BIBLOS TELLER Volume 2 - Dicembre 2009 a cura di Giuseppe Di Grande LE STELLE Tutti i diritti dei racconti di questa raccolta appartengono ai rispettivi autori INDICE PRESENTAZIONE .................................................................. 3 SONO GLI ANGELI CHE VEGLIANO SU DI NOI... di Fernanda Flamigni ........................................................................ 5 UNA VITA TRA LE STELLE di Maurizio Luminoso ...... 25 L'ANIMA DELLE STELLE di Paola Pocaterra ............... 39 L'UOMO CHE PARLAVA ALLE STELLE di Daniele Clozza49 LA VIGILIA di Mena Mascia. ............................................. 61 LA STELLA CADENTE di Silvia Peroni ............................ 76 IL PRIMO UOMO NELLO SPAZIO di Pier Luigi Giacomoni 89 IL CASTELLO FATATO di Mariangela Zaccone ......... 103 ADDIO TERRA di Giuseppe Di Grande .......................... 117 PRESENTAZIONE Eccoci finalmente di ritorno col secondo volume di Biblos Teller, la raccolta di racconti di noi autori in fasce. L'idea di posticipare l'uscita della raccolta, via via che si avvicinava la scadenza limite per inviarmi un proprio racconto (fine settembre), iniziava sempre più a delinearsi. La "preoccupazione" di non farcela a raggiungere quel limite minimo di dieci racconti entro settembre lentamente sbiadiva, e in me iniziava a nascere la certezza che, per questa volta, nelle rotative immaginarie della nostra tipografia virtuale, di racconti ne sarebbero andati in stampa solo nove. Però tra me e me sorridevo, come un pubblicitario di quart'ordine. Perché? Provate a prendere un foglietto a quadretti. Sì, proprio quello per la matematica di scuola elementare. In colonna scrivete i due addendi. Il primo è il tema di questa raccolta, il secondo è il periodo in cui siamo. Tracciate ora la linea di addizione ed effettuate accuratamente la somma. Esatto, il risultato è "un sorriso". Il tema di questo secondo volume è "Le stelle". Alcuni autori della precedente raccolta hanno ripetuto l'esperienza partecipando anche a questa e nuovi autori si sono aggiunti alla compagnia. Spero che, anche questa volta, voi lettori rimaniate affascinati dalla creatività di ognuno di noi e che non siate troppo critici di ciò che osiamo proporvi. Alcuni racconti sono carichi di tristezza e emozioni, altri più sinceri e rilassati. Il comune denominatore di ognuno è l'originalità. L'appuntamento è per il prossimo volume di Biblos Teller. Vi auguriamo una buona lettura e serene festività. Giuseppe Di Grande 1 SONO GLI ANGELI CHE VEGLIANO SU DI NOI... Da quando riusciva a ricordare, Giacomo aveva sempre trascorso le sue estati a casa dei nonni, giù in Puglia,in un piccolo paesino sulla costa ionica che era il paese natio di papà. Ogni anno, quando finiva la scuola, riempiva uno zainetto di giochi e giornalini, mentre la mamma preparava un paio di valigie di vestiti e costumi da mare, poi montavano tutti e tre in macchina ed affrontavano, con una certa trepidazione, il lungo viaggio che li avrebbe portati dai nonni. Mamma e papà si fermavano lì solo due settimane, poi dovevano tornare a casa per riprendere il lavoro, mentre Giacomo rimaneva al mare, coi nonni, gli zii ed i cugini. I tre mesi estivi che trascorreva in quel piccolo borgo per lui erano come un salto in una dimensione parallela: niente videogiochi, niente giri interminabili in auto, alla disperata ricerca di un parcheggio con l'ansia di far tardi agli allenamenti di pallavolo, niente vicini di casa che si lamentavano perchè faceva troppo rumore quando si tuffava dietro al divano, per evitare i colpi mortali del suo nemico invisibile. A casa dei nonni era libero di giocare alla guerra quanto voleva: c'era un intero giardino, che a Giacomo pareva un parco enorme, in cui nascondersi e tendere le sue imboscate; l'importante era non entrare nell'orto. Quando era in Puglia, cambiava addirittura il suo nome e tutti lo chiamavano "Mino". E poi... poteva camminare da solo per strada! Da solo andava al bar a comprarsi un gelato per merenda, raggiungeva i cugini al campo di calcio del piccolo oratorio o, insieme aquesti ultimi, andava in spiaggia sino a sera. A Giacomo non pareva vero di poter godere di tanta libertà: in quei tre mesi, si sentiva come uno dei "grandi". Spesso il nonno si faceva aiutare nei lavori dell'orto: c'era da potare una vite, da raccogliere i pomodori o da legare le piante di fagiolini e mentre lavoravano, gli raccontava le storie del paese con tanto amore e tanta arte da rapire completamente la sua immaginazione. Il nonno gli aveva raccontato che quello era un antico borgo di pescatori, che lavoravano duro, ma sapevano anche godersi la vita in maniera semplice e genuina, mica come i giovani d'oggi che si vanno a schiantare con l'auto contro i platani, 'mbatuesciuti di musica rimbombante e di intrugli velenosi. Giacomo pendeva dalle labbra delvecchio , affascinato da quel suo italiano un po' stentato che spesso abdicava alla forza dirompente delle espressioni dialettali. Ora quel borgo appariva più come il carapace avvizzito di una cicala di mare... quelle stesse cicale di mare che, quand'era giovane, il nonno catturava nelle sue nasse, per poi vendere al mercato, insieme agli altri frutti delle sue notti trascorse in barca alla luce delle lampare. I giovani se n'erano andati quasi tutti, convinti di poter trovare una vita migliore in città, dove ci si muoveva in auto o metropolitana, dove la spesa si faceva agli ipermercati e la sera si poteva andare al cinema, in pizzeria o in discoteca. Questo era esattamente ciò che aveva fatto anche il papà di Giacomo una volta terminate le scuole superiori. Si era trasferito a Firenze per studiare architettura, sognando di costruire opere d'arte che avrebbero tolto il fiato agli spettatori, lasciando un segno indelebile nella loro anima, come Frank Lloyyd Wright l'aveva lasciato nella sua. Nonostante tutto, quella volta il vecchio si era sentito orgoglioso del figlio e delle sue ambizioni ed i sacrifici sopportati per pagargli gli studi in una città tanto lontana erano stati alleggeriti dagli ottimi voti e dall'entusiasmo che quel giovane sognatore sprizzava da ogni poro. Papà non aveva solo studiato a Firenze. Dal secondo anno di Università, aveva anche trovato un lavoretto part-time in uno studio di architettura, in qualità di "vice aiuto segretario del segretario", come lui stesso amava definirsi. Il suo compito, in pratica, era quello di passare interi pomeriggi negli uffici catastali, fra planimetrie e schedari polverosi, alla ricerca dei dati necessari per questo o quel progetto. Non era un impiego granche' gratificante, è vero, ma nel corso degli anni aveva comunque avuto due risvolti positivi: per prima cosa gli aveva permesso di accantonare qualche risparmio e, quindi, di farsi, come regalo di laurea, un viaggio negli Stati Uniti fra Illinois e Michigan, alla ricerca delle opere del suo eroe LoydWright; in secondo luogo, gli aveva fatto conoscere la mamma, che all'epoca studiava per diventare archivista e svolgeva il suo praticantato proprio in quegli uffici. Ogni mattina Giacomo accompagnava il nonno al mercato, per la spesa della giornata. Se l'avessero visto i suoi amici di Firenze, l'avrebbero sicuramente preso in giro da qui all'eternità chiamandolo "Giacomina" e chiedendogli consigli sul tegame più giusto per questa o quella pietanza. "Questa è una fatica da iuommine - gli aveva spiegato il nonno c'è da controllare che il pesce sia fresco davvero, che la carne sia buona... le femmine si lasciano mbernacchia' troppo facilmente: basta fargli qualche moina e non ragionano più... lo so perchè l'aggio fatto pure io quando vendevo il mio pesce... come farei a vendere un pesce vecchio a 'na signo' con due occhi come i suoi?...- aveva mimato - quella non ha scampo: le vendi quel che vuoi!" Nel vedere quella pantomima Giacomo era scoppiato a ridere ed aveva dimenticato i commenti che, nella sua testa, sentiva proferire dagli amici. Aveva fatto il giro delle bancarelle, a fianco al nonno, ammirando la perizia e la serietà con cui sceglieva i prodotti da portare a casa perchè la nonna ne ricavasse dei pasti gustosi e nutrienti per la giornata ed aveva sorriso quando aveva sentito Nino, il macellaio, dire alla vecchia maestra del paese "Signorina Gatti, Le pare che io pozza 'mvruggia' la mia maestra preferita?". Un giorno, mentre tornavano a casa con una sporta di cozze che la nonna avrebbe fatto gratinare in forno, , Giacomo si era bloccato davanti ad un uscio aperto, drappeggiato con pesanti tende viola. Non capiva... anche il nonno aveva visto la porta aperta, ma non aveva avuto nessuna reazione: lui sarebbe corso a chiamare la polizia per denunciare un furto con scasso... Vedendolo perplesso, dopo averlo trascinato avanti per una ventina di metri, il nonno gli si era accuciato vicino ed aveva spiegato: "Ieri sera è morta la moglie di Vanni Ricci. Quelle tende viola che hai visto sono il segno che la casa è stata colpita da un lutto..." "E perchè tengono la porta aperta?" aveva chiesto Giacomo, ancora insoddisfatto della spiegazione. "Per permettere al paese di omaggiare la defunta, prima della tumulazione. Tua nonna ed io andremo oggi pomeriggio, mentre tu sei al mare con zia Lucia." Per il piccolo Giacomo, fiorentino di otto anni, la faccenda risultava totalmente incomprensibile. Tuttavia, non aveva chiesto ulteriori delucidazioni, rallegrandosi, in cuor suo, di essere esentato da quel macabro rito. Zia Lucia era la sorella di papà ed era la nuova maestra del paese, quella che aveva preso il posto della signorina Gatti quando questa era andata in pensione. Era con lei che, al ritorno dal mercato, Giacomo faceva i compiti per l'estate: la zia lo sistemava, insieme ai cugini Vito e Giuseppe , al tavolo di cucina, trasformando quell'ampia stanza in un'allegra e colorata aula scolastica per l'ora che seguiva. Aveva un fisico minuto e proporzionato, con un'aria un po'nodosa che a Giacomo ricordava gli alberi di fico che stavano nell'orto del nonno. La nonna gli aveva detto che, essendo nata il 13 dicembre, la zia era stata battezzata col nome della santa di quel giorno, Lucia appunto, protettrice degli occhi e della vista. Era evidente, pensava Giacomo, che la santa si era profondamente commossa per questo omaggio perchè aveva donato alla zia due grandi occhi neri che sfavillavano di vita e di allegria: era impossibile non rimanerne incantati. I pomeriggi trascorrevano in spiaggia coi cugini, a costruire castelli di sabbia o piste per le biglie, o a cercare arselle che la zia avrebbe poi utilizzato per condire gli spaghetti della sera. Giacomo ed i suoi cugini partivano per il mare subito dopopranzo mentre la zia li raggiungeva verso le quattro, dopo la pennichella, portandosi dietro un paio di bottiglie di orzata ed un panzerotto a testa per la merenda. Quando non aveva avuto tempo di preparare i panzerotti, la zia gli comprava le pimpinelle che giovani venditori ambulanti, dal corpo bruciato dal sole, vendevano in spiaggia, sfilandole dai profondi secchi bianchi in cui le conservavano inframezzate da foglie di vite. Ogni volta che Giacomo ripensava alle sue estati pugliesi, sentiva l'odore di quell'orzata ed il sapore di quel formaggio dalla pasta molle e fresca che ricordava vagamente lo stracchino. La cosa che più amava, però, erano le sere, quando, in tutto il paese, ognuno si prendeva una sedia e se la posizionava sul marciapiede, davanti all'uscio di casa. Le strade si trasformavano, così, in salotti a cielo aperto e si chiacchierava da un marciapiede all'altro. Qualcuno sorseggiava l'ennesima orzata, qualcun altro rosicchiava lupini, e le donne avevano sempre le mani impegnate con qualche rammendo, lavoro a maglia o all'uncinetto. In quelle serate, Giacomo si sedeva su un panchetto, vicino al nonno, ad osservare le stelle: com'erano belle viste da lì. A casa sua, a Firenze, per quanto tenesse sotto osservazione il cielo ogni sera, non era mai riuscito a vederle altrettanto luminose. Il nonno gli aveva spiegato che era colpa dei lampioni della città che disturbavano la visuale, perchè schiarivano troppo il cielo. A questa spiegazione Giacomo rimaneva sempre un po' dubbioso, non capendo come fosse possibile per un lampione tanto basso schiarire un cielo tanto alto. Ma la perplessità durava ben poco e la sua attenzione tornava subito a quello spettacolo di diamanti e velluto che si ripeteva ogni sera, sempre uguale e mai lo stesso. Ogni tanto passava una stella cadente nella cui scia rimaneva intrappolata la sua fantasia di bambino. La nonna gli aveva raccontato che quelli erano gli angeli che vegliavano su tutti loro, affinchè le loro giornate risultassero fruttuose e le notti riposanti. Sì, c'erano anche di giorno, ma era solo di notte che si lasciavano vedere così chiaramente. "La vedi l'Orsa?" gli chiedeva il nonno. E Giacomo cercava la sagoma di quello che a lui pareva più un ramaiolo che un'orsa, già sapendo che il nonno gli avrebbe poi chiesto di individuare la Stella Polare. "Ogni uomo di mare deve saper trovare la Stella Polare" gli diceva. A mano a mano che Giacomo cresceva, durante le serate estive trascorse sul marciapiede, il nonno gli insegnava a leggere il cielo e le stelle, come si conviene ad un bravo pescatore, e più lui insegnava e più Giacomo chiedeva di sapere. Quando, in seconda media, era arrivato un nuovo compagno di classe, Giacomo se l'era ritrovato in banco con lui. Si chiamava Andrea e veniva da Augusta, anche se il suo accento nulla aveva a che vedere col siciliano. Il primo giorno di scuola, Andrea aveva sfilato dalla cartella un'agenda dalla copertina di pelle blu scuro, che adoperava come diario. Le pagine centrali avevano catturato l'attenzione di Giacomo: la carta era dello stesso blu scuro della copertina ed aveva uno spessore diverso dalle altre pagine. Finalmente dopo un primo mese di circospetta analisi del nuovo arrivato, aveva deciso che Andrea era un tipo a posto ed avrebbero potuto diventare buoni amici e così si era deciso a chiedere il permesso di sfogliare l'agenda e vedere quelle pagine. Andrea gli aveva allungato il tomo, spiegando che si trattava di un'agenda dell'Accademia Navale, il posto dove lavorava il suo papà, e che quelle centrali erano le pagine in cui erano segnate le costellazioni, così come si vedono dal mare. Gli occhi di Giacomo si eranospalancati di meraviglia, nell'aprire l'agenda: su quella carta patinata aveva ritrovato la luce, la profondità, la grazia ed il mistero del cielo del nonno. Aveva accarezzato quelle pagine prima con gli occhi, poi con le mani ed era riuscito a trovare il coraggio di chiedere al suo compagno se, una volta terminato l'anno scolastico, quando non avrebbe più avuto bisogno di quell'agenda, poteva regalargliela. "Certo" aveva risposto senza esitazione Andrea, colpito dal fascino che le stelle avevano sul compagno. Il lunedì successivo, mentre stavano sistemando sul banco astucci e diari per l'inizio delle lezioni, Andrea aveva sfilato dalla cartella una seconda agenda e l'aveva posizionata davanti a Giacomo: "L'altro giorno ho chiesto al babbo se me ne poteva procurare una anche per te, visto che ti piaceva tanto... - gli aveva spiegato - però ho dovuto aspettare sabato, quando lui arriva da Livorno. Sai, lui lavora lì e siccome la Marina può dare un alloggio solo a lui e non per tutta la famiglia e non abbiamo trovato un appartamento per noi, il babbo e la mamma hanno deciso che era meglio se io, Federica e mamma venivamo a Firenze, dove una casa ce l'abbiamo già. E così, vedo il babbo solo il fine settimana." In quello stesso istante Andrea era stato ufficialmente nominato "miglior amico in assoluto". Giacomo e Andrea erano riusciti a rimanere non solo compagni di scuola ma addirittura compagni di banco anche alle superiori. Avevano scelto entrambi il liceo scientifico: Giacomo perchè sognava di diventare astronauta, Andrea perchè voleva studiare gli abissi marini, come biologo. Una volta, mentre ammirava le conchiglie ed i coralli della collezione del suo amico, Giacomo era scoppiato a ridere, folgorato da un pensiero: "Beh, alla resa dei conti le stelle interessano anche te!", aveva sghignazzato, ed aveva estratto dalla teca una grossa stella marina dal colore rossocupo. Erano diventati inseparabili: insieme erano andati a visitare l'osservatorio astrofisico di Arcetri, dalla cui biblioteca Giacomo non sarebbe più uscito, e qualche anno più tardi, sempre insieme, avevano preso il treno per raggiungere Genova e visitarne l'acquario. Andrea era il fratello che Giacomo non aveva mai avuto. Quando era piccolo aveva spesso chiesto alla mamma di poter avere un fratellino, ma la mamma gli aveva spiegato che, quando era nato lui, lei era stata molto male ed il dottore aveva dovuto operarla per toglierle un pezzo del suo corpo, un organo di cui lui non era riuscito ad imparare il nome, ma senza il quale non era possibile fare i bambini. Di amici, certo, ne aveva sia a scuola che nella squadra di pallavolo, ma nessuno era come Andrea: con lui si sentiva libero di parlare di qualunque cosa, persino delle sue estati in Puglia e della spesa al mercato, in compagnia del nonno, senza timore di essere giudicato o preso in giro. Se proprio doveva trovare un difetto all'amico, quello era sua sorella. Federica aveva tre anni meno di loro e doveva essersi invaghita di Giacomo, per cui, quando erano a casa di Andrea, non gli dava un attimo di tregua. Non era nè brutta nè antipatica, ma era una femmina un po' troppo impicciona, che non gli permetteva di parlare delle loro faccende senza interrompere continuamente per chiedere spiegazioni o dettagli che, in fondo, nemmeno la riguardavano. Per fortuna, quando aveva cominciato le medie, Federica aveva trovato qualcun altro di cui innamorarsi ed i due amici avevano ritrovato la loro libertà. Anche da ragazzo, Giacomo aveva continuato a trascorrere le sue estati in Puglia, benchè non si fermasse più per l'intera durata delle vacanze. Rimaneva un mesetto e poi, a volte tornava in Toscana, sull'Appennino Tosco-Emiliano , dove l'amico di sempre lo invitava a trascorrere qualche settimana nella cascina dei nonni; altre volte, ormai raggiunta la maggiore età, insieme ad Andrea ed alle fidanzate del momento, caricavano zaini e tende sul portapacchi della Panda ricevuta in regalo dopo la maturità, e tutti insieme s'imbarcavano per l'Isola d'Elba, dove avevano trovato un piccolo campeggio, senza pretese ma ben tenuto e decisamente economico. Nonostante il passare degli anni, i rituali che caratterizzavano i soggiorni pugliesi non erano cambiati di una virgola: ogni mattina, Giacomo accompagnava il nonno al mercato, e lì veniva regolarmente interrogato sulla qualità di questa orata o di quelle mazzancolle. Al ritorno, c'era sempre qualche lavoretto da fare nell'orto: il nonno faceva, ormai, fatica a piegarsi per raccogliere la rucola o ad arrampicarsi sulla scala per raggiungere i frutti dei rami più alti. Giacomo, allora, indossava la sua tenuta da vecchio contadino e, canestri alla mano, estraeva i ravanelli dalla terra, tagliava la cicoria e si arrampicava a raccogliere l'uva ed i fichi. Spesso, poi, si sedeva insieme al nonno, all'ombra della vite, a parlare delle ultime notizie di paese, mentre facevano merenda semplicemente posando un fico su di una fetta di pane che poi veniva ripiegata su se stessa, prima di essere golosamente addentata. Il pomeriggio, dopo la pennichella, che ora faceva pure lui, si concedeva lunghe passeggiate sulla battigia, solitamente in compagnia di Vito. Giuseppe non c'era quasi mai: aveva trovato Locorotondo, lavoro i cui in una grossa bianchi secchi azienda e vinicola profumati di ora commercializzava, pur essendo astemio. Le serate sul marciapiede non avevano perso il loro fascino. Il panchetto a fianco del nonno era stato sostituito da una vera e propria sedia, ma l'orzata era sempre lì, fresca e profumata di mandorle, le bucce di lupini continuavano a riempire le ciotole posate a terra e le stelle continuavano a risplendere come occhi commossi alla vista di tanta armonia. Ora che aveva cominciato a studiare un po' di astronomia, era Giacomo a raccontare le stelle al nonno: "Lo sapevi, nonno, che la costellazione dei Gemelli prende il suo nome dal mito di Castore e Polluce?" Il vecchio si era girato a guardare il nipote con occhi inquisitori. "Sì. Secondo la mitologia greca, Castore e Polluce erano due gemelli, figli di Zeus e Lea. La mitologia narra tante cose su di loro... Polluce era un pugile imbattibile, mentre Castore era un bravissimo domatore. Insieme avevano partecipato alla ricerca del Vello d'oro, con gli altri argonauti... insomma, dato il loro coraggio e la loro intraprendenza, dopo la morte terrena Zeus gli concesse di continuare a vivere in cielo, sotto forma di costellazione..." Nell'udire queste storie, il nonno sorrideva, vagamente sconsolato all'idea che il genere umano sentisse sempre il bisogno di attribuire connotazioni umane o perlomeno terrene a tutto ciò che incontrava, persino a quei misteri luminosi di lassù, il cui scopo, in fondo, era solo di indicare la via di casa a chi non disponeva di strade asfaltate o segnali stradali. Nonostante queste considerazioni, era bello sentire il fervore con cui il nipote narrava le storie che gli uomini avevano attribuito, e ancora attribuivano, alle stelle. Giacomo era un bravo uagnone, studiava per diventare astronauta e teneva pure una bella zita, che studiava pisicologia e che avrebbe maritato , una volta finiti gli studi. Mino gliel'aveva fatta conoscere un'estate, quando, invece di tornare all'Isola d'Elba, lui ed Andrea avevano caricato gli zaini nel portabagagli della Polo, che aveva preso il posto della Panda, ed avevano puntato verso un campeggio a Santa Mmaria di Leuca, con tappa al paese per salutare i nonni. Sì, Ester sarebbe stata una brava mugliera per lui. Mino diceva che il loro amore era segnato dal destino, dal momento che il nome della ragazza significava stella e, guardando quella uagnetta , il nonno aveva commentato fra sè e sè che mai nome era stato più azzeccato. Una mattina di Maggio il nonno non si era più svegliato. Quel giorno, mentre nel suo ufficio all'Agenzia Italiana per lo Spazio Giacomo stava esaminando i risultati degli ultimi studi, il telefono sulla scrivania aveva squillato, scuotendolo dalle sue elucubrazioni , ed all'altro capo si era sentita la voce di papà che, più stanca del solito, gli annunciava la morte del nonno. Senza pensarci due volte, Giacomo aveva convinto i genitori a raggiungerlo a Roma, da dove lui e papà sarebbero ripartiti l'indomani per la Puglia. La mamma sarebbe rimasta a fare compagnia ad Ester e ad aiutarla con la piccola Agata che, beatamente addormentata nella sua minuscola culla divimini, non aveva fatto una piega al bacio che lui le aveva dato prima di partire. Ora Giacomo si trovava in auto, , a metà strada fra Potenza e Taranto, e ripensava alle corse in spiaggia, al mercato del pesce, alle pimpinelle ed alle serate sul marciapiede, mentre suo padre, seduto a fianco a lui, guardava distrattamente il paesaggio, probabilmente assorto nei medesimi pensieri. Giunsero in paese alle sei di sera e furono accolti da Vito e Marcella che, attorniati dai loro tre figli li misero al corrente della situazione: il nonno era morto nel sonno, senza preavvisi, senza clamori, con quella naturalezza che aveva sempre contraddistinto la sua vita. La nonna aveva reagito bene. Certo, le sarebbe mancato l'uomo con cui aveva diviso sessant'anni della sua vita, ma era una donna forte e nessuno nutriva alcun dubbio sulle sue capacità di superare il dolore di quella perdita. Comunque c'era zia Lucia che ormai era in pensione e non l'avrebbe lasciata sola un minuto. Il gruppetto s'incamminò, quindi, per le viuzze interne del paese e raggiunse la casa dei nonni. Nel vedere la porta aperta ed i drappi viola ad incorniciarla, Giacomo ebbe un sussulto: per un istante tornò a quando aveva otto anni e, per la prima volta, aveva assistito a quel muto annuncio mortuario. Entrò in casa con un tale senso di pesantezza nel cuore che persino i piedi faticavano a staccarsi dal suolo per avanzare lungo il corridoio e raggiungere la camera da letto. Il primo ad entrare fu suo padre, il quale si precipitò ad abbracciare la nonna, senza spargere una lacrima nè dire una parola, ma col viso stravolto dall'emozione. Lui, Giacomo, faticò non poco a varcare quella soglia e dovette farsi violenza per alzare gli occhi da terra e posarli sul corpo adagiato sul letto. Quando, finalmente, ci riuscì, la tensione lo abbandonò di colpo: nonostante il grigiore della morte, il nonno aveva un'espressione talmente serena che era impossibile piangere al suo cospetto. Le profonde rughe che avevano sempre incorniciato la bocca, lo facevano apparire sorridente dandogli un'espressione quasi fanciullesca, malandrina. Le larghe mani callose, liberate dalle continue lotte contro gli strattoni dei pesci e della vita, potevano finalmente riposare appoggiate al petto, in uno spensierato quanto inconsueto atteggiamento di ozio. Terminati i convenevoli di rito, Giacomo lasciò papà con la nonna ed uscì in strada. Ormai il cielo era buio. Si prese il panchetto di quando era bambino e vi si sedette goffamente sopra, le gambe piegate in due e le ginocchia all'altezza delle spalle, quasi fosse un grillo pronto a spiccare un balzo. Alzò lo sguardo ad osservare il cielo stellato, come aveva fatto per più di trent'anni. In quel momento passò una stella cadente... "Sono gli angeli che vegliano su di noi..." udì la voce della nonna riecheggiare nella sua memoria. Sorrise e, lasciando che una lacrima gli rotolasse lungo la guancia, salutò il nonno, la cui scia ora era già svanita, ma sarebbe tornata ancora ed ancora nei cieli di quelle estati pugliesi. Fernanda Flamigni 2 UNA VITA TRA LE STELLE «Era una notte stellata quando nacqui, col cielo così terso, che le stelle sembravano potersi toccare per mano: così mi è stato perlomeno sempre ripetuto, non certo perché me lo ricordi. E le stelle da allora sono state il mio presagio ed il mio destino. Già sin dalla più tenera età la mia vita era indissolubilmente connessa con quel cielo stellato, che, con i suoi baluginii scintillanti e quegli immensi spazi bui, ad un tempo mi affascinava e mi intimoriva: cos'erano quelle luci? che ci facevano lassù? perché, poi, non riuscivano a rischiarare il buio intorno? Erano in siffatta guisa i miei interrogativi di bimbo curioso che si affacciava a misteri più grandi di lui. Nei miei ricordi più belli d'infanzia rivedo mio nonno che mi mostra il cielo notturno e mi spiega i disegni che vi decifrava, indicandomi le stelle più scintillanti chiamandole per nome, quasi che fossero persone che mi presentava affettuosamente. Sì, mi sembra di sentire ancora la sua voce di quando mi narrava la leggenda della chioma di Berenice, la lacrimevole fiaba delle Pleiadi piovose o il felice epilogo dell'avventura di Andromeda, figlia di Cefeo, che, offerta in sacrificio alla Balena, veniva salvata dall'eroico Perseo che arrivava in sella a Pegaso. Ah, come sapeva raccontare meravigliosamente tutte quelle storie, lasciandomi completamente conquistato: in tal modo le ore serali passavano senza che me ne accorgessi, legando tuttavia sempre più il mio cuore al cielo lassù… Al contrario di mio nonno, mio padre era invece una persona più pragmatica e realistica, abbastanza schiva ai voli di fantasia con cui mi dilettava il nonno, eppure anche lui, senza rendersene conto, era legato al cielo. Non lo vedevo quasi mai perché il suo lavoro gli assorbiva tutto il tempo, ma nei fine settimana o durante le ferie, praticava due hobby che sembravano quasi ringiovanirlo, sgretolando quella maschera burbera e seria che si era costruito per sopravvivere al logorio quotidiano: la pesca ed il giardinaggio. Rammento l'entusiasmo con cui mi portava in barca per la pesca col bolentino o quella subacquea, la felicità con cui mostrava ciò che aveva pescato o l'infinita pazienza con cui piantava bulbi o potava le piante, orgoglioso poi di poter mettere a tavola ortive fresche o di poter regalare a mia madre bouquet di fiori appena colti. Questi due hobby, apparentemente antitetici, poiché uno legato all'elemento liquido e l'altro alla terra, avevano però un comune denominatore, il cielo: nel praticare sia l'uno che l'altro, mio padre, infatti, si atteneva, quasi religiosamente, ai cicli del cielo, piantando alcuni semi nelle fasi di luna calante o cercando certe specie di frutti di mare quando vi era la luna crescente, seguendo così ancestrali regole tramandate da tempi immemorabili, di cui non sapeva spiegare null'altro se non che sembravano funzionare veramente. È proprio osservando mio padre e come quelle stelle apparentemente così lontane influissero profondamente su quel che faceva, che cominciai a domandarmi se, tra misteriose congiunzioni ed opposizioni di astri od enigmatici ascendenti in che oscuri disegni immaginati da saperi ormai perduti di chissà quali lontane epoche, in quel cielo fosse già scritto il vaticino della mia sorte e con maggiore reverenza cominciai allora a scrutare le esili trame che formavano le stelle, decifrando figure che vedevo soltanto con la mia fantasia di ragazzo, qual ero ormai diventato. Fu con quest'idea in testa che quindi decisi che il cielo sarebbe stato il mio futuro e che cercare di scoprire il senso di ciò che brillava lassù sarebbe stato il mio scopo. A raggiungere tale obiettivo dedicai anima e corpo così che passarono, quasi senza essere neppure degni di nota, gli anni delle superiori e dell'università, vedendomi sempre chino a studiare, trascorrendo i pochi momenti liberi sospingendo lo sguardo verso l'alto, tra quelle stelle a cui avevo oramai definitivamente votato la mia esistenza. Ed in quei rari momenti che sollevavo la testa al cielo, avevo il piacere di scoprire un firmamento che mi diventava sempre più noto, i cui lineamenti mi apparivano sempre più chiari e comprensibili. Quando finalmente finii gli studi, davanti a me si dispiegava però un cielo per sempre imbrigliato da regole salde, la cui poesia era oramai sostituita da aride equazioni matematiche e da fredde leggi fisiche: in una stella che ardeva non vedevo così più un puntino nel cielo che ammiccava per qualcuno, ma una fornace termonucleare di cui sapevo predire quando si era accesa e quando si sarebbe spenta; nei veli diafani delle nebulose non scorgevo più la magia dei suoi colori, ma vedevo scheletri di stelle e fucine di nuovi elementi; nelle galassie che vorticavano non notavo dunque l'armonia delle loro incredibili strutture, ma la conferma di un cosmo in inevitabile espansione; in una cometa non coglievo più la bellezza del prodigio, ma un corpo di cui sapevo calcolare via via le sue effemeridi. Ed allorquando i “perché” avevano a questo punto ceduto il passo ai “come” avevo per sempre perduto quel cielo fantastico della mia infanzia, che non riuscivo più cogliere, percependo soltanto algidi numeri laddove prima ammiravo stelle. Con questo nuova disposizione d'animo, passavo quindi per lavoro il mio tempo impilando ed elaborando, con svogliatezza ed in maniera asettica, le infinite congerie di dati che mi sfornavano ininterrottamente i computer, assolutamente incapace di cogliere, ormai completamente disilluso ed inaridito, la benché minima magia di quel firmamento, che eppure una volta mi aveva affascinato. In tal modo passarono giorni e giorni, che diventarono mesi e poi anni, consumando minuti soltanto apparentemente diversi, alla tenace ricerca dell'algoritmo finale che avrebbe risolto il problema che avevo davanti, ma, una volta trovatolo, sorgevano però nuovi problemi da risolvere per cui ricominciavo daccapo la ricerca di altri algoritmi ancora e ciò via all'infinito, come in una sorta di versione moderna e tecnologica della fatica di Sisifo, perché i problemi alla fine non finivano mai, affastellando così una babele interminabile di monotoni algoritmi su algoritmi di cui avrei perso completamente conto, se non ne avessi in qualche modo conservato traccia. Perso tra trattati, convegni e faticose ore di studi e complicati calcoli su cui mi arrovellavo, anche gli anni del lavoro passarono senza essere quasi degni di nota, e solo raramente alzavo lo sguardo verso il cielo, che guardavo distrattamente e con freddo distacco: le stelle infatti brillavano lassù, ma non sapevano più affascinarmi, ormai irrimediabilmente tediato dal loro chiarore, trovandomi sovente a considerare con frustrazione che, se non ci fossero state, sarebbe stato meglio, avendomi evitato l'arido lavoro con cui trascorrevo con sempre maggiore insofferenza i miei giorni. Altro che i quasar e le galassie più remote, era veramente anni-luce più lontano l'incanto degli anni della mia giovinezza ed il cielo non era più quello delle storie raccontatemi dal nonno, ma in esso vedevo solo la fonte di un noioso e ripetitivo impegno, che mi assorbiva del tutto, svuotandomi. Così sarebbe sicuramente stato, sino alla fine dei miei giorni, se non fosse successo quel fatto imprevisto, che allora mi spiazzò, lasciandomi sgomento e completamente disorientato, ma che ora comprendo costituisse parte di un segreto disegno per introdurre nuovi snodi e nuovi binari in vite che diversamente avrebbero avuto binari morti per unico binario e per unica fermata l'ultima. Come appunto sarebbe altrimenti accaduto alla mia vita, ormai definitivamente persa verso una rotta senza ritorno… Veramente quel fatto non era proprio del tutto imprevisto, poiché da mesi, anzi, da anni, c'erano le avvisaglie, ma solo all'improvviso ho finalmente compreso le sue profonde e devastanti implicazioni. Già dal 2012 si sapeva, e quindi lo sapevo, che l'Asteroide, nome in codice 2011 W2, provenendo dalla nube di Oort, da oltre gli estremi confini del sistema solare, aveva varcato l'orbita di Plutone, dirigendosi verso Nettuno. Nel 2017 l'Asteroide 2011 W2 sfiorava gli anelli di Saturno, per poi transitare vicino Giove nel 2020. Superata l'orbita di Marte l'Asteroide, surriscaldato dai venti solari, aveva sviluppato una brillante coda cometaria lunga milioni di chilometri per cui, quando passò vicino alla Terra, nel mese di Agosto del 2022, la Cometa dominò incontrastata i cieli notturni, lasciandosi dietro frammenti meteorici tali da regalare, dopo lo spettacolo della sua magnifica coda, pure quello di un'intensa pioggia di stelle cadenti, come non si era mai vista, essendo in certi momenti l'attività così intensa, da dare l'impressione che il firmamento piangesse lacrime di fuoco. Quelle scene furono affascinanti, ma ad un tempo anche spaventose: una sottile strisciante inquietudine, come per un'oscura minaccia incombente, serpeggiò dovunque, per cui la scomparsa dai cieli notturni della Cometa, ormai diretta al suo perielio verso il Sole, fu accolta con un sospiro di sollievo generale. Orbitò attorno al Sole nel 2023 e sarebbe quindi ritornata indietro, ripassando molto lontana dalla Terra, seguendo una rotta eccentrica che l'avrebbe infine portata a sparire definitivamente, perdendosi nello spazio profondo, perlomeno seconda quella scienza di cui ero imperturbabile sacerdote, se, come ho già anticipato, il fato non fosse intervenuto. Infatti, un improvviso ed inaspettato picco dell'attività solare con protuberanze di notevole lunghezza ed un forte sciame di vento elettrico provocò il surriscaldamento dell'Asteroide 2011 W2, dalla cui superficie sprizzarono di sorpresa dei forti getti di gas incandescenti che ne modificarono l'orbita prevista: l'Asteroide si avvicinò così a Venere che, perturbandone ulteriormente l'orbita, lo scagliò a velocità, come una sorta di fionda spaziale, verso la Terra. Nessuno indifferente: sulla Terra era l'alterazione però rimasto dell'orbita tranquillo altrimenti ed prevista dell'Asteroide era monitorata con crescente apprensione, come veniva progressivamente aumentata la classe di pericolosità dell'Asteroide, ben presto facilmente ribattezzato Armageddon, man mano che nelle sue peripezie cosmiche crescevano le probabilità di impatto con la Terra. Allorquando l'impatto con la Terra non fu più soltanto una elevata probabilità, ma un'indubbia certezza, furono allora lanciati contro numerose schiere di missili intercontinentali armati con testate nucleari, che purtroppo, per la massa di Armageddon, fallirono il loro obiettivo tanto di sbriciolare l'Asteroide, quanto di modificarne la pericolosa orbita nella quale si era stabilizzata. Analogamente fallirono tutti gli altri tentativi di vario genere, partoriti dall'inventiva umana ed indotti dalla disperazione. Correva quindi l'anno 2025 quando Armageddon proseguiva ormai indisturbato la sua inesorabile corsa che l'avrebbe portato a schiantarsi contro la Terra, brillando sempre più intensamente nel cielo, man mano che mortalmente si avvicinava, attratto con crescente velocità dalla gravità del nostro mondo. Era finito il tempo degli inutili tentativi, era ormai il tempo di accettare l'evento ineluttabile: la Terra sarebbe stata devastata da Armageddon, che avrebbe sicuramente cancellato per sempre la civiltà umana e, forse, anche la vita stessa del pianeta. L'imminenza dell'evento provocò tuttavia il prematuro collasso della nostra civiltà, i cui millenari equilibri e certezze venivano già ad essere profondamente turbati, ormai sostituita la speranza dalla rassegnazione. Ed io? Io non potevo non vedere negli eventi di allora un cosmo che si ribellava rabbiosamente a quelle leggi in cui avevamo creduto di poterlo eternamente imbrigliare, e rideva della nostra stolta presunzione attraverso Armageddon, che sfolgorava nell'alto dei cieli, ammonendoci col suo terribile splendore ed il suo spettacolare potere devastatore. Incredibilmente, nell'angoscia di quei momenti, ormai dissolto l'arido sortilegio dei numeri, ritornai a vedere il cielo meraviglioso della mia infanzia, che tornava prepotentemente a riappropriarsi della mia vita, al punto che ripresi ad affascinarmi nello scorgere le stelle cadenti che attraversavano infiammate il cielo, come non facevo da quando andavo ai falò sulla spiaggia per San Lorenzo, pur sapendo che queste costituivano l'imminente presagio della sinistra ed inappellabile condanna che aleggiava sulla nostra sventurata civiltà. Eppure, stranamente, di quel terribile verdetto non provavo paura. Conoscevo abbastanza bene gli immani cataclismi che avvenivano nello spazio, dagli immensi buchi neri ipermassivi verso dove fluttuavano inevitabilmente innumerevoli mondi alle supernove che devastavano sistemi stellari per migliaia e migliaia di anni luce, e sapevo che quella non era ancora la fine. Le più belle creature del cosmo, quelle diafane e coloratissime nebulose, con i loro delicatissimi veli, sono sempre state il canto del cigno di stelle morte eoni fa e da queste baluginanti variopinte ceneri sarebbero infine sorte nuove stelle, nuovi pianeti e nuove civiltà. Nessun disastro era quindi tale in un universo in continua trasformazione, ma solo parte di un processo che lo portava a rinnovarsi continuamente, a creare cose nuove dalle vecchie. Già noi siamo fatti di polvere di stelle (come non pensare che tutto l'oro dell'universo proviene dalle supernove?) e con la nostra polvere sorgono nuove stelle, tant'è che qualcuno ha detto, anche se forse in un'accezione più romantica di quella che ho io in mente: «È dalle stelle che veniamo ed alle stelle ritorneremo». Alzando lo sguardo verso il cielo, non vedevo adesso più un arido elenco di declinazioni ed ascensioni rette, bensì quelle stelle che mio nonno chiamava affettuosamente per nome: Vega, scusami se non ti ho salutato prima; Arturo, tu continui a brillare ancora solitario, laggiù, ad occidente; Deneb, fin quando non ti stancherai di essere alla coda del Cigno ? Altair, non insuperbirti di stare alla testa dell'Aquila; Aldebaran iraconda, calmati, placa i feroci ardori del Toro! Antares, tu sorgi a malapena, tra i fumosi umori dell'orizzonte; Canopo, ammicchi all'oriente ed alle lontane terre di Nubia, stando lì; Alcor e Mizar, non tediatevi di vorticare continuamente insieme nel gran ballo dell'Orsa; e voi, Giove e Marte, vi prendo a testimoni, ricordatevi della Terra, ricordatevi di noi, non dimenticateci… Il cielo era uno sfolgorio di stelle ammiccanti. Chissà quante di quelle stelle non ci sono ormai più. Alcune di loro si sono addirittura spente quando ancora i Trilobiti vagavano per i mari del Cambriano, circa 540 milioni di anni fa. È strano brillare come non mai quando non si è più! In questa immensità, anche se alla luce degli eventi appariva illogico, mi sembrava di partecipare in qualche modo a siffatta eternità. Mi piaceva pensare che anche la civiltà umana, se qualche vestigia ne resterà, apparirà più bella di quanto ci sia sembrata a chi verrà dopo di noi, che essa, nell'abbacinante splendore di Armageddon, brillerà fulgente in nuovi orizzonti di gloria. Ieri, oggi, domani, sono dei concetti inutili, superflui, che si confondono in un cosmo che si stende dal passato al futuro, abbracciando uno spazio senza limiti. Sì, sul finire della nostra civiltà, il cielo della mia infanzia era stato pienamente restaurato nel cielo che sovrastava al di sopra delle nostre caotiche città e dei loro svettanti grattacieli. Oggi è l'x-day, il giorno del grande impatto. Con questa consapevolezza, sapendo che nessuna fuga è adesso più possibile, sono quindi andato a guardare la morte in faccia, recandomi sulla spiaggia, come quando da ragazzo andavo ai falò, per osservare la più grande stella cadente che abbia mai visto, l'ultima. Ed ecco già lassù Armageddon, temuto ed aspettato, che finalmente è arrivato. Forse sembra stupido, ma in questo momento mi domando soltanto che desiderio esprimere quando vedrò scendere Armageddon». Un attimo di pausa, il tempo di riprendere il fiato, e quindi continuò: «Allora, come ti sembra la storia che ti ho appena letto?». «Boh, non saprei. Forse un po' troppo catastrofista». «Volevo mettere un finale a sorpresa, che so, che all'ultimo minuto intervenivano gli alieni per salvare la Terra, ma mi sembrava un finale un poco cretino». «Sai che ti dico: per adesso stacca. Usciamo fuori a prenderci due birre, che sicuramente ti verrà l'idea giusta per il finale!!» 19 agosto 2009 Maurizio Luminoso 3 L'ANIMA DELLE STELLE Luna era una bambina di dieci anni, che viveva in una casa di campagna in provincia di Washington assieme alla nonna Margaret, dopo aver perso nel giugno 2983, a soli sei anni, i suoi genitori. Mamma Tanya e papà Arthur erano stati coinvolti in un tragico incidente d'auto mentre rientravano da una cena con gli amici. Quel giorno Luna aveva voluto rimanere in casa perché alla televisione avevano annunciato che quella sera il cielo sarebbe stato pieno di stelle e lei era già alla finestra, pronta con un foglio e le matite colorate, per ricopiare quel paesaggio così emozionante. Le stelle avevano sempre suscitato la sua curiosità, era sempre stata attratta da quell'alone di mistero che le avvolge, forse anche perché la sua mamma le aveva sempre detto che in ogni stella riposa l'anima di un essere umano. Così anche quella sera Luna ricopiò il cielo e le stelle che lo avevano reso così luminoso. Stava colorando una stella arancione quando la nonna entrò nella stanza, la strinse in un abbraccio affettuoso e le diede la triste notizia. Per Luna fu impossibile accettare la scomparsa dei suoi genitori e per sentirli ancora vivi, ancora presenti, ancora vicini, ogni volta che il cielo era limpido riprendeva un foglio e le matite colorate e iniziava a disegnare. “Mamma, papà – pensava tra sé – dove siete? In quale stella vi siete rifugiati?”. Era sicura che le due stelle più luminose erano quelle dei suoi genitori ed era anche certa che chiunque avesse guardato il cielo avrebbe visto più luminosa la stella nella quale si trovava l'anima della persona più cara che aveva perso. Per i quattro anni successivi quindi Luna si rivolse alle stelle, convinta di parlare ai suoi genitori, chiedendo loro di renderla felice e di aiutarla a realizzare il suo sogno: diventare un'astronauta famosa e scoprire in quali stelle risiedevano le loro anime in modo da poterle recuperare e riportarle sulla Terra. Ma le fantasie e i sogni di Luna si affievolirono durante una lezione di geografia quando la professoressa Mary iniziò la spiegazione parlando dei pianeti, per poi illustrare le stelle e i satelliti. “Le stelle – disse Mary – sono corpi gassosi la cui luminosità dipende dalla distanza e il cui colore dipende dalla temperatura interna”. “Non è vero – ribattè Luna – la luminosità di una stella è soggettiva, la sua luce ci sembrerà più forte se in essa si trova l'anima di una persona che amiamo”. I compagni di classe scoppiarono in una rumorosa risata e la professoressa tagliò corto: “Se vuoi intervenire, riportaci informazioni scientifiche, non possiamo perdere tempo dietro a sciocche fantasie”. In quel momento Luna sentì un rospo in gola e non trovò le parole per rispondere. La brava e preparata professoressa Mary aveva appena insinuato che sulle stelle non ci fosse proprio traccia di nessuna anima e questo significava che anche le anime dei suoi genitori non stavano riposando lì. E allora dov'erano? Luna sentì dentro di lei un grande vuoto e nel pomeriggio, al suono della campanella, corse in biblioteca. Era decisa, “ce la farò – ripeteva dentro di lei – troverò tantissimi libri che raccontano la vita di un'anima sulle stelle e porterò questi libri alla professoressa Mary”. La sua ricerca fu affannosa, quasi frenetica e non portò ad alcun risultato. Sui libri Luna trovò fotografie meravigliose, descrizioni dettagliate e approfondite sulla composizione delle stelle, sulla loro luminosità e colorazione e sulla loro classificazione ma non scorse nemmeno una riga sulla possibilità che le stelle fossero un rifugio sicuro per le anime degli esseri umani. Anche nei giorni successivi continuò il suo intenso lavoro di ricerca ma non trovò da nessuna parte una conferma alle sue convinzioni. Intanto Luna era diventata irritabile, sfuggente, quasi irriconoscibile e la nonna, preoccupata si rivolse ad un medico. Il dottore fece eseguire a Luna diverse analisi che risultarono tutte negative: “La sua nipotina è piena di salute, stia tranquilla – disse il medico alla nonna rassicurandola – probabilmente è in un periodo in cui sente maggiormente la nostalgia per i suoi genitori”. In effetti era così, la nostalgia era fortissima, come non l'aveva provata mai nella sua vita, già, perché se davvero sulle stelle non ci fossero state le anime dei suoi genitori, tutti quei momenti passati a guardarle dal vivo quando il cielo era limpido e su un foglio quando il cielo era coperto, tutti quei momenti spesi a confidarsi con loro, a cercare una risposta a tutti i suoi dubbi, tutti quei momenti in cui fissandole aveva sentito il sostegno e l'affetto dei suoi genitori così vicini, tutti quei momenti sarebbero stati solamente tempo perso. Questa realtà non era accettabile e se già le era difficile convincersi che mamma e papà non fossero più sulla Terra per una tragica fatalità, era impossibile pensare che anche sulle stelle non ci fosse stato posto per loro. Luna però era una bambina molto determinata, molto coraggiosa, i suoi genitori le avevano spesso ripetuto che non avrebbe mai dovuto avere paura di nessuno. Così, superata quella fase di fortissimo shock, tornò ad essere la bambina sorridente di prima, tenendo profondamente nascosto dentro di sé un disagio che non le dava pace. Concluse le scuole medie con il massimo dei voti e frequentò il liceo scientifico con altrettanto successo. Ancora non aveva rinunciato alla missione “recupero anime” e per questo si iscrisse prima alla facoltà di astronomia e poi a diverse specializzazioni, che le consentirono di diventare astronauta dopo aver anche superato i test psico-attitudinali e la fase di addestramento. La scienza aveva distrutto la convinzione più importante della sua vita e, ora, lei voleva smentire queste verità assolute. Assunta alla NASA, dopo aver eseguito le visite mediche previste e dopo aver effettuato il training teorico-pratico, Luna, all'età di 32 anni, era pronta per partire per una spedizione con lo scopo, almeno quello ufficiale, di studiare Sirio A, una stella dell'emisfero australe che dista dal Sole 8,6 anni luce. La sera prima della partenza il cielo era pieno di nuvole e quindi Luna non potè ricercare la stella della sua nonna, che da pochi giorni se ne era andata a causa di un male incurabile. Già, un male incurabile, quello contro cui la scienza non aveva potuto nulla. E forse, proprio questa impotenza della scienza, le aveva dato la carica giusta, l'orgoglio giusto, la follia giusta per poter pensare che sarebbe tornata da quella spedizione con le anime dei suoi genitori o, quantomeno, con il ricordo di averle viste. La partenza era fissata per martedì 28 aprile 3009 alle ore 21.00. Luna partiva per una spedizione individuale. Dopo aver indossato la tuta spaziale salì sulla navicella e con il cuore in gola salutò tutti i colleghi e i tecnici che erano stati con lei fino a quell'istante. Il momento del decollo fu molto emozionante, la navicella Rinda era super-accessoriata e super-tecnologica. Il viaggio sarebbe durato diversi mesi. Luna era consapevole di avere una grande responsabilità nei confronti di chi le aveva assegnato quella missione e nei confronti dell'intera Comunità Scientifica Mondiale. Questa spedizione però aveva per la giovane astronauta un significato molto più profondo: era giunto il momento di scoprire se ciò in cui aveva creduto e che le aveva dato la forza di vivere, senza lasciarsi andare alla malinconia e alla solitudine, era solamente frutto della sua immaginazione, della sua fantasia. Luna aveva bisogno di capire che cos'è un'anima, ma soprattutto come e perché un'anima potesse rifugiarsi su una stella. Credere ai propri sogni e alle proprie fantasie è possibile solo da bambini o anche da adulti? E se è possibile anche da adulti, è perché i sogni si sono trasformati in realtà o perché sono un modo per allontanarsi e sfuggire dalla realtà? In altre parole, credere che le anime riposino sulle stelle e possano tornare sulla Terra è una fantasia da evocare solo durante l'infanzia o è un sogno da conservare anche in età adulta? E se lo è, è perché l'immaginazione si è trasformata in una consapevolezza reale o perché per sfuggire dai problemi della vita di tutti i giorni è necessario ricercare l'appoggio di qualcosa, anche se questo qualcosa è indefinito e pieno di mistero? Questa sembrava proprio la missione giusta per trovare una risposta ai suoi dubbi: Sirio A è la stella più luminosa del cielo e,accanto a lei, Sirio B è una nana azzurra altrettanto splendente. Sirio A e Sirio B potevano essere le stelle nelle quali riabbracciare mamma e papà. Per tale motivo Luna aveva messo in campo tutto il suo impegno, la sua determinazione e la sua ostinazione per ottenere la guida di questa spedizione. Alle 20.57 tutto era pronto. 150 paesi seguirono il lancio di Rinda in diretta alla tv: si trattava di un evento straordinario visto che nessuna navicella con astronauti a bordo era mai riuscita ad andare oltre il Sole. Gli sforzi economici necessari per finanziare il viaggio su Sirio A erano stati ingenti: la costruzione e il collaudo di Rinda avevano richiesto cinque anni di intenso lavoro e anche la realizzazione della tuta spaziale era stata piuttosto impegnativa, visto che doveva garantire una sicura protezione da temperature elevatissime. La “spedizione Sirio A” era inserita all'interno del progetto “Colonia” che prevedeva di rendere abitabile entro cinquant'anni Canis, il pianeta che ruotava attorno a Sirio. Il pianeta Canis era stato scoperto nel 3000 e su di esso erano state rinvenute acqua e varie forme di vita. Per questo negli USA era stato approvato il progetto “Colonia”, la cui realizzazione aveva come punto di partenza la “missione Sirio A” e come punto d'arrivo la colonizzazione di Canis da parte dell'uomo, lo sfruttamento delle sue risorse e di quelle della sua stella. Gli scienziati della NASA erano consapevoli che si trattava di un programma piuttosto ambizioso, ma la tecnologia e la velocità degli spostamenti nello spazio aveva ormai raggiunto un livello talmente alto da poter pensare che mezzo secolo sarebbe stato sufficiente per portare l'uomo a vivere su quel nuovo pianeta e a utilizzare l'energia ricavata da Sirio A. Da settimane i giornali non parlavano d'altro e i telegiornali riportavano le interviste dei personaggi più disparati: dalle autorità politiche, agli astronomi, dagli ingegneri ai comuni cittadini che già sognavano di comprare una casa su Canis. In pochi minuti Luna si ritrovò catapultata nello spazio e da subito, mentre veniva scossa dai vortici d'aria e dalla fortissima pressione, iniziò a scattare fotografie che inviava rapidamente alla NASA permettendo anche a chi era rimasto sulla Terra di godere di un paesaggio così affascinante e di scoprire assieme a lei un mondo che forse non finirà mai di essere esplorato. Per raggiungere Sirio A era necessario dirigersi verso la costellazione del Cane maggiore della quale appunto faceva parte questa stella. Uscire dalla Via Lattea per entrare nella costellazione del Cane maggiore era la fase più delicata in quanto spesso quel tratto dello spazio era devastato dalle piogge di comete e di asteroidi. Il pericolo però era scongiurato in quanto la partenza era stata programmata in un periodo nel quale le piogge erano piuttosto rare. Luna non aveva paura, il volo la riempiva di adrenalina, l'essere sospesa nel vuoto le infondeva una grande energia. “Chi ha paura non può diventare astronauta – pensava - o meglio, chi ha paura non può diventare nessuno nella vita”. Allora Luna era pronta anche a rischiare, pur di fornire alla scienza un “diario parlato e illustrato” di tutto ciò che aveva la fortuna di vedere a pochi metri di distanza e pur di dare pace a quel disagio interiore che dall'età di dieci anni aveva tenuto segretamente nascosto dentro di lei. Via satellite continuavano ad arrivare alla Nasa immagini spettacolari (rocce, frammenti di comete, prospettive di pianeti) che già costituivano materiale per realizzare filmati, documentari e servizi speciali. Ma quel 28 aprile 3009 rimase nella storia per sempre: non per la straordinarietà dell'evento ma per la sua evoluzione. Improvvisamente, alla NASA, gli scienziati persero le tracce di Rinda. Lo schermo da cui veniva controllata la progressione della navicella mostrò prima un susseguirsi di flash e poi un'immobile raggio nero e un silenzio terrificante lasciò tutti con il fiato sospeso. Inutili furono i tentativi di richiamare la navicella sul nostro pianeta perché inutili furono tutti i tentativi di ristabilire qualsiasi forma di contatto con Luna. Alle 23.40 sulla Terra cadde una stella: sarà stata l'anima di Luna? Paola Pocaterra 4 L'UOMO CHE PARLAVA ALLE STELLE L'uomo camminava lento lungo la strada grigia. Era alto, dinoccolato, con una lunga barba grigia e un cappotto sdrucito addosso. Portava sotto il braccio una vecchia cartella di pelle nera. Ad un incrocio incontrò un vecchio coi capelli bianchi, che camminava curvo appoggiandosi ad un bastone. Lo salutò cordialmente. Salve, mister John! – Buonasera, Horace. – rispose il vecchio, sorridente. – Come va con i suoi studi?E' una cosa sempre più interessante, mio caro. – Arrivederci presto – lo salutò il vecchio. L'uomo barbuto parve turbato. Poi borbottò: Arrivederci, John. – E proseguì per la sua strada. Giunse infine ad una casa grigia, in cima alla collina, entrò in un portoncino stretto e salì fino al quinto ed ultimo piano usando le ripide rampe della scala. Poi aprì finalmente la porta dell'appartamento in cui viveva. Dentro l'aspettava, comodamente sdraiato su un divano, un grosso gatto nero. Si alzò e si inarcò per salutarlo con un miagolio cordiale. Ciao, Black. – Fece l'uomo. – Niente di nuovo oggi?Per tutta risposta Black soffiò violentemente. Horace rise e disse: Lo so, vecchio mio, ma non gli ho detto nulla. Il povero vecchio John non sa che ha i minuti contati…. – Poi raggiunse il mobile bar e si versò un whisky. Black si stirò e si risistemò sul divano. Era un gattone enorme e grasso. Horace uscì sul balcone. La casa era sulla collina e dominava la cittadina. Il quinto era l'ultimo piano, e da lì lui poteva vedere un ampio panorama. Era notte, ormai, e le stelle punteggiavano il cielo nero. Horace arrivò alla ringhiera del balcone e guardò verso il basso, verso la città, sotto i suoi piedi. C'erano parecchie finestre illuminate nelle case, la gente probabilmente stava mangiando la cena, guardava la TV e parlava della giornata. Si concentrò e guardò verso destra ove sapeva che c'era la casa di John. Ed ecco… una scintilla azzurra tremolò improvvisamente dalla casa, guizzò e salì lentamente verso il cielo nero, per poi confondersi con le miriadi di lucine delle stelle e svanire. “E anche il povero John se ne è andato.” Horace pensò con tristezza. Conosceva il vecchio da sempre e gli era affezionato, ma non ci poteva fare nulla. Alzò lo sguardo ancora più su e fissò le stelle, lontane, indifferenti alla vicenda umana. Stette per un po' in silenzio, immerso nei suoi pensieri e nell'ascolto. Poi assentì, chinò il capo e rientrò. Black aveva lasciato il divano, l'attendeva al centro della stanza, in piedi sulle quattro zampe tozze, con la coda bassa. Hai ragione, vecchio mio! – disse Horace. – Purtroppo questi sono e saranno sempre dei momenti tristi. Il gatto chinò il capo come per assentire, e si girò dirigendosi verso la cucina. Horace lo seguì lentamente. Due giorni dopo Horace incontrò la moglie di John, che camminava sulla strada diretta alla propria casa. Lui stava rientrando, e la salutò e le fece le sue condoglianze. - Buonasera, signora, vi porgo le mie condoglianze per la morte del buon John. – disse. Grazie, Horace – lei lo ringraziò – so quanto vi stimasse mio marito, e da quanto vi conoscevate. Ho saputo che vi aveva anche chiesto di recente di fargli l'oroscopo. – E' vero, - rispose lui – peccato che non ne abbia avuto il tempo! – E intanto cosa potevate vederci? Non certo che sarebbe morto così presto! –disse lei. Avete ragione!- concordò lui. Si salutarono e si lasciarono. Lui tornò a casa meditabondo. Certo non poteva dirle che lo aveva già finito una settimana prima della morte di John. E che vi aveva letto la data esatta della sua dipartita. Davanti al portone di casa trovò ad aspettarlo mister Jennings. Era un vecchio curvo, grasso e tremolante, appoggiato ad un bastone, con l'aria però battagliera e decisa. Vi attendevo, Horace! - lo apostrofò. Buonasera, signore. Cosa posso fare per voi? – chiese lui. Forse non lo ricordate, ma dieci anni fa avete fatto l'oroscopo a mio fratello Andrew e glielo avete dato… E io l'ho ritrovato! – disse il vecchio. E allora? – rispose lui. E allora gli avevate anche detto esattamente quando sarebbe morto… e l'avete indovinato! Lui si ricordò. Erano i primi tempi che faceva gli oroscopi, e allora li dava sempre ai suoi clienti, anche se erano poco felici o addirittura negativi. Solo dopo aveva capito che era meglio essere meno precisi, più diplomatici, per non turbare inutilmente le persone. Sarà stato un caso. Non è possibile sapere cose del genere in quel modo. – disse lui. E poi avete fatto l'oroscopo al mio amico Zachary e avete indovinato di nuovo! – esclamò il vecchio. Lui restò immobile, rendendosi conto del fatto che il vecchio aveva indagato davvero… oppure aveva raccolto le informazioni direttamente dalle fonti… suo fratello e i suoi amici. Quegli oroscopi erano rimasti. Quasi a dare voce ai suoi pensieri, Jennings esclamò: L'avete fatto dieci volte, a quel tempo, almeno per quello che ho potuto scoprire io! – il vecchio era decisamente agitato. – Poi avete smesso e da quel momento i vostri oroscopi sono diventati più vaghi, all'acqua di rose, più normali…. Ditemi, com'è successo? – Horace chinò il capo. Era chiaro che era inutile negare. Il vecchiaccio si era ben documentato, probabilmente da amici o parenti, e se avesse indagato oltre il numero poteva anche salire… si ricordava di essere arrivato al ventesimo decesso prima di capire che era meglio tacere su certe cose. Cosa volete? – chiese allora al vecchio. Sapere la verità! – disse Jennings – Sapere la verità e sapere… - la voce si spense e si fermò. Quanto vi resta da vivere? – completò per lui Horace. Sì! . -la voce del vecchio era un sussurro, ora, e l'aria meno battagliera. Venite su in casa mia, allora. – lo invitò Horace. Salirono insieme per le scale ed entrarono in casa. Sul divano c'era Black che soffiò subito verso il vecchio, inarcandosi, ma poi si sedette come in attesa. Non piaccio al vostro gatto. –disse Jennings. Non preoccupatevi. E' un buon gatto, ma gli estranei lo preoccupano un poco. Non vi farà nulla. Venite di là nel mio studio. – Entrarono nella stanzetta zeppa di libri e strumenti. Appoggiato in un angolo c'era anche un telescopio. Horace fece accomodare il vecchio in una poltrona e si sedette sulla sedia dietro la scrivania. Quanti anni avete, signore? – chiese l'astrologo con rispetto. Troppi, e lo sapete! – rispose lui burbero. – Ormai ne ho compiuti 97 e sento sul collo l'alito fetido della morte… Tirò fuori dalla tasca un foglietto piegato e lo allungò a Horace. Questi sono i miei dati, credo abbastanza completi. Data e ora di nascita e luogo. Mi pare che non dovrebbe servirvi altro. – E' esatto, signore. – disse lui. – In realtà potrebbe essere utile anche qualcos'altro, tipo dei dati sui suoi genitori, ma non è detto. Ve lo farò sapere se sarà necessario. – Il vecchio sembrava indeciso. Alla fine chiese: Ma come fate? – Lui esitò, poi rispose. E' frutto di uno studio particolare, signore, e gliene parlerò solo in confidenza. La prego di non dire mai nulla a nessuno. – Stia tranquillo, giovanotto. I suoi segreti moriranno con me. – Horace si protese, appoggiando i gomiti sulla scrivania, e cominciò a parlare con voce bassa. Io ho cominciato ad interessarmi di astrologia e astronomia fin da ragazzo. Cresciuto, per vivere ho fatto il contabile, e questo voi lo sapete. I miei studi hanno preso una svolta inaspettata molti anni fa, quando ho avuto la netta impressione che mentre io guardavo le stelle… ebbene, anch'esse guardassero me! – Non capisco. – fece il vecchio. Diciamo, signore, che ho avuto la netta percezione che esse avessero una loro coscienza e intelligenza. E mi si sono cominciate a formare in testa delle idee, delle impressioni. Finché non mi sono trovato a pensare cose molto strane… dei pensieri che non potevano essere miei. Poi una volta ero intento a guardare le stelle mentre pensavo ad un oroscopo che stavo facendo e mi sono ritrovato a vedere nettamente una data vicina. Non capivo cosa potesse dire, che significato avesse, ma la percezione era netta. Quella data fu raggiunta dieci giorni dopo. E allora la persona a cui avevo fatto l'oroscopo morì. – Volete dire che avete avuto una visione? – chiese il vecchio con stupore. No, no. Nulla del genere. Diciamo che mi è venuta in mente la data, e non me la schiodavo da lì… anche se non capivo cosa volesse dire. – E quella persona poi è morta in quella data? Esattamente. Ed io gli avevo consegnato il giorno prima l'oroscopo completo, e pensavo che avrebbe avuto buona salute e una vita ancora lunga. Invece ebbe un brutto incidente, e ci lasciò la pelle. – Il vecchio restò un poco in silenzio, poi chiese: E come spiega tutto ciò? – Quei pensieri strani che mi sentivo in testa e che sentivo non miei… sono giunto alla conclusione che fossero le stelle stesse a trasmettermi i loro pensieri… Le stelle? – la voce del vecchio era incredula. Lo so, pare incredibile, ma quando riuscii a mettere ordine tra i miei pensieri e quelli estranei ne uscì fuori una specie di discorso sensato. Le stelle hanno coscienza ed intelligenza, sono entità pensanti e possono realmente conoscere il nostro destino… ma fino nei minimi particolari. – E perché le avrebbero detto quando quell'uomo sarebbe morto? – Proprio per attirare la mia attenzione ed iniziare un discorso sensato con me. Non piaceva loro molto cercare di parlare con uno scemo che non capiva neanche che gli si stavano rivolgendo. – Il vecchio parve rilassarsi. Si strofinò il mento meditabondo, poi chiese ancora: E poi cosa accadde? – Accadde che iniziai a parlare con esse e a capire molte cose… imparai anche a vedere le anime quando erano staccate dal corpo, cosa che succede sempre quando il corpo muore, imparai a parlare con gli animali e a percepire i loro pensieri…. e mi ritrovai con la possibilità di fare degli oroscopi perfetti fino all'ultima virgola, anzi perfetti fino a sapere il giorno in cui la vita del soggetto sarebbe terminata. Nell'entusiasmo all'inizio feci degli oroscopi completi anche di quel piccolo particolare. – Proprio piccolo! – rise il vecchio. - Quella in fondo è la cosa che chiede di più qualsiasi uomo a qualsiasi oracolo… Si chinò in avanti e chiese con voce quasi feroce: Ed io allora quando morirò? – Non lo so ancora. Dovrò studiare i dati ed interrogare gli astri. Ve lo potrò dire tra qualche giorno. Dovrete portare pazienza, signore. – Aspetterò, allora. – disse il vecchio. Si accomiatò e lasciò Horace solo coi suoi pensieri. Quattro giorni dopo Horace si ritrovò col vecchio Jennings nello studio. Il pover'uomo pareva più curvo che mai, e sembrava facesse fatica a respirare. Allora, giovanotto – ansimò il vecchio – qual è il verdetto delle stelle? – E' che dovrete rassegnarvi ad invecchiare ancora, signore. – disse l'uomo barbuto. – Il responso degli astri è che vi toccherà sfondare il muro del secolo di vita prima di smetterla. – Il vecchio rimase in silenzio, quasi trattenendo il respiro. Poi sospirò e disse: Allora ne ho ancora per 3 anni? – Un po' di più, veramente. Pare che festeggerete i 101 prima di smetterla di preoccuparvi. – Siete un po' insolente, giovanotto, ma vi perdono volentieri. Qual è il vostro onorario? – Nulla, signore. Per me è stato un piacere servirvi, perché una volta tanto non ho dovuto avere segreti. – Allora vi ringrazio e vi saluto. Arrivederci Horace. – Arrivederci, signore. – Horace accompagnò il visitatore alla porta. Rimasto solo andò al mobile bar e si versò un whisky. Dal divano Black emise un miagolio interrogativo. L'uomo si volse verso il gatto e sorrise tristemente. Hai ragione, vecchio mio. Non gli ho raccontata la verità, e me ne dolgo. Ma almeno gli ho detto quello che avrebbe voluto sentirsi dire. La verità era un po' troppo sgradevole. – Dall'esterno giunse un rumore di frenata e poi un urto, un grido strozzato. Horace non si voltò nemmeno verso la finestra. Sapeva cosa avrebbe visto. Davanti al suo portone un'auto aveva travolto un pedone, uccidendolo. Il vecchio Jennings aveva finito di ansimare e preoccuparsi. 17 settembre 2009 Daniele Clozza 5 LA VIGILIA. Quando l'incapacità ad agire vi mozza il fiato al punto che la mancanza del respiro sembra spiazzarvi, qualora foste impotenti a ragionare, perché convinti di perdere completamente il controllo delle vostre emozioni, quando la bocca non ha più saliva da farvi ingoiare, gettandovi totalmente del panico che vi assale, non ritenetevi l'ultimo degli esseri umani. Certamente sareste in errrore. Niente di più facile che una sensazione simile potrebbe capitarvi, in presenza di qualcosa nella quale stentate a credere, difendetevene, invece di diventare balìa dell'ignoto. Fu quanto non era stata capace di fare la bella ragazza venticinquenne alla presenza del senologo che le esplorava il corpo con l'ecografo. Alessandra avrebbe scommesso qualsiasi cosa, pur di riuscire a ribattere che quella macchina infernale andava forse tarata meglio, perché non mentisse con tanta sicumera. Chi poteva garantire infatti con assoluta certezza l'infallibilità di una lettura tanto catastrofica? Si accorse che si stava arrampicando sugli specchi, eppure c'era andata con i suoi piedi a supplicare quell'uomo, affinché la visitasse e le parlasse chiaramente. Ma tra il dire e il fare… Quando il medico le parlò, solo in quel momento realizzò di essere sola al mondo, sola ad ascoltarne il responso. Pensò con dispetto di avere rifiutato con troppa facilità la presenza di Pina che le aveva proposto di accompagnarla. Quel maledetto orgoglio dal quale era come posseduta, ancora una volta l'aveva fatta da padrone sull'affetto che l'amica le dimostrava. Le era sembrato normale, ricordando perfettamente che da ormai cinque mesi, un'altra delle sue carissime amiche del cuore non c'era più ad accompagnarla nel peregrinare da un medico all'altro. All'improvviso Mimma se n'era andata in una freddissima domenica mattina di dicembre. Come una rondine in cerca di posti più accoglienti, l'assenza di lei aveva lasciato tutti più poveri e più soli. Chiunque si sarebbe sentita così sperduta, come lei si sentiva alla presenza di quello sconosciuto che le parlava prendendo appunti. “Se deciderà di operarsi, le comunicheremo quando ci sarà un posto letto disponibile”. Fu come se lui non ci fosse, proprio com'era successo l'anno prima e si sentì così come vi sareste sentite tutte voi, nella malaugurata ipotesi che un medico poco sensibile avesse telefonato in una delle vostre case per annunciarvi che avevate un cancro, o, nel caso in cui, tornando a casa vostra, voi stesse foste cadute dalle nuvole, accorgendovi di essere state derubate del portafoglio. Senza nemmeno guardarlo in faccia, gli occhi erano troppo pieni di lagrime per farlo, Alessandra fece un cenno di saluto al medico e se ne andò, quasi fuggendo dalla stanza. Sentiva caldo, aveva bisogno di un caffè, ma soprattutto doveva correre a casa, rifugiarsi nella sua Vecchia tana perriflettere e decidere. Però il bar era proprio lì, e l'odore del caffè era così penetrante da tentarla ad entrare. Lo fece, già quasi assaporando la gustosa bevanda. Quando fu il suo turno, vedendola cercare nella borsa, la cassiera si era messa in attesa di un ordine, ma la calca era tale che fu costretta a pregarla di fare posto agli altri avventori. Non trovando il borsellino, Alessandra si sentì invadere il corpo da un sudore freddo e maleodorante: frugò e frugò, ma nella borsa il portafogli non c'era. Chi, come, e soprattutto quando qualcuno le si era avvicinata tanto da riuscire a sfilarglielo, Alessandra non avrebbe saputo dirlo. Se, prima di disperarsi, si fosse fermata un attimo, avesse tirato un grosso sospiro di rassegnato coraggio, e guardato bene cosa realmente le mancava, avrebbe dimostrato a se stessa che poteva continuare a farcela, qualsiasi documento o carta di credito avesse dovuto sostituire. Ma quando il diavolo ci mette la coda… Non seppe come ci arrivò, ma, trovandosi ad aprire la porta di casa sua, Alessandra soddisfazione. trasse L'accolsero il un profondo solito odore sospiro di di familiare quotidianità, pensando al quale si sentiva protetta, quando ne era lontana. Si mise in libertà e stava preparandosi il caffè non bevuto, quando il telefono incominciò a squillare. Era la premurosa Pina che le chiedeva notizie della visita appena fatta. Per Alessandra fu come aprire troppo un rubinetto chiuso da tempo. Le parole strariparono, i singhiozzi non furono più contenuti, il pudore dei sentimenti dimenticato. Non trascorse molto tempo, che Pina era con lei. Aveva la borsa dell'amica fra le mani e la guardava, come a trarre da questa consiglio. Mentre cercava di consolare Alessandra, le venne fatto di aprire una cerniera laterale e di guardarvi dentro. Fu allora che trasse dalla tasca tutto quello che vi era stato prudentemente conservato: moneta contante e carte di credito. Solo in quel momento, al colmo della felicità, Alessandra si rese conto che avrebbe potuto guardare meglio nella borsa, prima di disperarsi. Sarebbe bastato un attimo per calmarsi, perché la sorpresa di essere stata prudente, era lì che l'aspettava paziente. Come Pina le fece notare, il portafoglio non conteneva danaro, né carte di credito da bloccare. Allora non le parve vero di essere stata tanto giudiziosa, per una volta nella vita. Aveva fatto fatica a credere ai suoi occhi, scoprendo che per il poco o tanto danaro contante, il giudizio le aveva consigliato di trovare un altro posto che non fosse quello più logico nel quale conservare i valori che si era portata dietro. Non le sembrò poco la consolazione che provava, accorgendosi di non essere rimasta completamente in balia della violenza comunque subita. Pensò e comunicò a Pina che Da uno scippo dal quale non si ricavi moneta contante od altri valori, la sconfitta dev'essere cocente. “Chi”, le disse: “secondo te, rimane più male, il ladro o il derubato cui, sicuramente, tocca la spiacevole incombenza di rifare tutti i documenti”. E continuò, come parlando a se stessa: “Sebbene forse da per tutto l'istinto di chi ruba sia determinato dall'ingagiare un'assurda sfida verso se stessi,prima che verso gli altri, a dimostrazione che si è stati bravi, non pensi anche tu che a spingerli verso il crimine non è stata la cattiveria fine a se stessa, ma che a togliere agli altri, magari per buttare la refurtiva nella spazzatura, semplicemente per lo sfizio di esserci riusciti, abbia contribuito una specie di ingiustificata goliardia? Che ciò avvenga a Napoli, a Roma, ad istambul, la delusione di chi viene derubata ha la stessa valenza di dissacrante profanazione di chi non ha saputo difendersi, che ci si senta più o meno ricchi, più o meno inclini a comprendere, l'amarezza è sempre forte ed uguale. Diversa invece è la disperante constatazione di non essersi accorti di nulla, mentre avveniva il furto. se non fosse stato per quel lieve sentirti sfiorare dalla mano ignota che faceva riaffiorare alla superficie della coscienza le tue già date per acquisite fragilità, quel tocco leggero avrebbe potuto essere confuso con la distrazione di una persona che senza volerlo tiurtava, passandoti sbadatamente accanto, tant'era stato minimo. A causa di quello sfiorarti nella folla, il sospetto del quale pure ti illudevi di nascondere perfino a te stessa quanto stava accadendo, non ti faceva nemmeno sobbalzare, mentre la cruda realtà permetteva alle tue insicurezze di venire alla luce della coscienza, diventate nel momento della scoperta dubbi e debolezze”. Aveva parlato a raffica, quasi non fermandosi a respirare, tant'era la concitazione del momento. Pina l'aveva lasciata dire, prima di cingerle le spalle, in un abbraccio complice. Quando finalmente le fu comunicato che il suo letto era pronto, Alessandra entrò timorosa nella grande stanza riscaldata dal sole di maggio. La camera spaziosa era completamente illuminata da due ampi finestroni spalancati, in modo tale che al primo sguardo del visitatore, ogni angolo della stessa ne rimanesse visibile. Al momento non c'era nessuno, ma i tre letti bianchi preparati per ospitare i malati, facevano supporre che la ragazza non vi sarebbe rimasta a lungo da sola. Ne fu contrariata, ma fece buon viso a cattivo gioco e si preparò a disfare la valigia, proprio com'era abituata a fare ogni qualvolta si trovava ad essere ospite di un albergo, solo che questa volta a scegliere la dimora in cui suo malgrado era capitata del tutto casualmente, era stato il destino e non l'entusiasmo di fare una piacevole vacanza . Tutto si era svolto con una rapidità sorprendente: la scoperta del nodulo al seno, la visita dello specialista ed il ricovero in quella stanza, l'avevano da prima colta di sorpresa, ma poi fatta decidere senza possibilità di ripensamenti. Una strana zaffata di profumi la incuriosì. Non le era sembrato ci fossero giardini là da dov'era venuta,almeno non ne aveva visti, però i profumi c'erano e non potevano provenire che dalle finestre aperte. Si affacciò e lo spettacolo che si aprì ai suoi occhi non le piacque. Vide una decina di corone funerarie che faceva bella mostra di sé sul marciapiedi, in attesa di essere portate via con una delle bare. Bellissimi e variopinti, i fiori emanavano i loro effluvi per la consolazione dei vivi, mentre i morti si preparavano ignari ad affrontare l'ultimo viaggio verso il cimitero. Le finestre affacciavano infatti sull'obitorio. Un pensiero funesto le attraversò la mente: e se domani avessero portato lei, senza vita, laggiù? Il suo ragazzo non l'avrebbe nemmeno saputo. Volutamente non aveva detto a nessuno, se non all'onnipresente Pina, di doversi ricoverare. La solitudine di quel momento le chiuse la bocca dello stomaco, facendole male. Due lagrimoni le solcarono il viso. Alessandra le fece scendere libere sul pavimento di mattonelle che le sembrarono troppo chiare con tutto quel sole. O era il suo umore ad essere troppo lugubre in quella giornata di maggio? Aveva portato con sé alcuni libri per far trascorrere più velocemente il tempo , ma il pensiero del prossimo intervento era dominante, rispetto a tutto il resto, rispetto alla voglia di fare alcunché d'altro. Stava per infilarsi sotto le coperte, quando entrarono in camera i medici in visita. Voci sconosciute le sembrava parlassero troppoforte, mentre sensazioni contraddittorie le ferivano il cuore. . Fu il senologo a chiederle come si sentisse e se avesse avuto qualche ripensamento in merito all'intervento. Alessandra gli rispose di no, ma gli domandò di fare il possibile perché la sua qualità di vita non avesse a soffrire troppo dal cambiamento che sarebbe sopravvenuto domani. Si sarebbe sottoposta con coraggio alla nuova avventura, così come aveva già fatto per altre due volte, ma il chirurgo era stato chiarissimo: Salverò il salvabile”, le aveva detto con una voce dolce e comprensiva che però non dava adito a dubbi. “Il mio obiettivo è sconfiggere il male. Se potrò, le farò un intervento conservativo, ma solo se sarò certo di consentirle una vita senza ulteriori rischi, altrimenti dovrò procedere all'enucleazione della mammella. E' bene che lo sappia”. Le aveva poi fatto una carezza sul viso ed era passato alla prossima visita. Era stato tanto caldo il sentirsi sfiorare da quella mano morbida che ad Alessandra parve di potersi affidare, finalmente. Cosa poteva fare di meglio, d'altra parte? Fra poco sarebbe arrivata l'estate piena. Rivide i suoi bei vestitini colorati esposti in bell'ordine nell'armadio. Avrebbe dovuto regalarli tutti? Li aveva scelti con tanta cura… Dentro di lei, la voce della sua amica Mimma La raggiunse per rassicurarla. Andrà tutto bene, vedrai, se no io che ci sto a fare? Questo non è che un episodio nella tua vita, non l'episodio che ne condizionerà il passaggio su questa terra. Stai tranquilla”? Le veniva davvero da dentro la voce amica, o era stato il suo desiderio a farsi pensiero rassicurante? Il 28 dicembre del 2008 non era destinato a rimanere nella testa di Alessandra come una solita domenica festiva tra le vacanze natalizie: uno perché a casa c'erano la sorella con il marito che, purtroppo solo per qualche ora ancora, l'avrebbero allietata con le loro chiacchiere, due perché la città si era svegliata simile ad un suggestivo presepio, imbiancato dalla neve. Stavano prendendo il caffè, quando l'indiscreto squillo del telefono obbligava la ragazza a lasciare la conversazione per vedere chi li cercava quasi all'alba, tant'era presto quella mattina. Era Dora, una persona che Alessandra non era solita sentire. La voce rotta dal pianto, la pregava di correre subito a casa da Mimma. La sua amica aveva appena lasciato questo mondo. Una notizia del genere avrebbe allarmato ed addolorato chiunque, figurarsi chi come lei le aveva voluto tanto bene da considerarla una sorella. Come cercare di parlare con calma per spiegare agli altri l'accaduto? Non c'era stato bisogno di dire nulla. Era bastato pronunciare il nome fra i singhiozzi, e la giornata festiva aveva presa tutta un'altra piega. La casa dell'amica, stracolma di gente, era spalancata. Il cuore di Alessandra si fece piccolo piccolo, ripensando a quanto la padrona di questa fosse discreta. Filò dritta in camera da letto, senza salutare nessuno. E fu lì che le apparve la bellissima persona che Mimma era sempre stata. Solo la posizione orizzontale, le sembrò innaturale. Così ben truccata, con i capelli acconciati come per una festa, il vestito di seta comprato per l'occasione, le scarpe a tacco alto, era stranissimo che quella bella donna se ne rimanesse coricata, indifferente a tutto quanto la circondava. Accanto al letto c'erano le due ragazze in lagrime. Qualcuno, salutandole, disse loro: “Ora lassù avete una stella che illuminerà il vostro cammino. Ogni sera guardate il cielo ed immaginate che la vostra mamma vi sorride. Vi sembrerà di vederla in una stella”. Per non rispondere male, Alessandra se ne uscì dalla camera irritata. Perché in momenti tanto tragici la gente avesse bisogno di aprire la bocca per dire tante sciocchezze, proprio non le riusciva di capirlo. Eppure non l'aveva pensata sempre così. Da bambina, in campagna, si soffermava spesso la sera ad alzare la testa in attesa di poter contare le stelle. Presto ne perdeva il numero, però, perché le veniva il sonno. Tra tutte le sedie occupate, c'era uno sgabello vuoto. Alessandra vi si sedette per starsene per i fatti suoi a pensare all'amica che non c'era più. Da lontananze remotissime, gli occhi le riportarono alla superficie della memoria un episodio che le era rimasto in mente per molto tempo. Le comparve un fotogramma che credeva dimenticato. Lei poteva avere non più di quattro anni. Il nonno era morto da poco quando una sera, stando in macchina con i genitori, aveva intimato a tutti di far silenzio. “Guardate lassù”, aveva detto convinta: “In quella stella c'è il nonno che ci guarda e ci sorride”. Nessuna l'aveva dissuasa da quella dolce illusione. Ma ora era grande, come le ragazze che piangevano la mamma morrta, e Mimma non le avrebbe sorriso da nessuna stella. Anche durante il funerale avrebbe voluto fuggire per non ascoltare il Prete che incitava le figlie ed il marito a non piangere, perché il passaggio tra questa vita e l'aldilà, per chi crede, è gioia e non tristezza. Sicuramente quell'uomo parlava non conoscendo Mimma, altrimenti come avrebbe potuto affermare stupidaggini di quel genere? Nella sua camera d'ospedale, decise di mettersi a letto per non parlare con nessuno, per non pensare addirittura, ma prima volle farsi una doccia. Com'era successo tante altre volte, la calda sferza dell'acqua le avrebbe rinvigorito i nervi, ma non aveva fatto i conti con lo stato di prostrazione nel quale tutta la sua persona si trovava. Infatti lo scroscio non fu benefico, questa volta. Sentì le gocce dell'acqua calda pungerle tanto la pelle da farle male. Sconcertata guardò in alto, e lo specchio le rimandò una figura che le sarebbe appartenuta solo fino all'indomani. Ebbe chiara la percezione del suo corpo e pianse. Dietro il velo delle lagrime, gli occhi le si posarono sul roseo seno ancora integro. Florido e bello come sempre, se lo sentì turgido sotto le dita e pensò alle sapienti carezze del suo ragazzo che sapevano farle raggiungere soglie del piacere mai immaginate. Dato che l'acqua calda e profumata del costoso bagno schiuma usato da sempre le era stata nemica, che le piccole punture di spillo le avevano offeso la pelle. Dispettosamente si asciugò e s'infilò nel letto. Nel letto estraneo, assenze giustificate, e non, le pesarono sul cuore. Facendo mente locale sul fatto che non solo Mimma non poteva essere lì con lei, le mancava la presenza di Giorgio che, temerariamente, aveva addotto una scusa più che plausibile per non esserci. Eppure diceva di amarla. Non avrebbe saputo dirlo, ma forse si addormentò. Quando riaprì gli occhi, avrebbe giurato di non essere sola. Da una parte e dall'altra del suo letto, simili agli angeli del quadro che ricordava di aver visto all'ouvre, c'erano due persone che la guardavano: a destra c'era Mimma che le sorrideva, mentre a sinistra si era materializzato dal nulla il suo ragazzo. Sul tavolo, poi, un gran fascio di rose rosse stipato in un vaso troppo piccolo per contenerle tutte, aveva mutato l'ambiente asettico nel quale era entrata, in un salotto di casa. Chi aveva detto a Giorgio del suo imminente ricovero? Fu la prima cosa che gli chiese. Campobasso, 29/06/2009 Mena Mascia 6 LA STELLA CADENTE Faceva caldo quella sera di fine luglio. Arianna era uscita sul balcone a cercare un po' di frescura. In effetti, una leggera brezza faceva tintinnare i ciondoli metallici appesi sopra la portafinestra propagando tuttintorno un soave suono che ricordava i templi tibetani. Con i gomiti appoggiati al parapetto del davanzale, la donna, non più giovane, osservava con felice stupore l'ultimo lembo di chiarore abbandonare la volta celeste per cedere il passo alla notte buia, proprio come accade nei grandi presepi meccanizzati. Ora, una bianca falce di luna troneggiava superba nel cielo, attorniata da una miriade di stelle, tutte sue devote suddite. Le luci della città erano più visibili dalle altre finestre dell'appartamento, ma la posizione di quel terrazzo dava l'opportunità di una visuale meno disturbata e, da quel punto d'osservazione, l'immenso mare cosmico sembrava ancor più vasto e senza confini. Arianna si chiese davvero quanto fosse disperatamente incalcolabile quel vuoto lassù, quel vuoto così colmo di piccoli lumini che pareva di poter toccare allungando una mano. Purtroppo non era così, le stelle erano lontane ed irragiungibili, restavano là, distanti e belle, magari solo echi di vite già spente Mentre il venticello giocava impertinente alzandole un poco l'orlo del vestito leggero, lei si perse nella contemplazione più assoluta e nei ricordi. Pensò alle stelle cadenti, che di lì a una decina di giorni avrebbero lumeggiato con le loro scie di fiamma, e ad una sera di molti anni prima. Giovane e bella, sulla soglia dei suoi meravigliosi vent'anni, troppo agitata per riuscire a prender sonno, si era affacciata alla finestra della piccola mansarda nella quale dormiva. Tra un sospiro e l'altro, aveva notato l'arco lucente disegnato nel cielo ed aveva espresso un desiderio, il suo grande ed unico desiderio. Voleva diventare una stella del teatro. Da anni studiava senza posa, impegnandosi al massimo e destreggiandosi tra turni di bambinaia e cameriera per pagarsi le lezioni di recitazione, di dizione e di canto. L'indomani sarebbe stato il gran giorno: il suo primo provino. Già immaginava di essere sul palcoscenico, sotto i riflettori, l'odore di polvere dei sipari ed il pubblico che non fiatava seguendo le sue interpretazioni magistrali. Si vedeva già famosa, con le sue foto sulle locandine, con mazzi di fiori nei camerini, gli applausi e i fans, gli autografi. Portava sempre al collo un ciondolo, una stellina d'argento legata ad un cordoncino blu, come a voler richiamare costantemente quel pensiero di successo, come un amuleto capace di attirare a sé le circostanze migliori per la realizzazione del suo progetto. Ma il destino aveva scritto una pagina diversa per lei. Il giorno dopo, con gli occhi cerchiati dalla notte insonne, si era preparata con cura, abito, trucco, capelli, tutto studiato nei minimi particolari per fare una buona impressione ed era partita, in notevole anticipo, con un'automobile presa a noleggio per l'occasione. Per scaramanzia, non aveva detto a nessuno di quel provino. Dopo qualche chilometro di guida nervosa, si era trovata la strada chiusa a causa di un'importante gara ciclistica. Lei non ne sapeva nulla, era rimasta segregata in casa a provare e riprovare le completamente dal mondo. sue parti fino ad estraniarsi Non ci voleva proprio! Scesa dalla vettura, si era avvicinata ad un poliziotto per chiedere quanto sarebbe durata quella faccenda. Il bel giovane le aveva risposto che non si poteva prevedere quando fosse transitato l'ultimo sportivo e quindi la conseguente riapertura al traffico delle vie della città. Arianna, sconsolata, era tornata a sedersi sulla sua auto in attesa, in preda all'angoscia, consultava di continuo l'orologio che pareva aver preso la rincorsa e voler viaggiare più veloce. Vedendola ancora ferma lì, dopo più di un'ora, come davanti ad un passaggio a livello, pronta a scattare non appena la sbarra si fosse rialzata, il poliziotto, carta e penna alla mano, aveva tentato di spiegarle una strada alternativa, facendole uno schizzo. L'orientamento della ragazza, però, era uguale a zero. Con molti dubbi in testa, amplificati dalla trepidazione al pensiero che probabilmente non sarebbe giunta in tempo al suo incontro, fece marcia indietro e si avventurò nel dedalo di vicoli che l'avrebbero condotta fuori dall'aglomerato urbano, per poi aggirarlo e rientrarvvi dalla parte opposta, quella non coinvolta dalla competizione. I semafori naturalmente diventavano rossi quasi per dispetto, un grosso camion le aveva impedito di procedere ad un'andatura sostenuta, un altro doveva far manovra e le aveva fatto perdere altri minuti preziosi, insomma, una serie di contrattempi inopportuni. Ciliegina sulla torta, aveva sbagliato strada imboccando un senso unico. Una vera catastrofe! Rifece marcia indietro, parcheggiò con un po' di difficoltà e proseguì a piedi. La rabbia, il sudore e la frustrazione avevano contribuito a rovinare il suo aspetto, ma la determinazione era ancora ferma. Tuttavia, quando arrivò all'indirizzo giusto e trovò la saletta d'attesa, dove altri come lei, aspettavano il loro turno, scoprì che Arianna Saleri era già stata chiamata e, non essendosi presentata, aveva perso la sua chance. Si abbandonò su una sedia vuota, affranta, delusa, arrabbiata con se stessa, poi in un impeto di collera si era alzata di scatto ed era uscita quasi correndo, facendo rimbombarei suoi passi nel corridoio dove riecheggiava la voce di qualcuno, che al contrario di lei, ora si trovava su un palco a tentare di dare il meglio di sé. Uscì all'aperto, si sedette sui gradini del grande palazzo, incurante di sporcarsi l'abito , la borsetta abbandonata lì di fianco, lo sguardo quasi vacuo, le labbra serrate in una smorfia eloquente: si sentiva una stella caduta ancor prima di aver brillato nel firmamento. Sentiva un groppo in gola, avrebbe voluto piangere ed urlare, ma cercò di darsi un contegno: pensandoci bene, in fondo quello era solo il primo tentativo, tuttavia, ciò che le bruciava di più era il non aver avuto la possibilità di misurarsi con altri. Non si era neppure resa conto che accanto a lei c'era un ragazzo, mesto e avvilito quanto lei, non perché non fosse giunto in tempo, ma perché semplicemente non aveva superato la prova. Cominciarono a parlare dei reciproci sogni, di nuovi studi, di altre opportunità, di certo qualcos'altro sarebbe sorto all'orizzonte. Questo scambio di idee li rese un pochino più fiduciosi nel domani, ma, per il momento, Gregory, così si chiamava il giovane uomo, doveva tornare ad una realtà ben più autentica, una tragedia che non terminava una volta tolta la maschera dell'attore, non esisteva un sipario calato a chiudere l'immenso mare di dolore e di preoccupazione che si portava dentro. Sua sorella Greta, di appena cinque anni, giaceva in un lettino d'ospedale in stato vegetativo in seguito ad una caduta dall'altalena . Il ragazzo chiese ad Arianna se voleva accompagnarlo a farle visita; lei, un po' titubante ed emotivamente provata, non sapeva se, quel giorno, fosse stata in grado di sopportare anche quel dramma. Tuttavia accettò. Fecero la strada a piedi e Gregory raccontò che quando era nata la bimba, lui aveva già compiuto sedici anni e se ne era innamorato perdutamente, la coccolava, la viziava, gliele dava tutte vinte, giocava con lei trascurando persino lo studio. Dall'incidente in poi, la famiglia sembrava essere piombata nell'oscurità più profonda e più assoluta, la casa era silenziosa e senza colori; mamma, papà e fratello si davano il cambio al capezzale della piccola per non lasciarla mai sola, parlandole in continuazione, tenendole la manina anche se Greta non reagiva ad alcun tipo di stimolazione. I medici non si pronunciavano: il risveglio poteva verificarsi come no. Giunti all'ospedale, i due ragazzi entrarono nella stanzetta in penombra, senza far rumore. Una signora ancora giovane, ma dal volto stanco e pallido stava su una sedia accanto al lettino dalle lenzuola candide. Era la madre di Gregory, il quale la baciò lievemente su una guancia e le disse di tornare a casa, sarebbe rimasto lui con la sorellina per tutta la giornata, la faccenda del teatro si era conclusa con estrema velocità e con esito negativo. La donna non fece neppure caso ad Arianna che se ne stava in disparte, notevolmente a disagio. Quando la porta si richiuse alle spalle di quell'anima disperata, la nuova amica di sventura, prese un'altra sedia e l'accostò sul lato libero del letto. Quasi con timore e con reverenziale lentezza, Arianna sfiorò con le sue mani le tenere dita inerti della bimba che pareva dormire. Il fratello le accarezzò la fronte scostando un ricciolo biondo, le inumidì le labbra rosee con un fazzoletto bagnato ed iniziò a canticchiare una filastrocca. La ragazza osservava prima l'uno, poi l'immobilità dell'altra, incapace di proferire parola o di emettere alcun suono che potesse violare quell'intimità fraterna. Da quel giorno in poi, Arianna si era recata in ospedale almeno tre volte la settimana, entrando pian piano sempre più in confidenza con quella situazione insolita, riuscendo talora a restare da sola per breve tempo con la piccola mentre, chi era di turno in quel momento, andava a prendersi un caffè o una boccata d'aria. E quando erano sole, quella stanzetta asettica ed anonima si trasformava in un teatrino: Arianna raccontava storie e favole inventate dal lei stessa, cambiando le voci ai personaggi, sussurrava, canticchiava, alzava un po' il tono, gesticolava, a volte indossava buffi cappellini o nasi finti, come se la sua spettatrice potesse vederla e sentirla davvero. I giorni trascorrevano apparentemente uguali, pigri e senza senzo, come trascinati da un locomotore arrugginito. Una sera d'inverno, Arianna aveva raccontato alla sua piccola paziente una fantasiosa storiella di una stellina caduta per errore sulla Terra, smarrita e piena di paura, ma che poi aveva trovato un bellissimo luogo caldo dove brillare, se ne stava trionfale appesa alla culla di un bambino. Prima di congedarsi da Greta, si era tolta il ciondolo a forma di stella e l'aveva poggiato delicatamente sul letto, vicino alla sua manina sinistra. La mattina seguente, quella stellina era nascosta nel pugno chiuso di Greta. Di lì a qualche settimana, la bimba si era svegliata, la ragazza era presente al tanto atteso momento e piangeva in silenzio, disperatamente felice con una mano stretta in quella di Gregory. Il sogno di diventare un ‘attrice era ormai sfumato, abbandonato sui gradini del palazzo del suo provino mancato, dove si era seduta mesi prima, forse la pioggia l'aveva dissolto e cancellato; Arianna aveva compreso cosa voleva realmente fare nella sua vita: avrebbe studiato per diplomarsi come infermiera professionale e avrebbe lavorato in un reparto di pediatria. E così fu. Divenne un'ottima infermiera, ma accanto alle competenze proprie del suo lavoro, univa la sua vecchia passione per la recitazione, non più volta al successo personale, ma come strumento per sdrammatizzare i momenti traumatici che i suoi pazienti spaventati dovevano affrontare. Giocava, scherzava, faceva dispetti ed inventava ogni sorta di trucco per preparare un bimbo ad un esame fastidioso, se non addirittura ad un intervento, , o semplicemente per far accettare iniezioni, tamponi e quant'altro. Cullava quei bambini come fossero figli suoi, era instancabile ed appassionata. Se i medici le davano il permesso e le concedevano lo spazio, allestiva siparietti e creava fondali con cartone e con polistirolo dove far recitare i piccoli che stavano meglio, come in un grande gioco di prestigio, pieno di colori dove per breve tempo ci si potesse dimenticare di essere ricoverati in una clinica. Aveva raccolto tutte le sue storie in un grande libro illustrato e le aveva musicate con effetti sonori e canzoni; le utilizzava secondo i casi, sempre attenta ad ogni esigenza. Inutile dire quanto i bambini si affezionassero a lei, come fosse una fata buona, prodiga di sorrisi e di piccole magie. Sapeva sempre cosa fare e cosa dire anche ai genitori che spesso si trovavano in difficoltà o non sapevano gestire i capricci giustificati e le paure dei piccoli malati. Tutto ciò aveva provocato episodi spiacevoli di invidia da parte di talune sue colleghe, ma non era certo colpa sua se possedeva questo amore innato e queste capacità empatiche alle quali nessuno poteva restare indifferente. Gli anni passavano, Greta cresceva sana, circondata da tanto affetto e da mille attenzioni, il ciondolo con la stella era diventato di sua proprietà e non lo toglieva mai. Arianna le era rimasta legata indissolubilmente, lei era stata l'astro che aveva illuminato il suo cammino. E nel suo cammino c'era anche Gregory, l'aveva sposato in un fulgido mattino di fine aprile, in mezzo ad un prato fiorito. Le difficoltà erano state molte, molti i sacrifici e le rinunce, ma la tenacia e la determinazione li avevano sempre accompagnati Da quel matrimonio erano nati due figli maschi, Luca e Michele, oramai divenuti adulti e partiti ognuno per la propria strada. Luca, con grande soddisfazione dei genitori, aveva intrapreso la carriera di regista, il secondogenito era uno stimato avvocato ed abitava con la moglie in un'altra città. Con un profondo sospiro, Arianna tornò alla realtà del suo terrazzo, commossa e felice di aver ripercorso la sua vita, tra i ricordi ancora così vividi nella memoria e così pulsanti nel suo cuore. Per un breve istante, una piccola nube nera passò davanti alla luna oscurandola, il vento era aumentato d'intensità e la temperatura sembrava più fresca. Le foglie dei gerani tremolavano appena e nell'aria si spandeva il profumo acre di una candela alla citronella, posizionata in zona riparata, accesa per tenere lontane le zanzare. I ciondoli metallici tintinnavano con maggiore insistenza. Adesso, la luna brillava nuovamente di luce argentata e le stelle punteggiavano il blu come una cascata di diamanti. Arianna era ancora persa nella contemplazione del mistero cosmico, non si accorse quando Gregory la raggiunse e la cinse da dietro in un tenero abbraccio ammirando lui stesso lo spettacolo celeste. Lei inclinò la testa appoggiandosi a lui come a cercare protezione, chiuse gli occhi per un momento, poi li riaprì nell'attimo esatto in cui una scia luminosa solcava il cielo andandosi a spegnere nell'oscurità infinita. Silvia Peroni 7 IL PRIMO UOMO NELLO SPAZIO «Vnimanie, vnimanie: gavarì Moskva»... «Attenzione, attenzione: parla Mosca. Dopo il completamento del programma di ricerche e di volo, la nave spaziale sovietica Vostok 1° ha compiuto un felice atterraggio nella zona prestabilita entro i confini dell'Unione Sovietica, alle 10,55 (8,55 ora italiana [NDR]) del 12 aprile 1961...» Jurij Levitàn, speaker di Radio Mosca, la voce ufficiale delle notizie sensazionali, colui che nel '53 aveva comunicato che Stalin era morto, annuncia al mondo la conclusione del volo nello spazio del primo cosmonauta della storia. Questa sera, gentili ascoltatori, abbiamo l'opportunità di sentire dalla viva voce del nostro ospite come sono andate davvero le cose. Il Maggiore Jurij Alekseevic Gagarin, che si trova nei Pascoli del Cielo, vestito con la sua uniforme con l'onorificienza d'Eroe dell'Unione Sovietica appuntata sul petto, ci accoglie con cordialità nel pezzo di giardino che gli è stato assegnato: «Da qui le stelle si vedono benissimo, meglio che dagli oblò della Vostok I!» Come si trova qui? «benone! Ci abitano persone che, durante la loro vita, hanno compiuto imprese speciali. Più avanti potrà parlare con quei Vichinghi che per primi sbarcarono in America o quei Polinesiani che attraversarono l'oceano per approdare in Australia. Per non nominare Henry Morton Stanley o David Livingston, Cristoforo Colombo o Ferdinando Magellano... Di tanto in tanto, la sera davanti al fuoco e ad un buon boccale, ci riuniamo insieme e qualcuno racconta le sue avventure. Più in là, poi, su questo stesso sentiero c'è il settore riservato agli scienziati...» E lei cosa si sente: un esploratore o uno scienziato? «Oh bella, un esploratore!!! Sono stato il primo uomo che ha visto la Terra dallo spazio ed ha dimostrato in maniera inoppugnabile che ruota intorno a se stessa come diceva il vostro Galilei.» C'era bisogno d'andar fin lassù per dimostrare una cosa che i nostri ragazzi studian alle scuole medie? In fin dei conti oggi nessuno mette più in dubbio la teoria eliocentrica! «Sì, però, finché io non ho descritto materialmente un'orbita, nessuno aveva mai visto la Terra da fuori!» Da alunno modello a cosmonauta. Bene, Maggiore Gagarin, perché non ci racconta la sua storia? «Nacqui a Klushino, nell'Oblast di smolennsk, il 9 marzo 1934 e morii il 27 marzo 1968, a Kirzak, a soli 34 anni appena compiuti. Fui un aviatore ed un cosmonauta dell'Unione Sovietica. Mio padre era un falegname e mia madre, una contadina. Crebbi in un Kolkhoz, una di quelle cooperative agricole che sorsero un po' dappertutto da noi. A scuola tutti i miei professori riconobbero che avevo una spiccata inclinazione per le materie scientifiche, tuttavia dovetti interrompere gli studi a causa dell'invasione tedesca del '41.» Poi come fece a diventare aviatore e cosmonauta? «Finita la guerra, M'iscrissi all'istituto tecnico-industriale di Saratov e conseguii il diploma di Metalmeccanico. Nel frattempo, scoprii che avevo la passione per il volo. Nel 1955 m'iscrissi in un aeroclub e feci la mia prima esperienza a bordo di un aereo: uno Yak-18.» E poi? «M'iscrissi ad una scuola d'aviazione: l'Accademia Aeronautica sovietica di Orenburg, dove mi diplomai a pieni voti nel 1957.» L'anno dello Sputnik... «Infatti. Quell'anno mi trasferii in Ucraina per perfezionare le mie conoscenze in alcune scuole speciali per l'aviazione.» E le sue capacità furono notate dai superiori... «Erano talmente entusiasti di me che mi permisero di collaudare sofisticate apparecchiature e di approntare test altamente specializzati.» La mia passione per il volo mi portò ad essere scelto nel 1959, insieme ad alcuni colleghi, per l'addestramento con l'obiettivo di diventare cosmonauta.» Lei ne fu orgoglioso? «Chi non lo sarebbe stato? Erano anni che studiavo e volavo e sentivo ormai che l'aviazione era la mia vita!» La grande impresa. E poi venne il momento della missione... «Dopo il soggiorno ucraino, ritornai a Zvëzdnyj Gorodok, insieme ad altri venti candidati per superare nuovi test attitudinali e infine venni scelto proprio io per affrontare la missione orbitale con un essere umano a bordo di una cosmonave.» Come si svolse la preparazione? «C'era una certa ansia: Iljuscin, un mio collega, aveva tentato una missione nello spazio prima di me, ma aveva fallito, pur tornando vivo a Terra. I dirigenti dell'agenzia spaziale sovietica volevano assolutamente realizzare l'obiettivo di spedire un uomo nello spazio, seppure per una sola orbita. Così la mia partenza fu anticipata al 12 aprile 1961 alle 9,07 (ora di Mosca [NDR]). La Vostok I (Oriente [NDR]) pesava 4,7 tonnellate. Era un luogo molto ristretto: io ero legato al seggiolino e non potevo far nulla perché tutto era comandato da terra. Sapevo che dovevo atterrare in un punto imprecisato, perché non si voleva che i nemici del nostro Paese, che sicuramente ci stavano spiando, s'impadronissero dei nostri segreti militari. Così, tramite la radio, potei dire quella parola "pandekali!" (partiamo [NDR]) e fui spedito nello spazio. L'orbita descritta era di forma ellittica: aveva un apogeo di 302 km ed un perigeo di 175 km. La Vostok viaggiava a 27.400 chilometri all'ora. Il volo complessivamente durò 88 minuti.» A parte queste informazioni, cosa provò quando le dissero che lei, proprio lei, avrebbe compiuto quell'impresa? «Che dovevo prepararmi in modo impeccabile perché non avrei avuto un'altra occasione simile.» Ci può raccontare il momento della partenza? «Di prima mattina mi fecero salire a bordo della Vostok. Era una navicella piuttosto piccola ed era difficile muovercisi dentro. Aveva un paio di oblò,attraverso i quali si poteva vedere l'esterno. La capsula si trovava in cima ad un razzo a tre stadi, alimentato da combustibile liquido. Tramite la radio di bordo, In cuffia, ero in comunicazione con la base terrestre. Indossavo una tuta corredata di bombole d'ossigeno. Mi legarono al seggiolino in modo da non cadere quando sarebbe avvenuto il lancio e per evitare di svolazzare per l'angusto ambiente quando mi fossi trovato in assenza di peso. Poi avvenne il lancio. Uno scossone. I motori del razzo spingevano come dei dannati e io vedevo dagli oblò che salivamo velocissimamente. Il cielo divenne improvvisamente nero e subentrò una calma irreale. Io, solo io, ero a bordo di quella navicella e stavo volando nello spazio a quasi 300 chilometri dalla Terra...» Fu lei a dare al suo volo il nome di Kedr (cedro [NDR])? «Sì, ed usai questo nomignolo nei miei collegamenti radio con la base.» E' passata alla storia la sua definizione della Terra come "pianeta blu"... «Durante il volo, guardando dalla navicella ciò che nessuno aveva mai visto prima, comunicai questa indescrivibile emozione. Ancora oggi, quando ci penso, sento come un brivido giù per la schiena. E' incredibile! S'immagini di vedere un mappamondo coi mari ed i continenti. Ovviamente una parte era illuminata dal sole e l'altra era al buio. Notai soprattutto l'azzurro degli oceani. riavvicinandomi, mi accorsi che l'Europa era in parte coperta da nubi, ma il colore che predominava era l'azzurro. Noi non ce l'immaginiamo neanche, ma la tonalità che proiettiamo nello spazio interstellare è proprio quello ed infonde in chi l'osserva una serenità straordinaria.» Venne il momento di rientrare... «Purtroppo sì! Effetuata l'orbita, cominciai la discesa. Si accesero i razzi frenanti e la capsula rientrò nell'atmosfera, passando per gli strati più densi. Però, ad un certo punto dovetti proiettarmi fuori dalla navicella perché la Vostok non era predisposta per un atterraggio morbido.» Non c'erano i paracadute? «No. Sapevo che quando fossi giunto all'altezza di 7 mila metri mi sarei dovuto tuffare coi paracadute che avevo attaccati alla tuta prima che la capsula si schiantasse al suolo.» così calai nella vasta pianura russa, nei pressi della località di Takhtarova. Erano le 10,20 (ora di Mosca [NDR]). Che sensazioni provò mentre si riavvicinava alla Terra? Aveva paura? «No, ormai la paura di volare così in alto mi era passata e quindi mi sentivo tranquillo. In più tutto funzionò alla perfezione. Si sa che quello è uno dei momenti più critici di un volo spaziale: se i costruttori delle capsule non hanno lavorato bene si diventa una stella cadente perché l'attrito sulle pareti esterne è così forte che si prende fuoco. In più, per alcuni minuti non si comunica con nessuno, perché la radio non funziona: si è proprio soli, soli con se stessi e bisogna sperare che tutto vada liscio. E tutto andò liscio!» E' vero - come ha scritto alcuni anni fa la Pravda - che certi soldati che la incontrarono subito dopo l'atterraggio le chiesero i documenti? «Fu un episodio molto imbarazzante, ma si spiega col fatto che in URSS la notizia del mio viaggio non era ancora stata data. Questi nostri militari, quando mi videro con la tuta ed il paracadute, non sapevano nulla di me e della mia missione nello spazio. Quando m'incontrarono in quella zona isolata non sapevano chi fossi. Poi la radio diede l'annuncio e fui molto festeggiato. In realtà, certi contadini, che mi videro con la tuta spaziale ed il paracadute, mi offrirono, come si fa da noi con gli ospiti, pane e cipolle.» Il trionfo. Al suo arrivo a Mosca - raccontano le cronache - migliaia di russi l'accolsero come un eroe! «Sì, le garantisco che fu un momento straordinario della mia vita: sapevo che in quel momento ero nei cuori di tutto il mio popolo. Io, in un certo senso, avevo rappresentato il mio grande Paese in questa impresa che non sarebbe stata possibile se tanti non si fossero sacrificati con me.» Come si sentì quando Nikita Krushcev l'insignì dell'onorificenza di "Eroe dell'Unione Sovietica"? «Ero veramente felice perché il nostro Paese aveva, grazie a me, raggiunto un obiettivo straordinario: gli americani, allora, erano molto più indietro di noi.» Si dice, in Occidente, che lei non sia stato il primo uomo a volare nello spazio... «Chi racconta queste bugie?» I fratelli Judica Cordiglia sostengono d'aver intercettato delle comunicazioni tra terra e spazio di un cosmonauta sovietico, di cui non è noto il nome, inviato nel febbraio 1961, che rantolava, come colto da un infarto mentre volava in una navicella simile alla sua Vostok. «Sono frottole di gente nemica dell'URSS. Io sono stato il primo uomo, come Valentina Tereshkova è stata la prima donna. Noi russi siamo stati i primi ad andare nello spazio.» Il sacrificio. riconoscerà, però, che ci son stati dei suoi colleghi che son morti in incidenti dovuti a cattiva fabbricazione delle navicelle... «Tutte le grandi scoperte scientifiche hanno bisogno di gente che si sacrifichi...» Come Vlaidimir Komarov? «Non doveva andare così!»? E come andò? «Nel 1967 lanciammo la prima navicella del progetto sojuz. Vladimir Mikhailovic fu scelto per il volo inaugurale. Però accadde che in fase di rientro gli strumenti di bordo per il pilotaggio della cosmonave non funzionarono a dovere. Komarov, da uomo esperto qual era, prese il comando delle operazioni, ma, una volta rientrato nell'atmosfera i paracadute non si aprirono. La sojuz si fracassò al suolo.» Lei ne fu molto addolorato? «Certo, volevo bene a quel nostro collega e speravo che la Sojuz diventasse la navicella ammiraglia del progetto spaziale sovietico.» Nei fatti lo è diventata! «Ha ragione, ma Komarov si è sacrificato!» Anche lei, un giorno, ha dovuto sacrificarsi! «Se allude all'incidente aereo in cui ho perso la vita sappia che, se volevo, avrei potuto salvarmi, ma sarebbero morte tante altre persone che abitavano in quel villaggio che stavamo sorvolando coi nostri MIG.» Ci può raccontare come andarono le cose? «Stavamo facendo un volo di prova su questi MIG quando all'improvviso ci siamo trovati di fronte ad altri due aerei. Per evitare di scontrarci con loro, siamo scesi troppo e siamo precipitati. Ma siamo riusciti a non cadere sulle case abitate. ci sarebbero stati un sacco di morti: bambini, donne, anziani. Se in quel momento mi fossi lanciato fuori dall'aereo mi sarei salvato, ma loro sarebbero morti: preferii sacrificarmi. Nel momento della mia morte per un attimo pensai al dolore che avrebbero provato mia moglie e i miei bambini! So, però, che il mio gesto è stato lodato nel mio Paese e penso che anche loro credano che Jurij Alekseevic era un brav'uomo.» Un Eroe? «No, uno che non ammazza gli altri per salvare se stesso. Vede gli eroi non sono solo quelli che fanno grandi scoperte o compiono delle esplorazioni straordinarie, mai avvenute prima, ma che nel momento in cui devono fare delle scelte non pensano solo a sé, ma si ricordano che ci sono anche tante altre persone che hanno diritto di vivere.» Sa che nel mio Paese ci sono ancora delle vie intitolate al suo nome? «Lei mi sta dicendo che sulla Terra ci si ricorda ancora di me? Ne sono veramente orgoglioso!» Ci tende la mano e ce la stringe con forza: «Ho sempre ammirato l'Italia e gli Italiani, anche se non ho mai potuto visitare il vostro Paese. Se da voi ci si ricorda ancora di me vuol dire che non sono passato invano sulla Terra.» Le stelle ed i pianeti si vedono meglio qui o sulla Vostok? «Da qui, da qui: sono veramente meravigliose!!!» Come la Terra vista dalla Vostok? «No, quello no: è una sensazione talmente straordinaria che me la porterò sempre con me.» Bologna, 7 settembre 2009 Pier Luigi Giacomoni 8 IL CASTELLO FATATO Miriam era figlia di contadini; la più piccola di tre figli. Per motivi di salute fin da piccolina era costretta a stare per lunghi periodi fuori casa, lontana dalla famiglia! Per questo non faceva nessuna fatica a socializzare con estranei. Fino all'età di quattordici anni, da un ospedale all'altro! Da una città all'altra! Poi appena adolescente, decise di recarsi in un'altra città per studiare. Da quel momento si distaccò suo malgrado definitivamente dalla sua famiglia. Andava a casa solo per le vacanze natalizie, pasquali e estive. Naturalmente viveva in istituto. Li si fece diversi amici e amiche che l'aiutarono molto a non pensare che la maggior parte dei suoi parenti l'avessero quasi dimenticata. La mamma diceva che Miriam stava meglio lontana da casa, perché per lei erano più importanti gli amici della famiglia. Come la conosceva poco! O meglio, non la conosceva affatto. Un bel giorno quando Miriam aveva sedici anni conobbe un uomo, che aveva diciotto anni più di lei! Fu una bella storia, ma difficile per svariati motivi, uno dei quali era che lui viveva in un'altra città. Durò solo due anni, perché purtroppo si ammalò e morì!. Miriam confidò il suo grande dolore alla mamma e alla sorella, ma si rese ben presto conto che a loro poco importava del dolore che lei provava o forse nemmeno lo capivano. Miriam cominciò a pensare che con la morte del suo ragazzo, un'altra stella si era aggiunta in cielo a vegliare su lei! Infatti non c'era giorno che lei non rivolgesse gli occhi al cielo puntando ora questa, ora quell'altra stella, pensando al nonno, agli angioletti e ora a quel bel giovane che l'aveva lasciata per vegliare meglio su lei da lassù! Intanto si fece vivo con una bella lettera una sua fiamma adolescenziale, la corrispondenza con Mirko durò per quattro anni buoni. Finchè un bel giorno decisero di incontrarsi. Fu un incontro fantastico! Da tanto tempo desiderato. La seconda sera, si recarono in spiaggia, dopo aver camminato a lungo a piedi nudi con l'acqua a mezza gamba, raccontandosi a vicenda parte della loro passata vita; finirono a terra abbracciati, si amarono ardentemente a due passi dal mare che da tanto era calmo sembrava una tavola blu. Lui dopo l'amore si addormentò; lei tra mille pensieri, domande alle quali non sapeva dar risposta, da prima si mise a scrutare il cielo blu notte che miriadi di stelle, stelline che sembrava si rincorressero, giocassero a nascondino, rischiaravano e il mare sottostante nel rifletterle sembrava unirsi al cielo formando un immenso blu. Lei si mise a costruire un castello di sabbia, una lacrima le scivolò lungo il suo tondo visino, volse gli occhi al cielo e pensò: che bello sarebbe abitare un bel giorno in un castello vero, lontano da tutto e da tutti, insomma in un immenso blu, col suo principe azzurro che ora mentre lei costruiva il castello di sabbia e piangeva, dormiva ignaro dei suoi fantasiosi pensieri. Quando lui si destò, la vide immersa nei suoi pensieri, incantata davanti a quel ormai terminato castello per lei fatato. Lui disse: - E' meraviglioso! Mentre io dormivo tu hai costruito un così grande castello! – E lei: - Lo sai? Questo è un castello fatato! Dentro c'è una bimba che ha sempre sognato il suo principe azzurro che ora è arrivato! E poi, vedi? Dal mare è circondato; il cielo da stelle adornato gli fa da tetto. Si abbracciarono guardando sognanti il meraviglioso castello di sabbia e abbracciati si addormentarono Nella notte mentre i due innamorati dormivano, si alzò un forte vento che fece crollare quel meraviglioso castello, costruito con tanto amore, cura e speranza! Al risveglio videro lo scempio; desolati e tristi, si alzarono per fare ritorno alla di lui casa. Camminarono silenziosamente, tenendosi per mano; con in cuore la tristezza della consapevolezza che quel loro breve vissuto sarebbe rimasto nel tempo solo un bel ricordo! L'indomani mattina ella ripartì. Era una bellissima giornata di Giugno; il sole splendeva alto in cielo, ma nel suo cuore di fanciulla, solo pioggia di lacrime. Il rapido era strapieno di gente chiassosa. Lei sedette in un cantuccio accanto al finestrino con nel cuore già il rimpianto di chi aveva amato tanto!. Le si sedette accanto una signora con tanta voglia di chiacchierare, ma lei aggiustandosi gli occhiali per non far trapelare i suoi bei azzurri occhi lucidi, si sistemò meglio che poteva sul suo sedile, facendo finta di dormire. Ad un certo punto sentì una voce forte: - Signori, biglietto, signori, biglietto! Aprì gli occhi, il controlloree ra proprio lì, davanti a lei! Allora capì, si era davvero addormentata! Si stiracchiò, poi aprì la borsetta e porse il biglietto a quel bel uomo di mezz'età che le stava di fronte! Mentre lui lo prendeva, le disse: - Con calma signorina; dormito bene?... Ma come mai quell'espressione così triste? Non è contenta che sia finito l'anno scolastico?... Si, perché non so, ma dall'aspetto, lei è così giovane che credo sia ancora studentessa!... O forse mi sbaglio? Miriam ancora tutt'assonnata, lo guardava incredula! Come si assomigliava al suo principe che aveva lasciato in un'altra città solo qualche ora prima. Era forse una decina d'anni più grande, si perché non voleva usare la parola vecchio! Ma come gli assomigliava! Alto quasi più di lui, biondo come lui, capelli un po mossi, niente barba come Mirko. Lo guardò ancora un attimo in silenzio e poi disse: - Ma col treno così affollato di gente, ha tempo di perdersi in chiacchiere con me?! E lui: - Non avrei tempo, ma con una fanciulla così carina, il tempo si trova, non credi? E ancora: - Come ti chiami? Io Italo. Lei porgendogli la sua gelida mano, - Miriam. – Piacere - disse lui e lei dolcemente gli sorrise. - Beh! Ora è meglio che io continui a fare il mio dovere! - e così dicendo, si alzò dandole un buffetto su uno zigomo. E poi: - se faccio in tempo, prima che tu arrivi a destinazione ripasserò, non fosse altro che per salutarti! - Ok! - replicò lei e si risistemò meglio che poteva sul suo sedile, ma sapeva già che non sarebbe più riuscita ad addormentarsi, perché la sua destinazione era ormai prossima! E poi una miriade di pensieri le affollavano la mente! Che strano-poche ore prima pensava solo a Mirko che aveva lasciato a quasi seicento km. Di distanza; e ora che sentiva ancora quella chiara, calda voce: “Signori biglietti! Biglietti signori!” Era da essa affascinata, ma ancorpiù l'aspetto fisico di Italo la intrigava! Che stupida son stata! Si diceva, avrei potuto chiedergliquanti anni hai, dove abiti, sei sposato o fidanzato! E ancora mille altre cose! Invece la mia timidezza o stupidità, mi hanno bloccata! Mentre si riempiva la testa di tutto quello che avrebbe potuto chiedergli e non l'ha fatto; il treno fa una sosta! Scende tantissima gente, ma altrettanta ne sale! Il posto che poco prima era stato occupato dal controllore viene preso da una bella ragazza che subito cerca di prendere con Miriam un argomento di conversazione, lei daprima fa la sostenuta, ma poi decide che arrivati a questo punto-sarebbe stato meglio socializzare, così dopo le presentazioni cominciarono a parlare. Luisa, così si chiamava la nuova compagna di viaggio aveva con sé una yogurtiera; ad un tratto si alzò per aggiungere del latte ai fermenti vivi-dicendo a Miriam: - Ne vuoi un po'? Te li posso mettere in questo contenitore, e le fece vedere un piccolo recipiente di plastica col coperchio. E ancora: - Per stanotte puoi lasciarli qui dentro, poi domani ti premunisci di una yogurtiera e aggiungendo di tanto intanto del latte, avrai sempre in casa yogurt freschissimo! Miriam ascoltava e guardava schifata quel che Luisa faceva-poi disse: - No, grazie, non me ne dare-non sono costante! Li farei morire subito! E ancora: - Io lo yogurt preferisco comprarlo confezionato! - Come vuoi; guarda che te lo do volentieri! – replicò Luisa. - Lo credo! Ma davvero non riuscirei a gestirlo! Mentre parlavano riapparve il controllore che rivolgendosi a Luisa: - Signorina, mi favorisca il biglietto! E lei: - E se non ce l''avessi? - Mi vedrei costretto a farle una bella multa! Luisa guardò Miriam e le fece l'occhiolino. Miriam subito non capì il perché di quel segno, ma le sorrise. I due continuarono a battibeccare, Miriam tirò fuori dalla borsa un libro-tascabile e per togliersi dall'imbarazzo, si mise a leggere. Ad un certo punto Italo si scusò con lei: - Ero ripassato di qui per fare ancora qualche chiacchiera con te, e guarda chi ti dovevo incontrare! Ma non tutto il male viene per nuocere! - e poi rivolto sempre a Miriam: - Siete forse amiche voi due? E lei: - Ci siamo conosciute un'oretta fa, ma niente e nessuno ci può vietare di rimanere in contatto e diventarlo! - Certo! - ueplicò lui. Luisa intanto tirò fuori il biglietto e lo porse a Italo che prendendolo disse:: - E ci voleva tanto! Lei non replicò, ma rivolgendosi a Miriam: - E' proprio vero che dell'acqua che non vuoi bere, ti ci affoghi! E ancora: - Io oggi ne avrei fatto volentieri a meno di incontrare questo individuo, - naturalmente facendo riferimento al bel controllore, - ma si vede che questo incontro era scritto nelle stelle! Tu ci credi? Miriam sorridendo, - Se ci credo! Non lo dico a nessuno, ma a te ora devo proprio dirlo! Non solo ci credo, ma ogni tanto mi diletto anch'io a interpretarle! - Davvero! - replicò l'altra; - allora mi devi assolutamente lasciare il tuo numero di telefono, e -aggiunse:- mi piacerebbe che almeno una volta tu le interpretassi per me! - Lo farò con piacere, ma ricordati che io non sono una professionista! - disse con modestia Miriam. Italo che aveva ascoltato tutta la conversazione delle due ragazze, s'intromise, rivolgendosi a Miriam: - No, scusa, ma adesso il tuo numero lo devi dare anche a me! - E continuò: - Sì, perché anch'io ci credo! E vorrei poterti contattare. – - Certo! - replicò Luisa, rivolgendosi a Miriam: - vorrebbe poterti contattare per vedere se le stelle per lui in un non lontano futuro prevedono un'altra preda che poi diventerà vittima! - Non essere così crudele, - le disse lui. Miriam un poco imbarazzata disse: - Non so che cosa ci sia stato tra voi due, ma mi pare di capire che ora non corra molto buon sangue! Comunque, sono solo affari vostri.Luisa replicò: - Ti basti sapere che a una settimana dal nostro presunto matrimogno, mi ha rivelato di essere già sposato! E lui: - Lo sai Luisa il motivo per cui non te l'ho detto prima! Ti amavo troppo e avevo paura di perderti anzi-tempo! Comunque ora sono separato! Miriam pensò: “interessante!” Volse il volto verso il finestrino e esclamò: - Accidenti! Sono arrivata! – Raccolse in fretta la borsa di paglia che aveva deposto sotto le gambe, si mise a tracolla la borsetta bianca e salutò, prima Luisa, poi il bel controllore che reclamò: - A me niente bacini?! Allora Miriam baciò anche lui. Appena scesa, le sovvenne che si era scordata di dare ai due il numero di telefono; peccato pensò – mi sarebbe piaciuto risentire Luisa, pazienza, ormai è fatta! E ancora – se sarà scritto nelle stelle prima o poi ci rivedremo! Mentre scendeva le scale della stazione, pensava ancora – sarebbe bello rivedere anche Italo, ma forse mi attraie così tanto, perché assomiglia in un modo esagerato a Mirko? Si domandò. Arrivata a casa, la sua vita riprese il vecchio tran-tran di sempre! Andava a lavorare, alla sera sbrigava le faccende di casa; spesso nei fine-settimana si recava dai suoi genitori che la martoriavano sempre con la solita domanda: - Cosa aspetti a trovarti un marito? - E lei sempre replicava - Quando le stelle decideranno lo troverò anch'io! Una sera di Agosto, dopo cena decise di recarsi da sola in spiaggia. Era ancora in ferie, ma era già tornata per riordinare ulteriormente la sua casa, alla quale teneva tanto! Quel giorno era stato per lei particolarmente triste! Già dal mattino presto si era destata inversa, perché la notte precedente aveva sognato il suo adorato nonno, morto una decina di anni prima, ma che lei ricordava e pensava assiduamente! Nel sogno si era rivista piccola imbraccio a lui. Pensava “che bello sarebbe stato averlo ancora, potergli raccontare del suo ragazzo morto qualche anno fa; parlargli di Mirko e perché no! Anche di Italo e Luisa!” Invece ormai doveva accontentarsi, quando era fortunata di vederlo solo in sogno e pensarlo ogni volta che le faceva piacere. Così dopo aver sfaccendato per tutta la giornata, tra un pensiero e laltro; giunta la sera, stanca-morta, salì sulla sua panda rossa e si recò in riva al mare. Guidava con frenesia, frenando bruscamente per ripartire ancor più velocemente. Finalmente arrivò sana e salva! Pensò: “anche stavolta le mie stelle del cielo mi hanno aiutata!” Settembre 2009 Mariangela Zaccone 9 ADDIO TERRA Introduzione Questo è un brutto racconto e non credo che possa terminare così, perché sento che fa parte di una storia molto più grande e articolata. Il racconto apparentemente catastrofista contiene una pandemia, e anche per questo motivo ho avuto tante indecisioni a pubblicarlo. Fatto sta che ho iniziato a scrivere di questa pandemia molto tempo prima che iniziasse quella vera o presunta dei nostri giorni. Ora non ho potuto fare a meno di ritoccare il racconto, dato che si tratta di una sorta di memoriale storico, includendo anche alcuni cenni all'influenza che in questo periodo spopola tra i nostri telegiornali. Ci tengo a precisare che tutto ciò che scrivo qui è frutto della mia fantasia (potrebbe essere diversamente?!). Alcuni fatti storici sono veramente accaduti. Altri, anche se veri, li ho piegati ai fini della storia del racconto. Anche se è uno dei racconti più neri e pessimistici che abbia mai scritto, spero che tu lettore riesca a cogliere qui il messaggio di speranza che ho voluto trasmettere. Pertanto non osservare solo la distruzione e la morte, ma sappi cogliere la nuova speranza nella rinascita del genere umano. 1 Quel giorno l'aria era particolarmente pungente. Il capitano Yosef Henlil si coprì la faccia e, come tutte le mattine da circa un anno, si recò allo spazioporto per coordinare i preparativi d'imbarco. Erano giorni frenetici: mancava una settimana alla partenza e i dettagli da rivedere o riarrangiare si moltiplicavano di ora in ora. La base era sonnolenta come lo stanco ondeggiare delle fronde. Erano le 4.30 del mattino, l'ora consueta di inizio lavoro, e nel parcheggio c'erano solo poche e sparute vetture. L'illuminazione alogena tutt'intorno al perimetro cominciava a confondersi col grigiore metallico dell'alba mentre il timido cinguettio di qualche uccello echeggiava dalla foresta circostante. Il basso ronzio degli accumulatori di energia faceva da tappeto agli sporadici sibili dei servomotori per l'autoregolazione dei canali di aerazione. Le porte si richiusero dietro le spalle del capitano. Alcuni settori erano ancora bui, in altri le luci giallastre indicavano la presenza di membri del personale. L'uomo si scoprì il viso e si diresse verso un ampio corridoio tappezzato di mappe geosatellitari. "Buongiorno", disse al sensore di porta del suo ufficio. La porta con una morbida accelerazione si aprì. Il sensore aveva trasmesso il suono al sistema interno, che l'aveva analizzato, comparato, diversificato e riconosciuto. Quel sistema era attivo da oltre mezzo secolo e nonostante tutto funzionava ancora alla perfezione. Nessun altro sarebbe potuto entrare nel suo ufficio, nemmeno registrando e ritrasmettendo la sua stessa voce: il sistema non ne avrebbe mai accettato una copia facsimile. Lui credeva che tale marchingegno fosse dettato dalla paranoia dei tecnici piuttosto che dall'effettiva necessità: la civiltà del neoevo era del tutto priva di criminalità, servizi segreti e eroi in stile James Bond, quel famoso personaggio della narrativa di fine novecento. Con l'eliminazione del sistema monetario, in quel residuo di mondo erano in poche decine di anni sparite tutte le manifestazioni negative connesse al profitto e alla proprietà. L'ufficio era un'ampia stanza con un arredamento sobrio e con un leggero retro-odore di carta, un po' come una vecchia biblioteca del ventunesimo secolo. Un grande tavolo col piano rivestito di un visore aptico occupava un lato della stanza. Due scansie dai ripiani pieni di grossi tomi coprivano interamente le due pareti ai lati. Alle spalle del tavolo, da una grande finestra opaca, si intravedeva la pista interna della base. L'uomo si avvicinò al pannello e schiarì la superficie. Guardò la NOAH13, l'ultima astronave rimasta sul pianeta. Un rimorchiatore stava trasportando un grande container di viveri mentre quattro operai lo aspettavano vicini ad un sollevatore che l'avrebbe imbarcato nella nave. Si ravviò una ciocca canuta di capelli e appoggiò la mano al pannello, percependone una piacevole frescura. Pensò al compito che lo aspettava e alle vite che avrebbe traghettato nel nuovo mondo, come l'ultimo moderno nocchiero. Chiuse gli occhi. Giorno dopo giorno una inquietudine crescente gli montava dalle viscere, prendendogli stomaco, cuore e cervello. Faceva una fatica immane ad osservare tanta perduta bellezza e a pensare di lasciarla al suo destino. O forse era il contrario? Sorrise amaramente. A pensarci bene era il genere umano ad essere stato abbandonato, vissuto lì per un frammento di vita, in quello splendore perduto per tanti, ma ancora vivo, pulsante. C'erano giorni in cui si addentrava per la foresta, lontano da tutti, e respirava a pieni polmoni, abbracciando avido tutto il pianeta, come se volesse mettere radici per diventar con esso una unica cosa. Poi piangeva silenziosamente, donando a quel luogo le sue ultime lacrime. In quei momenti di sconforto si gettava a capofitto nel lavoro, e più si sentiva oppresso dal peso che lo gravava, più si consumava in quell'attività frenetica, quasi volesse ricostruire col suo lavoro ciò che millenni di vita avevano distrutto. Come si fa a vivere sentendo le medesime vibrazioni che scuotono elettricamente il proprio corpo e purtuttavia restare immobili a danzare in una perenne pantomima di realtà? Così come un faro che nei giorni di burrasca indica la salvezza ai marinai più coraggiosi, sentiva il suo coraggio venir meno, osservando da lontano quella luce intermittente che si faceva sempre più fioca e evanescente, e nonostante tutto così prepotente e inquietante da mettergli addosso un malessere nero come un universo in espansione. Al suo tavolo il computer illuminò il visore e emise un tenue segnale sonoro: aspettava un suo cenno vocale per iniziare l'attività di ricerca. L'uomo si riscosse dalle sue elucubrazioni, riopacizzò la finestra, si sedette e sfogliò la documentazione che gli restava da inserire. Ogni capitano aveva il compito di scrivere e controllare parte del memoriale che l'umanità lasciava al destino della Terra. Lui era l'ultimo a ottemperare a un simile lavoro. Ormai non restava altro che controllare ciò che l'umanità aveva scritto negli annali della sua travagliata storia. L'archivio centrale conteneva il racconto prepotente dell'uomo, la natura al di là della finestra tacitamente si leccava le ferite provocate da quell'invadente ospite. I prodromi del disfacimento dell'ultima delle civiltà terrestri si ebbero nella seconda metà del diciannovesimo secolo, quando il mondo occidentale iniziò un processo di industrializzazione selvaggia che lo portò in pochi secoli a disastri ambientali irreversibili. A denunciare e a prevedere questo fenomeno, seppur limitatamente agli aspetti socioeconomici, fu il movimento luddista, nato alla fine del diciottesimo secolo. Distruggevano le macchine, come se la distruzione causata da una guerra avesse potuto bloccare il flusso di denaro che ne oliava gli ingranaggi. Nel 1945, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, venne impiegato per la prima volta il nucleare. Furono gli Stati Uniti d'America che nel luglio di quell'anno nel deserto del New Mexico effettuarono il Trinity test, dove fecero esplodere per la prima volta una bomba atomica. Qualche giorno più tardi, il 6 agosto a Hiroshima e il 9 a Nagasaki, due città del Giappone, gli Stati Uniti d'America sganciarono due bombe atomiche che in pochi attimi fecero decine di migliaia di vittime. I numero di morti si moltiplicò nei mesi e negli anni a venire. Il disastro ambientale immediatamente e posteriormente al bombardamento fu immane: le radiazioni nucleari sino alla metà del ventunesimo secolo furono causa di morte e malattie in tutte le aree limitrofe. Hiroshima e Nagasaki diventarono le due maggiori zone desolate e improduttive del Giappone. Dopo il 1945 diversi Stati condussero ripetuti esperimenti nucleari, soprattutto per fini bellici. Stati Uniti d'America, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, India, Israele, Sudafrica, Taiwan, Pakistan e altri Stati minori adibirono intere aree terrestri e marine per testare i loro ordigni nucleari. Conseguenze dirette sull'uomo questi esperimenti non ne ebbero, ma provocarono un disastro ambientale all'intero ecosistema delle aree interessate. Nel 1986 un'altra catastrofe ambientale si verificò in Russia (dal 1991 quella stessa regione divenne lo Stato indipendente dell'Ucraina). A causa di errori umani, nella centrale nucleare di Cernobyl si ebbe l'esplosione di un reattore, che provocò la dispersione di grandi quantità di materiale radioattivo. Nei giorni e nei mesi successivi una nube radioattiva interessò buona parte dell'Europa. L'area di Cernobyl fu totalmente evacuata e non vide mai più insediamenti umani. 2 La NOAH13 era l'ultima astronave rimasta sul pianeta, adibita alla migrazione degli ultimi duemila uomini della Terra. Sin dai primi anni del ventiseiesimo secolo, l'umanità, già sterminata dal susseguirsi di svariate catastrofi ambientali, decise di migrare su un altro sistema solare, dato l'imminente esaurimento delle risorse naturali e vista l'insostenibilità della qualità di vita a cui si erano ridotti i due milioni di sopravvissuti del pianeta. Agli inizi del venticinquesimo secolo la prima spedizione interstellare aveva individuato un pianeta simile alla Terra in uno dei sistemi solari della Cintura di Orione. L'equipaggio della spedizione NOAH1 al ritorno sulla Terra riferì che il pianeta sembrava allo stadio primordiale e privo di contaminazioni nocive, ideale per la colonizzazione da parte dell'uomo. Per tutto il venticinquesimo secolo i viaggi interstellari verso e da quel sistema si ripeterono più volte a cadenza sempre maggiore. Equipe di scienziati e tecnici studiarono minuziosamente per anni l'ecosistema del pianeta reputandolo infine idoneo alla vita del genere umano. Il pianeta aveva una gravità e una massa leggermente inferiori a quelli della Terra. C'erano continenti, oceani, foreste pluviali e tropicali, corsi d'acqua, specie di mammiferi, rettili, uccelli e insetti, alcuni molto particolari e di grandi dimensioni, e un'aria decisamente pura e respirabile. Insomma era un eden incontaminato, ideale per la vita e per la colonizzazione. La decisione di migrare su di esso arrivò dopo il 2496, quando la spedizione della prima astronave della serie NOAH scoprì una costruzione piramidale in una zona del pianeta che non era ancora stata esplorata. Le ipotesi sulla primordialità del pianeta allora caddero. Era palese il fatto che quella piramide aveva origini artificiali. Costruita di un materiale sconosciuto, resistente agli agenti atmosferici, spiccava per la precisione delle sue linee. Le analogie con le piramidi terrestri si sprecarono. Ipotesi piovvero da un po' tutte le branche scientifiche. Il mistero della costruzione fu risolto nel decennio tra il 2512 e il 2522, quando un equipaggio di tecnici, effettuando degli scavi intorno al suo perimetro, trovarono un portale finemente decorato di bassorilievi in cui erano rappresentati degli esseri, simili agli uomini, impegnati in scene di vita quotidiana, o intenti a costruire quella piramide, o a indicare luoghi e mappe stellari oppure a descrivere le basi del loro linguaggio. La tecnologia che gli uomini trovarono al suo interno era di un livello più avanzato di quella terrestre. Aveva strumenti dal design gotico, semplici e immediati da comprendere, grazie anche ai grafici stilizzati che ne facevano intuire l'utilizzo. Fu trovato un archivio di documenti in vari supporti, da quelli scritti a stampa su un materiale simile alla carta, a quelli consultabili tramite connessioni sensoriali. Le informazioni che sconvolsero gli uomini furono quelli a trasmissione cerebrale. Particolari esagoni metallici, racchiusi in una mano, trasferivano all'ospite una conoscenza tramite esperienze illusorie che interessavano i cinque sensi e la propriocezione, aprendo molteplici canali cognitivi e facendo vivere delle esperienze virtuali di vivida nitidezza. L'esperienza era simile alle visioni indotte dalle droghe sintetiche e naturali, diffusesi ampiamente alla fine del ventesimo secolo, con la differenza che il passaggio dallo stato vigile a quello di trance con l'esagono avveniva in modo parallelo e naturale, come se si vivesse per poco tempo due vite in un intenso e totale stato catatonico di schizofrenia organizzata. Anche il lavoro dei linguisti fu decisivo: si dedicarono allo studio delle strutture del linguaggio e alla comprensione dei documenti ritrovati. Seppero così acquisire in pochi mesi le informazioni essenziali che quella civiltà aveva lasciato, presumibilmente proprio per eventuali visitatori di altri mondi. Il problema a cui far fronte per una possibile colonizzazione fu quello del fabbisogno energetico. Ciò che si doveva assolutamente non fare era lo sfruttamento selvaggio e l'inquinamento delle risorse naturali e dell'ecosistema. Gli antropologi e i sociologi non si facevano però illusioni: era nella natura dell'uomo essere parassita dell'ambiente in cui viveva. I buoni propositi sarebbero stati dimenticati nei millenni a venire, via via che l'umanità dimenticava le origini e le motivazioni di quella colonizzazione. Una soluzione la diede proprio la tecnologia presente nella piramide. Il sistema interno si autoalimentava dall'ambiente, così come facevano le piante e la vegetazione. La fotosintesi era una delle risorse maggiori di energia della piramide. La struttura effettuava anche una profonda simbiosi con la terra e il sottosuolo, o trasformava a proprio vantaggio l'energia cinetica dei venti e delle piogge. Era un elemento artificiale che si integrava con l'ambiente, sistema che resisteva in quel pianeta da centinaia di millenni. Il sottosuolo del pianeta era anche ricco di giacimenti petroliferi, a testimonianza che la vita biologica si sviluppava da centinaia di migliaia di anni. Alcuni scienziati discussero anche l'opportunità di sfruttare i giacimenti, almeno per la fase iniziale della colonizzazione. La proposta però fu scartata per via delle implicazioni che avrebbe avuto nel futuro della vita in quel pianeta. L'umanità non aveva ancora dimenticato l'esperienza terrestre, situazione che non si voleva che si ripetesse anche in quella nuova casa. Nella Terra, dopo il 1950, via via che la richiesta di petrolio aumentava, a periodicità sempre minore si verificarono diversi disastri petroliferi che interessarono l'ambiente marino di tutti i mari e oceani del pianeta. L'ultima catastrofe petrolifera si ebbe nel 2095 nell'oceano indiano. La disponibilità di petrolio, dopo poco più di un secolo di intenso sfruttamento, era giunta al termine. Le grandi compagnie petrolifere, associatesi per combattere la crisi in un'unica organizzazione, ottennero la concessione di estrarre il petrolio da sacche rilevate a chilometri di profondità dal fondale marino. Per effettuare tali estrazioni ci si avvalse di tecniche che facevano largo uso di esplosioni nucleari. Una vasta area del fondale marino non resse a tali sollecitazioni telluriche e sprofondò provocando una voragine ampia oltre due milioni di chilometri quadrati. La catastrofe fu duplice: il petrolio delle sacche sottostanti fuoriuscì distruggendo interamente l'ecosistema marino. Il maremoto che si scatenò provocò uno tsunami che investì tutte le coste e le isole dei paesi che si affacciavano nell'oceano indiano. La grande ondata dell'aprile del 2095 fu decine di volte più disastrosa di quella verificatasi nel 2004: morirono circa cinque milioni di persone, tutte le linee costiere vennero distrutte e tutte le isole si inabissarono per sempre. 3 "Avanti", disse il capitano Henlil. La porta si aprì automaticamente e una donna di media statura entrò con in mano una cartella di documenti. "Buongiorno", disse poggiando sul tavolo l'incartamento. Si aggiustò il colletto del lungo camice bianco. "Buongiorno, Inanna... cos'hai lì?". Disse l'uomo. La dottoressa Inanna Rogers era il medico che dirigeva e curava i lavori del reparto sanitario. Era una donna energica di media statura, coi capelli corvini legati in una lunga e fluente coda che, come quel giorno, infilava all'interno del camice per evitare che disturbasse il suo lavoro. "Sono le analisi cliniche degli ultimi passeggeri." Gli rispose con una smorfia. "Tutto bene?" Gli chiese Henlil chiudendo un fascicolo e riponendolo in un cassetto. "Nella norma", gli rispose lei sgranchendosi le spalle. "Una decina di casi di influenza che dovrebbero rientrare prima della partenza, e comunque per l'attraversata abbiamo uno stato sanitario sostenibile. Ci sono invece dei problemi per quanto riguarda lo stato psicologico di alcuni soggetti, che non accettano l'idea di lasciare la Terra." L'uomo emise un grugnito e le sorrise di sbieco. Il rapporto con la dottoressa Rogers non si limitava al solo lavoro. Inanna era una amica di vecchia data che conosceva a sufficienza il profondo attaccamento dell'uomo per il pianeta. Spesso insieme al suo compagno trascorrevano delle serate con Yosef confidandosi dubbi e timori della loro nuova sorte. L'uomo si alzò e si diresse verso una macchina elettronica che preparava a comando delle bevande. "Cosa prendi?" Le chiese. "Un caffé molto lungo, grazie." Le rispose la donna. "Un caffé doppio lungo e un caffé normale." Disse rivolgendosi alla macchina, che iniziò in un sommesso ronzio a preparare le due bevande. "Le specie dei piccoli mammiferi sono già state imbarcate?" Disse Inanna mentre sorseggiava il caffé che Yosef le aveva portato. "Sì, le hanno imbarcate ieri." Le rispose. "Abbiamo dieci coppie di venti specie di piccoli mammiferi e svariate coppie di uccelli e rettili." "E i lepidoptera?" "Sì, anche quelli", rispose l'uomo. Poi aggiunse: "sia farfalle che falene". Yosef premette un piccolo rigonfiamento sul visore aptico. Sul piano apparve un microambiente in cui alcune farfalle volavano da una pianta all'altra. I due per alcuni minuti osservarono in silenzio quella scena, mentre il pannello multimediale trasmetteva loro i suoni naturali di quel sistema. "Mi sembra un sogno", disse lei interrompendo il silenzio. "Un sogno..." le fece eco Yosef bloccando la scena in un fermoimmagine particolarmente suggestivo. "La nostra civiltà sta tornando alle origini, non pensi?" L'uomo non disse nulla. Inanna si alzò e andò a buttare i bicchieri di carta in un cestino biologico: il macchinario in pochi minuti li avrebbe assimilati e ricomposti in nuovi contenitori. "Non penso", rispose dopo un po' il capitano: "Siamo noi le nuove origini dell'uomo... e allo stesso tempo anche i suoi ultimi figli." Fece un gesto sul visore e le immagini ricominciarono a scorrere. "Tra un'ora ci sarà l'imbarco dei microambienti nella Noah: vuoi assistere?" Chiese a Inanna. Lei sorrise: "Noah... e tu hai pure una fluente barba bianca! Certo che vengo." Le navi della serie Noah erano state ventiquattresimo secolo, dopo alcuni secoli sperimentazioni, fallimenti e successi con costruite di nel intense l'impiego di antimateria per la produzione di energia. Mediante l'impiego di una evoluzione di protonio stabile, particelle formate da atomi di protoni e antiprotoni, si riuscì a far sì di trasferire la materia da un luogo fisico all'altro a velocità centuplicate da quelle della luce. Il processo consisteva nell'annichilire in energia lo scafo delle navi spaziali, mantenendo immutata la sua materia interna. Gli scafi così annichiliti entravano in una terza dimensione, diversa da quella della materia o dell'antimateria, che gli scienziati chiamarono "dimensione pensiero", data la sua natura di pura energia in cui era possibile superare ogni limite e distanza fisica. Lo scafo veniva dunque trasformato in "energia pensiero" e istantaneamente entrava nella terza dimensione, riuscendo a percorrere distanze fisiche a velocità inimmaginabili, per l'appunto chiamate "velocità pensiero". I viaggi interstellari divennero sempre più frequenti. Si sondava l'universo in cerca di un pianeta che potesse ospitare gli ultimi due milioni di esseri umani sopravvissuti. Nella seconda metà del venticinquesimo secolo venne trovato e studiato il pianeta che poi fu battezzato Nuova Terra. Dopo la scoperta della piramide, gli esploratori furono sconcertati dallo scoprire la storia che in essa era custodita: gli esseri umani erano i discendenti degli abitanti che mezzo milione di anni prima avevano popolato quel pianeta. I documenti ritrovati nella piramide raccontavano la storia di esseri simili all'uomo che, dopo aver esaurito le risorse di quel pianeta, cercarono e trovarono un altro luogo in cui vivere: era la Terra. Gli esseri umani erano quindi i figli di quei colonizzatori. I loro antenati avevano lasciato il pianeta di origine, affinché il lento processo naturale ne ripristinasse l'ecosistema ampiamente danneggiato. Sulla Terra avevano poi dimenticato le proprie origini, si erano quasi estinti, avevano viaggiato per i continenti, si erano insediati e avevano popolato delle aree, si erano evoluti e infine, come uno scherzo del destino, dopo aver consumato le risorse del pianeta, stavano ritornando al pianeta di origine. 4 Nel 1980 fu identificato un virus che poi fu classificato con l'acronimo HIV. La Sindrome di Immuno Deficenza Acquisita (AIDS) progressivamente colpì milioni di persone. Il virus si trasmetteva maggiormente per via ematica e sessuale. Per via della condizione mutagena del virus, il vaccino definitivo che risolse il problema fu scoperto solo agli inizi del ventiduesimo secolo in dei laboratori biotech di Bangkok in Thailandia. Un evento particolare collegato all'AIDS, al virus HIV e alle persone infette, fu l'ondata nazionalista che si scatenò in tutti gli Stati mondiali dopo l'11 settembre 2001, quando due aerei di linea, presumibilmente dirottati da una cellula terroristica denominata AL-QAEDA, si schiantarono sulle due torri gemelle del World Trade Center di Manhattan a New York. Si ripeteva l'evento del 1945 quando un aereo si abbatté sull'Empire State Building. Nell'episodio del 2001 lo schianto dei due aerei di linea fu una catastrofe totale: le due torri crollarono interamente provocando migliaia di vittime. L'intero World Trade Center fu distrutto. Le restrizioni che gli Stati adottarono, sulla scia degli Stati Uniti d'America, furono sempre maggiori culminando nel decennio tra il 2015 e il 2024 in politiche nazionaliste e autarchiche particolarmente rigide. Nonostante l'elezione del primo presidente americano di colore che in quegli anni riportò un timido accenno di ottimismo, i primi sentori di questa crisi si ebbero alla fine del 2008 quando il sistema bancario mondiale iniziò a collassare. I novanta anni a partire dal 2019 furono definiti come il secolo oscuro del mondo. Questa situazione nel 2025 fece decidere le grandi potenze del pianeta, che ricevettero il benestare dell'ONU e dell'OMS, di adibire il continente africano a ghetto per tutte le persone sieropositive e per tutti i malati di AIDS. Dal 2026 al 2035 tutti gli Stati attuarono un sistematico processo di individuazione e deportazione in Africa delle persone infette. Dall'Africa accelerarono l'ondata migratoria verso l'Europa permettendo il passaggio ai sani e impedendolo agli altri. Il nuovo continentelazzaretto lentamente si allontanò dalla velocità di vita del resto del mondo. Successivamente la vita ivi presente ebbe lentamente a estinguersi: nel 2150, per la prima volta nella storia del giornalismo, i media si riferirono all'Africa come continentefantasma. Al di sotto di questa situazione covava un male maggiore, dovuto alla scarsità di cure sanitarie in cui versavano le persone dei paesi più poveri, e all'ondata migratoria a cavallo del ventesimo e del ventunesimo secolo di questa umanità verso il benessere dei paesi più ricchi. Nei cento anni dal 2250 e il 2350 il genere umano subì una violenta pandemia. Una variante mutagena del virus di Marburg, isolato per la prima volta nel 1967 nella città tedesca da cui prese il nome, si diffuse con sistematicità fino a sterminare di febbre emorragica quasi interamente la popolazione del pianeta Terra. La propagazione di questo virus sfuggì ai controlli delle grandi industrie farmaceutiche che, dopo la seconda metà del ventesimo secolo, si dedicarono più al guadagno monetario piuttosto che al benessere degli esseri umani. Negli anni '70 del ventesimo secolo, dopo che alcuni rappresentanti di queste grandi industrie, insieme a esponenti degli Stati e dei Media maggiori, segretamente si accordarono per attuare una sistematica e controllata distribuzione di virus influenzali e relativi vaccini, a cadenza controllata la popolazione mondiale fu informata con annunci allarmistici della diffusione di pericolose pandemie influenzali. Alla fine degli anni settanta del ventesimo secolo ci fu l'influenza suina. Alla fine degli anni novanta ci fu l'allarme per l'influenza aviaria, denominata l'"influenza dei polli". Agli inizi del ventunesimo secolo l'influenza bovina occupò l'attenzione dei media per poco tempo, dato che i riflettori erano più puntati verso la guerra della "democrazia", dei paesi occidentali verso alcuni paesi del medio-oriente, in particolar modo Afganistan e Iraq. Tra il 2009 e il 2011 ci furono gli allarmi per l'"influenza dei maiali", variante del virus degli anni settanta. Il virus però non ebbe una fase di test approfondita, poiché, dopo la crisi e il crollo del sistema economico mondiale, le industrie farmaceutiche furono costrette ad anticipare la distribuzione del virus, in precedenza programmata per il 2015. La pericolosità del virus fu talmente insignificante che tale influenza fu poi denominata "influenza mediatica", in quanto la popolazione mondiale fu colpita dall'influenza solo sulla carta, fiumi di notizie diffusesi grazie ai mezzi di comunicazione. Le industrie farmaceutiche comunque raggiunsero l'obiettivo finale, cioè la successiva commercializzazione dei vaccini, operazione che superò ogni più ottimistica loro aspettativa. Nel 2021 e nel 2035 si ebbero quelle che poi vennero definite "influenze placebo", pandemie basate su messaggi allarmistici dei media più che su un pericolo reale. L'esperienza dell'"influenza mediatica" aveva reso più sicure le industrie farmaceutiche, che, invece di impegnare risorse per la produzione di nuovi ceppi di virus influenzali, si orientarono a far leva su nuove tipologie di virus virtuali, pronti a colpire le psicologie delle masse. Il vero agente patogeno, quello che avrebbe decimato gli esseri umani del pianeta Terra, per tutto il ventunesimo secolo si era manifestato in pochi uomini, soprattutto bianchi trasferitisi per missione o per lavoro in Africa o in Asia. Il virus delle scimmie verdi, così veniva chiamato, con l'ondata migratoria di gente povera che dall'Africa e dal mediooriente migrò in Europa e in America del nord in cerca di sorte migliore, nella metà del ventitreesimo secolo riapparve nel cosiddetto occidente del mondo in un nuovo ceppo virale, più resistente, più rapido a diffondersi e in grado di rimanere in latenza per anni. I laboratori di tutto il mondo si applicarono e si dedicarono per decenni a cercare una cura. Una terapia però non fu mai trovata e le persone continuarono a morire di emorragie interne, febbri che in poche settimane portavano ad una straziante morte. La diffusione del virus di Marburg non fu uniforme su tutto il pianeta. Ricerche statistiche dimostrarono che una percentuale maggiore di sopravvissuti risiedeva in Sud America, più precisamente nell'area amazzonica. Osservando le mappe pandemiche si notava che quanto più ci si allontanava da quell'area più l'incidenza del virus si allargava. Nella prima metà del ventiquattresimo secolo ci fu una ondata migratoria di persone più abbienti che si spostarono in Amazzonia e nell'area circostante. Questo flusso, sebbene ebbe qualche esito nelle generazioni a venire, non risparmiò le persone portatrici del virus. 5 Pioveva a dirotto. Gli ultimi portelli della nave vennero chiusi e il sistema interno di pressurizzazione entrò in funzione. I duemila passeggeri ospiti erano raggruppati nelle sette aree di soggiorno, grandi locali con un visore su ognuna, dove in quel momento venivano trasmesse le immagini dell'esterno spazzato da forti raffiche di vento e di pioggia. Un sommesso brontolio accompagnò un leggero movimento della nave quando questa si alzò lentamente da terra. Una voce metallica annunciò inutilmente che la nave si era staccata dal suolo terrestre. Un metro dopo l'altro i visori mostrarono un orizzonte sempre più ampio e grigio e al di sotto le cime degli alberi della foresta che via via si facevano sempre più indistinte. Nei locali il silenzio irreale a volte veniva interrotto da un singhiozzo o da un gemito. Alcuni bambini affondavano il viso piangendo nelle pance dei loro genitori. Alcuni adulti si tenevano per la vita come se temessero che quel distacco potesse dividere anche loro. Altri se ne stavano soli e immobili, con in volto scolpita una chiusa e dura maschera di rassegnazione. Il capitano Henlil era in piedi di fronte al portale visivo dell'area di comando. Poco distante da lui c'era la dottoressa Inanna e qualche altra persona dell'equipaggio. Il personale di sala era chino sui visori di controllo dove semplici quadri luminosi segnalavano lo stato dello scafo. La nave pensiero lentamente si fermò ad altitudine di cinquecento metri. Era l'altezza preprogrammata per entrare nella terza dimensione di viaggio. "Registrate ogni cosa", disse Henlil senza distogliere lo sguardo dal visore. Dopo qualche minuto si avvicinò ancora di più al pannello, quasi a voler imprimere per l'ultima volta l'immagine della Terra nelle sue retine. Sospirò lentamente, poi si girò e abbracciò la sala con lo sguardo. Gli occhi di ognuno ora erano rivolti a quell'uomo, fiero capitano della nave stellare NOAH a trasportare gli ultimi duemila esseri umani del pianeta Terra. Un uccello esibì il suo volo aggraziato di fronte agli obiettivi della nave, riempiendo il visore con una immagine piena di speranza. Poi Henlil respirò profondamente. Infine impartì alla nave il comando di partenza: ADDIO TERRA! Giuseppe Di Grande