PLUTONE di Federico Tosi Associazione Reggiana di Astronomia (A.R.A.) Sommario §I) STORIA .........................................................................................................................................3 §II) LA RICERCA DEL DECIMO PIANETA ..................................................................................6 §III) CARATTERISTICHE ORBITALI E DINAMICHE ...............................................................8 §IV) IL DIAMETRO.........................................................................................................................10 §V) CARONTE..................................................................................................................................11 §VI) CARATTERISTICHE FISICHE.............................................................................................12 §VII) LO SPETTRO .........................................................................................................................13 §VIII) LE ECLISSI DI PLUTONE E CARONTE ..........................................................................15 §IX) LE OSSERVAZIONI DEL TELESCOPIO SPAZIALE.........................................................17 §X) L’ATMOSFERA ........................................................................................................................18 §XI) PLUTONE E TRITONE ..........................................................................................................22 §XII) ESPLORAZIONE SPAZIALE ...............................................................................................23 §XIII) OSSERVAZIONI AMATORIALI.........................................................................................26 PARAMETRI ORBITALI E FISICI DI PLUTONE.......................................................................28 PARAMETRI ORBITALI E FISICI DI CARONTE ......................................................................28 BIBLIOGRAFIA...............................................................................................................................29 2 STORIA Dopo Nettuno, individuato nel 1846 grazie alle ricerche combinate di Le Verrier e Galle, gli astronomi trascorsero più di mezzo secolo tentando di individuare nuovi pianeti del Sistema Solare. Mentre la ricerca di corpi inframercuriali (Vulcano o i Ciclopi) non ebbe mai successo, tali prolungati sforzi portarono invece alla scoperta di un ulteriore pianeta al di là di Nettuno. L’esistenza di un nono pianeta era stata ipotizzata fin dall’inizio del Novecento per giustificare le piccole perturbazioni osservate nell’orbita di Urano (quella di Nettuno non era infatti ancora ben conosciuta). Fra coloro che fecero tale ipotesi vi era anche Percival Lowell: nato a Boston nel 1855 da una delle famiglie più note e benestanti del New England, titolare egli stesso di una notevole ricchezza personale, dopo la laurea a Harvard nel 1876 aveva intrapreso la professione diplomatica operando negli Stati Uniti, in Giappone e in Corea, ma, essendo appassionato studioso dei pianeti e volendo dedicarsi all’astronomia, abbandonò a 37 anni la carriera e decise di costruirsi un osservatorio privato. Per questo scopo eseguì prima di tutto uno studio accurato delle condizioni climatiche di numerosi luoghi in Europa e in America, finché trovò in Arizona un sito particolarmente favorevole per l’osservazione. Presso la città di Flagstaff, su una montagna alta circa 2200 metri, Lowell fondò nel 1894 l’Osservatorio che ancora oggi porta il suo nome, corredandolo di strumenti potentissimi per l’epoca. Il telescopio principale, costruito dal famoso ottico Alvan Clark, era un rifrattore da 24 pollici di diametro (circa 61 cm) col quale Lowell, già sul finire del XIX secolo, aveva osservato su Marte le famose linee scure chiamate “canali”, cui egli aveva attribuito un’origine artificiale. Inutile dire che l’ipotesi si sarebbe rivelata totalmente infondata; nondimeno lo stesso strumento avrebbe poi reso inestimabili servigi all’astronomia in diversissimi campi di ricerca. Divenuto dal 1902 professore di astronomia al Massachusetts Institute of Technology (MIT), Lowell era profondamente convinto che esistesse un pianeta transnettuniano, da lui battezzato Pianeta X. Vi era infatti la possibilità che le discrepanze (i cosiddetti “residui”) tra le posizioni di Urano e Nettuno calcolate dalla teoria e quelle osservate non fossero semplicemente imputabili agli errori di riduzione delle vecchie misurazioni, ma fossero invece dovute all’attrazione gravitazionale di un corpo non ancora noto. Nel 1905 diede quindi inizio alle prime ricerche in proposito, alternando sporadiche campagne di osservazioni fotografiche del cielo lungo l’eclittica a lunghi e tediosi calcoli matematici. Lowell sperava di ricavare l’orbita e la massa del Pianeta X applicando ai residui orbitali di Urano, ritenuti più affidabili di quelli di Nettuno, tecniche matematiche simili a quelle già impiegate con successo da Adams e Le Verrier per lo stesso Nettuno. Nel frattempo un altro astronomo, William H. Pickering (1858-1938), fratello minore del più celebre Edward C. Pickering e già scopritore del satellite di Saturno Febe (1898), nonché autore del primo atlante fotografico lunare (1903), decise di affiancare in modo indipendente Lowell nella sua ricerca del nono pianeta del Sistema Solare. Pickering, che aveva lavorato come assistente nella stessa Università in cui insegnava Lowell, nel 1908, usando un metodo grafico proposto da John Herschel in un libro del 1849, propose il primo di quella che negli anni sarebbe diventata una lunga lista di candidati: il Pianeta O, la cui orbita, molto vicina a quella di Nettuno, differiva sensibilmente da quella proposta da Lowell. Tra il 1906 e il 1916 a Flagstaff furono così esposte ed accuratamente esaminate con una procedura estremamente laboriosa migliaia di lastre. Il 13 gennaio 1915 Lowell, davanti all’Accademia americana, presentò i risultati di quasi dieci anni di studi condensati nella finale Memoir on a Trans-Neptunian Planet, in cui si ricavava la possibile esistenza di un pianeta con massa pari a 6,7 masse terrestri ad una distanza 43 volte quella esistente fra la Terra e il Sole, di magnitudine stimata 13, ubicato nella costellazione dei Gemelli. La memoria non riscosse particolare interesse, ma a Flagstaff i tentativi di individuare il nuovo corpo celeste continuarono fino alla metà del 1916. Lowell morì il 12 novembre di quell’anno, lasciando ai suoi successori un potente osservatorio – poi intitolato al suo nome – e l’intero programma di ricerca, ricerca che peraltro era rimasta orfana 3 del suo protagonista più energico e convinto. Gli anni successivi conobbero nuove ipotesi di Pickering, il quale, dopo avere modificato ripetutamente le sue predizioni per il Pianeta O, arrivò addirittura a proporre l’esistenza di altri pianeti transnettuniani, da lui battezzati P, Q, R, S, T e U. Tutte queste previsioni furono però puntualmente accompagnate da brevi quanto infruttuose ricerche fotografiche, così l’impresa venne temporaneamente accantonata. La svolta arrivò nel 1929, allorché al Lowell Observatory fu acquistato un nuovo strumento più efficace: un astrografo, ossia un telescopio fotografico a grande campo, di 33 cm di diametro e 169 cm di focale, con il quale era possibile impressionare lastre formato 35×43 cm che fornivano immagini di zone molto più ampie del cielo. Nella parte centrale di queste lastre, in un’ora di posa, si riuscivano a registrare stelle di magnitudine 18. Il direttore dell’Osservatorio, Vesto M. Slipher (1875-1969), era astronomo di chiara fama, che si era già messo in luce per aver scoperto gli enormi spostamenti verso il rosso delle galassie esterne con il rifrattore da 61 cm. Egli decise di riprendere la ricerca del Pianeta X assegnando all’uso del nuovo strumento un giovane assistente, Clyde William Tombaugh (1906-1997), un ragazzo dell’Illinois da poco laureato in astronomia, che dimostrava di possedere un grandissimo talento di osservatore subito riconosciuto da Slipher. Anche in questo caso la ricerca fu organizzata in modo sistematico, fotografando tutte le zone della fascia dell’eclittica quando queste si trovavano in opposizione al Sole e quando il moto apparente dell’ipotetico pianeta, riflesso del moto terrestre, era più veloce. La campagna iniziò in settembre, quando in opposizione al Sole si trovava la costellazione dell’Acquario, per poi spostarsi nei mesi successivi verso est attraverso le costellazioni dei Pesci, dell’Ariete e del Toro: una coppia di lastre da 35×43 cm esposte in assenza del disturbo lunare, in queste regioni non attraversate dalla Via Lattea e tuttavia riboccanti di centinaia di galassie, poteva essere controllata in due giorni di duro lavoro, al ritmo di 30.000 stelle al giorno, entro la fine del successivo periodo di Luna piena. Ma nella parte orientale della costellazione del Toro, proprio per la vicinanza della Via Lattea, il numero di immagini stellari in ogni lastra saliva a 300.000, cosa che incrementò il tempo di esame all’incirca di quattro volte. Le prime lastre della regione dei Gemelli poi erano così ostiche, con circa 400.000 stelle per lastra, che furono dapprima lasciate da parte. Le indagini venivano effettuate con il cosiddetto “microscopio comparatore” (blink-comparator), uno strumento che permetteva di confrontare alternativamente, e con lo stesso oculare, due fotografie fatte a distanza di tempo l’una dall’altra, per evidenziare gli eventuali spostamenti degli oggetti celesti ripresi: in questo caso infatti l’occhio non avverte l’alternarsi delle immagini, se non nel caso in cui, fra tutti quei punti che occupano sulle lastre un luogo praticamente identico, ve ne sia qualcuno che abbia mutato, pur di pochissimo, la sua posizione. Il 18 febbraio 1930, poco più di un anno dopo il suo arrivo e a 24 anni appena compiuti, Tombaugh aveva scelto tre lastre da esaminare, centrate attorno alla stella delta Geminorum e impressionate rispettivamente il 21, 23 e 29 gennaio. La prima venne inizialmente scartata perché ritenuta di scarsa qualità; le altre due furono analizzate partendo dalla zona a sud-est. Alle 4 pomeridiane, Tombaugh ebbe un sussulto: un minuscolo puntino di magnitudine 15 appariva essersi spostato rispetto alle stelle di campo. Le due immagini erano separate da circa 3,5 mm e, poiché le lastre erano state riprese strettamente in opposizione, l’entità di questo spostamento indicava senza ombra di dubbio che l’oggetto si trovava oltre l’orbita di Nettuno. Pieno d’eccitazione, riprese la lastra del 21 gennaio cercando di ricavarne qualcosa, e infatti poté individuare la medesima immagine spostata di un millimetro rispetto alla posizione del 23 gennaio. Tombaugh fece controllare le lastre agli altri colleghi e al direttore Slipher. Il cielo limpido del 19 febbraio permise al giovane astronomo di assicurare un’altra ripresa della regione interessata, sulla quale l’immagine del corpo celeste fu rapidamente rintracciata nella posizione prevista. La notte successiva, lo staff dell’Osservatorio esaminò visualmente l’oggetto attraverso il rifrattore da 61 cm per controllare se si presentasse come un piccolo disco. L’aria era molto tranquilla ma non venne distinto alcun disco: una vera delusione, in quanto Lowell aveva previsto che il suo pianeta X dovesse mostrare un diametro angolare apparente di almeno 1 secondo d’arco. Ad ogni modo, dopo approfonditi controlli, si decise di annunciare la scoperta il 13 marzo 4 1930, giorno del settantacinquesimo anniversario della nascita di Lowell (per combinazione, in quella stessa data ricorrevano i 149 anni dalla scoperta di Urano). Da quel momento incominciò il problema di come chiamare il nuovo pianeta. Da tutto il mondo giunsero all’Osservatorio Lowell numerosi messaggi contenenti suggerimenti sul nome da dare. Nonostante le varie proposte, chi doveva decidere era Slipher, il direttore dell’Osservatorio, che con i suoi collaboratori alla fine optò per battezzarlo Plutone. Si dice che tale nome fosse stato avanzato da una ragazzina inglese di Oxford, Venetia Burney, allora appena undicenne, la quale, avuta notizia della scoperta, inviò un telegramma all’Osservatorio con la proposta che poi sarebbe stata effettivamente accettata. Il nome scelto fu comunque ritenuto adatto per un corpo che si muove nelle buie ed estreme regioni del Sistema Solare, poiché Plutone era il dio romano dell’oltretomba; inoltre questo nome contiene le iniziali di Percival Lowell e le prime due lettere del cognome dello scopritore, Tombaugh. La scoperta del nono pianeta destò grandissimo interesse da parte della stampa, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa, e si può dire che per la prima volta i mezzi d’informazione misero l’astronomia in prima pagina. In realtà, molti anni più tardi si scoprì che Plutone era già stato fotografato, senza riconoscerlo, per ben 16 volte in vari Osservatori: 5 volte prima della morte di Lowell, 4 nel 1919, 2 nel 1921, 1925 e 1927, e una nel 1929. In particolare, le osservazioni del 1919 erano state fatte a Monte Wilson su richiesta di Pickering, che per quell’anno aveva di nuovo pronosticato la posizione del pianeta transnettuniano, questa volta in base a studi sulle perturbazioni di Nettuno e non di Urano. Sfortunatamente, due delle fotografie prese nella costellazione dei Gemelli dall’astronomo Milton L. Humason mostravano in effetti l’immagine di Plutone, ma in una il pianeta era nascosto da un difetto della lastra, e nell’altra era oscurato dalla vicinanza di una stella luminosa. Così Pickering perse l’occasione di diventare lo scopritore del nono pianeta. A prescindere da questa curiosità, nell’ambiente scientifico ci si rese presto conto che qualcosa non andava: anche se Plutone era stato scoperto in una posizione distante meno di 6° da quella prevista da Lowell 15 anni prima, e con un’orbita che si accordava abbastanza bene con le previsioni teoriche, il pianeta presentava una luminosità più bassa (di circa 2 magnitudini) rispetto a quella prevedibile sulla base della teoria di Lowell, la quale, dando una valutazione approssimativa della massa del pianeta perturbatore, permetteva di farsi anche un’idea delle sue dimensioni. In un primo tempo, per risolvere la contraddizione, si pensò che Plutone potesse essere molto denso e scuro, così da abbinare a una massa elevata una luminosità molto debole. Ma anche questa giustificazione cadde quando divenne possibile misurare direttamente il diametro del pianeta: nel 1950 venne impiegato a questo scopo quello che era il più grande telescopio riflettore del mondo, il 200 pollici (508 cm) di Monte Palomar in California, con cui Gerard Kuiper e Milton Humason, spingendosi fino a 1100 ingrandimenti, ottennero un primo valore di 5900 km. Adottando questo dato, anche assumendo una massa pari a quella terrestre, ne risultava una densità 10 volte superiore a quella del nostro pianeta, vale a dire 2,86 volte quella dell’oro: non essendo ragionevole accettare una densità così elevata, diversa da quella di tutta la materia in condizioni normali formante la nostra Terra e gli altri pianeti, si concluse che doveva essere errato il valore attribuito alla massa o quello ricavato per il diametro. Quest’ultimo però venne poi indirettamente confermato da un’osservazione inconsueta. Nella notte tra il 28 e il 29 aprile 1965, Plutone avrebbe dovuto occultare una stella della costellazione del Leone. Il fenomeno fu seguito in molti osservatori ma l’occultazione non ebbe luogo. Essendosi trovato che il centro di Plutone era passato a 0,125 secondi d’arco a sud della stella, si dedusse che il diametro del pianeta non poteva essere superiore a 5800 km, in buon accordo con le misure di Kuiper e Humason. A questo punto sembrò inevitabile che, date le ridottissime dimensioni di Plutone, la sua massa dovesse essere assai minore di quella che era stata prevista teoricamente, e quindi divenne chiaro che il pianeta era troppo piccolo per produrre perturbazioni osservabili su Urano o Nettuno. Gli astronomi si chiesero allora a che cosa fossero dovute le perturbazioni, ipotizzando che, a parte Plutone, dovesse realmente esistere un decimo pianeta dalla massa sufficiente a produrle. 5 La spiegazione oggi data alle perturbazioni di Urano e Nettuno è la seguente: le osservazioni di Urano usate da Lowell erano in parte precedenti alla scoperta dello stesso pianeta, e questi dati erano probabilmente affetti da errori non trascurabili, che Lowell non riconobbe come tali ma interpretò come il risultato di una perturbazione causata appunto dalla congiunzione con un pianeta sconosciuto, il Pianeta X, avvenuta nel corso del ’700. Gli errori di osservazione (e la pseudoperturbazione legata ad essi) calavano molto per le osservazioni effettuate dopo la scoperta di Urano, e Lowell ne concluse che l’orbita del pianeta sconosciuto doveva essere tale da tenerlo lontano da Urano per tutto il XIX secolo. Si può dunque affermare che la scoperta di Plutone è stata una coincidenza, avvenuta casualmente grazie ad errori di misura: in pratica era sbagliata l’ipotesi di partenza di Lowell, e da una confusione fra effetti reali ed effetti apparenti dovuti ad errori osservativi risultò per caso la predizione di un’orbita molto simile a quella reale di Plutone. In questo senso si può forse dire che la scoperta di Plutone fu il frutto dell’applicazione in grande stile della tecnica fotografica e non della meccanica celeste, a quei tempi ancora incapace di calcoli tanto precisi e predittivi, benché non si debba dimenticare che se Lowell non fosse stato motivato dalla dottrina meccanica non avrebbe fatto costruire l’Osservatorio, né avrebbe formulato il programma di ricerca. Negli ultimi decenni l’analisi delle orbite di Urano e Nettuno, arricchita da nuovi dati sempre più accurati, è stata ripetuta molte volte, portando a rivedere le conclusioni di Lowell ma riproponendo l’ipotesi dell’esistenza di un decimo pianeta al di là di Plutone. LA RICERCA DEL DECIMO PIANETA Negli anni successivi al 1930, Tombaugh estese deliberatamente la propria esplorazione fotografica a tutto il cielo visibile da Flagstaff, impresa che completò nel luglio 1943. Dopo aver speso 7000 ore esaminando sulle lastre quasi 45 milioni di stelle e aver scoperto, oltre a Plutone, 145 asteroidi, 1807 stelle variabili, 1 cometa, 1 ammasso globulare, 5 ammassi aperti e diversi ammassi di galassie, Tombaugh concluse che non potevano esserci pianeti più luminosi della magnitudine 16,5 nella porzione di cielo da lui esplorata. Solo un corpo con un’orbita molto inclinata rispetto all’eclittica e localizzato nei pressi del polo sud celeste avrebbe potuto sfuggire alla sua indagine. Tuttavia negli anni che seguirono furono in molti a proporre l’esistenza di un decimo pianeta, e diverse linee di ragionamento hanno guidato i ricercatori. Alcuni si sono basati su certe regolarità o anomalie mostrate dalle orbite di diverse comete a lungo periodo; altri hanno continuato ad analizzare gli incerti residui orbitali di Urano e Nettuno per ottenere orbita e massa del corpo perturbatore; altri ancora si sono ispirati alle estinzioni periodiche di specie viventi sulla Terra per sostenere che un pianeta transplutoniano perturbasse a intervalli regolari le orbite di comete presenti in una fascia compresa tra le 50 e le 100 Unità Astronomiche dal Sole, creando le condizioni per catastrofiche collisioni. Robert S. Harrington e Thomas C. Van Flandern, sulla base di esperimenti numerici, proposero nel 1979 un decimo pianeta di massa superiore a quella terrestre per spiegare le orbite anomale di Tritone e Nereide (satelliti di Nettuno) oltre che dello stesso Plutone, ma questa ipotesi non fu suffragata da alcun riscontro osservativo. Nel 1977 l’astronomo americano Charles T. Kowal intraprese una ricerca sistematica usando il telescopio Schmidt da 122 cm dell’Osservatorio di Monte Palomar: nel corso di sette anni, coprendo una fascia di 30° centrata sull’eclittica, scoprì 5 comete e 14 pianetini, oltre all’enigmatico Chirone, il grosso asteroide capostipite della famiglia dei Centauri. Ma non trovò traccia di pianeti. Ulteriori risultati negativi provengono da una serie di osservazioni effettuate nell’infrarosso lontano, un dominio di lunghezze d’onda appropriato alle temperature estremamente basse in cui dovrebbe trovarsi l’ipotetico pianeta. A questo scopo un’équipe di astronomi inglesi ricercò la presenza di oggetti mobili in una lunga serie di immagini ottenute dal satellite astronomico infrarosso IRAS, che operò nel 1983 effettuando, tra le altre cose, tre cartografie successive del 6 cielo a sei mesi di distanza l’una dall’altra: da questa complessa ricerca non emerse appunto alcun elemento significativo. Venendo a tempi più recenti, nell’ottobre del 1999 furono pubblicate due ricerche indipendenti svolte dai team di due ricercatori, John Murray (Open University, Gran Bretagna) e John Matese (University of Louisiana). Si ipotizzò la presenza di un corpo grande almeno quanto Giove a una distanza di 25-32.000 UA, causa delle perturbazioni nelle comete a lungo periodo. In base a un articolo pubblicato nell’aprile del 2001, le perturbazioni sulla cometa 2000CR potrebbero essere causate da un oggetto posizionato a circa 200 UA dal Sole. Tale corpo dovrebbe essere grande almeno quanto Marte e avrebbe un periodo di rivoluzione attorno al Sole di circa 3300 anni. Tutte le osservazioni condotte finora hanno in generale dato esito negativo. Del resto, cercare un puntino debolissimo in mezzo a milioni di stelle è un compito ai limiti delle capacità umane, e solo l’invio nello spazio di potentissimi telescopi infrarossi e l’automazione delle susseguenti indagini potranno forse dirimere la questione. La ricerca dunque continua, anche se il decimo pianeta rimane tuttora incluso nel novero dei “fantasmi del Sistema Solare”, mentre nei primi anni ’90 si è andato scoprendo al di là di Plutone un grande numero di piccoli planetesimi, i cosiddetti oggetti della fascia di Edgeworth-Kuiper, nuclei cometari raggruppati in un vasto anello la cui esistenza era già stata teorizzata nei primi anni Cinquanta. La scoperta dei planetesimi di Kuiper e la loro dislocazione proprio là dove i calcoli teorici dicono che dovrebbero stare, quando si tiene conto della sola perturbazione gravitazionale di Nettuno, dimostrerebbero che la parte più esterna del disco protoplanetario non seppe partorire un altro pianeta vero e proprio. Ciò farebbe dunque ritenere che Plutone sia veramente l’ultimo pianeta del Sistema Solare. 7 CARATTERISTICHE ORBITALI E DINAMICHE Plutone, il più remoto pianeta del Sistema Solare, si muove intorno al Sole lungo un’orbita molto eccentrica (e = 0,2482) con semiasse maggiore – cioè distanza media dall’astro – pari a 5,913 miliardi di km (39,52944 Unità Astronomiche), giacente su un piano molto inclinato (17°,148 ovvero 17°09') rispetto a quello dell’orbita terrestre. L’elevata inclinazione dell’orbita di Plutone, eccezionale se paragonata a quella degli altri pianeti del Sistema Solare, fa sì che esso in certi periodi possa trovarsi, nel cielo, anche sullo sfondo di costellazioni non zodiacali. Un’altra caratteristica insolita è l’alta eccentricità dell’orbita, anch’essa di gran lunga superiore a quella di tutti gli altri pianeti e responsabile del fatto che Plutone si trova all’afelio a 7,378 miliardi di km dal Sole, mentre al perielio è a 4,437 miliardi di km e quindi per circa 20 anni viene a trovarsi più vicino al Sole di Nettuno, penetrando all’interno della sua orbita, come è avvenuto ad esempio nel periodo compreso tra il 7 febbraio 1979 e l’11 febbraio 1999 (l’ultimo passaggio al perielio si è verificato il 5 settembre 1989, il prossimo si avrà nel 2237). Plutone rimarrà il pianeta più esterno del Sistema Solare fino al 5 aprile 2231. È un caso unico nel Sistema Solare che due pianeti abbiano orbite che si intersecano. Ad ogni modo l’orbita di Plutone è tale che incontri ravvicinati fra i due pianeti sono impossibili, grazie a fenomeni di “risonanza”. In primo luogo, il periodo orbitale di Nettuno è pari ai 2/3 di quello di Plutone, che è di 248,54 anni terrestri, ovvero i due periodi stanno nel rapporto 3:2, e la sincronizzazione fra le due orbite fa sì che quando Plutone si trova vicino al perielio Nettuno è sempre in una parte molto lontana della sua orbita, ad una distanza angolare (angolo Nettuno-SolePlutone) minima di 60°; inoltre l’elevata inclinazione dell’orbita di Plutone fa sì che esso, al perielio, si trovi molto al di sopra del piano orbitale di Nettuno, e viceversa molto al di sotto per la restante parte dell’orbita stessa, allontanando sempre più il pericolo di eventuali perturbazioni distruttive. Per questi motivi la distanza fra i due pianeti è al minimo di circa 384 milioni di km. Simulando al computer miliardi di anni di moti orbitali di Plutone, si trova che la sua orbita è prima caotica, poi diventa stabile; è quindi estremamente improbabile che il pianeta si sia formato in un’orbita così strana. Una vecchia ipotesi, avanzata nel 1936 da Raymond A. Lyttleton (Università di Cambridge), proponeva che Plutone fosse stato originariamente un satellite di Nettuno, sfuggito alla sua attrazione gravitazionale a causa di un incontro ravvicinato con un ipotetico corpo di dimensioni planetarie (forse lo stesso Tritone), ma questa eventualità è in seguito apparsa indifendibile di fronte alla varietà di argomentazioni dinamiche presentate. Come tutti gli altri pianeti, Plutone si sarebbe dunque formato in un’orbita quasi circolare e quasi coincidente con il piano dell’eclittica. La costituzione dell’attuale risonanza con il moto orbitale di Nettuno e dell’elevata eccentricità dell’orbita sarebbero avvenute in una successiva fase evolutiva, quando l’orbita di Nettuno cominciò ad allargarsi, ad ingrandirsi, per effetto di incontri casuali con numerosi planetesimi residui non aggregati, ancora presenti nelle regioni esterne del Sistema Solare, e in qualche milione di anni la sua velocità angolare diminuì fino a raggiungere gli attuali valori. Mentre Nettuno continuava a migrare verso l’esterno, Plutone e un gran numero di altri corpi ghiacciati rimasero “intrappolati” nelle cosiddette risonanze di moto medio, combinazioni dinamiche che si verificano quando due oggetti possiedono periodi orbitali che possono essere espressi con un rapporto numerico semplice: come si è detto prima, Nettuno e Plutone sono oggi bloccati in una risonanza 3:2, che fa sì che Nettuno effettui esattamente tre rivoluzioni attorno al Sole nello stesso tempo in cui Plutone ne compie due. Quest’ultimo sarebbe stato poi forzato a modificare la propria orbita da circolare in ellittica, e l’eccezionale eccentricità raggiunta potrebbe essere la conseguenza delle collisioni che anch’esso può avere avuto con i planetesimi che costituivano lo sciame originario a cui apparteneva. Inoltre, le simulazioni più recenti mostrano che l’azione gravitazionale di Nettuno potrebbe aver fatto aumentare anche l’inclinazione dell’orbita di oggetti come Plutone. 8 Essenzialmente le orbite di Nettuno e Plutone sono “bloccate” l’una rispetto all’altra e, nel corso di migliaia di rivoluzioni attorno al Sole, Nettuno avrebbe dapprima amplificato l’eccentricità di Plutone, nello stesso modo in cui un bambino su di un’altalena viene mandato sempre più in alto grazie a una serie di spinte sincronizzate con il moto dell’altalena stessa. A un certo punto, però, dalla simulazione risulta che ulteriori complessi effetti risonanti provocano pure un aumento dell’inclinazione del pianeta sino al suo valore presente. La ricostruzione dei processi evolutivi che portarono Plutone all’attuale situazione può fornire una grande quantità di informazioni utili per spiegare l’evoluzione subita dai planetesimi e dagli embrioni planetari che poco più di quattro miliardi di anni fa occupavano tutta la zona esterna del Sistema Solare, pianeti giganti compresi. 9 IL DIAMETRO La determinazione del diametro di Plutone non fu cosa facile. Fin dal 1965, come si è detto, si sapeva che esso doveva essere minore di 5800 km, ma le occultazioni stellari adatte a tali misurazioni sono molto rare, cosicché vennero applicati altri metodi come quello dell’interferometria a macchie (speckle interferometry), che permette di ricostruire al calcolatore immagini di corpi celesti di dimensioni angolari inferiori al seeing (grado di turbolenza) atmosferico “filtrando” quest’ultimo con opportune tecniche osservative e numeriche. Tramite questo metodo, per buona parte degli anni Ottanta fu assegnato al diametro di Plutone un valore generico attorno a 3000 km. Negli anni successivi, grazie allo studio di particolari fenomeni che interessarono il pianeta e di cui si dirà più avanti, il diametro di Plutone scese ulteriormente a 2300 km, ma l’incertezza sulla stima risultava ancora relativamente grande, finché il dilemma venne definitivamente sciolto nei primi mesi del 1994 con l’intervento del telescopio spaziale Hubble della NASA, che, dopo la riparazione delle ottiche, veniva finalmente puntato con successo verso il pianeta risolvendone chiaramente il disco e permettendone la misurazione: secondo la stima più recente fatta dal Jet Propulsion Laboratory (JPL), il diametro di Plutone sarebbe di 2274 km con un’incertezza dell’1% circa (±16 km). Le ridotte dimensioni di Plutone fanno di esso il più piccolo pianeta del Sistema Solare, persino più piccolo di molti satelliti tra cui anche la nostra Luna, che ha un diametro medio di 3476 km. Per questo e altri motivi Plutone è stato al centro di un acceso dibattito svoltosi alla fine degli anni ’90: alcuni astronomi dubitavano che esso meritasse lo status di pianeta, relegandolo al ruolo del componente di maggiori dimensioni della fascia di Kuiper, la numerosissima popolazione di corpi ghiacciati che si muove oltre l’orbita di Nettuno. La diatriba si è poi risolta in maniera salomonica: Plutone, per ragioni storiche, viene ancora considerato un vero e proprio pianeta, mentre dal punto di vista fisico e dinamico è ormai chiaro che esso appartiene alla famiglia degli oggetti transnettuniani di Kuiper. Plutone ruota su se stesso in 6,3872 giorni, attorno a un asse che è talmente inclinato (122°,52) da risultare quasi adagiato sul piano dell’orbita, un caso che si era già riscontrato in altri pianeti come Venere e Urano. Secondo la convenzione adottata dall’Unione Astronomica Internazionale (IAU), il polo nord è quello che si trova a nord del piano dell’eclittica, e per questo motivo Venere, Urano e Plutone sono considerati pianeti con rotazione retrograda, cioè la loro rotazione avviene da est a ovest ovvero in senso orario se osservata da un punto ideale posto sopra il polo nord. Le dimensioni apparenti del Sole, alla distanza media di Plutone, sono 39,5 volte minori di quelle che si osservano dalla Terra: il diametro angolare medio dell’astro, visto da laggiù, è infatti di circa 49 secondi d’arco. Un soggiorno su quel mondo deve essere desolante. Un nero cielo cosparso di lucenti stelle sovrasta nella notte sterminate banchise e colossali cumuli di ghiaccio. Poi, a un certo momento, sorge una stella molto più luminosa delle altre e il paesaggio si rischiara come quello terrestre sotto la luce della Luna: è sorto il Sole, un Sole che dovrebbe illuminare e scaldare e che invece, con la sua radiazione ridotta mediamente di circa 1560 volte rispetto a quella che arriva sulla Terra, rivela al massimo le immense distese di ghiaccio e neve che ricoprono il pianeta. 10 CARONTE Nel 1978, durante una serie di indagini sistematiche per determinare l’esatta posizione di Plutone, l’astronomo americano James W. Christy e il suo collaboratore Robert S. Harrington (U.S. Naval Observatory) si accorsero che le migliori immagini fotografiche del pianeta prese col riflettore astrometrico di 155 cm di diametro installato presso la stazione osservativa di Flagstaff presentavano talvolta un leggero rigonfiamento: esaminando alcune lastre ottenute da Christy fra l’aprile e il maggio di quell’anno con l’intensificatore di immagini in dotazione al telescopio, essi notarono come in alcune foto di Plutone apparisse a volte una specie di protuberanza, e questo fenomeno fu ritrovato a posteriori in altre sette lastre prese nel periodo 1965-1970, dall’una all’altra delle quali l’escrescenza si presentava in posizione diversa. Un’ulteriore conferma arrivò poco dopo dall’Osservatorio di Cerro Tololo nel Cile. È bene ricordare a questo punto che in vecchie immagini di Plutone, raccolte negli archivi di vari Osservatori, era già stata notata l’immagine elongata del pianeta, ma nessuno aveva compreso il suo vero significato. Le immagini non circolari, infatti, molto spesso sono causate da un cattivo inseguimento del telescopio o da un difetto ottico di quest’ultimo. In questo caso però la realtà era ben diversa: il fenomeno era evidentemente dovuto all’esistenza di un satellite che orbitava attorno al pianeta, con un periodo che fu poi determinato con grande precisione, risultando di 6,38725 giorni (6 giorni, 9 ore, 17 minuti e 38 secondi). L’annuncio dell’esistenza di un satellite di Plutone venne dato il 22 giugno 1978, e al corpo fu assegnato il nome di Caronte (Charon), il mitico nocchiero degli inferi. All’epoca della scoperta di Caronte, il piano dell’orbita del satellite era posto quasi perpendicolarmente rispetto alla direzione Sole-Terra-Plutone, per cui si osservava la somma delle luminosità di entrambi i corpi. Il satellite a sua volta ruota attorno a Plutone da una distanza di 19.640 km (circa 20 volte minore di quella tra la Terra e la Luna), su un’orbita perfettamente circolare e assai inclinata (98°,80) rispetto al piano dell’orbita del pianeta: risulta così che Caronte, muovendosi lungo il piano equatoriale di Plutone, attraversi quasi perpendicolarmente l’eclittica. Le dimensioni relativamente cospicue di Caronte, che misurate col telescopio spaziale Hubble sono risultate essere di 1270 km (circa la metà del pianeta stesso), fanno sì che in pratica Plutone e Caronte costituiscano un “pianeta doppio”. È possibile che Caronte abbia avuto origine da un primordiale impatto catastrofico contro Plutone, che avrebbe portato parte dei frammenti del pianeta originario a riaggregarsi in orbita attorno ad esso; oppure potrebbe essere stato catturato durante un incontro molto ravvicinato. Inoltre Caronte possiede una notevole peculiarità: non solo rivolge sempre la stessa faccia verso il pianeta (come fa anche la nostra Luna), ma è l’unico satellite naturale del Sistema Solare che mantiene il pianeta in un analogo stato di sincronizzazione fra la rotazione e il moto orbitale, cioè il sistema Plutone-Caronte è caratterizzato da una risonanza 1:1 fra periodo di rotazione del pianeta e periodo di rivoluzione del satellite. In altre parole, il periodo di rotazione di Caronte è identico al suo periodo di rivoluzione, ed entrambi questi periodi sono identici al periodo di rotazione di Plutone. Questo fa sì che Caronte, visto da Plutone, non sorga e non tramonti mai, ma appaia sempre fermo nello stesso punto del cielo, permanentemente visibile da un emisfero del pianeta e invisibile dall’altro: è un satellite sincrono, come molti satelliti artificiali meteorologici e per telecomunicazioni che orbitano attorno alla Terra a quote geostazionarie; in questo senso si potrebbe dire che Caronte è un satellite “plutostazionario”. Anche Plutone, dal canto suo, volge sempre lo stesso emisfero al proprio satellite: se, con un po’ di fantasia, immaginassimo di tirare da un punto di Plutone un filo lungo 19.640 km fino a Caronte, il filo resterebbe sempre ben teso e si potrebbe usarlo per passare da un corpo all’altro! Tale situazione si è venuta a creare per effetto delle forze di marea, che, se non causano in genere deviazioni rilevanti rispetto alla forma sferica negli oggetti solidi, agiscono comunque in maniera tanto più efficace quanto più vicini e di massa comparabile sono i due corpi in questione: la conseguenza più eclatante è che la rotazione di entrambi rallenta finché il periodo di rotazione 11 raggiunge il periodo di rivoluzione, stabilizzandosi poi su questo valore. Il corpo frenato in modo più rapido è logicamente quello meno massiccio, il satellite, e questo spiega perché tanti satelliti naturali, compresa la nostra Luna, abbiano un periodo di rotazione sincronizzato con quello orbitale; ma, seppur più lentamente, le maree frenano anche la rotazione dei pianeti, come dimostra il fatto che per questo motivo la lunghezza del giorno terrestre sta aumentando di un paio di millisecondi per secolo. Nel caso di Plutone e Caronte, visto il rapporto di massa poco sbilanciato e la distanza ridotta, si stima che il processo sia durato solo pochi milioni di anni, e che ora sia giunto al suo stadio finale: entrambi i periodi di rotazione sono sincronizzati con quello orbitale, e i due corpi restano immobili l’uno nel cielo dell’altro. CARATTERISTICHE FISICHE La scoperta di Caronte permise la determinazione più precisa di alcune delle grandezze caratteristiche di Plutone, sulla base dei reciproci moti: ad esempio la massa del pianeta risultò di sole 0,00216 masse terrestri, un valore molto inferiore alle stime precedenti, tutte basate sulle presunte perturbazioni provocate sul moto orbitale di Nettuno. La massa di Plutone, stimata dunque in 1,29×1022 kg, ha permesso assieme alla conoscenza del suo diametro di dare anche una valutazione sulla sua densità media, che è risultata essere di 2,05 g/cm3, circa il doppio di quella del ghiaccio d’acqua. Questo è un dato molto importante, poiché indica che la composizione di Plutone è più simile a quella dei pianeti giganti che non a quella dei pianeti di tipo terrestre: dal valore della densità media si ricava che l’interno del pianeta sarebbe costituito per il 65-70% da minerali rocciosi, e per il resto da ghiacci, sia di acqua che di metano. Quest’ultimo composto è stato chiaramente identificato sulla superficie da misure sulle variazioni di riflettività a diverse lunghezze d’onda. La composizione e l’estensione del nucleo interno di Plutone dovrebbero determinare le caratteristiche del suo eventuale campo magnetico, del quale peraltro al momento non si sa nulla. Il rapporto di massa tra Plutone e Caronte, circa 7:1, è il più basso fra quelli di tutte le coppie pianetasatellite esistenti nel Sistema Solare: per confronto, il sistema Terra-Luna ha un rapporto 81:1, mentre i rapporti tipici pianeta-satellite sono di 104:1 o maggiori. Tale rapporto fa sì che la massa di Caronte sia valutabile in 1,77×1021 kg. Questo dato implica che la densità media del satellite è più bassa rispetto a quella di Plutone: circa 1,83 g/cm3, il che fa propendere per un più alto valore del rapporto ghiaccio/rocce, ossia nell’interno di Caronte vi sarebbe una maggiore abbondanza di ghiaccio d’acqua e una minore quantità di silicati. Riguardo l’origine del sistema Plutone-Caronte, sulla base delle caratteristiche orbitali dei due corpi, del loro rapporto di massa, del momento angolare del sistema binario e dell’elevata obliquità (circa 120°) dell’asse di rotazione rispetto al piano orbitale attorno al Sole, si possono fare alcune ipotesi. Secondo una delle teorie più accreditate, Plutone e Caronte originariamente dovevano essere due corpi indipendenti. Caronte entrò però in collisione con Plutone, provocando l’eiezione di parte della superficie del pianeta nello spazio; a seguito di questa collisione i due corpi si riunirono gravitazionalmente. Se il nucleo di Plutone era costituito da roccia e il suo mantello da ghiaccio, la maggior parte del materiale eiettato doveva essere costituita da ghiaccio, e ciò renderebbe conto dell’elevata preponderanza di roccia che si osserva attualmente sul pianeta. Inoltre, una certa quantità del ghiaccio espulso da Plutone potrebbe essere ricaduto su Caronte, spiegando così perché il satellite sia composto per la maggior parte da ghiaccio d’acqua. In definitiva, un minor valore della densità media di Caronte tenderebbe a privilegiare l’ipotesi della formazione provocata da un grande impatto, una spiegazione invocata anche per il sistema TerraLuna e che pare essere in buon accordo con i modelli dinamici e con le più recenti simulazioni al computer. 12 LO SPETTRO Nel 1972 il cosmochimico americano John S. Lewis elaborò dei modelli quantitativi sulla condensazione degli elementi chimici nella nebulosa protoplanetaria: Lewis dimostrò che varie sostanze “ghiacciate” come l’acqua (H2O), il metano (CH4), l’ammoniaca (NH3), l’azoto (N2), o le loro miscele, devono essere i componenti principali della superficie dei corpi solidi più esterni del Sistema Solare. La radiazione infrarossa rivela la componente “fredda” della materia cosmica; in particolare il vicino infrarosso, a lunghezze d’onda comprese tra 0,7 e 2,5 micron (si ricorda che 1 micron, o micrometro, è la milionesima parte del metro), è la zona spettrale che meglio si presta a questi studi perché, oltre che essere facilmente accessibile da terra, presenta bande molto tipiche e differenziate per le forme ghiacciate dei principali gas cosmogonici. Gli spettri infrarossi di questi materiali, raffreddati a bassissime temperature, possono essere studiati in laboratorio: essi mostrano in diversi casi bande di assorbimento che permettono di riconoscere bene, ad esempio, il ghiaccio d’acqua e quello di metano. Il ghiaccio d’acqua si identifica in due zone di assorbimento principali, una a 2 micron e l’altra fra 1,55 e 1,65 micron più due assorbimenti minori a 1,25 e 1,04 micron. Il metano solido invece presenta bande in zone completamente diverse: le principali si trovano a 2,3 e 1,7-1,8 micron, altre meno importanti cadono a 1,15-1,4 e 1-0,9 micron. Nel caso di Plutone, il suo spettro può essere ottenuto solo quando il pianeta eclissa completamente Caronte, poiché altrimenti è “contaminato” da quello del suo satellite, o in altre parole risulta la somma degli spettri dei due corpi, a causa del fatto che la distanza angolare tra essi è sempre inferiore a 0,9 secondi d’arco e quindi talmente piccola da non permettere di inquadrarli separatamente con gli strumenti. D’altra parte, negli spettri del sistema, il contributo preponderante (circa l’80%) viene da Plutone; sottraendo dallo spettro composto quello del pianeta si può ricavare anche lo spettro di Caronte. Il primo a ricavare spettri infrarossi di Plutone (o meglio, della coppia Plutone-Caronte) fu Dale P. Cruikshank (Università delle Hawaii) nel marzo 1976, quando il satellite non era stato ancora scoperto. L’emissione infrarossa di Plutone venne misurata al telescopio di 4 metri di Kitt Peak, in cinque punti tra 1,2 e 2,2 micron: ne risultò un andamento che permetteva di escludere la presenza di acqua e di ammoniaca, mentre era decisamente compatibile con lo spettro di laboratorio del metano ghiacciato. Dunque Plutone era ricoperto almeno in parte di metano ghiacciato, e per questo doveva riflettere la luce solare molto più efficacemente di quanto si pensasse; di conseguenza le sue dimensioni andavano di molto ridotte rispetto a quanto si era stimato in precedenza. Negli anni successivi (e soprattutto dopo la scoperta di Caronte), gli studi spettroscopici proseguirono con l’obiettivo di rintracciare tutte le bande del metano. Fu allora che le osservazioni mostrarono spettri nettamente diversi per i due corpi: quello di Plutone con due assorbimenti, uno a 1,7 micron e l’altro, più intenso, a 2,3 micron, entrambi ascrivibili al metano ghiacciato; lo spettro di Caronte invece con un debole assorbimento a 1,6 micron e un altro più marcato a 2,0 micron, dovuti all’acqua ghiacciata. Chi si aspettava una composizione molto simile per i due corpi rimase sorpreso nel constatare che le bande di assorbimento nell’infrarosso vicino dovute al metano, così evidenti nello spettro di Plutone, mancano completamente in quello di Caronte, che d’altra parte ha un andamento facilmente riconoscibile poiché ricalca lo spettro ottenuto in laboratorio da strati di brina. Successivamente è stato necessario attendere oltre dieci anni per avere spettri di ottima qualità nell’infrarosso vicino (1-2,5 micron) della luna plutoniana, ottenuti con la camera NICMOS del telescopio spaziale Hubble e con il telescopio Keck di 10 m di apertura situato sul vulcano spento Mauna Kea nelle isole Hawaii. Questi spettri confermano la presenza di ghiaccio d’acqua; la seconda sorpresa è che esso si trova allo stato cristallino. Ghiaccio d’acqua di questo tipo è stato individuato sui satelliti di Giove, Saturno e Urano, e ciò non deve sorprendere in quanto il ghiaccio allo stato amorfo, sinora osservato in natura soltanto nei nuclei cometari, cristallizza rapidamente a temperature maggiori di –150°C. Ma su Caronte, dove la 13 temperatura superficiale non supera mai i –190°C, questa transizione di fase non avrebbe la possibilità di verificarsi. Inoltre, il ghiaccio cristallino dovrebbe gradualmente trasformarsi in amorfo sotto l’effetto del continuo bombardamento da parte della luce ultravioletta e dei protoni del vento solare. Queste radiazioni tendono infatti a rompere i legami dell’idrogeno delle molecole d’acqua, le quali successivamente si riformano ma non nell’originale struttura cristallina. La presenza di ghiaccio cristallino su Caronte può significare che la temperatura di questo oggetto ha raggiunto recentemente valori superiori a quelli che si suppone esistano a quelle distanze dal Sole, oppure che la sua superficie è stata in buona parte ricoperta in tempi non lontani da ghiaccio apportato dall’impatto di una o più comete. Un’ipotesi alternativa è che qualche processo non ancora preso in considerazione converta il ghiaccio amorfo in cristallino. La terza sorpresa, se sarà confermata da altre osservazioni, potrebbe provenire da certe difformità dello spettro a lunghezze d’onda superiori a 2 µm rispetto a quello del ghiaccio d’acqua puro. Utilizzando modelli della luce riflessa da una numerosa varietà di ghiacci e minerali è stato possibile dedurre che questo particolare andamento con ogni probabilità è dovuto alla presenza di ghiaccio di ammoniaca, un composto che finora era stato osservato soltanto nelle atmosfere dei pianeti giganti gassosi (Giove, Saturno, Urano, Nettuno) e nelle comete. Un elemento, quest’ultimo, che rafforzerebbe l’ipotesi dell’impatto cometario; infatti la formazione iniziale dell’ammoniaca nella nebulosa protoplanetaria ha sicuramente richiesto temperature e pressioni elevate, e la sua molecola tende a essere distrutta dalla radiazione ultravioletta solare e dall’interazione con altre sostanze come l’anidride carbonica, che è diffusa in tutto il nostro sistema planetario. Ma una conferma della presenza di questo importante composto si potrà avere solo quando una sonda spaziale si avventurerà in quella zona del Sistema Solare. Più in generale, le caratteristiche spettrali di Caronte assomigliano a quelle della maggior parte dei satelliti dei pianeti giganti esterni, dominate dalle bande di assorbimento del ghiaccio d’acqua: un satellite analogo a Caronte, per dimensioni e composizione superficiale, potrebbe essere Miranda, una delle lune di Urano. Il ghiaccio d’acqua su Caronte, viste le rigidissime temperature che dominano quella remota parte del Sistema Solare, dovrebbe essere resistente come la roccia dura e potrebbe dar luogo a scarpate e dirupi. I ghiacci più insoliti su Plutone dovrebbero essere invece strutturalmente più deboli, e forse più fangosi, con pochi paesaggi ben definiti. 14 LE ECLISSI DI PLUTONE E CARONTE Il fatto che Caronte, all’epoca della sua scoperta, avesse il piano orbitale disposto quasi “di taglio” rispetto alla visuale di un osservatore terrestre, suggerì subito agli astronomi che entro pochi anni i due corpi avrebbero cominciato a passare l’uno davanti all’altro, occultandosi a vicenda e variando così periodicamente la luminosità totale in modo facilmente misurabile da Terra. Questo periodo di eclissi mutue, della durata di alcuni anni, si verifica soltanto due volte nel corso di un’orbita plutoniana, ovvero ogni 124 anni terrestri; era quindi di fondamentale importanza organizzare rapidamente una campagna di osservazioni che tenessero costantemente sotto controllo il sistema. Le eclissi, prima parziali, poi totali e poi di nuovo parziali, ebbero in effetti inizio nel febbraio 1985 e si prolungarono fino all’ottobre del 1990. Durante questi 5 anni e mezzo, Caronte si interponeva fra la Terra e Plutone, coprendone regioni sempre diverse: inizialmente solo la calotta nord, poi una fetta crescente dell’emisfero settentrionale, poi nascondeva le regioni equatoriali e così via scivolando sempre più a sud, fino ad occultare solo la calotta meridionale. In questo modo i due corpi si eclissavano reciprocamente ogni 3,2 giorni (mezzo periodo orbitale di Caronte), e la durata di questi eventi variava fra 32 e 79 minuti. Dato poi che anche il Sole si trova all’incirca allineato con la congiungente Terra-Plutone (in quanto la distanza Sole-Plutone è molto maggiore del raggio dell’orbita terrestre), i suddetti eventi non si dovevano considerare come “transiti” e “occultazioni”, ma come vere e proprie eclissi: Caronte cioè proiettava la sua ombra sulla superficie di Plutone (evento inferiore), e poi spariva nel cono d’ombra di quest’ultimo (evento superiore). Le osservazioni condotte furono soprattutto di tipo fotometrico, per misurare in maniera precisa la luminosità totale del sistema in funzione del tempo e ricavare quindi molte informazioni quantitative sulle sue proprietà dinamiche e fisiche. Solitamente, la luce che riceviamo da Plutone rappresenta la somma dei contributi del pianeta e del suo satellite, indistinguibili a causa della ridotta separazione angolare, come si è già detto. Allo stato attuale Plutone presenta una ben nota oscillazione fotometrica di circa 0,4 magnitudini con periodo di 6,3872 giorni, indizio questo che sulla superficie vi sono zone a diverso potere riflettente che si presentano all’osservatore terrestre con la periodicità della rotazione del pianeta. L’ampiezza nella curva di luce di Plutone è inoltre aumentata nel tempo, essendo molto più alta delle 0,12 magnitudini osservate nel biennio 1953-55 e delle 0,25 magnitudini segnalate nel 1985. Ciò potrebbe essere in relazione con l’evaporazione dei ghiacci superficiali attorno alla fase di perielio. Come se non bastasse, un’ulteriore indicazione sul fatto che la superficie del pianeta sia ben lungi dall’essere omogenea proviene da decenni di accurati studi fotometrici, che hanno dimostrato come la luminosità globale apparente di Plutone durante tutto questo tempo sia notevolmente diminuita: l’opinione più accreditata è che, data la grande inclinazione dell’asse di rotazione del pianeta, alla metà degli anni ’50 da Terra fosse ben visibile l’ampia regione polare sud, ghiacciata e riflettente, mentre nel periodo vicino al passaggio al perielio, quando si sono verificate le reciproche eclissi con Caronte, fosse visibile soprattutto la regione equatoriale, più scura e più ricca di irregolarità. Tornando proprio alle suddette eclissi, bisogna rilevare che quando Caronte transita sul disco di Plutone la luce totale è minore, perché parte della superficie del pianeta è nascosta alla nostra vista. Naturalmente se la superficie stessa è molto scura di per sé, allora il calo sarà minimo e viceversa: proprio queste piccole variazioni, la diversa “profondità” delle cadute di luminosità collegate alle eclissi e la forma delle relative curve di luce, furono sfruttate nel 1992 da due astronomi del MIT, Leslie Young e Richard P. Binzel, per tracciare una mappa del pianeta in cui fosse possibile individuare le regioni a diversa riflettività. Analoghi tentativi a questo proposito erano già stati fatti nel 1983 (Marcialis) e nel 1987 (Tholen e Buie), ma con scarsi risultati. È interessante notare che il lavoro fu possibile grazie alla circostanza che i periodi sono sincronizzati: solo così si poteva essere certi che l’emisfero di Plutone che si stava osservando nel corso di un’occultazione fosse sempre lo stesso. In aggiunta, bisognava assumere che la superficie non fosse andata soggetta a mutamenti 15 significativi nei cinque anni di osservazione, il che pare un’ipotesi ragionevole dato che nel corso di cinque anni il pianeta non muta di molto la sua posizione orbitale. Osservando la mappa di Plutone a bassa risoluzione ricavata da Binzel e Young colpiscono anzitutto le differenze di albedo da zona a zona: la riflettività media nel visibile risulta essere dell’ordine del 60% (tipica del ghiaccio sporco), ma ci sono regioni in cui la luce solare viene riflessa per il 30%, altre in cui raggiunge il 90%; notevole, inoltre, è l’estesa fascia scura appena più a sud dell’equatore. L’impressione immediata che se ne ricava è quella di un equatore più “caldo” dove la sublimazione abbondante del metano ghiacciato ha lasciato intravedere il terreno più scuro sottostante, ma la caratteristica più evidente e curiosa è la marcata asimmetria tra le cappe polari sud e nord, con la prima molto più brillante ed estesa della seconda. E questo rappresentò una sorpresa inaspettata e sconcertante; infatti, all’epoca dell’osservazione Plutone si trovava a cavallo del passaggio al perielio, quando cioè l’illuminazione solare è massima, e all’inizio dell’autunno meridionale. Dunque, la calotta polare sud era rimasta esposta al Sole per tutto il secolo precedente, mentre quella a nord si trovava immersa nel buio e nel gelo del suo inverno. Per questo ci si doveva attendere semmai un’asimmetria inversa: la cappa nord estesa, ghiacciata e riflettente e la cappa sud molto più piccola e scura. La spiegazione data dai due autori fu che le stagioni effettive su Plutone non dipendono tanto dalla inclinazione dell’asse del pianeta o del suo piano orbitale – e quindi dall’angolo con cui la radiazione solare investe la superficie – quanto dalla distanza dal Sole, distanza che aumenta di un buon 66% andando dal perielio all’afelio per via della forte eccentricità orbitale, e causa grandi variazioni di temperatura durante l’anno plutoniano. Il satellite europeo per astronomia infrarossa ISO (Infrared Space Observatory) osservò Plutone per otto volte nel 1997. Misurando il calore emanato dal sistema Plutone-Caronte si ottenne una curva di luce alle lunghezze d’onda termiche, scoprendo che alcune regioni della superficie di Plutone hanno una temperatura di –235°C, mentre altre arrivano a –210°C. Non sorprende che queste variazioni di temperatura siano legate a differenti albedo del pianeta: le regioni più chiare hanno temperature più basse di quelle scure, anche se le temperature e l’albedo non vanno sempre di pari passo. Lo scostamento della curva termica relativamente alla luce visibile starebbe forse ad indicare che la parte superiore delle aree scure sia porosa. Ad ogni modo, anche secondo questi dati, la superficie di Plutone è probabilmente costituita da metano ghiacciato e da materiale organico più complesso prodotto dall’esposizione del ghiaccio alla radiazione solare. Prima che iniziassero le eclissi reciproche si pensava che le caratteristiche di Caronte non dovessero essere molto diverse da quelle di Plutone, ma le stesse osservazioni permisero di determinare che il satellite è più scuro del pianeta: l’albedo media di Caronte è circa del 40% (come i satelliti di Urano), mentre quella di Plutone, come si è detto, raggiunge il 60%, indicando che su Caronte i ghiacci presenti in superficie devono essere quasi completamente sublimati. Fu inoltre rilevata anche un’altra cosa: nei transiti di Caronte davanti a Plutone si registrava minor radiazione nella lunghezza d’onda caratteristica della banda visuale (V), mentre durante l’occultazione di Caronte si misurava minor radiazione nella banda blu (B), la lunghezza d’onda caratteristica dell’emulsione fotografica. In sostanza Caronte, pur possedendo una riflettività minore di Plutone, è più luminoso di quest’ultimo se osservato in luce blu, confermando così che la sua superficie deve essere ricca di ghiaccio d’acqua, piuttosto che di metano o altri composti chimici ghiacciati come su Plutone: un fatto quantomeno strano se si ammette che i due corpi siano nati contemporaneamente nella stessa zona del Sistema Solare e costituiscano un sistema doppio. Il colore più “rosso” di Plutone rispetto a un colore più “blu” della superficie di Caronte, confermato anche dalle osservazioni del telescopio spaziale Hubble, è attribuito alla perdita dei ghiacci di azoto, ossido di carbonio e metano volatili che avrebbero costituito un’atmosfera primordiale sul satellite, poi evaporata a causa della piccola massa. Una volta innescatosi, questo processo era destinato a progredire sempre di più: l’evaporazione del metano, infatti, metteva a nudo la sottostante coltre di ghiaccio d’acqua; su questa cominciò a depositarsi uno strato via via più scuro di materiale carbonioso, così Caronte finì per assorbire sempre meglio la debole radiazione solare e per far procedere sempre più speditamente il depauperamento del metano e degli altri composti volatili. Per questo Caronte 16 sembra aver raggiunto la fine della sua evoluzione, un’evoluzione tipica di tutti i grandi satelliti ghiacciati che circondano i pianeti esterni, mentre da questo punto di vista Plutone appare ancora un mondo in mutamento. LE OSSERVAZIONI DEL TELESCOPIO SPAZIALE La mappa di riflettività di Binzel e Young rappresenta indubbiamente una pietra miliare negli studi sulla superficie di Plutone, tuttavia non è paragonabile alle ricostruzioni della stessa superficie ricavate dalle osservazioni del telescopio spaziale Hubble, dopo che alla fine del 1993 la NASA, con una missione Shuttle, aveva provveduto a correggere il grave difetto di aberrazione sferica che interessava lo specchio principale del telescopio tramite l’inserimento di uno speciale dispositivo. Già dai primi mesi dopo la riparazione, l’occhio del telescopio spaziale fu puntato verso Plutone: il dato più impressionante fu la prima individuazione diretta di dettagli morfologici sul disco del pianeta. Furono elaborate varie immagini riprese sia nel visibile che nell’ultravioletto. Nel visibile apparivano evidenti alcune zone ad alta riflettività, compatibili con le mappe dedotte da Walter J. Wild (Università di Chicago) sia dalle mutue eclissi con Caronte sia da quarant’anni di studi sulle variazioni intrinseche di albedo; nell’ultravioletto gli stessi dettagli apparivano più confusi, mentre il disco si mostrava leggermente più esteso. Da queste osservazioni studiosi quali Rudolph Albrecht (Space Telescope European Coordinating Facility), Alan Stern (Southwest Research Institute) e Marc Buie (Lowell Observatory) partirono per ottenere, a distanza di poco più di un anno, la prima mappa completa della superficie di Plutone, con un’eccezionale risoluzione di 160 km. La nuova e più dettagliata mappa mostrava una dozzina di aree chiare e scure, oltre alle due calotte polari. Evidentemente qui giocava un ruolo importante la complessa distribuzione dei ghiacci che costituiscono la superficie del pianeta, la cui variegata morfologia cambia presumibilmente con la lontananza dal Sole; inoltre il comportamento nell’ultravioletto era riconducibile ad un’atmosfera che il pianeta pareva aver sviluppato nell’approssimarsi al perielio. Su questo punto pare opportuno discutere più approfonditamente. 17 L’ATMOSFERA Di regola, più un pianeta o un satellite è piccolo, minore è la probabilità che la sua gravità abbia potuto trattenere un’atmosfera gassosa nei pressi della superficie, per via della scarsa velocità di fuga. Ad esempio la nostra Luna, che pure è più grande di Plutone, è essenzialmente priva di atmosfera. Tuttavia, oltre alla gravità, un altro fattore determina la stabilità di un’atmosfera planetaria: la temperatura. Una bassa temperatura rende in media più lento il moto delle molecole del gas, e quindi minore la frazione di quelle che possiedono energia sufficiente per sfuggire nello spazio. Da questo punto di vista Plutone, grande quanto i due terzi della Luna e con una temperatura superficiale nell’ordine dei 200 gradi sotto zero, è apparso per molti anni come un caso incerto: fino al 1988 l’esistenza di un’atmosfera su di esso era uno dei problemi aperti dell’astronomia planetaria, e soltanto in quell’anno la tecnica delle occultazioni stellari permise di ottenere una prova indiscutibile a questo proposito. L’esistenza di metano ghiacciato su Plutone, peraltro, era stata provata fin dal 1976 attraverso l’analisi del suo spettro infrarosso, ed era quindi naturale supporre che parte del metano superficiale potesse sublimare, formando una tenue atmosfera gassosa. Dopo anni di risultati incerti, finalmente l’astronomo Uwe Fink (Università dell’Arizona), nella primavera del 1980, riuscì ad ottenere, al riflettore da 1,55 metri dell’Osservatorio di Catalina abbinato a un rivelatore CCD, uno spettro molto buono nella regione tra 0,58 e 1,06 micron, dove il metano gassoso presenta ben 7 bande di assorbimento. Lo spettro di Fink era praticamente coincidente con quello teorico, di laboratorio, del metano gassoso. In particolare risultava molto convincente la grande somiglianza, anche nella struttura fine, della banda più importante del metano, quella a 0,89 micron. Dalle intensità degli assorbimenti minori e facendo le ipotesi più verosimili sulla massa e sulla gravità del pianeta, Fink calcolò una pressione superficiale di 0,15 millibar (circa 1/6755 di quella terrestre al livello del mare). In realtà, per quanto già molto basso, questo apparve ben presto essere un limite superiore: infatti le bande su cui era stato fatto il calcolo compaiono anche nello spettro del metano ghiacciato e quindi il contributo della componente gassosa poteva essere stato sovrastimato. Che però un’atmosfera dovesse comunque avvolgere anche il più freddo dei pianeti venne confermato da alcune straordinarie osservazioni effettuate nel luglio e nell’agosto del 1983 dal satellite artificiale IRAS nell’infrarosso medio e lontano, a lunghezze d’onda inaccessibili da terra ma estremamente utili per definire l’effettiva temperatura del pianeta. Agli “occhi” di IRAS, Plutone risultava quasi invisibile a 25 micron, ma molto brillante a 60 e 100 micron. La misura dell’energia emessa in queste due bande risultò compatibile con una temperatura del corpo emittente di 51 K (ossia –222°C); un valore superiore a quello che, teoricamente, è calcolabile per un corpo solido “nudo” in equilibrio termico con la radiazione che lo illumina (corpo nero) che disti dal Sole quanto Plutone: circa 43 K, pari a –230°C. A fare dubitare di questi risultati ci furono alcune osservazioni radiotelescopiche nella lunghezza d’onda millimetrica delle microonde, che indicavano una temperatura più bassa (30-40 K). Tuttavia un modo per spiegare l’eccesso termico è quello di ammettere qualche tipo di effetto serra prodotto da una debole atmosfera, ed infatti il metano è un tipico gas da effetto serra, poiché tende a trattenere il calore essendo trasparente alla radiazione solare incidente ma parzialmente opaco alla radiazione infrarossa irradiata dal suolo. In definitiva, prendendo per buone le osservazioni di IRAS, si confermavano le conclusioni di Fink visto che la suddetta pressione limite di 0,15 millibar corrispondeva ad una temperatura di circa 60 K: dai dati di IRAS si doveva dedurre una pressione decisamente inferiore. Rimaneva però ancora un problema, sollevato per la prima volta da Laurence Trafton (Università del Texas) nel 1980 e, se vogliamo, aggravatosi sempre di più con la progressiva diminuzione della stima di dimensioni e densità (quindi della massa) di Plutone conseguente allo studio delle mutue eclissi con Caronte. Si trattava in sostanza di spiegare come può Plutone conservare un’atmosfera di 18 metano in condizioni di pressione così bassa. Secondo i calcoli quantitativi di Trafton addirittura, nelle condizioni di Plutone, una quantità di metano pari all’intera massa del pianeta sarebbe inevitabilmente evaporata nel giro di 2-3 miliardi di anni. Per uscire da questo “fastidioso” paradosso non ci sono che due possibilità: l’atmosfera di Plutone potrebbe non essere permanente, ma limitata solamente ai periodi in cui il pianeta è vicino al perielio e quindi subisce una più intensa irradiazione solare, per poi “congelare” nel resto del tempo sulla superficie; oppure un altro gas atmosferico relativamente pesante, ma non evidente negli spettri, potrebbe stabilizzare l’atmosfera stessa, aumentando la pressione globale superficiale. Ora, si diceva che le occultazioni stellari furono il mezzo determinante per ottenere una prima prova inconfutabile dell’esistenza di questa atmosfera. Quando un corpo del Sistema Solare, visto da Terra, passa davanti a una stella, naturalmente ne intercetta la luce. Misurando da diversi punti della superficie terrestre la variazione temporale del flusso luminoso (la cosiddetta curva di luce) proveniente dalla coppia stella-oggetto, e conoscendo la velocità orbitale del corpo occultante, è possibile stimarne le dimensioni. È anche grazie a questo metodo che si conoscono i diametri di parecchi asteroidi e in qualche caso le loro forme più o meno irregolari. Se il corpo che occulta la stella ha un’atmosfera in grado di assorbire una frazione significativa della luce che l’attraversa, la curva di luce può rivelarne l’esistenza e anche il profilo di densità: basterà notare come la luminosità della stella, invece di calare a zero di colpo all’inizio dell’occultazione (e risalire al valore normale improvvisamente quando questa è finita), vari gradualmente, man mano che i raggi luminosi si trovano ad attraversare strati atmosferici più o meno densi. Inoltre, il confronto tra le curve di luce misurate in bande fotometriche diverse può persino dare qualche indicazione sulla composizione chimica dell’atmosfera. L’applicazione di questo metodo a Plutone è molto difficile: date le sue piccole dimensioni e la sua distanza, le occultazioni promettenti sono assai rare, inoltre conoscere a priori le posizioni in cielo di Plutone e della stella in modo abbastanza accurato (meno di un decimo di secondo d’arco), per prevedere se e da dove l’occultazione sarà realmente visibile, è ai limiti delle possibilità dell’astrometria. Di conseguenza, quando nel 1985 si prospettò la possibilità che il 9 giugno 1988 Plutone occultasse una stella di magnitudine 12 nella costellazione della Vergine, fu organizzata una vera e propria “campagna di caccia”. L’evento era molto favorevole, perché, selezionando in maniera accurata i siti osservativi, sarebbe stato possibile seguire la sparizione della stella in vari punti del disco di Plutone, con un enorme aumento delle informazioni ottenibili. Di fatto, James L. Elliot (Massachusetts Institute of Technology) coordinò e organizzò ben 8 postazioni osservative: 7 a terra, tra Australia, Tasmania e Nuova Zelanda, e una in volo sul Pacifico a bordo del Kuiper Airborne Observatory (KAO), l’aereo della NASA adibito ad osservatorio volante di alta quota, oggi non più attivo. Quest’ultima spedizione, guidata dallo stesso Elliot, era senz’altro la meglio equipaggiata, potendo disporre dello stesso telescopio di 91 cm con il quale proprio Elliot aveva scoperto nel 1977 gli anelli di Urano. Mentre il KAO era in volo a 12.000 metri di quota sul Pacifico meridionale tra Have e Samoa, la stella venne occultata da Plutone: la sua luce cominciò ad attenuarsi a 350 km dalla superficie del pianeta; per i primi 300 km il calo della luminosità fu lento e continuo (perdita del 70% in 20 secondi), poi negli ultimi 50 km fu assai veloce (perdita del residuo 30% di luminosità in 5 secondi). Dopo 70 secondi di occultazione totale da parte del disco di Plutone, la luminosità della stella risalì con un andamento discontinuo perfettamente simmetrico rispetto alla fase di discesa. La stessa occultazione fu osservata anche da quattro gruppi al suolo, mostrando un profilo simile a quello rilevato dal KAO. Dalle osservazioni fu dedotto che l’atmosfera plutoniana è probabilmente formata da due strati sovrapposti, che presentano proprietà ottiche assai diverse: a quanto pare, l’alta atmosfera trasparente si stenderebbe sopra una bassa foschia velata o su un’inversione di temperatura rifrangente (quando la temperatura, che di norma diminuisce allontanandosi dal suolo, inverte il trend e inizia a salire con la quota), anche se nulla di più preciso si evinse in quella occasione sulla composizione chimica dell’involucro gassoso. Diversi modelli teorici, che prevedevano 19 un’atmosfera di metano puro o un’atmosfera dominata da azoto misto a una piccola percentuale di metano, risultavano compatibili con i dati, benché nel secondo caso si dovesse presumere che la temperatura dell’atmosfera stessa fosse più alta del previsto, risultando di almeno 100 K (173°C sotto lo zero) ad un’altezza corrispondente alla pressione di 1 microbar (al suolo si dovrebbero misurare circa 10 microbar durante il periodo di massima vicinanza al Sole). Ciò indusse a qualche perplessità, dal momento che la superficie del pianeta appariva decisamente più fredda (si stima che nel 1988 la temperatura al suolo avesse raggiunto punte massime di 58 K, equivalenti a –215°C), e non si capiva quale fosse il meccanismo che potesse determinare un efficace riscaldamento dell’atmosfera. Nel maggio del 1992 un gruppo formato da scienziati americani, britannici e francesi si recò sulla cima del vulcano spento Mauna Kea, a ben 4200 metri di quota nelle isole Hawaii, dove sorge l’Osservatorio che ospita l’UKIRT, il Telescopio Infrarosso del Regno Unito da 3,81 metri di diametro. Questo tipo di telescopi è installato sempre a quote molto elevate, a causa del fatto che la radiazione infrarossa viene fortemente assorbita dal vapore acqueo presente nella nostra atmosfera soprattutto a quote inferiori a 3000 metri. Le osservazioni nel vicino infrarosso si possono perciò effettuare soltanto da grandi altitudini, e così, per utilizzare grosse strumentazioni che non possono essere caricate su palloni stratosferici, una località di alta montagna diviene un requisito essenziale. Spettri ad alta risoluzione tra 1,4 e 2,4 micron individuarono per la prima volta su Plutone la banda dell’azoto ghiacciato a 2,15 micron, unitamente alla banda del monossido di carbonio a 2,35 micron e varie bande del metano tra 2 e 2,4 micron. Le due bande dell’azoto e dell’ossido di carbonio non erano state notate in precedenza perché meno evidenti rispetto a quella del metano, e la scoperta fu possibile proprio grazie al sensibilissimo spettrografo infrarosso di cui era dotato l’UKIRT. Dall’intensità relativa delle varie bande fu presto dedotto che il componente sicuramente predominante della superficie di Plutone è l’azoto molecolare (N2), essendo la sua abbondanza almeno 50 volte superiore a quella del metano, mentre quest’ultimo occuperebbe solo il secondo o terzo posto in ordine di abbondanza. Sia l’azoto che il monossido di carbonio sono più volatili del ghiaccio di metano, per cui, sublimando, con una probabile predominanza dell’azoto, devono essere i primi costituenti che vanno a formare l’effimera atmosfera del pianeta. La situazione è in qualche modo analoga a quella della superficie terrestre d’inverno, in cui l’acqua è ghiacciata sul terreno, ma è anche presente come vapore nell’aria, dove può passare allo stato solido e cadere al suolo sotto forma di neve o brina: su Plutone l’azoto sembra per l’appunto giocare un ruolo simile, con la differenza che esso è ancora più abbondante che qui sulla Terra, dominando la composizione chimica dell’atmosfera. Ciò fa del pianeta una copia quasi perfetta di Tritone, la maggiore delle lune di Nettuno, della quale la sonda Voyager 2 ci inviò spettacolari immagini nell’estate del 1989. Come si ricorderà, la navicella della NASA aveva mostrato che l’atmosfera del satellite, pur così evanescente, era interessata da fenomeni meteorologici, come la formazione di strati di nebbie a bassa quota. Se questo avvenisse anche su Plutone i risultati dell’occultazione del 1988, che prevedevano un’atmosfera a due strati, troverebbero una loro giustificazione. Inoltre si potrebbe ipotizzare che anche la superficie di Plutone, al pari di quella di Tritone, sia costellata di geyser attivi che rilasciano con l’azoto anche tracce di metano: si è infatti calcolato che basterebbe la presenza di metano gassoso in piccole proporzioni per giustificare una temperatura di 100 K. Il fatto poi che l’atmosfera plutoniana “sente” in maniera così netta la radiazione ultravioletta, come si evince dalle immagini prese dal telescopio spaziale, è probabilmente dovuto alla circostanza che essa è intasata da uno smog fotochimico di idrocarburi complessi prodotto dalla radiazione solare sulle molecole di metano. Per intenderci, qualcosa di molto simile a quello che rende completamente opache le nuvole di Titano, il più grande dei satelliti di Saturno; fortunatamente però, alla distanza di Plutone, la radiazione solare è così debole che la formazione di smog deve essere avvenuta solo in tracce, permettendoci l’osservazione della superficie. La presenza di idrocarburi nell’atmosfera del pianeta è stata recentemente provata: grazie ad osservazioni effettuate nel giugno e luglio del 1999 col telescopio Subaru da 8,2 metri di diametro del National Astronomical Observatory del Giappone, situato 20 anch’esso sulla cima del Mauna Kea, un gruppo di ricercatori ha scoperto che su Plutone esiste l’etano (C2H6) ghiacciato. Questo composto, disciolto nel ghiaccio di azoto, potrebbe essere rimasto preservato intatto dai primi giorni della formazione del nostro Sistema Solare, circa 4,5 miliardi di anni fa, oppure potrebbe anche non essere primordiale, ma appunto il risultato delle reazioni tra i raggi ultravioletti del Sole e il metano che forma gran parte della superficie del pianeta. Ulteriori osservazioni potranno stabilire quale di queste due ipotesi sia la più convincente. Più recentemente, il 20 luglio 2002 e il 21 agosto 2002, Plutone ha occultato altre due stelle, la P126A (mag. 13,9) e la P131.1 (mag. 15,5), ambedue situate nella costellazione di Ofiuco. La possibilità di una doppia occultazione era stata prevista due anni prima; tuttavia non era stato possibile predire con esattezza dove si sarebbe proiettata l’ombra del pianeta sulla Terra, per via del fatto che l’orbita di Plutone non è ancora conosciuta a un livello di precisione adeguato. Tutto ciò che si sapeva era che l’occultazione della stella P126A, prevista per il 20 luglio, sarebbe risultata osservabile dal Sud America, mentre quella della P131.1 avrebbe interessato il 21 agosto il Pacifico. Nel primo caso lo studio è stato condotto con telescopi mobili nel nord del Cile, mentre la seconda occultazione è stata seguita con maggiore fortuna da un grande telescopio, il francocanadese-hawaiano (CFHT) di 3,6 m di diametro situato sulla cima del Mauna Kea nelle isole Hawaii, che però ha registrato la curva di luce solo nel vicino infrarosso, a 0,89 micron. Tutti i dati sono ora al vaglio degli astronomi, ma, in via del tutto preliminare, sembra che l’atmosfera di Plutone sia nel frattempo diventata tre volte più densa e in parte più opaca e omogenea (in pratica, è quasi scomparsa la discontinuità tra alta e bassa atmosfera rilevata nell’occultazione del 1988). Questo potrebbe essere spiegato fisicamente da un aumento di almeno 2-3°C della gelida temperatura del pianeta, un valore davvero importante a livello globale, ma nel contempo difficilmente compatibile con il fatto che l’attuale flusso di energia solare ricevuta da Plutone sia diminuito di un buon 6% rispetto a quello dell’epoca del perielio. Non va tuttavia dimenticato che la fotometria del 1988 era nel visuale, mentre quella del CFHT è nell’infrarosso: la discontinuità più “dolce” potrebbe dipendere dal fatto che lo strato interno di nebbiolina (ammesso che di nebbie si tratti) è più trasparente all’infrarosso che al visibile. Per quanto riguarda l’inatteso aumento di temperatura superficiale, va ricordato che un fatto analogo ha interessato anche Tritone, la maggiore delle lune di Nettuno: anche in quel caso la scoperta era stata possibile grazie a un’occultazione, verificatasi nel 1997, sebbene i mutamenti nell’atmosfera di Plutone appaiano più significativi. Da qui l’idea di James Elliot che la ragione dell’improvviso aumento della pressione atmosferica plutoniana sia di carattere endogeno. In pratica, potrebbe esistere su Plutone un’attività emissiva simile a quella di Tritone, con immensi geyser di azoto liquido che si sollevano dalle regioni ricoperte di azoto ghiacciato, in conseguenza di stress meccanici vari di tipo mareale (presenza del satellite Caronte) o stagionale (posizione orbitale vicina al perielio). Appare infatti evidente che, vista la forte variazione della distanza del pianeta dal Sole nel corso dell’orbita, con conseguente forte variazione dell’irraggiamento, l’atmosfera di Plutone deve avere un carattere periodico. Intorno al perielio si avrebbe cioè una specie di “estate globale” che fa evaporare i ghiacci superficiali ed estende al massimo la tenue coltre atmosferica (un po’ come fanno le comete); quando poi il pianeta si incammina verso l’afelio, i gas di azoto, monossido di carbonio e metano tendono a condensarsi in superficie formando uno strato fresco di brina o neve, e in questo processo l’emisfero sud risulterebbe favorito perché è quello che precipita nel buio. Ciò sarebbe inoltre in accordo con i cambiamenti di riflettività e di colore misurati su Plutone negli ultimi decenni: le regioni più scure che si possono individuare sulle mappe di albedo del pianeta dovrebbero essere aree in cui la sublimazione di ghiacci “freschi” ha portato alla luce strati sottostanti più antichi dove sono presenti materiali opachi (probabilmente idrocarburi) prodotti nel complesso miscuglio di ghiacci dall’azione dei raggi cosmici e dalla radiazione ultravioletta solare. 21 PLUTONE E TRITONE Tornando alle analogie esistenti fra Plutone e Tritone, si deve rilevare che i tre gas rivelati nell’atmosfera sono anche tra i maggiori costituenti delle nubi interstellari, e per questo motivo gli astronomi sono sempre più convinti che i due corpi siano quelli che maggiormente riflettono nella loro composizione chimica quella originaria della materia da cui si condensarono tutti i pianeti del Sistema Solare. Per le affinità in dimensione, massa, densità e composizione superficiale, è stata avanzata l’ipotesi che Tritone possa essere un gemello di Plutone, anche perché il moto orbitale del primo, di tipo retrogrado, può far pensare a una sua cattura da parte di Nettuno e quindi a una sua provenienza iniziale, assieme a Plutone, da una fascia asteroidale transnettuniana. Molte sono le analogie superficiali comuni, quali la presenza su entrambi i corpi di azoto, monossido di carbonio e metano ghiacciati. Sulla superficie di Tritone è stata rilevata anche anidride carbonica ghiacciata e si suppone la presenza di ghiaccio d’acqua, ghiaccio che tra l’altro, allo stato cristallino e molto probabilmente frammisto ad ammoniaca, pare essere il costituente principale della crosta di Caronte. Sia Plutone che Tritone sono poi avvolti da una sottile atmosfera di azoto e metano, mentre l’esistenza di una tenue atmosfera su Caronte è decisamente più improbabile, anche se non impossibile (forse è esistita in un lontano passato). Pur possedendo numerose analogie comuni, non si può tuttavia affermare che Plutone sia un altro Tritone: è leggermente meno denso e meno massiccio di quest’ultimo, ma molto più scuro, e il suo satellite Caronte lo è ancora di più; inoltre Plutone non ha sofferto il catastrofico stress termico di Tritone, dovuto alla sua cattura da parte di Nettuno. Tali differenze probabilmente si possono spiegare con la diversa storia dinamica e chimica dei tre corpi, una storia che sarebbe utile conoscere per ricostruire gli eventi occorsi ai confini più esterni della nebulosa protoplanetaria. A questo proposito c’è chi ipotizza che Plutone e Tritone siano gli ultimi rappresentanti di una famiglia arcaica di planetesimi esistente alle origini del Sistema Solare e sopravvissuti perché, in virtù di una specie di “selezione naturale”, avrebbero trovato una stabile “nicchia gravitazionale”, il primo intorno al Sole e il secondo intorno a Nettuno. In definitiva nulla di certo si può ancora dire, visto che le migliori stime che definiscono il sistema Plutone-Caronte si riferiscono alle proprietà superficiali, mentre quasi completamente oscura rimane la composizione interna dei due corpi, assieme alla loro storia geologica e dinamica. Per chiarire questi misteri è certamente auspicabile l’esplorazione del pianeta da parte di una sonda automatica, che potrebbe illuminare le fasi della formazione del Sistema Solare esterno. 22 ESPLORAZIONE SPAZIALE Plutone è rimasto il solo pianeta del Sistema Solare a non essere ancora stato visitato da una sonda spaziale. Finora i progressi nella conoscenza dei suoi parametri orbitali e fisici sono stati possibili solamente grazie a tecniche astrometriche e astrofisiche condotte dalla Terra, e anzi dalla fine degli anni ’70 in poi si sono fatti passi da gigante nella comprensione di questo gelido e remoto mondo, ma si è ormai giunti a un punto in cui l’invio di una navicella spaziale che sveli i suoi misteri più reconditi si è dimostrato irrinunciabile. Plutone è passato al perielio nel 1989, un evento che si verificherà di nuovo soltanto nel 2237. Poiché i componenti volatili (azoto, metano e ossido di carbonio) presenti in superficie allo stato di ghiacci che, sublimando, danno origine all’atmosfera, sono estremamente sensibili alla temperatura, ci si aspetta che in prossimità del perielio la densità atmosferica sia di alcuni ordini di grandezza superiore rispetto a quando il pianeta si trova all’afelio. Ciò comporta che i processi chimici, dinamici e di interazione con il vento solare sarebbero molto più attivi e interessanti. È perciò necessario che questi fenomeni vengano studiati prima del previsto, e abbastanza rapido, “collasso atmosferico” che dovrebbe iniziare tra il 2010 e il 2020: entro quell’anno gli strati gassosi saranno tornati a depositarsi sul suolo. In quello stesso periodo, a causa della forte inclinazione dell’asse di rotazione del pianeta, inizierà un lungo “inverno” che interesserà l’emisfero meridionale, destinato a sprofondare in un’oscurità semipermanente che impedirebbe ogni ripresa fotografica della regione così come l’analisi della composizione superficiale. Infatti Plutone, che ha l’asse di rotazione coricato sull’orbita come Urano e negli anni ’80 mostrava al Sole l’equatore, nel 2005 avrà poco meno del 10% della superficie avvolta da un’oscurità stagionale permanente, ma tale percentuale raggiungerà il 20% nel 2015, mentre verso il 2030 il pianeta sarà posizionato in modo da rivolgere all’astro solo il suo polo nord, per cui circa metà del globo risulterà inosservabile. Scemerebbe quindi l’interesse della missione se la navicella arrivasse al pianeta dopo il 2020: troverebbe infatti l’atmosfera quasi completamente congelata e depositata su una superficie in buona parte avvolta dall’oscurità, mentre fino al 2015 la situazione sarebbe indubbiamente più favorevole, permettendo la visione della maggior parte di Plutone e del suo satellite Caronte. Benché la prima proposta relativa a una missione spaziale rivolta a Plutone risalga al 1975, quando si pensò di costruire una terza navicella Voyager per questo scopo, fu solo nel 1989 che la NASA prese in considerazione l’idea di portare laggiù una sonda o una coppia di piccole sonde gemelle, in tempi variabili da 7 a 18 anni. Inizialmente si era pensato di inviare la navicella direttamente verso il pianeta senza ricorrere ad alcun effetto fionda; poi, per ridurre i costi di lancio e aumentare il carico utile, fu studiata una traiettoria che prevedeva un incontro ravvicinato con Giove prima di arrivare a Plutone. La missione, battezzata dapprima Pluto Fast Flyby, poi Pluto Express ed infine, dopo la scoperta dell’esistenza di altri corpi orbitanti al di là di Nettuno, qualcuno dei quali avrebbe potuto essere il secondo obiettivo della missione, Pluto-Kuiper Express (PKE), fu tormentata da continue restrizioni di bilancio che costrinsero i responsabili a rivedere il progetto e a ridurre di oltre la metà il peso degli strumenti scientifici rispetto a quanto definito nel modello originario. Per questo la missione prevedeva l’utilizzo di nuove tecnologie emergenti per la riduzione di costi, massa, potenza e volume, senza sacrificare risultati e capacità di lavoro. Tuttavia, per diverse ragioni, tra le quali lo sforamento del tetto massimo delle spese del progetto (costato fino a quel momento più di 800 milioni di dollari senza aver prodotto alcun risultato scientifico), nel settembre del 2000 la NASA sospese la missione, e il lancio della sonda, inizialmente previsto per il dicembre 2004, venne rinviato indefinitamente. A quel punto ogni speranza di inviare una sonda spaziale verso Plutone in tempi utili sembrava perduta. Ma sotto le pressanti insistenze della Planetary Society (che aveva sostenuto la missione fin dall’inizio) e di molti scienziati e appassionati, la NASA fu praticamente costretta a lasciare aperta questa possibilità. Fu così indetto un concorso per selezionare il progetto migliore e meno 23 dispendioso, che avrebbe ricevuto finanziamenti per la realizzazione. Finalmente, il 29 novembre 2001 è stato designato il progetto New Horizons, proposto dal Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory (APL) e dal Southwest Research Institute (SWRI). È stato stabilito che la missione dovrà partire non oltre il 2006, e la costruzione della sonda dovrà rispettare determinate scadenze fisse. Secondo il progetto, la New Horizons partirà nel 2006 e transiterà vicino a Plutone e Caronte nel 2015, per poi entrare nella fascia di Kuiper nel 2025. Gli obiettivi scientifici, che ricalcano in buona sostanza quelli della precedente missione Pluto-Kuiper Express, sono i seguenti: 1. Caratterizzare la geologia globale e la geomorfologia di Plutone e Caronte, tramite una mappa a colori in buona risoluzione. Con immagini riprese a diversi angoli di fase (angolo Sole-Plutonesonda) si potrebbero determinare le caratteristiche di riflettività dei due corpi e quindi sarebbe possibile avere informazioni sulla struttura a piccola scala delle loro superfici; 2. Determinare in dettaglio la composizione superficiale per mezzo di mappe spettroscopiche nell’infrarosso; 3. Caratterizzare l’atmosfera di Plutone, determinandone la composizione (abbondanze di azoto, ossido di carbonio, metano e argon), la struttura termica e l’eventuale presenza di aerosol; 4. Esplorare la parte interna della Fascia di Kuiper almeno sino a distanze di 45-50 UA. Il lancio della New Horizons è ora previsto per il gennaio 2006: dalla Terra, la sonda si dirigerà verso Giove, a cui arriverà solo un anno dopo. La navicella otterrà così un gravity-assist che le farà acquisire la velocità necessaria per raggiungere il sistema doppio di Plutone e Caronte nei tempi previsti. La scelta di usare Giove come “trampolino di lancio” per arrivare a Plutone non è indispensabile, ma di fatto abbatte i costi in quanto con essa risulta minore la quantità di combustibile necessaria e di conseguenza maggiore il carico utile, inoltre è richiesto un razzo vettore di minore potenza per l’inserimento iniziale in orbita. D’altra parte, adottando questa soluzione il viaggio della sonda risulta più lungo, con tutti i problemi e i rischi che implica una permanenza prolungata nello spazio per i delicati strumenti di bordo prima ancora che essi abbiano la possibilità di funzionare a regime. Durante il lungo viaggio da Giove a Plutone, i responsabili della missione effettueranno continui controlli sulla “salute” della sonda, attivando periodicamente tutti gli strumenti e calibrandoli in vista dell’incontro ravvicinato. Nel contempo, gli astronomi sulla Terra cercheranno di scegliere uno o più oggetti della fascia di Kuiper che siano adatti all’esplorazione da parte della New Horizons. Le telecamere della sonda inizieranno ad osservare Plutone e Caronte un anno prima dell’arrivo. Dapprima i due corpi appariranno come puntini di luce irrisolti, ma le dimensioni si faranno sempre più sensibili al procedere dell’avvicinamento. Circa tre mesi prima della fatidica data – quando Plutone e la sua luna disteranno 160.000 km – le telecamere effettueranno le prime mappature. In quei tre mesi, il team acquisirà immagini ottiche e spettri: se l’atmosfera di Plutone starà collassando, sarà questa una grande opportunità di osservare in che modo le stagioni cambiano sul lontano pianeta. Sia Plutone che Caronte ruotano (su se stessi e la luna intorno al pianeta) in 6,3872 giorni. Negli ultimi due giorni plutoniani precedenti l’incontro (circa 12 giorni terrestri), il team acquisirà mappe e nuovi spettri di Plutone e Caronte a intervalli di tempo fissati: dal confronto emergeranno eventuali variazioni morfologiche del pianeta, sulla scala di un giorno plutoniano e con una risoluzione spaziale di circa 48 km. Ma la vera fase saliente sarà ovviamente quella del fly-by, e durerà un’intera giornata, da 12 ore prima del massimo avvicinamento a 12 ore dopo. In questo periodo di tempo la sonda analizzerà le emissioni ultraviolette dell’atmosfera di Plutone, e con le sue telecamere realizzerà le migliori mappature complete di Plutone e Caronte nei colori verde, blu, rosso e in una speciale lunghezza d’onda sensibile al metano ghiacciato in superficie. Saranno anche prese mappe spettrali nel vicino infrarosso, per rivelare in maniera precisa la composizione 24 superficiale (ghiacci di azoto, acqua, metano) nonché la posizione e la temperatura di questi ghiacci. La sonda arriverà alla minima distanza di 9600 km da Plutone e 27.000 km da Caronte. Ancora, durante la mezz’ora di massimo avvicinamento ai due corpi, saranno acquisite numerose immagini nel visibile e nel vicino infrarosso. Per dare un’idea, la migliore di queste immagini di Plutone dovrebbe mostrare particolari della sua superficie grandi 60 metri. Ma anche dopo aver superato Plutone e Caronte, il lavoro della New Horizons sarà lungi dall’essere concluso. Infatti, guardando all’indietro verso gli emisferi bui, sarà possibile evidenziare foschie nell’atmosfera ed eventuali anelli, oltre a capire se le superfici siano prevalentemente lisce oppure corrugate. E dal momento che la sonda transiterà nei coni d’ombra dei due corpi, osservando la luce del Sole e captando le onde radio inviate dalle stazioni a Terra sarà possibile avere ulteriori preziose informazioni sulla struttura della tenue atmosfera. Dopo avere definitivamente abbandonato il sistema doppio di Plutone e Caronte, la New Horizons si dirigerà verso un asteroide della fascia di Kuiper. In verità, un possibile candidato per questo incontro non è stato ancora selezionato, ma gli scienziati confidano di trovarne uno o più di uno, con dimensioni di 50-100 km, che la sonda potrebbe esplorare. L’incontro ravvicinato sarà simile a quello con Plutone e Caronte: la navicella effettuerà una mappatura del pianetino, evincerà la sua composizione dalla spettroscopia infrarossa e dalle mappe in quattro colori, e cercherà eventuali tracce di un’atmosfera. 25 OSSERVAZIONI AMATORIALI A causa della sua debole luminosità, che in questi anni si aggira attorno alla magnitudine 14, Plutone richiede un telescopio di almeno 25-30 cm di diametro perché lo si possa scorgere come una stellina al limite della percezione, naturalmente in condizioni osservative eccellenti ed aiutandosi con una mappa fotovisuale della regione di cielo interessata che consenta di individuarlo, con assoluta certezza, in seguito al confronto delle posizioni relative alle stelle di campo osservate in notti diverse. Con strumenti più potenti lo si può vedere meglio, ma sempre come un puntino senza dimensioni, senza alcuna possibilità di risolvere il disco, la cui dimensione angolare apparente è di circa 0,1 secondi d’arco. Il suo satellite Caronte sarebbe pure relativamente facile da vedere con un grosso telescopio (appare circa di magnitudine 17) se non fosse troppo accostato a Plutone, dal momento che la separazione angolare tra i due corpi è al massimo di 0,9 secondi d’arco e si mantiene tale per meno di 12 ore prima e dopo la massima elongazione nord o sud. Questo spiega perché Caronte non venne scoperto da Kuiper con il riflettore di 5 metri di Monte Palomar, nonostante che la magnitudine limite raggiungibile da quel telescopio fosse ben superiore alla diciassettesima. In pratica l’osservazione diretta di Plutone risulta assai difficoltosa per gli astrofili e i semplici appassionati, poiché richiede strumenti di grande apertura che normalmente non sono alla loro portata, e in ogni caso essa resta molto deludente per l’impossibilità di distinguere la natura planetaria del corpo celeste. Risultati di importanza scientifica possono essere ottenuti solo con telescopi professionali di grande diametro, tuttavia non bisogna dimenticare che dalla sua scoperta Plutone ha finora percorso solo poco più di 1/4 della sua orbita, la quale perciò non è ancora conosciuta con assoluta precisione. Inoltre, con strumenti di piccolo diametro (superiore però ai 10 cm) è possibile determinare la variazione fotometrica del pianeta, che ha un periodo fisso di 6,3872 giorni e un’ampiezza di circa 0,4 magnitudini (dato del 1998) variabile nel corso degli anni. Di qui la necessità di misurazioni astrometriche e fotometriche, che, eseguite secondo rigorose procedure fotografiche o con camere CCD, sarebbero di sicuro interesse per contribuire a migliorare ulteriormente la conoscenza dei parametri orbitali e fisici. Un CCD rende accessibile il pianeta anche a un telescopio di 8 cm di apertura con una posa di qualche decina di secondi, mentre con un telescopio di almeno 20 cm (in realtà meglio se di 30 cm) e un’esposizione di pochi minuti si possono immortalare sia Plutone che Caronte: quest’ultimo, alla massima elongazione nord o sud, apparirà come una piccola protuberanza del pianeta. Allo scopo si dovrà riprendere Plutone con un rapporto focale superiore a f/30-60, a seconda delle dimensioni dei pixel (10-20 micrometri rispettivamente). Infatti la distanza massima tra i due corpi è di 0",9 e con un potere separatore migliore di 0",4 e un ottimo seeing si può sperare di mettere in evidenza almeno un’ovalizzazione nell’immagine del pianeta. Rimanendo in ambito fotografico, in considerazione dell’apparenza del tutto stellare di Plutone, i metodi per fotografarlo sono analoghi a quelli utilizzati per le stelle. Considerando la sua debole luminosità, è consigliabile riprendere il pianeta durante il passaggio in meridiano e comunque quando culmina nel punto più alto sull’orizzonte. In linea di massima con uno strumento di 15 cm di diametro aperto a f/8 occorre una posa nell’ordine dei 10 minuti per averne un’immagine, purché la pellicola sia molto sensibile e la guida effettuata correttamente. Piccole sfocature o errori di inseguimento portano facilmente a un raddoppio del tempo indicato, senza contare che l’altezza del pianeta sull’orizzonte e la trasparenza del cielo possono pure influire sensibilmente sul tempo di posa: conviene fotografare solo se nella zona interessata è possibile scorgere ad occhio nudo stelle di 5a magnitudine. A causa del moto molto lento tra le stelle, Plutone può essere fotografato come oggetto puntiforme anche con lunghe pose (alcune ore) con medie focali telescopiche (da uno a tre metri); servendosi di focali molto lunghe, riscontrabili in diversi strumenti professionali, in alcuni periodi il moto del pianeta diventa chiaramente visibile (con pose da un’ora in su e focali di oltre 26 cinque metri). Questo non è dovuto solamente al moto vero e proprio di Plutone (che mediamente è di 14,3 secondi d’arco al giorno), ma al moto combinato della Terra, che, durante l’opposizione, lo fa apparire spostarsi di circa 90" al giorno tra le stelle, cioè quasi 4" all’ora. Per i dilettanti che dispongono di telescopi di corta focale, fotografare Plutone rappresenta essenzialmente una soddisfazione personale, ma come si è detto in precedenza uno dei principali motivi per la fotografia del pianeta è l’esatta conoscenza della sua orbita, donde la necessità di ottenere un’immagine molto puntiforme con una lunga focale. È bene pertanto ricordare che conviene eseguire la posa – o meglio le pose – con una durata appena sufficiente ad ottenerne le immagini; in tal modo queste risulteranno più puntiformi. Pose ripetute in sere consecutive mostreranno, oltre al moto apparente sullo sfondo delle stelle, la variazione di luminosità del pianeta, che ruota in 6,3872 giorni ed ha alcune macchie scure sulla superficie. Un incoraggiamento alla fotografia di Plutone deriva inoltre dal fatto che esso si trova ancora in una parte della sua orbita relativamente vicina al Sole, e la luminosità è maggiore di circa due magnitudini rispetto a quella che avrebbe all’afelio: poco prima del passaggio al perielio, nella primavera del 1989, il pianeta, che si trovava a nord dell’eclittica, raggiunse la luminosità massima corrispondente alla magnitudine 13,6, una circostanza che si rivelò piuttosto vantaggiosa per gli osservatori situati nell’emisfero boreale. 27 PARAMETRI ORBITALI E FISICI DI PLUTONE Scopritore Data della scoperta Massa (kg) Massa (Terra = 1) Raggio equatoriale (km) Raggio equatoriale (Terra = 1) Densità media (g/cm3) Distanza media dal Sole (km) Distanza media dal Sole (Terra = 1) Periodo di rotazione (giorni) Periodo orbitale (anni) Velocità orbitale media (km/s) Eccentricità orbitale Inclinazione dell’asse di rotazione (gradi) Inclinazione dell’orbita (gradi) Accelerazione di gravità all’equatore (m/s2) Velocità di fuga all’equatore (km/s) Albedo di Bond Albedo visuale geometrica Magnitudine visuale apparente media Temperatura di corpo nero (K) Composizione dell’atmosfera Clyde W. Tombaugh 18 febbraio 1930 1,29×1022 0,0021595 1137 0,18188 2,05 5.913.520.000 39,52944 –6,3872 248,54 4,74 0,2482 122,52 17,148 0,4 1,22 0,145 0,3 15,12 42,7 Azoto, Monossido di carbonio, Metano PARAMETRI ORBITALI E FISICI DI CARONTE Scopritore Anno della scoperta Massa (kg) Massa (Terra = 1) Raggio equatoriale (km) Raggio equatoriale (Terra = 1) Densità media (g/cm3) Distanza media da Plutone (km) Periodo di rotazione (giorni) Periodo orbitale (giorni) Velocità orbitale media (km/s) Eccentricità orbitale Inclinazione dell’orbita (gradi) Velocità di fuga all’equatore (km/s) Albedo di Bond Albedo visuale geometrica Magnitudine visuale apparente James W. Christy 1978 1,77×1021 0,00029630 635 0,099561 1,83 19.640 6,38725 6,38725 0,23 0,00 98,80 0,610 0,375 0,5 16,8 28 Bibliografia Libri: • AA.VV.: Enciclopedia a fascicoli Astronomia - alla scoperta del cielo, ed. Curcio, Roma 1986, • • • • • vol. 1, pagg. 42, 68, 71, 73, 74, 75; AA.VV.: Enciclopedia a schede Astronomia - dalla Terra ai confini dell’Universo, ed. Fabbri, Milano 1991 (Il cielo nella storia, pagg. 315-316; Sistema Solare, pagg. 29-30, 251-252, 313314, 327-328, 335-336; Strumenti e metodi, pagg. 127-128, 143-144); Grande Dizionario Enciclopedico UTET, quarta edizione, ed. UTET, Torino 1990, vol. XVI, pag. 162; Patrick Moore: Il guinness dell’astronomia, ed. Rizzoli, Milano 1990; Alessandro Braccesi, Giovanni Caprara, Margherita Hack: Alla scoperta del Sistema Solare, ed. Mondadori, Milano 1993; Marco Falorni, Paolo Tanga: Osservare i pianeti, manuale della sezione Pianeti dell’UAI, ed. Biroma, Galliera Veneta (PD) 1994. Articoli: • Paolo Farinella, Cesare Guaita: “Plutone e Caronte, nascondersi per scoprirsi”, l’Astronomia n.87 aprile 1989, pagg. 4-19; • Corrado Lamberti: “Plutone: atmosfera pesante”, l’Astronomia n.96 febbraio 1990, pagg. 73-74; • Patrizia Caraveo: “Il pianeta doppio ‘risolto’”, l’Astronomia n.105 dicembre 1990, pagg. 70-71; • Clyde W. Tombaugh: “La ricerca del pianeta trans-nettuniano”, articolo in due parti da Nuovo Orione n.2 luglio 1992 e n.3 agosto 1992; • Corrado Lamberti: “La faccia di Plutone”, l’Astronomia n.126 novembre 1992, pagg. 69-70; • Mirco Elena: “Ghiaccio di azoto scoperto su Plutone”, Astronomia UAI n.3 settembre/ottobre • • • • • • • • • • 1993, pag. 35; Corrado Lamberti: “I misteri di Plutone”, l’Astronomia n.139 gennaio 1994, pagg. 10-11; Mario Di Martino: “L’orbita enigmatica di Plutone”, l’Astronomia n.150 gennaio 1995, pag. 13; Carlo Blanco: “Plutone oggi”, Nuovo Orione n.35 aprile 1995, pagg. 44-47; Cesare Guaita: “Voyager 3”, l’Astronomia n.155 giugno 1995, pagg. 33-34; Mario Di Martino: “Plutone mostra il suo volto”, l’Astronomia n.167 luglio 1996, pagg. 9-11; Walter Ferreri: “Plutone”, Nuovo Orione n.74 luglio 1998, pagg. 38-41; Mario Di Martino: “La strana orbita di Plutone”, l’Astronomia n.191 ottobre 1998, pag. 18; Mario Di Martino: “Plutone e Caronte tanto vicini e tanto diversi”, l’Astronomia n.209 maggio 2000, pagg. 14-15; Mario Di Martino: “Salvare la Pluto-Kuiper Express”, l’Astronomia n.215 dicembre 2000, pagg. 26-35; Cesare Guaita: “Vulcani attivi sul gelido Plutone?”, Nuovo Orione n.129 febbraio 2003, pagg. 42-47. 29