sullo spettroscopio prima dell’utilizzo.
Lo strumento una volta completato risulta essere molto
compatto e di peso contenuto entro il chilogrammo,
adatto quindi ad essere montato al fuoco di qualsiasi
telescopio (fig. 9, le diverse parti dello spettroscopio
durante le fasi di assemblaggio).
Le prime prove, effettuate su una lampada al neon,
hanno dimostrato che le prestazioni in termini di risoluzione e nitidezza delle righe sono nettamente superiori a quelle dello strumento con reticolo a trasmissione.
Fig. 9
Allo stato dell’arte lo spettroscopio è stato utilizzato
solo sul Sole e senza l’accoppiamento di un telescopio,
ma puntando direttamente la fenditura verso l’astro. La
molteplicità e la finezza di righe che è possibile osservare negli spettri del 1° ordine, all’oculare e ancora di più
sulle immagini ottenute con la webcam è notevole.
Si riportano di seguito alcune immagini ottenute dalla
media di più frames (fig 10: doppietto del sodio; fig. 11:
ossigeno atmosferico; fig. 12: zona del tripletto del magnesio). Dall’immagine originale è stata selezionata una
sola riga di pixel, quindi “stirata” per ottenere
un’immagine leggibile. Ciascuna immagine, in scala 1:1,
copre un range di poco più di 100 Å.
Per coprire tutto lo spettro visibile occorrerebbero circa
35 immagini, contro le 6 necessarie per lo spettroscopio
con reticolo in trasmissione.
C. RIEDO, Progetto RA
ASTRONOMIA NOVA
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Fig. 10. Doppietto del
sodio.
Fig. 11. Ossigeno atmosferico
Fig. 12. Zona del tripletto del magnesio
La finezza spettrale in queste immagini è di circa 1 Å e il
potere risolutivo spettrale dato dalla formula R=λ/∆λ è
di circa 5000. Il valore è stato calcolato valutando la
finezza spettrale sulle immagini. Per confronto lo spettroscopio con reticolo in trasmissione mostrava una
finestra spettrale di circa 40 Å e il valore di R era stimato di 125. Nonostante il reticolo sia ottimizzato per lavorare nel 1° ordine, e anche la geometria dello strumento sia ottimizzata per questo ordine, è possibile
ruotare il reticolo a sufficienza per intercettare il 2° ordine spettrale, che con il Sole è ancora molto luminoso.
Il 2° ordine permette di andare molto in profondità nella struttura spettrale, raggiungendo una finezza spettrale stimata inferiore a 0,5 A.
L’immagine a colori qui sopra e la fig. 13, più in dettaglio, rappresentano la zona centrata sul tripletto del
magnesio.
Fig. 13
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ASTRONOMIA NOVA
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C. RIEDO, Progetto RA
Conclusioni
Le prove con lo spettroscopio con reticolo in riflessione
sono naturalmente solo preliminari. L’utilizzo del reticolo a 1200 l/mm nel 2° ordine apre le porte a studi
come la valutazione dell’effetto Zeeman o l’effetto Doppler, per cui è necessaria un’alta risoluzione. A risoluzioni più basse, ottenibili montando reticolo con un
minor numero di linee/millimetro, è possibile ottenere
spettri di stelle e altri oggetti poco luminosi. Interessante è lo studio degli spettri cometari e di supernove.
Lo spettroscopio con reticolo in trasmissione, dato il
suo costo praticamente nullo risulta essere un valido
approccio alla spettroscopia ed è certamente un valido
strumento dal punto di vista didattico.
Lo spettroscopio con reticolo in riflessione è certamente
di più complessa realizzazione, ma anche in questo caso
le spese estremamente contenute, che di fatto si riducono al costo del reticolo, lo rendono estremamente interessante per qualsiasi astrofilo dotato di un minimo di
manualità che voglia cimentarsi con la spettroscopia
anche a livello scientifico, pur restando in campo amatoriale.
Le prestazioni di questo strumento possono essere implementate utilizzando ottiche di qualità migliore e una
realizzazione meccanica più precisa, nonché un ulteriore approfondimento della progettazione teorica, con il
fine di ottenere una geometria del sistema compatibile
con la maggior parte di telescopi e di reticoli, ottenendo
così uno strumento estremamente versatile pur restando in costi alla portata di tutti.
Chiara Riedo è dottore di ricerca in Chimica e si occupa di Chimica per i Beni Culturali. Ha conseguito al
Conservatorio la licenza di compimento inferiore in
Clarinetto. Appassionata di argomenti scientifici fin da
bambina e astrofila da sempre, condivide i suoi interessi con il marito Simone, con cui vive a Santhià (VC).
Appena possibile fugge dalla pianura nebbiosa alla ricerca di un cielo limpido.
ASTRONOMIA NOVA
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Ecco i Video dell’installazione del telescopio REGINATO di 60 cm all’Osservatorio di Cervarezza (RE):
http://www.youtube.com/watch?v=n-o6CF6RBqA
http://www.youtube.com/watch?v=5HJd2VJdja0
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ASTRONOMIA NOVA
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IL CENSIMENTO EAN DELLE ASSOCIAZIONI, OSSERVATORI
ASTRONOMICI E PLANETARI, PUBBLICI/PRIVATI, IN ITALIA
Compilate il questionario alla pagina:
http://www.eanweb.com/2011/censimento-sugli-osservatori-pubblici-e-privati-in-italia/
Mirco Villi e Nicolò Conte
ANNUNCIO IMPORTANTE
Mirco Villi e Nicolò Conte promuovono,
per conto di EAN, un censimento nazionale
delle strutture astronomiche pubbliche e
private che svolgono attività divulgativa e
di ricerca. Il questionario pone poche e
semplici domande: compilatelo in meno di
cinque minuti!
Raccogliere informazioni sulle realtà astronomiche attive sul territorio nazionale consente di avere un quadro d'insieme dello
stato di salute dell'astrofilia nazionale.
I dati che saranno raccolti saranno disponibili sul sito EAN e verranno ampiamente
pubblicizzati su ASTRONOMIA NOVA.
PERCHE’ UN CENSIMENTO?
Alcuni anni fa, il presidente della Conferenza nazionale permanente dei Presidi delle Facoltà di
Scienze e Tecnologie delle Università italiane Enrico Predazzi, ha lanciato un forte segnale di allarme: “la Conferenza è preoccupata per il sottosviluppo culturale, sociale ed economico
che attende un Paese nel quale la percezione della scienza sta diventando sempre più
negativa e la ricerca fondamentale si sta
contraendo in maniera pericolosa”.
A rendere ancor più difficile una situazione già
critica, come quella descritta da Predazzi, intervengono i risultati di indagini internazionali che
denunciano, con rare eccezioni, la carenza di cultura scientifica dei cittadini anche nei paesi più
avanzati. Allora, come uscire da una sempre più
allarmante e pressante crisi d’immagine della
scienza in generale?
L’astronomia come si colloca in questo ormai critico scenario?
Nonostante le accorate sollecitazioni della Conferenza nazionale dei Presidi, gli ambienti accademici nazionali non hanno perduto del tutto quella
polverosa patina provinciale che li ha quasi sempre caratterizzati e che rende faticosi i loro rapporti con il grande pubblico. In effetti la divulgazione scientifica, almeno in Italia, non gode di
buona salute. All’estero è diverso: specialmente
nei Paesi di lingua inglese ci sono tuttora grandi
scienziati che svolgono attività divulgativa, in diversi ambiti scientifici, con ottimi risultati. Qualcuno però potrebbe osservare, e forse con qualche buona ragione, che l’astronomia non è da annoverare tra le scienze che hanno perso credibilità o che vengono viste con sospetto, in quanto,
per le sue specifiche e tradizionali connotazioni
ontologiche, filosofiche, speculative e, non ultime, psicologiche, è vista, nell’immaginario collettivo, sotto una luce molto favorevole.
ASTRONOMIA NOVA
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In altre parole, è ancor oggi una scienza
‘spendibile’, e lo è fin dagli anni Settanta, quando
la domanda di quel prodotto culturale etichettato
con il termine generico di “astronomia” ha conosciuto una forte e costante crescita che si è prolungata per un intero trentennio.
A nostro parere, ciò è avvenuto (più che per
l’abilità degli operatori del settore nell’attirare
nuovi proseliti) per il verificarsi di fortunati fatti
contingenti, quali l’apparizione di comete luminose e il susseguirsi di straordinarie imprese spaziali
che hanno aperto impensabili e affascinanti scenari di conoscenza.
Agli inizi del nuovo millennio abbiamo però la
sensazione che sia stato superato il culmine
dell’interesse per la scienza del cielo e che sia iniziato un costante declino che potrebbe assumere,
in un futuro non molto lontano, dimensioni assai
vistose.
I segnali, infatti, sono veramente preoccupanti. Il
primo di questi è la quasi totale scomparsa
dell’insegnamento dell’astronomia dalla scuola
dell’obbligo e superiore. Gli effetti semplicemente
disastrosi di queste assurde scelte didattiche saranno percepibili in tutta la loro assoluta gravità
solo negli anni a venire.
Inoltre, si può dire senza timore di essere smentiti,
che gli aspiranti divulgatori del nuovo millennio
sono pochi, con scarsi supporti ufficiali e sostanzialmente demotivati.
Ci si chiederà quindi se è rimasto un qualche
‘soggetto’ a fare divulgazione astronomica in Italia
in modo intensivo e continuo. Una parte consistente del peso della divulgazione “spicciola” è sulle spalle, purtroppo non sempre robustissime, degli amatori: non è certamente una notizia inattesa,
ma farà comunque storcere il naso a molti benpensanti. Questa però è la nuda realtà, signori…
L’UAI, l’organizzazione che raggruppa un numero
consistente di astrofili (anche se in forte calo di
adesioni), nel nostro Paese, perde colpi e si arrabatta alla meno peggio, senza trovare il bandolo
della matassa, stretta com’è tra un modello di
Pagina 39
struttura associativa ormai datato, in stile precaduta del Muro di Berlino e le novità tecnologiche
(web, internet, ecc.) che richiederebbero un ripensamento sostanziale dell’approccio alla comunicazione ed alla divulgazione delle scienze.
I punti di forza della divulgazione astronomica nazionale sono concentrati, a nostro parere, nella
capillare rete di osservatori astronomici pubblici
che copre buona parte del Paese e in una decina di
planetari. Queste strutture hanno cominciato a
sorgere negli anni Settanta, e la loro realizzazione
è quasi sempre stata promossa da associazioni di
non professionisti che si appoggiavano, per il reperimento delle risorse necessarie, sugli Enti pubblici locali.
Oggi il numero di osservatori pubblici supera presumibilmente il centinaio di unità e i loro utenti
privilegiati sono le scuole di ogni ordine e grado,
ma sono spesso molto intense anche le attività rivolte ad un pubblico generico.
E’ verosimile ipotizzare che, mediamente, in queste strutture l’attività divulgativa sia svolta da una
decina di operatori e ciò significa che questo
“zoccolo duro” è costituito da 500 o 600 persone.
Si può inoltre presumere che il numero medio annuo di utenti (scuole e pubblico) per ogni osservatorio o planetario, sia compreso tra le 1000 e le
10000 unità. Pertanto, è ragionevole supporre che
il numero dei loro utenti, sull’intero territorio nazionale, sia superiore ai 100 000 e, molto più probabilmente, prossimo al mezzo milione. Indubbiamente si tratta di cifre importanti e che fanno sorgere spontanea una domanda: la qualità del servizio offerto è sufficiente?
In altre parole, gli operatori degli Osservatori non
professionali sono preparati per tenere, ad esempio, un’avvincente conferenza divulgativa di astronomia o spiegare in modo chiaro ed esauriente a
cosa serve un osservatorio?
Ben lungi dal voler disprezzare le attività altrui,
frutto dell’impegno e dell’abnegazione, non possiamo però far a meno di notare che troppo spesso
ciò che li sorregge è l’entusiasmo e non,
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ASTRONOMIA NOVA
n. 9, gennaio 2012
purtroppo, la preparazione al compito al quale si
dedicano quasi sempre in modo totalmente volontaristico. E’ qui che potrebbero entrare in ballo
INAF e mondo accademico, attraverso l’istituzione
di corsi di specializzazione per operatori di osservatori e planetari, magari sostenuti da consistenti
borse di studio. Ne gioverebbe immensamente il
servizio divulgativo dei non professionisti (alcuni
di loro potrebbero diventare professionisti della
divulgazione astronomica) e ne guadagnerebbe
non poco l’immagine dell’astronomia professionale.
Il censimento delle strutture astronomiche non
professionali, un’iniziativa che viene riproposta
dopo oltre un decennio - l’ultima volta risale infatti al 1997-1998 per iniziativa della rivista Nuovo
Orione - dovrebbe quindi rispondere ad alcune
domande fondamentali:
•
•
•
•
Quante sono, nella realtà, le strutture astronomiche non professionali che si occupano di
divulgazione e di ricerca?
Come sono attrezzate? Possono svolgere efficacemente le loro attività?
E’ in atto un ricambio generazionale, oppure
ci si deve rassegnare al tragico invecchiamento dell’astrofilia nazionale?
Quali sono le prospettive future dell’intero
movimento astronomico nazionale?
Nel momento in cui esce questo numero della
rivista (inizi gennaio 2012), hanno risposto al
questionario EAN una settantina di associazioni e
di singoli. Ci auguriamo che questo numero cresca almeno fino a raggiungere le 100-120 strutture censite, così da consentirci di eseguire
un’analisi efficace dei dati raccolti.
ASTRONOMIA NOVA
n. 9, gennaio 2012
Pagina 41
Recensione
Giovanni F. Bignami
Cosa resta da scoprire
Recensione di Rodolfo Calanca
Il professor Giovanni F. Bignami, recentemente nominato presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, è
indubbiamente uno dei migliori divulgatori sulla piazza, non solo italiana.
Con uno stile limpido e brillante, di rara capacità comunicativa (è un ammiratore incondizionato di Italo Calvino e del palindromico signor Qfwfq), i suoi libri raccontano la scienza e l’astronomia in modo davvero piacevole ed efficace.
Non fa eccezione questa sua ultima fatica, con la quale
l’Autore cerca di prevedere come sarà il mondo, la tecnologia e la scienza, al tempo del prossimo ritorno della
cometa di Halley, cioè intorno alla metà di questo secolo. Bignami è ben cosciente dei rischi che si corrono
nello scrivere un libro come questo (p. 7): “Adesso sappiamo che se qualcuno avesse scritto un libro come
questo un secolo fa… le avrebbe probabilmente sbagliate proprio tutte”. Infatti nessuno avrebbe potuto prevedere le grandi scoperte del XX secolo, dalla bomba atomica alla genetica, alla nucleo sintesi stellare, ai computer…
Comunque sia, il cimentarsi in una previsione sul futuro, specialmente se si è sostenuti da una solidissima
preparazione scientifica, com’è ovviamente il caso
dell’Autore, può diventare uno straordinario esercizio
Ed è anche per questo motivo che
l’Autore, nell’intento di stimolare una sorta di
brain storming nel lettore (il quale seguendolo
avidamente su queste pagine così affascinanti
pende, ormai docile, dalle sue labbra), suggerisce
di comunicare i frutti di tali pensieri al sito
www.giovannibignami.it .
intellettuale.
Cosa resta da scoprire
Di Giovanni F. Bignami
Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011
www.librimondadori.it
Prezzo: 17,50 €
Ovviamente l’Autore formula le “sue” dieci scoperte che
potrebbero cambiare tutto. Accenniamo ad alcune di
queste, in particolare quelle che hanno maggiormente
impressionato chi scrive questa recensione.
Innanzitutto, egli ritiene che sia possibile raggiungere
l’immortalità grazie al silicio. Con una sorta di brain
scan si potrebbero trasferire in un pc tutto il contenuto
del nostro cervello, “i nostri ricordi e i nostri dolori…”;
il bello però verrebbe poi, “quando proveremo a far funzionare da sola la copia del nostro cervello su silicio:
questo si che cambierebbe tutto”.
Un’altra invenzione straordinaria sarà il laptop quantistico, che si baserebbe su due risorse di calcolo che sono proprie della meccanica quantistica: la sovrapposizione e l’ingarbugliamento (si veda la voce: http://
it.wikipedia.org/wiki/Principio_di_sovrapposizione ) .
Questo computer rivoluzionario cambierà la nostra nozione di intelligenza e pure la nostra percezione sensoriale. Un ultimissimo esempio è la dimostrazione di
Riemann (si veda: http://it.wikipedia.org/wiki/
Ipotesi_di_Riemann ). L’ipotesi di Riemann è probabilmente il problema aperto più importante della matematica: “una volta svelato il mistero, salteranno fuori un
sacco di cose importanti, in matematica, fisica…”.
Questo libro ha tutte le caratteristiche per essere utilizzato proficuamente come impareggiabile strumento
didattico (fare brain storming collettivo, alla Bignami,
durante un’ora di fisica al liceo dovrebbe essere
un’esperienza unica!). Gli studenti potranno prendere lì
gli spunti per discussioni da approfondire, mentre gli
insegnanti avranno l’opportunità di trarre stimolanti
indicazioni metodologiche per l’insegnamento delle
loro materie. Ovviamente il libro è fortemente consigliato anche a tutti coloro (e sono tanti!) che “sognano il
futuro”.
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ASTRONOMIA NOVA
n. 9, gennaio 2012
Recensione
A cura di Luigileone Avallone
e Antonio Vincensi
Moonbook69
Dall’Apollo 11 al Lunar Reconnaissance
Orbiter
Recensione di Rodolfo Calanca
Questo bel libretto, molto accattivante anche perché
riccamente corredato da bellissime immagini in bianco
e nero dei primi decenni dell’avventura spaziale, proveniente dagli archivi della NASA, ha lo scopo principale
di raccontare l’avvincente storia della conquista umana
del nostro satellite.
Preceduto da una suggestiva prefazione di Margherita
Hack, il volumetto raccogli i contributi di numerosi studiosi. Qui ne ricordiamo brevemente alcuni.
Aurelio Magistà analizza con maestria gli articoli apparsi sui quotidiani e sui periodici del luglio 1969 che riportano a grandi lettere la cronaca del grande sbarco.
Gustoso, tra l’altro, il neologismo che fu coniato dal
quotidiano Il Tempo: lunauti.
Anche l’Italia, indirettamente, ha dato il suo contributo
al progetto Apollo. Armando Voza, infatti, descrive la
figura di Rocco Anthony Petrone, direttore delle operazioni di lancio a Cape Kennedy, figlio di emigranti lucani giunti negli Stati Uniti nel 1921. Qui nacque Rocco
Anthony nel 1926 che, dopo il servizio militare e la laurea in ingegneria meccanica al MIT, entrò a far parte
della squadra di Wernher von Braun, con il quale però
non ebbe rapporti facili. Nel 1972 fu nominato condirettore NASA del programma Apollo/Soyuz. E’ venuto a
mancare il 24 agosto del 2006. Oggi è ricordato come
“il tigre” di Cape Canaveral per il suo carattere duro ed
inflessibile.
Di notevole interesse l’articolo di Giorgio Bianciardi
sull’astrobiologia lunare. Bianciardi, a pag. 83, ci ricorda che: “all’inizio del nuovo millennio…
l’astrobiologia è stata riconosciuta come scienza multidisciplinare”. A pag. 84 l’Autore ci dice che le prime
forme di vita aliene furono raccolte dal Surveyor III, la
sonda lunare che giunse sulla Luna il 20 aprile 1967.
Si trattava di batteri che furono recuperati insieme ad
alcune parti della sonda e riportati a terra
dall’equipaggio dell’Apollo 12. In laboratorio, fu tentata una coltura dai campioni prelevati. Ne risultò che
una di queste conteneva esemplari di Streptococcus
mitis: la Luna ospita forme di vita? No: semplicemente il Surveyor III non era stato sterilizzato prima del
lancio e, probabilmente, lo Streptococcus è il dono alla
Luna di un tecnico della NASA!
Infine, ricordiamo il bell’articolo di chiusura del noto
matematico Piergiorgio Odifreddi, intitolato Galileo,
poeta della Luna. Il matematico impertinente ribadisce quanto sosteneva Italo Calvino: “Galileo è il più
grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo” e, a sostegno di questa affermazione, cita brani
sulla Luna tratti dal Dialogo sopra i due Massimi Sistemi del mondo. Odifreddi conclude l’articolo con
l’invito ad aggiungere ai programmi scolastici gli
scritti di Galileo e Newton, “per far gioire la mente con
quella che Pitagora chiamava la Poesia dell’Universo”.
Moonbook69 non può mancare nella biblioteca di ogni
appassionato di astronomia ed astronautica e, in genere, di tutti coloro che amano la storia della scienza e
della tecnologia.
Moonbook69, dall’Apollo 11 al Lunar Reconnaisance Orbiter
A cura di Luigileone Avallone con Antonio Vincensi
Oèdipus Edizioni, Salerno/Milano 2011
www.oedipus.it
Prezzo: 14,00 €
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