Biblos Teller 2 - Giuseppe Di Grande

BIBLOS TELLER
Volume 2 - Dicembre 2009
a cura di Giuseppe Di Grande
LE STELLE
Tutti i diritti dei racconti di questa raccolta appartengono ai rispettivi autori
INDICE
PRESENTAZIONE .................................................................. 3
SONO GLI ANGELI CHE VEGLIANO SU DI NOI... di
Fernanda Flamigni ........................................................................ 5
UNA VITA TRA LE STELLE di Maurizio Luminoso ...... 25
L'ANIMA DELLE STELLE di Paola Pocaterra ............... 39
L'UOMO CHE PARLAVA ALLE STELLE di Daniele Clozza49
LA VIGILIA di Mena Mascia. ............................................. 61
LA STELLA CADENTE di Silvia Peroni ............................ 76
IL PRIMO UOMO NELLO SPAZIO di Pier Luigi Giacomoni
89
IL CASTELLO FATATO di Mariangela Zaccone ......... 103
ADDIO TERRA di Giuseppe Di Grande .......................... 117
PRESENTAZIONE
Eccoci finalmente di ritorno col secondo volume di Biblos
Teller, la raccolta di racconti di noi autori in fasce.
L'idea di posticipare l'uscita della raccolta, via via che si
avvicinava la scadenza limite per inviarmi un proprio racconto
(fine
settembre),
iniziava
sempre
più
a
delinearsi.
La
"preoccupazione" di non farcela a raggiungere quel limite minimo
di dieci racconti entro settembre lentamente sbiadiva, e in me
iniziava a nascere la certezza che, per questa volta, nelle
rotative immaginarie della nostra tipografia virtuale, di racconti
ne sarebbero andati in stampa solo nove. Però tra me e me
sorridevo, come un pubblicitario di quart'ordine.
Perché?
Provate a prendere un foglietto a quadretti. Sì, proprio quello
per la matematica di scuola elementare. In colonna scrivete i due
addendi. Il primo è il tema di questa raccolta, il secondo è il
periodo in cui siamo. Tracciate ora la linea di addizione ed
effettuate accuratamente la somma.
Esatto, il risultato è "un sorriso".
Il tema di questo secondo volume è "Le stelle". Alcuni autori
della
precedente
raccolta
hanno
ripetuto
l'esperienza
partecipando anche a questa e nuovi autori si sono aggiunti alla
compagnia.
Spero
che,
anche
questa
volta,
voi
lettori
rimaniate
affascinati dalla creatività di ognuno di noi e che non siate
troppo critici di ciò che osiamo proporvi. Alcuni racconti sono
carichi di tristezza e emozioni, altri più sinceri e rilassati. Il
comune denominatore di ognuno è l'originalità.
L'appuntamento è per il prossimo volume di Biblos Teller. Vi
auguriamo una buona lettura e serene festività.
Giuseppe Di Grande
1
SONO GLI ANGELI CHE VEGLIANO SU DI NOI...
Da quando riusciva a ricordare, Giacomo aveva sempre
trascorso le sue estati a casa dei nonni, giù in Puglia,in un piccolo
paesino sulla costa ionica che era il paese natio di papà. Ogni
anno, quando finiva la scuola, riempiva uno zainetto di giochi e
giornalini, mentre la mamma preparava un paio di valigie di vestiti
e costumi da mare, poi montavano tutti e tre in macchina ed
affrontavano, con una certa trepidazione, il lungo viaggio che li
avrebbe portati dai nonni. Mamma e papà si fermavano lì solo due
settimane, poi dovevano tornare a casa per riprendere il lavoro,
mentre Giacomo rimaneva al mare, coi nonni, gli zii ed i cugini.
I tre mesi estivi che trascorreva in quel piccolo borgo per lui
erano come un salto in una dimensione parallela: niente
videogiochi, niente giri interminabili in auto, alla disperata
ricerca di un parcheggio con l'ansia di far tardi agli allenamenti
di pallavolo, niente vicini di casa che si lamentavano perchè
faceva troppo rumore quando si tuffava dietro al divano, per
evitare i colpi mortali del suo nemico invisibile. A casa dei nonni
era libero di giocare alla guerra quanto voleva: c'era un intero
giardino, che a Giacomo pareva un parco enorme, in cui
nascondersi e tendere le sue imboscate; l'importante era non
entrare nell'orto. Quando era in Puglia, cambiava addirittura il
suo nome e tutti lo chiamavano "Mino". E poi... poteva camminare
da solo per strada! Da solo andava al bar a comprarsi un gelato
per merenda, raggiungeva i cugini al campo di calcio del piccolo
oratorio o, insieme aquesti ultimi, andava in spiaggia sino a sera.
A Giacomo non pareva vero di poter godere di tanta libertà: in
quei tre mesi, si sentiva come uno dei "grandi".
Spesso il nonno si faceva aiutare nei lavori dell'orto: c'era da
potare una vite, da raccogliere i pomodori o da legare le piante di
fagiolini e mentre lavoravano, gli raccontava le storie del paese
con tanto amore e tanta arte da rapire completamente la sua
immaginazione.
Il nonno gli aveva raccontato che quello era un antico borgo di
pescatori, che lavoravano duro, ma sapevano anche godersi la vita
in maniera semplice e genuina, mica come i giovani d'oggi che si
vanno a schiantare con l'auto contro i platani, 'mbatuesciuti di
musica rimbombante e di intrugli velenosi. Giacomo pendeva dalle
labbra delvecchio , affascinato da quel suo italiano un po'
stentato che spesso abdicava alla forza dirompente delle
espressioni dialettali.
Ora quel borgo appariva più come il carapace avvizzito di una
cicala di mare... quelle stesse cicale di mare che, quand'era
giovane, il nonno catturava nelle sue nasse, per poi vendere al
mercato, insieme agli altri frutti delle sue notti trascorse in
barca alla luce delle lampare. I giovani se n'erano andati quasi
tutti, convinti di poter trovare una vita migliore in città, dove ci
si muoveva in auto o metropolitana, dove la spesa si faceva agli
ipermercati e la sera si poteva andare al cinema, in pizzeria o in
discoteca. Questo era esattamente ciò che aveva fatto anche il
papà di Giacomo una volta terminate le scuole superiori. Si era
trasferito a Firenze per studiare architettura, sognando di
costruire opere d'arte che avrebbero tolto il fiato agli
spettatori, lasciando un segno indelebile nella loro anima, come
Frank Lloyyd Wright l'aveva lasciato nella sua. Nonostante tutto,
quella volta il vecchio si era sentito orgoglioso del figlio e delle
sue ambizioni ed i sacrifici sopportati per pagargli gli studi in una
città tanto lontana erano stati alleggeriti dagli ottimi voti e
dall'entusiasmo che quel giovane sognatore sprizzava da ogni
poro.
Papà non aveva solo studiato a Firenze. Dal secondo anno di
Università, aveva anche trovato un lavoretto part-time in uno
studio di architettura, in qualità di "vice aiuto segretario del
segretario", come lui stesso amava definirsi. Il suo compito, in
pratica, era quello di passare interi pomeriggi negli uffici
catastali, fra planimetrie e schedari polverosi, alla ricerca dei
dati necessari per questo o quel progetto. Non era un impiego
granche' gratificante, è vero, ma nel corso degli anni aveva
comunque avuto due risvolti positivi: per prima cosa gli aveva
permesso di accantonare qualche risparmio e, quindi, di farsi,
come regalo di laurea, un viaggio negli Stati Uniti fra Illinois e
Michigan, alla ricerca delle opere del suo eroe LoydWright; in
secondo luogo, gli aveva fatto conoscere la mamma, che all'epoca
studiava per diventare archivista e svolgeva il suo praticantato
proprio in quegli uffici.
Ogni mattina Giacomo accompagnava il nonno al mercato, per la
spesa della giornata. Se l'avessero visto i suoi amici di Firenze,
l'avrebbero sicuramente preso in giro da qui all'eternità
chiamandolo "Giacomina" e chiedendogli consigli sul tegame più
giusto per questa o quella pietanza.
"Questa è una fatica da iuommine - gli aveva spiegato il nonno c'è da controllare che il pesce sia fresco davvero, che la carne
sia
buona...
le
femmine
si
lasciano
mbernacchia'
troppo
facilmente: basta fargli qualche moina e non ragionano più... lo so
perchè l'aggio fatto pure io quando vendevo il mio pesce... come
farei a vendere un pesce vecchio a 'na signo' con due occhi come
i suoi?...- aveva mimato - quella non ha scampo: le vendi quel che
vuoi!"
Nel vedere quella pantomima Giacomo era scoppiato a ridere
ed aveva dimenticato i commenti che, nella sua testa, sentiva
proferire dagli amici. Aveva fatto il giro delle bancarelle, a
fianco al nonno, ammirando la perizia e la serietà con cui
sceglieva i prodotti da portare a casa perchè la nonna ne
ricavasse dei pasti gustosi e nutrienti per la giornata ed aveva
sorriso quando aveva sentito Nino, il macellaio, dire alla vecchia
maestra del paese "Signorina Gatti, Le pare che io pozza
'mvruggia' la mia maestra preferita?".
Un giorno, mentre tornavano a casa con una sporta di cozze
che la nonna avrebbe fatto gratinare in forno, , Giacomo si era
bloccato davanti ad un uscio aperto, drappeggiato con pesanti
tende viola. Non capiva... anche il nonno aveva visto la porta
aperta, ma non aveva avuto nessuna reazione: lui sarebbe corso a
chiamare la polizia per denunciare un furto con scasso...
Vedendolo perplesso, dopo averlo trascinato avanti per una
ventina di metri, il nonno gli si era accuciato vicino ed aveva
spiegato:
"Ieri sera è morta la moglie di Vanni Ricci. Quelle tende viola
che hai visto sono il segno che la casa è stata colpita da un
lutto..."
"E perchè tengono la porta aperta?" aveva chiesto Giacomo,
ancora insoddisfatto della spiegazione.
"Per permettere al paese di omaggiare la defunta, prima della
tumulazione. Tua nonna ed io andremo oggi pomeriggio, mentre tu
sei al mare con zia Lucia."
Per il piccolo Giacomo, fiorentino di otto anni, la faccenda
risultava totalmente incomprensibile. Tuttavia, non aveva chiesto
ulteriori delucidazioni, rallegrandosi, in cuor suo, di essere
esentato da quel macabro rito.
Zia Lucia era la sorella di papà ed era la nuova maestra del
paese, quella che aveva preso il posto della signorina Gatti
quando questa era andata in pensione. Era con lei che, al ritorno
dal mercato, Giacomo faceva i compiti per l'estate: la zia lo
sistemava, insieme ai cugini Vito e Giuseppe , al tavolo di cucina,
trasformando quell'ampia stanza in un'allegra e colorata aula
scolastica per l'ora che seguiva. Aveva un fisico minuto e
proporzionato, con un'aria un po'nodosa che a Giacomo ricordava
gli alberi di fico che stavano nell'orto del nonno. La nonna gli
aveva detto che, essendo nata il 13 dicembre, la zia era stata
battezzata col nome della santa di quel giorno, Lucia appunto,
protettrice degli occhi e della vista. Era evidente, pensava
Giacomo, che la santa si era profondamente commossa per
questo omaggio perchè aveva donato alla zia due grandi occhi
neri che sfavillavano di vita e di allegria: era impossibile non
rimanerne incantati.
I pomeriggi trascorrevano in spiaggia coi cugini, a costruire
castelli di sabbia o piste per le biglie, o a cercare arselle che la
zia avrebbe poi utilizzato per condire gli spaghetti della sera.
Giacomo ed i suoi cugini partivano per il mare subito dopopranzo
mentre la zia li raggiungeva verso le quattro, dopo la pennichella,
portandosi dietro un paio di bottiglie di orzata ed un panzerotto
a testa per la merenda. Quando non aveva avuto tempo di
preparare i panzerotti, la zia gli comprava le pimpinelle che
giovani venditori ambulanti, dal corpo bruciato dal sole,
vendevano in spiaggia, sfilandole dai profondi secchi bianchi in
cui le conservavano inframezzate da foglie di vite. Ogni volta che
Giacomo ripensava alle sue estati pugliesi, sentiva l'odore di
quell'orzata ed il sapore di quel formaggio dalla pasta molle e
fresca che ricordava vagamente lo stracchino.
La cosa che più amava, però, erano le sere, quando, in tutto il
paese, ognuno si prendeva una sedia e se la posizionava sul
marciapiede,
davanti
all'uscio
di
casa.
Le
strade
si
trasformavano, così, in salotti a cielo aperto e si chiacchierava
da un marciapiede all'altro. Qualcuno sorseggiava l'ennesima
orzata, qualcun altro rosicchiava lupini, e le donne avevano
sempre le mani impegnate con qualche rammendo, lavoro a maglia
o all'uncinetto. In quelle serate, Giacomo si sedeva su un
panchetto, vicino al nonno, ad osservare le stelle: com'erano
belle viste da lì. A casa sua, a Firenze, per quanto tenesse sotto
osservazione il cielo ogni sera, non era mai riuscito a vederle
altrettanto luminose. Il nonno gli aveva spiegato che era colpa
dei lampioni della città che disturbavano la visuale, perchè
schiarivano troppo il cielo. A questa spiegazione Giacomo
rimaneva sempre un po' dubbioso, non capendo come fosse
possibile per un lampione tanto basso schiarire un cielo tanto
alto. Ma la perplessità durava ben poco e la sua attenzione
tornava subito a quello spettacolo di diamanti e velluto che si
ripeteva ogni sera, sempre uguale e mai lo stesso.
Ogni tanto passava una stella cadente nella cui scia rimaneva
intrappolata la sua fantasia di bambino. La nonna gli aveva
raccontato che quelli erano gli angeli che vegliavano su tutti loro,
affinchè le loro giornate risultassero fruttuose e le notti
riposanti. Sì, c'erano anche di giorno, ma era solo di notte che si
lasciavano vedere così chiaramente.
"La vedi l'Orsa?" gli chiedeva il nonno.
E Giacomo cercava la sagoma di quello che a lui pareva più un
ramaiolo che un'orsa, già sapendo che il nonno gli avrebbe poi
chiesto di individuare la Stella Polare.
"Ogni uomo di mare deve saper trovare la Stella Polare" gli
diceva.
A mano a mano che Giacomo cresceva, durante le serate estive
trascorse sul marciapiede, il nonno gli insegnava a leggere il cielo
e le stelle, come si conviene ad un bravo pescatore, e più lui
insegnava e più Giacomo chiedeva di sapere.
Quando, in seconda media, era arrivato un nuovo compagno di
classe, Giacomo se l'era ritrovato in banco con lui. Si chiamava
Andrea e veniva da Augusta, anche se il suo accento nulla aveva a
che vedere col siciliano. Il primo giorno di scuola, Andrea aveva
sfilato dalla cartella un'agenda dalla copertina di pelle blu scuro,
che adoperava come diario. Le pagine centrali avevano catturato
l'attenzione di Giacomo: la carta era dello stesso blu scuro della
copertina ed aveva uno spessore diverso dalle altre pagine.
Finalmente dopo un primo mese di circospetta analisi del nuovo
arrivato, aveva deciso che Andrea era un tipo a posto ed
avrebbero potuto diventare buoni amici e così si era deciso a
chiedere il permesso di sfogliare l'agenda e vedere quelle pagine.
Andrea gli aveva allungato il tomo, spiegando che si trattava di
un'agenda dell'Accademia Navale, il posto dove lavorava il suo
papà, e che quelle centrali erano le pagine in cui erano segnate le
costellazioni, così come si vedono dal mare. Gli occhi di Giacomo
si eranospalancati di meraviglia, nell'aprire l'agenda: su quella
carta patinata aveva ritrovato la luce, la profondità, la grazia ed
il mistero del cielo del nonno. Aveva accarezzato quelle pagine
prima con gli occhi, poi con le mani ed era riuscito a trovare il
coraggio di chiedere al suo compagno se, una volta terminato
l'anno scolastico, quando non avrebbe più avuto bisogno di
quell'agenda, poteva regalargliela.
"Certo" aveva risposto senza esitazione Andrea, colpito dal
fascino che le stelle avevano sul compagno.
Il lunedì successivo, mentre stavano sistemando sul banco
astucci e diari per l'inizio delle lezioni, Andrea aveva sfilato dalla
cartella una seconda agenda e l'aveva posizionata davanti a
Giacomo:
"L'altro giorno ho chiesto al babbo se me ne poteva procurare
una anche per te, visto che ti piaceva tanto... - gli aveva spiegato
- però ho dovuto aspettare sabato, quando lui arriva da Livorno.
Sai, lui lavora lì e siccome la Marina può dare un alloggio solo a lui
e non per tutta la famiglia e non abbiamo trovato un
appartamento per noi, il babbo e la mamma hanno deciso che era
meglio se io, Federica e mamma venivamo a Firenze, dove una
casa ce l'abbiamo già. E così, vedo il babbo solo il fine
settimana."
In quello stesso istante Andrea era stato ufficialmente
nominato "miglior amico in assoluto".
Giacomo e Andrea erano riusciti a rimanere non solo compagni
di scuola ma addirittura compagni di banco anche alle superiori.
Avevano scelto entrambi il liceo scientifico: Giacomo perchè
sognava di diventare astronauta, Andrea perchè voleva studiare
gli abissi marini, come biologo. Una volta, mentre ammirava le
conchiglie ed i coralli della collezione del suo amico, Giacomo era
scoppiato a ridere, folgorato da un pensiero:
"Beh, alla resa dei conti le stelle interessano anche te!", aveva
sghignazzato, ed aveva estratto dalla teca una grossa stella
marina dal colore rossocupo.
Erano diventati inseparabili: insieme erano andati a visitare
l'osservatorio astrofisico di Arcetri, dalla cui biblioteca Giacomo
non sarebbe più uscito, e qualche anno più tardi, sempre insieme,
avevano preso il treno per raggiungere Genova e visitarne
l'acquario.
Andrea era il fratello che Giacomo non aveva mai avuto.
Quando era piccolo aveva spesso chiesto alla mamma di poter
avere un fratellino, ma la mamma gli aveva spiegato che, quando
era nato lui, lei era stata molto male ed il dottore aveva dovuto
operarla per toglierle un pezzo del suo corpo, un organo di cui lui
non era riuscito ad imparare il nome, ma senza il quale non era
possibile fare i bambini. Di amici, certo, ne aveva sia a scuola che
nella squadra di pallavolo, ma nessuno era come Andrea: con lui si
sentiva libero di parlare di qualunque cosa, persino delle sue
estati in Puglia e della spesa al mercato, in compagnia del nonno,
senza timore di essere giudicato o preso in giro. Se proprio
doveva trovare un difetto all'amico, quello era sua sorella.
Federica aveva tre anni meno di loro e doveva essersi invaghita
di Giacomo, per cui, quando erano a casa di Andrea, non gli dava
un attimo di tregua. Non era nè brutta nè antipatica, ma era una
femmina un po' troppo impicciona, che non gli permetteva di
parlare delle loro faccende senza interrompere continuamente
per chiedere spiegazioni o dettagli che, in fondo, nemmeno la
riguardavano. Per fortuna, quando aveva cominciato le medie,
Federica aveva trovato qualcun altro di cui innamorarsi ed i due
amici avevano ritrovato la loro libertà.
Anche da ragazzo, Giacomo aveva continuato a trascorrere le
sue estati in Puglia, benchè non si fermasse più per l'intera
durata delle vacanze. Rimaneva un mesetto e poi, a volte tornava
in Toscana, sull'Appennino Tosco-Emiliano , dove l'amico di
sempre lo invitava a trascorrere qualche settimana nella cascina
dei nonni; altre volte, ormai raggiunta la maggiore età, insieme ad
Andrea ed alle fidanzate del momento, caricavano zaini e tende
sul portapacchi della Panda ricevuta in regalo dopo la maturità, e
tutti insieme s'imbarcavano per l'Isola d'Elba, dove avevano
trovato un piccolo campeggio, senza pretese ma ben tenuto e
decisamente economico.
Nonostante il passare degli anni, i rituali che caratterizzavano
i soggiorni pugliesi non erano cambiati di una virgola: ogni
mattina, Giacomo accompagnava il nonno al mercato, e lì veniva
regolarmente interrogato sulla qualità di questa orata o di quelle
mazzancolle. Al ritorno, c'era sempre qualche lavoretto da fare
nell'orto: il nonno faceva, ormai, fatica a piegarsi per raccogliere
la rucola o ad arrampicarsi sulla scala per raggiungere i frutti dei
rami più alti. Giacomo, allora, indossava la sua tenuta da vecchio
contadino e, canestri alla mano, estraeva i ravanelli dalla terra,
tagliava la cicoria e si arrampicava a raccogliere l'uva ed i fichi.
Spesso, poi, si sedeva insieme al nonno, all'ombra della vite, a
parlare delle ultime notizie di paese, mentre facevano merenda
semplicemente posando un fico su di una fetta di pane che poi
veniva ripiegata su se stessa, prima di essere golosamente
addentata. Il pomeriggio, dopo la pennichella, che ora faceva
pure lui, si concedeva lunghe passeggiate
sulla battigia,
solitamente in compagnia di Vito. Giuseppe non c'era quasi mai:
aveva
trovato
Locorotondo,
lavoro
i
cui
in
una
grossa
bianchi
secchi
azienda
e
vinicola
profumati
di
ora
commercializzava, pur essendo astemio.
Le serate sul marciapiede non avevano perso il loro fascino. Il
panchetto a fianco del nonno era stato sostituito da una vera e
propria sedia, ma l'orzata era sempre lì, fresca e profumata di
mandorle, le bucce di lupini continuavano a riempire le ciotole
posate a terra e le stelle continuavano a risplendere come occhi
commossi alla vista di tanta armonia.
Ora che aveva cominciato a studiare un po' di astronomia, era
Giacomo a raccontare le stelle al nonno:
"Lo sapevi, nonno, che la costellazione dei Gemelli prende il suo
nome dal mito di Castore e Polluce?"
Il vecchio si era girato a guardare il nipote con occhi
inquisitori.
"Sì. Secondo la mitologia greca, Castore e Polluce erano due
gemelli, figli di Zeus e Lea. La mitologia narra tante cose su di
loro... Polluce era un pugile imbattibile, mentre Castore era un
bravissimo domatore. Insieme avevano partecipato alla ricerca
del Vello d'oro, con gli altri argonauti... insomma, dato il loro
coraggio e la loro intraprendenza, dopo la morte terrena Zeus gli
concesse di continuare a vivere in cielo, sotto forma di
costellazione..."
Nell'udire queste storie, il nonno sorrideva, vagamente
sconsolato all'idea che il genere umano sentisse sempre il
bisogno di attribuire connotazioni umane o perlomeno terrene a
tutto ciò che incontrava, persino a quei misteri luminosi di lassù,
il cui scopo, in fondo, era solo di indicare la via di casa a chi non
disponeva di strade asfaltate o segnali stradali.
Nonostante queste considerazioni, era bello sentire il fervore
con cui il nipote narrava le storie che gli uomini avevano
attribuito, e ancora attribuivano, alle stelle. Giacomo era un
bravo uagnone, studiava per diventare astronauta e teneva pure
una bella zita, che studiava pisicologia e che avrebbe maritato ,
una volta finiti gli studi. Mino gliel'aveva fatta conoscere
un'estate, quando, invece di tornare all'Isola d'Elba, lui ed
Andrea avevano caricato gli zaini nel portabagagli della Polo, che
aveva preso il posto della Panda, ed avevano puntato verso un
campeggio a Santa Mmaria di Leuca, con tappa al paese per
salutare i nonni. Sì, Ester sarebbe stata una brava mugliera per
lui. Mino diceva che il loro amore era segnato dal destino, dal
momento che il nome della ragazza significava stella e,
guardando quella uagnetta , il nonno aveva commentato fra sè e
sè che mai nome era stato più azzeccato.
Una mattina di Maggio il nonno non si era più svegliato. Quel
giorno, mentre nel suo ufficio all'Agenzia Italiana per lo Spazio
Giacomo stava esaminando i risultati degli ultimi studi, il telefono
sulla scrivania aveva squillato, scuotendolo dalle sue elucubrazioni
, ed all'altro capo si era sentita la voce di papà che, più stanca
del solito, gli annunciava la morte del nonno.
Senza pensarci due volte, Giacomo aveva convinto i genitori a
raggiungerlo a Roma, da dove lui e papà sarebbero ripartiti
l'indomani per la Puglia. La mamma sarebbe rimasta a fare
compagnia ad Ester e ad aiutarla con la piccola Agata che,
beatamente addormentata nella sua minuscola culla divimini, non
aveva fatto una piega al bacio che lui le aveva dato prima di
partire.
Ora Giacomo si trovava in auto, , a metà strada fra Potenza e
Taranto, e ripensava alle corse in spiaggia, al mercato del pesce,
alle pimpinelle ed alle serate sul marciapiede, mentre suo padre,
seduto a fianco a lui, guardava distrattamente il paesaggio,
probabilmente assorto nei medesimi pensieri.
Giunsero in paese alle sei di sera e furono accolti da Vito e
Marcella che, attorniati dai loro tre figli li misero al corrente
della situazione: il nonno era morto nel sonno, senza preavvisi,
senza clamori, con quella naturalezza che aveva sempre
contraddistinto la sua vita. La nonna aveva reagito bene. Certo,
le sarebbe mancato l'uomo con cui aveva diviso sessant'anni della
sua vita, ma era una donna forte e nessuno nutriva alcun dubbio
sulle sue capacità di superare il dolore di quella perdita.
Comunque c'era zia Lucia che ormai era in pensione e non
l'avrebbe lasciata sola un minuto.
Il gruppetto s'incamminò, quindi, per le viuzze interne del
paese e raggiunse la casa dei nonni. Nel vedere la porta aperta
ed i drappi viola ad incorniciarla, Giacomo ebbe un sussulto: per
un istante tornò a quando aveva otto anni e, per la prima volta,
aveva assistito a quel muto annuncio mortuario. Entrò in casa con
un tale senso di pesantezza nel cuore che persino i piedi
faticavano a staccarsi dal suolo per avanzare lungo il corridoio e
raggiungere la camera da letto.
Il primo ad entrare fu suo padre, il quale si precipitò ad
abbracciare la nonna, senza spargere una lacrima nè dire una
parola, ma col viso stravolto dall'emozione. Lui, Giacomo, faticò
non poco a varcare quella soglia e dovette farsi violenza per
alzare gli occhi da terra e posarli sul corpo adagiato sul letto.
Quando, finalmente, ci riuscì, la tensione lo abbandonò di colpo:
nonostante il grigiore della morte, il nonno aveva un'espressione
talmente serena che era impossibile piangere al suo cospetto. Le
profonde rughe che avevano sempre incorniciato la bocca, lo
facevano apparire sorridente dandogli un'espressione quasi
fanciullesca, malandrina. Le larghe mani callose, liberate dalle
continue lotte contro gli strattoni dei pesci e della vita, potevano
finalmente riposare appoggiate al petto, in uno spensierato
quanto inconsueto atteggiamento di ozio.
Terminati i convenevoli di rito, Giacomo lasciò papà con la
nonna ed uscì in strada. Ormai il cielo era buio. Si prese il
panchetto di quando era bambino e vi si sedette goffamente
sopra, le gambe piegate in due e le ginocchia all'altezza delle
spalle, quasi fosse un grillo pronto a spiccare un balzo. Alzò lo
sguardo ad osservare il cielo stellato, come aveva fatto per più di
trent'anni. In quel momento passò una stella cadente... "Sono gli
angeli che vegliano su di noi..." udì la voce della nonna
riecheggiare nella sua memoria. Sorrise e, lasciando che una
lacrima gli rotolasse lungo la guancia, salutò il nonno, la cui scia
ora era già svanita, ma sarebbe tornata ancora ed ancora nei
cieli di quelle
estati pugliesi.
Fernanda Flamigni
2
UNA VITA TRA LE STELLE
«Era una notte stellata quando nacqui, col cielo così terso, che
le stelle sembravano potersi toccare per mano: così mi è stato
perlomeno sempre ripetuto, non certo perché me lo ricordi.
E le stelle da allora sono state il mio presagio ed il mio destino.
Già sin dalla più tenera età la mia vita era indissolubilmente
connessa con quel cielo stellato, che, con i suoi baluginii
scintillanti e quegli immensi spazi bui, ad un tempo mi affascinava
e mi intimoriva: cos'erano quelle luci€? che ci facevano lassù€?
perché, poi, non riuscivano a rischiarare il buio intorno€? Erano in
siffatta guisa i miei interrogativi di bimbo curioso che si
affacciava a misteri più grandi di lui.
Nei miei ricordi più belli d'infanzia rivedo mio nonno che mi
mostra il cielo notturno e mi spiega i disegni che vi decifrava,
indicandomi le stelle più scintillanti chiamandole per nome, quasi
che fossero persone che mi presentava affettuosamente. Sì, mi
sembra di sentire ancora la sua voce di quando mi narrava la
leggenda della chioma di Berenice, la lacrimevole fiaba delle
Pleiadi piovose o il felice epilogo dell'avventura di Andromeda,
figlia di Cefeo, che, offerta in sacrificio alla Balena, veniva
salvata dall'eroico Perseo che arrivava in sella a Pegaso. Ah,
come sapeva raccontare meravigliosamente tutte quelle storie,
lasciandomi completamente conquistato: in tal modo le ore serali
passavano senza che me ne accorgessi, legando tuttavia sempre
più il mio cuore al cielo lassù€…
Al contrario di mio nonno, mio padre era invece una persona più
pragmatica e realistica, abbastanza schiva ai voli di fantasia con
cui mi dilettava il nonno, eppure anche lui, senza rendersene
conto, era legato al cielo. Non lo vedevo quasi mai perché il suo
lavoro gli assorbiva tutto il tempo, ma nei fine settimana o
durante le ferie, praticava due hobby che sembravano quasi
ringiovanirlo, sgretolando quella maschera burbera e seria che si
era costruito per sopravvivere al logorio quotidiano: la pesca ed il
giardinaggio. Rammento l'entusiasmo con cui mi portava in barca
per la pesca col bolentino o quella subacquea, la felicità con cui
mostrava ciò che aveva pescato o l'infinita pazienza con cui
piantava bulbi o potava le piante, orgoglioso poi di poter mettere
a tavola ortive fresche o di poter regalare a mia madre bouquet
di fiori appena colti. Questi due hobby, apparentemente
antitetici, poiché uno legato all'elemento liquido e l'altro alla
terra, avevano però un comune denominatore, il cielo: nel
praticare sia l'uno che l'altro, mio padre, infatti, si atteneva,
quasi religiosamente, ai cicli del cielo, piantando alcuni semi nelle
fasi di luna calante o cercando certe specie di frutti di mare
quando vi era la luna crescente, seguendo così ancestrali regole
tramandate da tempi immemorabili, di cui non sapeva spiegare
null'altro se non che sembravano funzionare veramente.
È proprio osservando mio padre e come quelle stelle
apparentemente così lontane influissero profondamente su quel
che faceva, che cominciai a domandarmi se, tra misteriose
congiunzioni ed opposizioni di astri od enigmatici ascendenti in
che oscuri disegni immaginati da saperi ormai perduti di chissà
quali lontane epoche, in quel cielo fosse già scritto il vaticino
della mia sorte e con maggiore reverenza cominciai allora a
scrutare le esili trame che formavano le stelle, decifrando
figure che vedevo soltanto con la mia fantasia di ragazzo, qual
ero ormai diventato.
Fu con quest'idea in testa che quindi decisi che il cielo
sarebbe stato il mio futuro e che cercare di scoprire il senso di
ciò che brillava lassù sarebbe stato il mio scopo. A raggiungere
tale obiettivo dedicai anima e corpo così che passarono, quasi
senza essere neppure degni di nota, gli anni delle superiori e
dell'università, vedendomi sempre chino a studiare, trascorrendo
i pochi momenti liberi sospingendo lo sguardo verso l'alto, tra
quelle stelle a cui avevo oramai definitivamente votato la mia
esistenza. Ed in quei rari momenti che sollevavo la testa al cielo,
avevo il piacere di scoprire un firmamento che mi diventava
sempre più noto, i cui lineamenti mi apparivano sempre più chiari
e comprensibili.
Quando finalmente finii gli studi, davanti a me si dispiegava
però un cielo per sempre imbrigliato da regole salde, la cui poesia
era oramai sostituita da aride equazioni matematiche e da
fredde leggi fisiche: in una stella che ardeva non vedevo così più
un puntino nel cielo che ammiccava per qualcuno, ma una fornace
termonucleare di cui sapevo predire quando si era accesa e
quando si sarebbe spenta; nei veli diafani delle nebulose non
scorgevo più la magia dei suoi colori, ma vedevo scheletri di
stelle e fucine di nuovi elementi; nelle galassie che vorticavano
non notavo dunque l'armonia delle loro incredibili strutture, ma la
conferma di un cosmo in inevitabile espansione; in una cometa non
coglievo più la bellezza del prodigio, ma un corpo di cui sapevo
calcolare via via le sue effemeridi.
Ed allorquando i “perché” avevano a questo punto ceduto il
passo ai “come” avevo per sempre perduto quel cielo fantastico
della mia infanzia, che non riuscivo più cogliere, percependo
soltanto algidi numeri laddove prima ammiravo stelle. Con questo
nuova disposizione d'animo, passavo quindi per lavoro il mio
tempo impilando ed elaborando, con svogliatezza ed in maniera
asettica, le infinite congerie di dati che mi sfornavano
ininterrottamente
i
computer,
assolutamente
incapace
di
cogliere, ormai completamente disilluso ed inaridito, la benché
minima magia di quel firmamento, che eppure una volta mi aveva
affascinato.
In tal modo passarono giorni e giorni, che diventarono mesi e
poi anni, consumando minuti soltanto apparentemente diversi, alla
tenace ricerca dell'algoritmo finale che avrebbe risolto il
problema che avevo davanti, ma, una volta trovatolo, sorgevano
però nuovi problemi da risolvere per cui ricominciavo daccapo la
ricerca di altri algoritmi ancora e ciò via all'infinito, come in una
sorta di versione moderna e tecnologica della fatica di Sisifo,
perché i problemi alla fine non finivano mai, affastellando così
una babele interminabile di monotoni algoritmi su algoritmi di cui
avrei perso completamente conto, se non ne avessi in qualche
modo conservato traccia.
Perso tra trattati, convegni e faticose ore di studi e
complicati calcoli su cui mi arrovellavo, anche gli anni del lavoro
passarono senza essere quasi degni di nota, e solo raramente
alzavo lo sguardo verso il cielo, che guardavo distrattamente e
con freddo distacco: le stelle infatti brillavano lassù, ma non
sapevano più affascinarmi, ormai irrimediabilmente tediato dal
loro
chiarore,
trovandomi
sovente
a
considerare
con
frustrazione che, se non ci fossero state, sarebbe stato meglio,
avendomi evitato l'arido lavoro con cui trascorrevo con sempre
maggiore insofferenza i miei giorni. Altro che i quasar e le
galassie più remote, era veramente anni-luce più lontano l'incanto
degli anni della mia giovinezza ed il cielo non era più quello delle
storie raccontatemi dal nonno, ma in esso vedevo solo la fonte di
un noioso e ripetitivo impegno, che mi assorbiva del tutto,
svuotandomi.
Così sarebbe sicuramente stato, sino alla fine dei miei giorni,
se non fosse successo quel fatto imprevisto, che allora mi
spiazzò, lasciandomi sgomento e completamente disorientato, ma
che ora comprendo costituisse parte di un segreto disegno per
introdurre nuovi snodi e nuovi binari in vite che diversamente
avrebbero avuto binari morti per unico binario e per unica
fermata l'ultima. Come appunto sarebbe altrimenti accaduto alla
mia vita, ormai definitivamente persa verso una rotta senza
ritorno€…
Veramente quel fatto non era proprio del tutto imprevisto,
poiché da mesi, anzi, da anni, c'erano le avvisaglie, ma solo
all'improvviso ho finalmente compreso le sue profonde e
devastanti implicazioni.
Già dal 2012 si sapeva, e quindi lo sapevo, che l'Asteroide,
nome in codice 2011 W2, provenendo dalla nube di Oort, da oltre
gli estremi confini del sistema solare, aveva varcato l'orbita di
Plutone, dirigendosi verso Nettuno. Nel 2017 l'Asteroide 2011
W2 sfiorava gli anelli di Saturno, per poi transitare vicino Giove
nel 2020. Superata l'orbita di Marte l'Asteroide, surriscaldato
dai venti solari, aveva sviluppato una brillante coda cometaria
lunga milioni di chilometri per cui, quando passò vicino alla Terra,
nel mese di Agosto del 2022, la Cometa dominò incontrastata i
cieli notturni, lasciandosi dietro frammenti meteorici tali da
regalare, dopo lo spettacolo della sua magnifica coda, pure quello
di un'intensa pioggia di stelle cadenti, come non si era mai vista,
essendo in certi momenti l'attività così intensa, da dare
l'impressione che il firmamento piangesse lacrime di fuoco.
Quelle scene furono affascinanti, ma ad un tempo anche
spaventose: una sottile strisciante inquietudine, come per
un'oscura minaccia incombente, serpeggiò dovunque, per cui la
scomparsa dai cieli notturni della Cometa, ormai diretta al suo
perielio verso il Sole, fu accolta con un sospiro di sollievo
generale.
Orbitò attorno al Sole nel 2023 e sarebbe quindi ritornata
indietro, ripassando molto lontana dalla Terra, seguendo una
rotta eccentrica che l'avrebbe infine portata a sparire
definitivamente, perdendosi nello spazio profondo, perlomeno
seconda quella scienza di cui ero imperturbabile sacerdote, se,
come ho già anticipato, il fato non fosse intervenuto.
Infatti, un improvviso ed inaspettato picco dell'attività solare
con protuberanze di notevole lunghezza ed un forte sciame di
vento elettrico provocò il surriscaldamento dell'Asteroide 2011
W2, dalla cui superficie sprizzarono di sorpresa dei forti getti di
gas
incandescenti
che
ne
modificarono
l'orbita
prevista:
l'Asteroide si avvicinò così a Venere che, perturbandone
ulteriormente l'orbita, lo scagliò a velocità, come una sorta di
fionda spaziale, verso la Terra.
Nessuno
indifferente:
sulla
Terra
era
l'alterazione
però
rimasto
dell'orbita
tranquillo
altrimenti
ed
prevista
dell'Asteroide era monitorata con crescente apprensione, come
veniva progressivamente aumentata la classe di pericolosità
dell'Asteroide, ben presto facilmente ribattezzato Armageddon,
man mano che nelle sue peripezie cosmiche crescevano le
probabilità di impatto con la Terra. Allorquando l'impatto con la
Terra non fu più soltanto una elevata probabilità, ma un'indubbia
certezza, furono allora lanciati contro numerose schiere di
missili intercontinentali
armati con
testate
nucleari,
che
purtroppo, per la massa di Armageddon, fallirono il loro obiettivo
tanto di sbriciolare l'Asteroide, quanto di modificarne la
pericolosa orbita nella quale si era stabilizzata. Analogamente
fallirono tutti gli altri tentativi di vario genere, partoriti
dall'inventiva umana ed indotti dalla disperazione. Correva quindi
l'anno 2025 quando Armageddon proseguiva ormai indisturbato la
sua inesorabile corsa che l'avrebbe portato a schiantarsi contro
la Terra, brillando sempre più intensamente nel cielo, man mano
che mortalmente si avvicinava, attratto con crescente velocità
dalla gravità del nostro mondo.
Era finito il tempo degli inutili tentativi, era ormai il tempo di
accettare
l'evento
ineluttabile:
la
Terra
sarebbe
stata
devastata da Armageddon, che avrebbe sicuramente cancellato
per sempre la civiltà umana e, forse, anche la vita stessa del
pianeta. L'imminenza dell'evento provocò tuttavia il prematuro
collasso della nostra civiltà, i cui millenari equilibri e certezze
venivano già ad essere profondamente turbati, ormai sostituita
la speranza dalla rassegnazione.
Ed io€? Io non potevo non vedere negli eventi di allora un
cosmo che si ribellava rabbiosamente a quelle leggi in cui
avevamo creduto di poterlo eternamente imbrigliare, e rideva
della nostra stolta presunzione attraverso Armageddon, che
sfolgorava nell'alto dei cieli, ammonendoci col suo terribile
splendore ed il suo spettacolare potere devastatore.
Incredibilmente, nell'angoscia di quei momenti, ormai dissolto
l'arido
sortilegio
dei
numeri,
ritornai
a
vedere
il
cielo
meraviglioso della mia infanzia, che tornava prepotentemente a
riappropriarsi della mia vita, al punto che ripresi ad affascinarmi
nello scorgere le stelle cadenti che attraversavano infiammate il
cielo, come non facevo da quando andavo ai falò sulla spiaggia per
San Lorenzo, pur sapendo che queste costituivano l'imminente
presagio della sinistra ed inappellabile condanna che aleggiava
sulla nostra sventurata civiltà.
Eppure, stranamente, di quel terribile verdetto non provavo
paura. Conoscevo abbastanza bene gli immani cataclismi che
avvenivano nello spazio, dagli immensi buchi neri ipermassivi
verso dove fluttuavano inevitabilmente innumerevoli mondi alle
supernove che devastavano sistemi stellari per migliaia e migliaia
di anni luce, e sapevo che quella non era ancora la fine. Le più
belle creature del cosmo, quelle diafane e coloratissime
nebulose, con i loro delicatissimi veli, sono sempre state il canto
del cigno di stelle morte eoni fa e da queste baluginanti
variopinte ceneri sarebbero infine sorte nuove stelle, nuovi
pianeti e nuove civiltà.
Nessun disastro era quindi tale in un universo in continua
trasformazione, ma solo parte di un processo che lo portava a
rinnovarsi continuamente, a creare cose nuove dalle vecchie. Già
noi siamo fatti di polvere di stelle (come non pensare che tutto
l'oro dell'universo proviene dalle supernove€?) e con la nostra
polvere sorgono nuove stelle, tant'è che qualcuno ha detto,
anche se forse in un'accezione più romantica di quella che ho io
in mente: «È dalle stelle che veniamo ed alle stelle ritorneremo».
Alzando lo sguardo verso il cielo, non vedevo adesso più un
arido elenco di declinazioni ed ascensioni rette, bensì quelle
stelle che mio nonno chiamava affettuosamente per nome: Vega,
scusami se non ti ho salutato prima; Arturo, tu continui a brillare
ancora solitario, laggiù, ad occidente; Deneb, fin quando non ti
stancherai di essere alla coda del Cigno ? Altair, non insuperbirti
di stare alla testa dell'Aquila; Aldebaran iraconda, calmati, placa
i feroci ardori del Toro€! Antares, tu sorgi a malapena, tra i
fumosi umori dell'orizzonte; Canopo, ammicchi all'oriente ed alle
lontane terre di Nubia, stando lì; Alcor e Mizar, non tediatevi di
vorticare continuamente insieme nel gran ballo dell'Orsa; e voi,
Giove e Marte, vi prendo a testimoni, ricordatevi della Terra,
ricordatevi di noi, non dimenticateci€…
Il cielo era uno sfolgorio di stelle ammiccanti. Chissà quante di
quelle stelle non ci sono ormai più. Alcune di loro si sono
addirittura spente quando ancora i Trilobiti vagavano per i mari
del Cambriano, circa 540 milioni di anni fa. È strano brillare come
non mai quando non si è più€! In questa immensità, anche se alla
luce degli eventi appariva illogico, mi sembrava di partecipare in
qualche modo a siffatta eternità.
Mi piaceva pensare che anche la civiltà umana, se qualche
vestigia ne resterà, apparirà più bella di quanto ci sia sembrata a
chi verrà dopo di noi, che essa, nell'abbacinante splendore di
Armageddon, brillerà fulgente in nuovi orizzonti di gloria. Ieri,
oggi, domani, sono dei concetti inutili, superflui, che si
confondono in un cosmo che si stende dal passato al futuro,
abbracciando uno spazio senza limiti.
Sì, sul finire della nostra civiltà, il cielo della mia infanzia era
stato pienamente restaurato nel cielo che sovrastava al di sopra
delle nostre caotiche città e dei loro svettanti grattacieli.
Oggi è l'x-day, il giorno del grande impatto.
Con questa consapevolezza, sapendo che nessuna fuga è adesso
più possibile, sono quindi andato a guardare la morte in faccia,
recandomi sulla spiaggia, come quando da ragazzo andavo ai falò,
per osservare la più grande stella cadente che abbia mai visto,
l'ultima. Ed ecco già lassù Armageddon, temuto ed aspettato,
che finalmente è arrivato.
Forse sembra stupido, ma in questo momento mi domando
soltanto che desiderio esprimere quando vedrò scendere
Armageddon».
Un attimo di pausa, il tempo di riprendere il fiato, e quindi
continuò: «Allora, come ti sembra la storia che ti ho appena
letto€?».
«Boh, non saprei. Forse un po' troppo catastrofista».
«Volevo mettere un finale a sorpresa, che so, che all'ultimo
minuto intervenivano gli alieni per salvare la Terra, ma mi
sembrava un finale un poco cretino».
«Sai che ti dico: per adesso stacca. Usciamo fuori a prenderci
due birre, che sicuramente ti verrà l'idea giusta per il finale€!!»
19 agosto 2009
Maurizio Luminoso
3
L'ANIMA DELLE STELLE
Luna era una bambina di dieci anni, che viveva in una casa di
campagna in provincia di Washington assieme alla nonna
Margaret, dopo aver perso nel giugno 2983, a soli sei anni, i suoi
genitori. Mamma Tanya e papà Arthur erano stati coinvolti in un
tragico incidente d'auto mentre rientravano da una cena con gli
amici. Quel giorno Luna aveva voluto rimanere in casa perché alla
televisione avevano annunciato che quella sera il cielo sarebbe
stato pieno di stelle e lei era già alla finestra, pronta con un
foglio e le matite colorate, per ricopiare quel paesaggio così
emozionante. Le stelle avevano sempre suscitato la sua curiosità,
era sempre stata attratta da quell'alone di mistero che le
avvolge, forse anche perché la sua mamma le aveva sempre detto
che in ogni stella riposa l'anima di un essere umano. Così anche
quella sera Luna ricopiò il cielo e le stelle che lo avevano reso
così luminoso. Stava colorando una stella arancione quando la
nonna entrò nella stanza, la strinse in un abbraccio affettuoso e
le diede la triste notizia. Per Luna fu impossibile accettare la
scomparsa dei suoi genitori e per sentirli ancora vivi, ancora
presenti, ancora vicini, ogni volta che il cielo era limpido
riprendeva un foglio e le matite colorate e iniziava a disegnare.
“Mamma, papà – pensava tra sé – dove siete? In quale stella vi
siete rifugiati?”. Era sicura che le due stelle più luminose erano
quelle dei suoi genitori ed era anche certa che chiunque avesse
guardato il cielo avrebbe visto più luminosa la stella nella quale si
trovava l'anima della persona più cara che aveva perso. Per i
quattro anni successivi quindi Luna si rivolse alle stelle, convinta
di parlare ai suoi genitori, chiedendo loro di renderla felice e di
aiutarla a realizzare il suo sogno: diventare un'astronauta
famosa e scoprire in quali stelle risiedevano le loro anime in modo
da poterle recuperare e riportarle sulla Terra.
Ma le fantasie e i sogni di Luna si affievolirono durante una
lezione di geografia quando la professoressa Mary iniziò la
spiegazione parlando dei pianeti, per poi illustrare le stelle e i
satelliti. “Le stelle – disse Mary – sono corpi gassosi la cui
luminosità dipende dalla distanza e il cui colore dipende dalla
temperatura interna”. “Non è vero – ribattè Luna – la luminosità
di una stella è soggettiva, la sua luce ci sembrerà più forte se in
essa si trova l'anima di una persona che amiamo”. I compagni di
classe scoppiarono in una rumorosa risata e la professoressa
tagliò
corto:
“Se
vuoi
intervenire,
riportaci
informazioni
scientifiche, non possiamo perdere tempo dietro a sciocche
fantasie”.
In quel momento Luna sentì un rospo in gola e non trovò le
parole per rispondere. La brava e preparata professoressa Mary
aveva appena insinuato che sulle stelle non ci fosse proprio
traccia di nessuna anima e questo significava che anche le anime
dei suoi genitori non stavano riposando lì. E allora dov'erano?
Luna sentì dentro di lei un grande vuoto e nel pomeriggio, al
suono della campanella, corse in biblioteca. Era decisa, “ce la farò
– ripeteva dentro di lei – troverò tantissimi libri che raccontano
la vita di un'anima sulle stelle e porterò questi libri alla
professoressa Mary”. La sua ricerca fu affannosa, quasi
frenetica e non portò ad alcun risultato. Sui libri Luna trovò
fotografie meravigliose, descrizioni dettagliate e approfondite
sulla composizione delle stelle, sulla loro luminosità e colorazione
e sulla loro classificazione ma non scorse nemmeno una riga sulla
possibilità che le stelle fossero un rifugio sicuro per le anime
degli esseri umani. Anche nei giorni successivi continuò il suo
intenso lavoro di ricerca ma non trovò da nessuna parte una
conferma alle sue convinzioni. Intanto Luna era diventata
irritabile,
sfuggente,
quasi
irriconoscibile
e
la
nonna,
preoccupata si rivolse ad un medico. Il dottore fece eseguire a
Luna diverse analisi che risultarono tutte negative: “La sua
nipotina è piena di salute, stia tranquilla – disse il medico alla
nonna rassicurandola – probabilmente è in un periodo in cui sente
maggiormente la nostalgia per i suoi genitori”.
In effetti era così, la nostalgia era fortissima, come non
l'aveva provata mai nella sua vita, già, perché se davvero sulle
stelle non ci fossero state le anime dei suoi genitori, tutti quei
momenti passati a guardarle dal vivo quando il cielo era limpido e
su un foglio quando il cielo era coperto, tutti quei momenti spesi
a confidarsi con loro, a cercare una risposta a tutti i suoi dubbi,
tutti quei momenti in cui fissandole aveva sentito il sostegno e
l'affetto dei suoi genitori così vicini, tutti quei momenti
sarebbero stati solamente tempo perso. Questa realtà non era
accettabile e se già le era difficile convincersi che mamma e
papà non fossero più sulla Terra per una tragica fatalità, era
impossibile pensare che anche sulle stelle non ci fosse stato
posto per loro. Luna però era una bambina molto determinata,
molto coraggiosa, i suoi genitori le avevano spesso ripetuto che
non avrebbe mai dovuto avere paura di nessuno. Così, superata
quella fase di fortissimo shock, tornò ad essere la bambina
sorridente di prima, tenendo profondamente nascosto dentro di
sé un disagio che non le dava pace.
Concluse le scuole medie con il massimo dei voti e frequentò il
liceo scientifico con altrettanto successo. Ancora non aveva
rinunciato alla missione “recupero anime” e per questo si iscrisse
prima alla facoltà di astronomia e poi a diverse specializzazioni,
che le consentirono di diventare astronauta dopo aver anche
superato i test psico-attitudinali e la fase di addestramento. La
scienza aveva distrutto la convinzione più importante della sua
vita e, ora, lei voleva smentire queste verità assolute.
Assunta alla NASA, dopo aver eseguito le visite mediche
previste e dopo aver effettuato il training teorico-pratico, Luna,
all'età di 32 anni, era pronta per partire per una spedizione con
lo scopo, almeno quello ufficiale, di studiare Sirio A, una stella
dell'emisfero australe che dista dal Sole 8,6 anni luce. La sera
prima della partenza il cielo era pieno di nuvole e quindi Luna non
potè ricercare la stella della sua nonna, che da pochi giorni se ne
era andata a causa di un male incurabile. Già, un male incurabile,
quello contro cui la scienza non aveva potuto nulla. E forse,
proprio questa impotenza della scienza, le aveva dato la carica
giusta, l'orgoglio giusto, la follia giusta per poter pensare che
sarebbe tornata da quella spedizione con le anime dei suoi
genitori o, quantomeno, con il ricordo di averle viste.
La partenza era fissata per martedì 28 aprile 3009 alle ore
21.00. Luna partiva per una spedizione individuale. Dopo aver
indossato la tuta spaziale salì sulla navicella e con il cuore in gola
salutò tutti i colleghi e i tecnici che erano stati con lei fino a
quell'istante. Il momento del decollo fu molto emozionante, la
navicella Rinda era super-accessoriata e super-tecnologica. Il
viaggio sarebbe durato diversi mesi. Luna era consapevole di
avere una grande responsabilità nei confronti di chi le aveva
assegnato quella missione e nei confronti dell'intera Comunità
Scientifica Mondiale. Questa spedizione però aveva per la
giovane astronauta un significato molto più profondo: era giunto
il momento di scoprire se ciò in cui aveva creduto e che le aveva
dato la forza di vivere, senza lasciarsi andare alla malinconia e
alla solitudine, era solamente frutto della sua immaginazione,
della sua fantasia. Luna aveva bisogno di capire che cos'è
un'anima, ma soprattutto come e perché un'anima potesse
rifugiarsi su una stella. Credere ai propri sogni e alle proprie
fantasie è possibile solo da bambini o anche da adulti? E se è
possibile anche da adulti, è perché i sogni si sono trasformati in
realtà o perché sono un modo per allontanarsi e sfuggire dalla
realtà? In altre parole, credere che le anime riposino sulle stelle
e possano tornare sulla Terra è una fantasia da evocare solo
durante l'infanzia o è un sogno da conservare anche in età
adulta? E se lo è, è perché l'immaginazione si è trasformata in
una consapevolezza reale o perché per sfuggire dai problemi
della vita di tutti i giorni è necessario ricercare l'appoggio di
qualcosa, anche se questo qualcosa è indefinito e pieno di
mistero? Questa sembrava proprio la missione giusta per trovare
una risposta ai suoi dubbi: Sirio A è la stella più luminosa del
cielo e,accanto a lei, Sirio B è una nana azzurra altrettanto
splendente. Sirio A e Sirio B potevano essere le stelle nelle quali
riabbracciare mamma e papà. Per tale motivo Luna aveva messo in
campo tutto il suo impegno, la sua determinazione e la sua
ostinazione per ottenere la guida di questa spedizione.
Alle 20.57 tutto era pronto. 150 paesi seguirono il lancio di
Rinda in diretta alla tv: si trattava di un evento straordinario
visto che nessuna navicella con astronauti a bordo era mai
riuscita ad andare oltre il Sole. Gli sforzi economici necessari
per finanziare il viaggio su Sirio A erano stati ingenti: la
costruzione e il collaudo di Rinda avevano richiesto cinque anni di
intenso lavoro e anche la realizzazione della tuta spaziale era
stata piuttosto impegnativa, visto che doveva garantire una
sicura protezione da temperature elevatissime. La “spedizione
Sirio A” era inserita all'interno del progetto “Colonia” che
prevedeva di rendere abitabile entro cinquant'anni Canis, il
pianeta che ruotava attorno a Sirio. Il pianeta Canis era stato
scoperto nel 3000 e su di esso erano state rinvenute acqua e
varie forme di vita. Per questo negli USA era stato approvato il
progetto “Colonia”, la cui realizzazione aveva come punto di
partenza la “missione Sirio A” e come punto d'arrivo la
colonizzazione di Canis da parte dell'uomo, lo sfruttamento delle
sue risorse e di quelle della sua stella. Gli scienziati della NASA
erano consapevoli che si trattava di un programma piuttosto
ambizioso, ma la tecnologia e la velocità degli spostamenti nello
spazio aveva ormai raggiunto un livello talmente alto da poter
pensare che mezzo secolo sarebbe stato sufficiente per portare
l'uomo a vivere su quel nuovo pianeta e a utilizzare l'energia
ricavata da Sirio A. Da settimane i giornali non parlavano d'altro
e i telegiornali riportavano le interviste dei personaggi più
disparati: dalle autorità politiche, agli astronomi, dagli ingegneri
ai comuni cittadini che già sognavano di comprare una casa su
Canis.
In pochi minuti Luna si ritrovò catapultata nello spazio e da
subito, mentre veniva scossa dai vortici d'aria e dalla fortissima
pressione, iniziò a scattare fotografie che inviava rapidamente
alla NASA permettendo anche a chi era rimasto sulla Terra di
godere di un paesaggio così affascinante e di scoprire assieme a
lei un mondo che forse non finirà mai di essere esplorato. Per
raggiungere
Sirio
A
era
necessario
dirigersi
verso
la
costellazione del Cane maggiore della quale appunto faceva parte
questa stella. Uscire dalla Via Lattea per entrare nella
costellazione del Cane maggiore era la fase più delicata in quanto
spesso quel tratto dello spazio era devastato dalle piogge di
comete e di asteroidi. Il pericolo però era scongiurato in quanto
la partenza era stata programmata in un periodo nel quale le
piogge erano piuttosto rare. Luna non aveva paura, il volo la
riempiva di adrenalina, l'essere sospesa nel vuoto le infondeva
una grande energia. “Chi ha paura non può diventare astronauta –
pensava - o meglio, chi ha paura non può diventare nessuno nella
vita”. Allora Luna era pronta anche a rischiare, pur di fornire alla
scienza un “diario parlato e illustrato” di tutto ciò che aveva la
fortuna di vedere a pochi metri di distanza e pur di dare pace a
quel disagio interiore che dall'età di dieci anni aveva tenuto
segretamente nascosto dentro di lei. Via satellite continuavano
ad arrivare alla Nasa immagini spettacolari (rocce, frammenti di
comete, prospettive di pianeti) che già costituivano materiale
per realizzare filmati, documentari e servizi speciali.
Ma quel 28 aprile 3009 rimase nella storia per sempre: non per
la straordinarietà
dell'evento
ma per
la
sua
evoluzione.
Improvvisamente, alla NASA, gli scienziati persero le tracce di
Rinda. Lo schermo da cui veniva controllata la progressione della
navicella mostrò prima un susseguirsi di flash e poi un'immobile
raggio nero e un silenzio terrificante lasciò tutti con il fiato
sospeso. Inutili furono i tentativi di richiamare la navicella sul
nostro pianeta perché inutili furono tutti i tentativi di ristabilire
qualsiasi forma di contatto con Luna.
Alle 23.40 sulla Terra cadde una stella: sarà stata l'anima di
Luna?
Paola Pocaterra
4
L'UOMO CHE PARLAVA ALLE STELLE
L'uomo camminava lento lungo la strada grigia. Era alto,
dinoccolato, con una lunga barba grigia e un cappotto sdrucito
addosso. Portava sotto il braccio una vecchia cartella di pelle
nera.
Ad un incrocio incontrò un vecchio coi capelli bianchi, che
camminava curvo appoggiandosi ad un bastone. Lo salutò
cordialmente.
Salve, mister John! –
Buonasera, Horace. – rispose il vecchio, sorridente. – Come va
con i suoi studi?E' una cosa sempre più interessante, mio caro. –
Arrivederci presto – lo salutò il vecchio.
L'uomo barbuto parve turbato. Poi borbottò:
Arrivederci, John. – E proseguì per la sua strada.
Giunse infine ad una casa grigia, in cima alla collina, entrò in un
portoncino stretto e salì fino al quinto ed ultimo piano usando le
ripide
rampe
della
scala.
Poi
aprì
finalmente
la
porta
dell'appartamento in cui viveva.
Dentro l'aspettava, comodamente sdraiato su un divano, un
grosso gatto nero. Si alzò e si inarcò per salutarlo con un
miagolio cordiale.
Ciao, Black. – Fece l'uomo. – Niente di nuovo oggi?Per tutta risposta Black soffiò violentemente. Horace rise e
disse:
Lo so, vecchio mio, ma non gli ho detto nulla. Il povero vecchio
John non sa che ha i minuti contati…. –
Poi raggiunse il mobile bar e si versò un whisky.
Black si stirò e si risistemò sul divano. Era un gattone enorme
e grasso.
Horace uscì sul balcone. La casa era sulla collina e dominava la
cittadina. Il quinto era l'ultimo piano, e da lì lui poteva vedere un
ampio panorama.
Era notte, ormai, e le stelle punteggiavano il cielo nero.
Horace arrivò alla ringhiera del balcone e guardò verso il
basso, verso la città, sotto i suoi piedi. C'erano parecchie
finestre illuminate nelle case, la gente probabilmente stava
mangiando la cena, guardava la TV e parlava della giornata. Si
concentrò e guardò verso destra ove sapeva che c'era la casa di
John.
Ed ecco… una scintilla azzurra tremolò improvvisamente dalla
casa, guizzò e salì lentamente verso il cielo nero, per poi
confondersi con le miriadi di lucine delle stelle e svanire.
“E anche il povero John se ne è andato.” Horace pensò con
tristezza. Conosceva il vecchio da sempre e gli era affezionato,
ma non ci poteva fare nulla.
Alzò lo sguardo ancora più su e fissò le stelle, lontane,
indifferenti alla vicenda umana. Stette per un po' in silenzio,
immerso nei suoi pensieri e nell'ascolto. Poi assentì, chinò il capo
e rientrò.
Black aveva lasciato il divano, l'attendeva al centro della
stanza, in piedi sulle quattro zampe tozze, con la coda bassa.
Hai ragione, vecchio mio! – disse Horace. – Purtroppo questi
sono e saranno sempre dei momenti tristi. Il gatto chinò il capo come per assentire, e si girò dirigendosi
verso la cucina. Horace lo seguì lentamente.
Due giorni dopo Horace incontrò la moglie di John, che
camminava sulla strada diretta alla propria casa. Lui stava
rientrando, e la salutò e le fece le sue condoglianze.
- Buonasera, signora, vi porgo le mie condoglianze per la morte
del buon John. – disse.
Grazie, Horace – lei lo ringraziò – so quanto vi stimasse mio
marito, e da quanto vi conoscevate. Ho saputo che vi aveva anche
chiesto di recente di fargli l'oroscopo. –
E' vero, - rispose lui – peccato che non ne abbia avuto il tempo!
–
E intanto cosa potevate vederci? Non certo che sarebbe
morto così presto! –disse lei.
Avete ragione!- concordò lui.
Si salutarono e si lasciarono.
Lui tornò a casa meditabondo. Certo non poteva dirle che lo
aveva già finito una settimana prima della morte di John. E che vi
aveva letto la data esatta della sua dipartita.
Davanti al portone di casa trovò ad aspettarlo mister
Jennings. Era un vecchio curvo, grasso e tremolante, appoggiato
ad un bastone, con l'aria però battagliera e decisa.
Vi attendevo, Horace! - lo apostrofò.
Buonasera, signore. Cosa posso fare per voi? – chiese lui.
Forse non lo ricordate, ma dieci anni fa avete fatto l'oroscopo
a mio fratello Andrew e glielo avete dato… E io l'ho ritrovato! –
disse il vecchio.
E allora? – rispose lui.
E allora gli avevate anche detto esattamente quando sarebbe
morto… e l'avete indovinato! Lui si ricordò. Erano i primi tempi che faceva gli oroscopi, e
allora li dava sempre ai suoi clienti, anche se erano poco felici o
addirittura negativi. Solo dopo aveva capito che era meglio
essere meno precisi, più diplomatici, per non turbare inutilmente
le persone.
Sarà stato un caso. Non è possibile sapere cose del genere in
quel modo. – disse lui.
E poi avete fatto l'oroscopo al mio amico Zachary e avete
indovinato di nuovo! – esclamò il vecchio.
Lui restò immobile, rendendosi conto del fatto che il vecchio
aveva indagato davvero… oppure aveva raccolto le informazioni
direttamente dalle fonti… suo fratello e i suoi amici. Quegli
oroscopi erano rimasti.
Quasi a dare voce ai suoi pensieri, Jennings esclamò:
L'avete fatto dieci volte, a quel tempo, almeno per quello che
ho potuto scoprire io! – il vecchio era decisamente agitato. – Poi
avete smesso e da quel momento i vostri oroscopi sono diventati
più vaghi, all'acqua di rose, più normali…. Ditemi, com'è successo?
–
Horace chinò il capo. Era chiaro che era inutile negare. Il
vecchiaccio si era ben documentato, probabilmente da amici o
parenti, e se avesse indagato oltre il numero poteva anche
salire… si ricordava di essere arrivato al ventesimo decesso
prima di capire che era meglio tacere su certe cose.
Cosa volete? – chiese allora al vecchio.
Sapere la verità! – disse Jennings – Sapere la verità e sapere…
- la voce si spense e si fermò.
Quanto vi resta da vivere? – completò per lui Horace.
Sì! . -la voce del vecchio era un sussurro, ora, e l'aria meno
battagliera.
Venite su in casa mia, allora. – lo invitò Horace.
Salirono insieme per le scale ed entrarono in casa. Sul divano
c'era Black che soffiò subito verso il vecchio, inarcandosi, ma poi
si sedette come in attesa.
Non piaccio al vostro gatto. –disse Jennings.
Non preoccupatevi. E' un buon gatto, ma gli estranei lo
preoccupano un poco. Non vi farà nulla. Venite di là nel mio
studio. –
Entrarono
nella
stanzetta
zeppa
di
libri
e
strumenti.
Appoggiato in un angolo c'era anche un telescopio. Horace fece
accomodare il vecchio in una poltrona e si sedette sulla sedia
dietro la scrivania.
Quanti anni avete, signore? – chiese l'astrologo con rispetto.
Troppi, e lo sapete! – rispose lui burbero. – Ormai ne ho
compiuti 97 e sento sul collo l'alito fetido della morte… Tirò fuori dalla tasca un foglietto piegato e lo allungò a
Horace.
Questi sono i miei dati, credo abbastanza completi. Data e ora
di nascita e luogo. Mi pare che non dovrebbe servirvi altro. –
E' esatto, signore. – disse lui. – In realtà potrebbe essere utile
anche qualcos'altro, tipo dei dati sui suoi genitori, ma non è
detto. Ve lo farò sapere se sarà necessario. –
Il vecchio sembrava indeciso. Alla fine chiese:
Ma come fate? –
Lui esitò, poi rispose.
E' frutto di uno studio particolare, signore, e gliene parlerò
solo in confidenza. La prego di non dire mai nulla a nessuno. –
Stia tranquillo, giovanotto. I suoi segreti moriranno con me. –
Horace si protese, appoggiando i gomiti sulla scrivania, e
cominciò a parlare con voce bassa.
Io ho cominciato ad interessarmi di astrologia e astronomia fin
da ragazzo. Cresciuto, per vivere ho fatto il contabile, e questo
voi lo sapete. I miei studi hanno preso una svolta inaspettata
molti anni fa, quando ho avuto la netta impressione che mentre io
guardavo le stelle… ebbene, anch'esse guardassero me! –
Non capisco. – fece il vecchio.
Diciamo, signore, che ho avuto la netta percezione che esse
avessero una loro coscienza e intelligenza. E mi si sono
cominciate a formare in testa delle idee, delle impressioni.
Finché non mi sono trovato a pensare cose molto strane… dei
pensieri che non potevano essere miei. Poi una volta ero intento a
guardare le stelle mentre pensavo ad un oroscopo che stavo
facendo e mi sono ritrovato a vedere nettamente una data vicina.
Non capivo cosa potesse dire, che significato avesse, ma la
percezione era netta. Quella data fu raggiunta dieci giorni dopo.
E allora la persona a cui avevo fatto l'oroscopo morì. –
Volete dire che avete avuto una visione? – chiese il vecchio con
stupore.
No, no. Nulla del genere. Diciamo che mi è venuta in mente la
data, e non me la schiodavo da lì… anche se non capivo cosa
volesse dire. –
E quella persona poi è morta in quella data? Esattamente. Ed io gli avevo consegnato il giorno prima
l'oroscopo completo, e pensavo che avrebbe avuto buona salute e
una vita ancora lunga. Invece ebbe un brutto incidente, e ci
lasciò la pelle. –
Il vecchio restò un poco in silenzio, poi chiese:
E come spiega tutto ciò? –
Quei pensieri strani che mi sentivo in testa e che sentivo non
miei… sono giunto alla conclusione che fossero le stelle stesse a
trasmettermi i loro pensieri… Le stelle? – la voce del vecchio era incredula.
Lo so, pare incredibile, ma quando riuscii a mettere ordine tra
i miei pensieri e quelli estranei ne uscì fuori una specie di
discorso sensato. Le stelle hanno coscienza ed intelligenza, sono
entità pensanti e possono realmente conoscere il nostro
destino… ma fino nei minimi particolari. –
E perché le avrebbero detto quando quell'uomo sarebbe
morto? –
Proprio per attirare la mia attenzione ed iniziare un discorso
sensato con me. Non piaceva loro molto cercare di parlare con
uno scemo che non capiva neanche che gli si stavano rivolgendo. –
Il vecchio parve rilassarsi. Si strofinò il mento meditabondo,
poi chiese ancora:
E poi cosa accadde? –
Accadde che iniziai a parlare con esse e a capire molte cose…
imparai anche a vedere le anime quando erano staccate dal corpo,
cosa che succede sempre quando il corpo muore, imparai a
parlare con gli animali e a percepire i loro pensieri…. e mi ritrovai
con la possibilità di fare degli oroscopi perfetti fino all'ultima
virgola, anzi perfetti fino a sapere il giorno in cui la vita del
soggetto sarebbe terminata. Nell'entusiasmo all'inizio feci degli
oroscopi completi anche di quel piccolo particolare. –
Proprio piccolo! – rise il vecchio. - Quella in fondo è la cosa che
chiede di più qualsiasi uomo a qualsiasi oracolo… Si chinò in avanti e chiese con voce quasi feroce:
Ed io allora quando morirò? –
Non lo so ancora. Dovrò studiare i dati ed interrogare gli astri.
Ve lo potrò dire tra qualche giorno. Dovrete portare pazienza,
signore. –
Aspetterò, allora. – disse il vecchio.
Si accomiatò e lasciò Horace solo coi suoi pensieri.
Quattro giorni dopo Horace si ritrovò col vecchio Jennings
nello studio. Il pover'uomo pareva più curvo che mai, e sembrava
facesse fatica a respirare.
Allora, giovanotto – ansimò il vecchio – qual è il verdetto delle
stelle? –
E' che dovrete rassegnarvi ad invecchiare ancora, signore. –
disse l'uomo barbuto. – Il responso degli astri è che vi toccherà
sfondare il muro del secolo di vita prima di smetterla. –
Il vecchio rimase in silenzio, quasi trattenendo il respiro. Poi
sospirò e disse:
Allora ne ho ancora per 3 anni? –
Un po' di più, veramente. Pare che festeggerete i 101 prima di
smetterla di preoccuparvi. –
Siete un po' insolente, giovanotto, ma vi perdono volentieri.
Qual è il vostro onorario? –
Nulla, signore. Per me è stato un piacere servirvi, perché una
volta tanto non ho dovuto avere segreti. –
Allora vi ringrazio e vi saluto. Arrivederci Horace. –
Arrivederci, signore. –
Horace accompagnò il visitatore alla porta.
Rimasto solo andò al mobile bar e si versò un whisky. Dal
divano Black emise un miagolio interrogativo.
L'uomo si volse verso il gatto e sorrise tristemente.
Hai ragione, vecchio mio. Non gli ho raccontata la verità, e me
ne dolgo. Ma almeno gli ho detto quello che avrebbe voluto
sentirsi dire. La verità era un po' troppo sgradevole. –
Dall'esterno giunse un rumore di frenata e poi un urto, un
grido strozzato. Horace non si voltò nemmeno verso la finestra.
Sapeva cosa avrebbe visto.
Davanti al suo portone un'auto aveva travolto un pedone,
uccidendolo. Il vecchio Jennings aveva finito di ansimare e
preoccuparsi.
17 settembre 2009
Daniele Clozza
5
LA VIGILIA.
Quando l'incapacità ad agire vi mozza il fiato al punto che la
mancanza del respiro sembra spiazzarvi, qualora foste impotenti
a ragionare, perché convinti di perdere completamente il
controllo delle vostre emozioni, quando la bocca non ha più saliva
da farvi ingoiare, gettandovi totalmente del panico che vi assale,
non ritenetevi l'ultimo degli esseri umani. Certamente sareste in
errrore. Niente di più facile che una sensazione simile potrebbe
capitarvi, in presenza di qualcosa nella quale stentate a credere,
difendetevene, invece di diventare balìa dell'ignoto.
Fu quanto non era stata capace di fare la bella ragazza
venticinquenne alla presenza del senologo che le esplorava il
corpo con l'ecografo.
Alessandra avrebbe scommesso qualsiasi cosa, pur di riuscire a
ribattere che quella macchina infernale andava forse tarata
meglio, perché non mentisse con tanta sicumera. Chi poteva
garantire infatti con assoluta certezza l'infallibilità di una
lettura tanto catastrofica? Si accorse che si stava arrampicando
sugli specchi, eppure c'era andata con i suoi piedi a supplicare
quell'uomo, affinché la visitasse e le parlasse chiaramente. Ma
tra il dire e il fare…
Quando il medico le parlò, solo in quel momento realizzò di
essere sola al mondo, sola ad ascoltarne il responso. Pensò con
dispetto di avere rifiutato con troppa facilità la presenza di Pina
che le aveva proposto di accompagnarla. Quel maledetto orgoglio
dal quale era come posseduta, ancora una volta l'aveva fatta da
padrone sull'affetto che l'amica le dimostrava.
Le era sembrato normale, ricordando perfettamente che da
ormai cinque mesi, un'altra delle sue carissime amiche del cuore
non c'era più ad accompagnarla nel peregrinare da un medico
all'altro.
All'improvviso
Mimma
se
n'era
andata
in
una
freddissima domenica mattina di dicembre. Come una rondine in
cerca di posti più accoglienti, l'assenza di lei aveva lasciato tutti
più poveri e più soli.
Chiunque si sarebbe sentita così sperduta, come lei si sentiva
alla presenza di quello sconosciuto che le parlava prendendo
appunti. “Se deciderà di operarsi, le comunicheremo quando ci
sarà un posto letto disponibile”.
Fu come se lui non ci fosse, proprio com'era successo l'anno
prima e si sentì così come vi sareste sentite tutte voi, nella
malaugurata ipotesi che un medico poco sensibile avesse
telefonato in una delle vostre case per annunciarvi che avevate
un cancro, o, nel caso in cui, tornando a casa vostra, voi stesse
foste cadute dalle nuvole, accorgendovi di essere state derubate
del portafoglio.
Senza nemmeno guardarlo in faccia, gli occhi erano troppo
pieni di lagrime per farlo, Alessandra fece un cenno di saluto al
medico e se ne andò, quasi fuggendo dalla stanza.
Sentiva caldo, aveva bisogno di un caffè, ma soprattutto
doveva correre a casa, rifugiarsi nella sua Vecchia tana
perriflettere e decidere. Però il bar era proprio lì, e l'odore del
caffè era così penetrante da tentarla ad entrare. Lo fece, già
quasi assaporando la gustosa bevanda.
Quando fu il suo turno, vedendola cercare nella borsa, la
cassiera si era messa in attesa di un ordine, ma la calca era tale
che fu costretta a pregarla di fare posto agli altri avventori.
Non trovando il borsellino, Alessandra si sentì invadere il
corpo da un sudore freddo e maleodorante: frugò e frugò, ma
nella borsa il portafogli non c'era. Chi, come, e soprattutto
quando qualcuno le si era avvicinata tanto da riuscire a
sfilarglielo, Alessandra non avrebbe saputo dirlo.
Se, prima di disperarsi, si fosse fermata un attimo, avesse
tirato un grosso sospiro di rassegnato coraggio, e guardato bene
cosa realmente le mancava, avrebbe dimostrato a se stessa che
poteva continuare a farcela, qualsiasi documento o carta di
credito avesse dovuto sostituire. Ma quando il diavolo ci mette la
coda…
Non seppe come ci arrivò, ma, trovandosi ad aprire la porta di
casa
sua,
Alessandra
soddisfazione.
trasse
L'accolsero
il
un
profondo
solito
odore
sospiro
di
di
familiare
quotidianità, pensando al quale si sentiva protetta, quando ne era
lontana.
Si mise in libertà e stava preparandosi il caffè non bevuto,
quando il telefono incominciò a squillare. Era la premurosa Pina
che le chiedeva notizie della visita appena fatta. Per Alessandra
fu come aprire troppo un rubinetto chiuso da tempo. Le parole
strariparono, i singhiozzi non furono più contenuti, il pudore dei
sentimenti dimenticato.
Non trascorse molto tempo, che Pina era con lei. Aveva la
borsa dell'amica fra le mani e la guardava, come a trarre da
questa consiglio. Mentre cercava di consolare Alessandra, le
venne fatto di aprire una cerniera laterale e di guardarvi dentro.
Fu allora che trasse dalla tasca tutto quello che vi era stato
prudentemente conservato: moneta contante e carte di credito.
Solo in quel momento, al colmo della felicità, Alessandra si
rese conto che avrebbe potuto guardare meglio nella borsa,
prima di disperarsi. Sarebbe bastato un attimo per calmarsi,
perché la sorpresa di essere stata prudente, era lì che
l'aspettava paziente. Come Pina le fece notare, il portafoglio non
conteneva danaro, né carte di credito da bloccare. Allora non le
parve vero di essere stata tanto giudiziosa, per una volta nella
vita. Aveva fatto fatica a credere ai suoi occhi, scoprendo che
per il poco o tanto danaro contante, il giudizio le aveva
consigliato di trovare un altro posto che non fosse quello più
logico nel quale conservare i valori che si era portata dietro. Non
le sembrò poco la consolazione che provava, accorgendosi di non
essere rimasta completamente in balia della violenza comunque
subita. Pensò e comunicò a Pina che Da uno scippo dal quale non si
ricavi moneta contante od altri valori, la sconfitta dev'essere
cocente. “Chi”, le disse: “secondo te, rimane più male, il ladro o il
derubato cui, sicuramente, tocca la spiacevole incombenza di
rifare tutti i documenti”. E continuò, come parlando a se stessa:
“Sebbene forse da per tutto l'istinto di chi ruba sia determinato
dall'ingagiare un'assurda sfida verso se stessi,prima che verso
gli altri, a dimostrazione che si è stati bravi, non pensi anche tu
che a spingerli verso il crimine non è stata la cattiveria fine a se
stessa, ma che a togliere agli altri, magari per buttare la
refurtiva nella spazzatura, semplicemente per lo sfizio di esserci
riusciti, abbia contribuito una specie di ingiustificata goliardia?
Che ciò avvenga a Napoli, a Roma, ad istambul, la delusione di chi
viene derubata ha la stessa valenza di dissacrante profanazione
di chi non ha saputo difendersi, che ci si senta più o meno ricchi,
più o meno inclini a comprendere, l'amarezza è sempre forte ed
uguale. Diversa invece è la disperante constatazione di non
essersi accorti di nulla, mentre avveniva il furto.
se non fosse stato per quel lieve sentirti sfiorare dalla mano
ignota che faceva riaffiorare alla superficie della coscienza le
tue già date per acquisite fragilità, quel tocco leggero avrebbe
potuto essere confuso con la distrazione di una persona che
senza
volerlo
tiurtava,
passandoti
sbadatamente
accanto,
tant'era stato minimo. A causa di quello sfiorarti nella folla, il
sospetto del quale pure ti illudevi di nascondere perfino a te
stessa
quanto
stava
accadendo,
non
ti
faceva
nemmeno
sobbalzare, mentre la cruda realtà permetteva alle tue
insicurezze di venire alla luce della coscienza, diventate nel
momento della scoperta dubbi e debolezze”.
Aveva parlato a raffica, quasi non fermandosi a respirare,
tant'era la concitazione del momento. Pina l'aveva lasciata dire,
prima di cingerle le spalle, in un abbraccio complice.
Quando finalmente le fu comunicato che il suo letto era
pronto, Alessandra entrò timorosa nella grande stanza riscaldata
dal sole di maggio. La camera spaziosa era completamente
illuminata da due ampi finestroni spalancati, in modo tale che al
primo sguardo del visitatore, ogni angolo della stessa ne
rimanesse visibile. Al momento non c'era nessuno, ma i tre letti
bianchi preparati per ospitare i malati, facevano supporre che la
ragazza non vi sarebbe rimasta a lungo da sola. Ne fu
contrariata, ma fece buon viso a cattivo gioco e si preparò a
disfare la valigia, proprio com'era abituata a fare ogni qualvolta
si trovava ad essere ospite di un albergo, solo che questa volta a
scegliere la dimora in cui suo malgrado era capitata del tutto
casualmente, era stato il destino e non l'entusiasmo di fare una
piacevole vacanza .
Tutto si era svolto con una rapidità sorprendente: la scoperta
del nodulo al seno, la visita dello specialista ed il ricovero in
quella stanza, l'avevano da prima colta di sorpresa, ma poi fatta
decidere senza possibilità di ripensamenti.
Una strana zaffata di profumi la incuriosì. Non le era
sembrato ci fossero giardini là da dov'era venuta,almeno non ne
aveva visti, però i profumi c'erano e non potevano provenire che
dalle finestre aperte. Si affacciò e lo spettacolo che si aprì ai
suoi occhi non le piacque. Vide una decina di corone funerarie che
faceva bella mostra di sé sul marciapiedi, in attesa di essere
portate via con una delle bare. Bellissimi e variopinti, i fiori
emanavano i loro effluvi per la consolazione dei vivi, mentre i
morti si preparavano ignari ad affrontare l'ultimo viaggio verso il
cimitero.
Le finestre affacciavano infatti sull'obitorio.
Un pensiero funesto le attraversò la mente: e se domani
avessero portato lei, senza vita, laggiù? Il suo ragazzo non
l'avrebbe nemmeno saputo. Volutamente non aveva detto a
nessuno, se non all'onnipresente Pina, di doversi ricoverare. La
solitudine di quel momento le chiuse la bocca dello stomaco,
facendole male. Due lagrimoni le solcarono il viso. Alessandra le
fece scendere libere sul pavimento di mattonelle che le
sembrarono troppo chiare con tutto quel sole. O era il suo umore
ad essere troppo lugubre in quella giornata di maggio?
Aveva portato con sé alcuni libri per far trascorrere più
velocemente il tempo , ma il pensiero del prossimo intervento era
dominante, rispetto a tutto il resto, rispetto alla voglia di fare
alcunché d'altro.
Stava per infilarsi sotto le coperte, quando entrarono in
camera i medici in visita. Voci sconosciute le sembrava parlassero
troppoforte, mentre sensazioni contraddittorie le ferivano il
cuore. .
Fu il senologo a chiederle come si sentisse e se avesse avuto
qualche ripensamento in merito all'intervento. Alessandra gli
rispose di no, ma gli domandò di fare il possibile perché la sua
qualità di vita non avesse a soffrire troppo dal cambiamento che
sarebbe sopravvenuto domani.
Si sarebbe sottoposta con coraggio alla nuova avventura, così
come aveva già fatto per altre due volte, ma il chirurgo era stato
chiarissimo: Salverò il salvabile”, le aveva detto con una voce
dolce e comprensiva che però non dava adito a dubbi. “Il mio
obiettivo è sconfiggere il male. Se potrò, le farò un intervento
conservativo, ma solo se sarò certo di consentirle una vita senza
ulteriori rischi, altrimenti dovrò procedere all'enucleazione della
mammella. E' bene che lo sappia”.
Le aveva poi fatto una carezza sul viso ed era passato alla
prossima visita.
Era stato tanto caldo il sentirsi sfiorare da quella mano
morbida che ad Alessandra parve di potersi affidare, finalmente.
Cosa poteva fare di meglio, d'altra parte?
Fra poco sarebbe arrivata l'estate piena. Rivide i suoi bei
vestitini colorati esposti in bell'ordine nell'armadio. Avrebbe
dovuto regalarli tutti? Li aveva scelti con tanta cura… Dentro di
lei, la voce della sua amica Mimma La raggiunse per rassicurarla.
Andrà tutto bene, vedrai, se no io che ci sto a fare? Questo non
è che un episodio nella tua vita, non l'episodio che ne
condizionerà il passaggio su questa terra. Stai tranquilla”?
Le veniva davvero da dentro la voce amica, o era stato il suo
desiderio a farsi pensiero rassicurante?
Il 28 dicembre del 2008 non era destinato a rimanere nella
testa di Alessandra come una solita domenica festiva tra le
vacanze natalizie: uno perché a casa c'erano la sorella con il
marito che, purtroppo solo per qualche ora ancora, l'avrebbero
allietata con le loro chiacchiere, due perché la città si era
svegliata simile ad un suggestivo presepio, imbiancato dalla neve.
Stavano prendendo il caffè, quando l'indiscreto squillo del
telefono obbligava la ragazza a lasciare la conversazione per
vedere chi li cercava quasi all'alba, tant'era presto quella
mattina.
Era Dora, una persona che Alessandra non era solita sentire.
La voce rotta dal pianto, la pregava di correre subito a casa da
Mimma. La sua amica aveva appena lasciato questo mondo. Una
notizia del genere avrebbe allarmato ed addolorato chiunque,
figurarsi chi come lei le aveva voluto tanto bene da considerarla
una sorella. Come cercare di parlare con calma per spiegare agli
altri l'accaduto?
Non c'era stato bisogno di dire nulla. Era bastato pronunciare
il nome fra i singhiozzi, e la giornata festiva aveva presa tutta
un'altra piega.
La casa dell'amica, stracolma di gente, era spalancata. Il cuore
di Alessandra si fece piccolo piccolo, ripensando a quanto la
padrona di questa fosse discreta. Filò dritta in camera da letto,
senza salutare nessuno. E fu lì che le apparve la bellissima
persona che Mimma era sempre stata. Solo la posizione
orizzontale, le sembrò innaturale. Così ben truccata, con i capelli
acconciati come per una festa, il vestito di seta comprato per
l'occasione, le scarpe a tacco alto, era stranissimo che quella
bella donna se ne rimanesse coricata, indifferente a tutto quanto
la circondava.
Accanto al letto c'erano le due ragazze in lagrime. Qualcuno,
salutandole, disse loro: “Ora lassù avete una stella che illuminerà
il vostro cammino. Ogni sera guardate il cielo ed immaginate che
la vostra mamma vi sorride. Vi sembrerà di vederla in una stella”.
Per non rispondere male, Alessandra se ne uscì dalla camera
irritata. Perché in momenti tanto tragici la gente avesse bisogno
di aprire la bocca per dire tante sciocchezze, proprio non le
riusciva di capirlo.
Eppure non l'aveva pensata sempre così. Da bambina, in
campagna, si soffermava spesso la sera ad alzare la testa in
attesa di poter contare le stelle. Presto ne perdeva il numero,
però, perché le veniva il sonno.
Tra tutte le sedie occupate, c'era uno sgabello vuoto.
Alessandra vi si sedette per starsene per i fatti suoi a pensare
all'amica che non c'era più. Da lontananze remotissime, gli occhi
le riportarono alla superficie della memoria un episodio che le
era rimasto in mente per molto tempo. Le comparve un
fotogramma che credeva dimenticato. Lei poteva avere non più di
quattro anni. Il nonno era morto da poco quando una sera, stando
in macchina con i genitori, aveva intimato a tutti di far silenzio.
“Guardate lassù”, aveva detto convinta: “In quella stella c'è il
nonno che ci guarda e ci sorride”. Nessuna l'aveva dissuasa da
quella dolce illusione.
Ma ora era grande, come le ragazze che piangevano la mamma
morrta, e Mimma non le avrebbe sorriso da nessuna stella.
Anche durante il funerale avrebbe voluto fuggire per non
ascoltare il Prete che incitava le figlie ed il marito a non
piangere, perché il passaggio tra questa vita e l'aldilà, per chi
crede, è gioia e non tristezza. Sicuramente quell'uomo parlava
non
conoscendo
Mimma,
altrimenti
come
avrebbe
potuto
affermare stupidaggini di quel genere?
Nella sua camera d'ospedale, decise di mettersi a letto per
non parlare con nessuno, per non pensare addirittura, ma prima
volle farsi una doccia. Com'era successo tante altre volte, la
calda sferza dell'acqua le avrebbe rinvigorito i nervi, ma non
aveva fatto i conti con lo stato di prostrazione nel quale tutta la
sua persona si trovava. Infatti lo scroscio non fu benefico,
questa volta. Sentì le gocce dell'acqua calda pungerle tanto la
pelle da farle male.
Sconcertata guardò in alto, e lo specchio le rimandò una figura
che le sarebbe appartenuta solo fino all'indomani. Ebbe chiara la
percezione del suo corpo e pianse. Dietro il velo delle lagrime, gli
occhi le si posarono sul roseo seno ancora integro. Florido e bello
come sempre, se lo sentì turgido sotto le dita e pensò alle
sapienti carezze del suo ragazzo che sapevano farle raggiungere
soglie del piacere mai immaginate.
Dato che l'acqua calda e profumata del costoso bagno schiuma
usato da sempre le era stata nemica, che le piccole punture di
spillo le avevano offeso la pelle. Dispettosamente si asciugò e
s'infilò nel letto. Nel letto estraneo, assenze giustificate, e non,
le pesarono sul cuore. Facendo mente locale sul fatto che non
solo Mimma non poteva essere lì con lei, le mancava la presenza
di Giorgio che, temerariamente, aveva addotto una scusa più che
plausibile per non esserci. Eppure diceva di amarla.
Non avrebbe saputo dirlo, ma forse si addormentò.
Quando riaprì gli occhi, avrebbe giurato di non essere sola. Da
una parte e dall'altra del suo letto, simili agli angeli del quadro
che ricordava di aver visto all'ouvre, c'erano due persone che la
guardavano: a destra c'era Mimma che le sorrideva, mentre a
sinistra si era materializzato dal nulla il suo ragazzo. Sul tavolo,
poi, un gran fascio di rose rosse stipato in un vaso troppo piccolo
per contenerle tutte, aveva mutato l'ambiente asettico nel quale
era entrata, in un salotto di casa. Chi aveva detto a Giorgio del
suo imminente ricovero? Fu la prima cosa che gli chiese.
Campobasso, 29/06/2009
Mena Mascia
6
LA STELLA CADENTE
Faceva caldo quella sera di fine luglio. Arianna era uscita sul
balcone a cercare un po' di frescura.
In effetti, una leggera brezza faceva tintinnare i ciondoli
metallici appesi sopra la portafinestra propagando tuttintorno un
soave suono che ricordava i templi tibetani.
Con i gomiti appoggiati al parapetto del davanzale, la donna,
non più giovane, osservava con felice stupore l'ultimo lembo di
chiarore abbandonare la volta celeste per cedere il passo alla
notte buia, proprio come accade nei grandi presepi meccanizzati.
Ora, una bianca falce di luna troneggiava superba nel cielo,
attorniata da una miriade di stelle, tutte sue devote suddite.
Le luci della città erano più visibili dalle altre finestre
dell'appartamento, ma la posizione di quel terrazzo dava
l'opportunità di una visuale meno disturbata e, da quel punto
d'osservazione, l'immenso mare cosmico sembrava ancor più
vasto e senza confini.
Arianna si chiese davvero quanto fosse disperatamente
incalcolabile quel vuoto lassù, quel vuoto così colmo di piccoli
lumini che pareva di poter toccare allungando una mano.
Purtroppo non era così, le stelle erano lontane ed irragiungibili,
restavano là, distanti e belle, magari solo echi di vite già spente
Mentre il venticello giocava impertinente alzandole un poco
l'orlo del vestito leggero, lei si perse nella contemplazione più
assoluta e nei ricordi.
Pensò alle stelle cadenti, che di lì a una decina di giorni
avrebbero lumeggiato con le loro scie di fiamma, e ad una sera di
molti anni prima.
Giovane e bella, sulla soglia dei suoi meravigliosi vent'anni,
troppo agitata per riuscire a prender sonno, si era affacciata
alla finestra della piccola mansarda nella quale dormiva. Tra un
sospiro e l'altro, aveva notato l'arco lucente disegnato nel cielo
ed aveva espresso un desiderio, il suo grande ed unico desiderio.
Voleva diventare una stella del teatro.
Da anni studiava senza posa, impegnandosi al massimo e
destreggiandosi tra turni di bambinaia e cameriera per pagarsi le
lezioni di recitazione, di dizione e di canto.
L'indomani sarebbe stato il gran giorno: il suo primo provino.
Già immaginava di essere sul palcoscenico, sotto i riflettori,
l'odore di polvere dei sipari ed il pubblico che non fiatava
seguendo le sue interpretazioni magistrali.
Si vedeva già famosa, con le sue foto sulle locandine, con mazzi
di fiori nei camerini, gli applausi e i fans, gli autografi.
Portava sempre al collo un ciondolo, una stellina d'argento
legata
ad
un
cordoncino
blu,
come
a
voler
richiamare
costantemente quel pensiero di successo, come un amuleto
capace di attirare
a
sé
le circostanze
migliori
per
la
realizzazione del suo progetto.
Ma il destino aveva scritto una pagina diversa per lei.
Il giorno dopo, con gli occhi cerchiati dalla notte insonne, si
era preparata con cura, abito, trucco, capelli, tutto studiato nei
minimi particolari per fare una buona impressione ed era partita,
in notevole anticipo, con un'automobile presa a noleggio per
l'occasione.
Per scaramanzia, non aveva detto a nessuno di quel provino.
Dopo qualche chilometro di guida nervosa, si era trovata la
strada chiusa a causa di un'importante gara ciclistica.
Lei non ne sapeva nulla, era rimasta segregata in casa a
provare
e
riprovare
le
completamente dal mondo.
sue
parti
fino
ad
estraniarsi
Non ci voleva proprio!
Scesa dalla vettura, si era avvicinata ad un poliziotto per
chiedere quanto sarebbe durata quella faccenda. Il bel giovane le
aveva risposto che non si poteva prevedere quando fosse
transitato l'ultimo sportivo e quindi la conseguente riapertura al
traffico delle vie della città.
Arianna, sconsolata, era tornata a sedersi sulla sua auto in
attesa, in preda all'angoscia, consultava di continuo l'orologio
che pareva aver preso la rincorsa e voler viaggiare più veloce.
Vedendola ancora ferma lì, dopo più di un'ora, come davanti ad
un passaggio a livello, pronta a scattare non appena la sbarra si
fosse rialzata, il poliziotto, carta e penna alla mano, aveva
tentato di spiegarle una strada alternativa, facendole uno
schizzo.
L'orientamento della ragazza, però, era uguale a zero. Con
molti dubbi in testa, amplificati dalla trepidazione al pensiero
che probabilmente non sarebbe giunta in tempo al suo incontro,
fece marcia indietro e si avventurò nel dedalo di vicoli che
l'avrebbero condotta fuori dall'aglomerato urbano, per poi
aggirarlo e rientrarvvi dalla parte opposta, quella non coinvolta
dalla competizione.
I semafori naturalmente diventavano rossi quasi per dispetto,
un grosso camion le aveva impedito di procedere ad un'andatura
sostenuta, un altro doveva far manovra e le aveva fatto perdere
altri minuti preziosi, insomma, una serie di contrattempi
inopportuni.
Ciliegina sulla torta, aveva sbagliato strada imboccando un
senso unico.
Una vera catastrofe! Rifece marcia indietro, parcheggiò con un
po' di difficoltà e proseguì a piedi.
La rabbia, il sudore e la frustrazione avevano contribuito a
rovinare il suo aspetto, ma la determinazione era ancora ferma.
Tuttavia, quando arrivò all'indirizzo giusto e trovò la saletta
d'attesa, dove altri come lei, aspettavano il loro turno, scoprì
che Arianna Saleri era già stata chiamata e, non essendosi
presentata, aveva perso la sua chance.
Si abbandonò su una sedia vuota, affranta, delusa, arrabbiata
con se stessa, poi in un impeto di collera si era alzata di scatto
ed era uscita quasi correndo, facendo rimbombarei suoi passi nel
corridoio dove riecheggiava la voce di qualcuno, che al contrario
di lei, ora si trovava su un palco a tentare di dare il meglio di sé.
Uscì all'aperto, si sedette sui gradini del grande palazzo,
incurante di sporcarsi l'abito , la borsetta abbandonata lì di
fianco, lo sguardo quasi vacuo, le labbra serrate in una smorfia
eloquente: si sentiva una stella caduta ancor prima di aver
brillato nel firmamento.
Sentiva un groppo in gola, avrebbe voluto piangere ed urlare,
ma cercò di darsi un contegno: pensandoci bene, in fondo quello
era solo il primo tentativo, tuttavia, ciò che le bruciava di più era
il non aver avuto la possibilità di misurarsi con altri.
Non si era neppure resa conto che accanto a lei c'era un
ragazzo, mesto e avvilito quanto lei, non perché non fosse giunto
in tempo, ma perché semplicemente non aveva superato la prova.
Cominciarono a parlare dei reciproci sogni, di nuovi studi, di
altre
opportunità,
di
certo
qualcos'altro
sarebbe
sorto
all'orizzonte.
Questo scambio di idee li rese un pochino più fiduciosi nel
domani, ma, per il momento, Gregory, così si chiamava il giovane
uomo, doveva tornare ad una realtà ben più autentica, una
tragedia che non terminava una volta tolta la maschera
dell'attore, non esisteva un sipario calato a chiudere l'immenso
mare di dolore e di preoccupazione che si portava dentro.
Sua sorella Greta, di appena cinque anni, giaceva in un lettino
d'ospedale in stato vegetativo in seguito ad una caduta
dall'altalena .
Il ragazzo chiese ad Arianna se voleva accompagnarlo a farle
visita; lei, un po' titubante ed emotivamente provata, non sapeva
se, quel giorno, fosse stata in grado di sopportare anche quel
dramma.
Tuttavia accettò.
Fecero la strada a piedi e Gregory raccontò che quando era
nata la bimba, lui aveva già compiuto sedici anni e se ne era
innamorato perdutamente, la coccolava, la viziava, gliele dava
tutte vinte, giocava con lei trascurando persino lo studio.
Dall'incidente in poi, la famiglia sembrava essere piombata
nell'oscurità più profonda e più assoluta, la casa era silenziosa e
senza colori; mamma, papà e fratello si davano il cambio al
capezzale della piccola per non lasciarla mai sola, parlandole in
continuazione, tenendole la manina anche se Greta non reagiva ad
alcun tipo di stimolazione.
I medici non si pronunciavano: il risveglio poteva verificarsi
come no.
Giunti all'ospedale, i due ragazzi entrarono nella stanzetta in
penombra, senza far rumore. Una signora ancora giovane, ma dal
volto stanco e pallido stava su una sedia accanto al lettino dalle
lenzuola candide.
Era la madre di Gregory, il quale la baciò lievemente su una
guancia e le disse di tornare a casa, sarebbe rimasto lui con la
sorellina per tutta la giornata, la faccenda del teatro si era
conclusa con estrema velocità e con esito negativo.
La donna non fece neppure caso ad Arianna che se ne stava in
disparte, notevolmente a disagio.
Quando la porta si richiuse alle spalle di quell'anima disperata,
la nuova amica di sventura, prese un'altra sedia e l'accostò sul
lato libero del letto.
Quasi con timore e con reverenziale lentezza, Arianna sfiorò
con le sue mani le tenere dita inerti della bimba che pareva
dormire.
Il fratello le accarezzò la fronte scostando un ricciolo biondo,
le inumidì le labbra rosee con un fazzoletto bagnato ed iniziò a
canticchiare una filastrocca.
La ragazza osservava prima l'uno, poi l'immobilità dell'altra,
incapace di proferire parola o di emettere alcun suono che
potesse violare quell'intimità fraterna.
Da quel giorno in poi, Arianna si era recata in ospedale almeno
tre volte la settimana, entrando pian piano sempre più in
confidenza con quella situazione insolita, riuscendo talora a
restare da sola per breve tempo con la piccola mentre, chi era di
turno in quel momento, andava a prendersi un caffè o una
boccata d'aria.
E quando erano sole, quella stanzetta asettica ed anonima si
trasformava in un teatrino: Arianna raccontava storie e favole
inventate dal lei stessa, cambiando le voci ai personaggi,
sussurrava, canticchiava, alzava un po' il tono, gesticolava, a
volte indossava buffi cappellini o nasi finti, come se la sua
spettatrice potesse vederla e sentirla davvero.
I giorni trascorrevano apparentemente uguali, pigri e senza
senzo, come trascinati da un locomotore arrugginito.
Una sera d'inverno, Arianna aveva raccontato alla sua piccola
paziente una fantasiosa storiella di una stellina caduta per
errore sulla Terra, smarrita e piena di paura, ma che poi aveva
trovato un bellissimo luogo caldo dove brillare, se ne stava
trionfale appesa alla culla di un bambino.
Prima di congedarsi da Greta, si era tolta il ciondolo a forma di
stella e l'aveva poggiato delicatamente sul letto, vicino alla sua
manina sinistra.
La mattina seguente, quella stellina era nascosta nel pugno
chiuso di Greta.
Di lì a qualche settimana, la bimba si era svegliata, la ragazza
era presente al tanto atteso momento e piangeva in silenzio,
disperatamente felice con una mano stretta in quella di Gregory.
Il sogno di diventare un ‘attrice era ormai sfumato,
abbandonato sui gradini del palazzo del suo provino mancato,
dove si era seduta mesi prima, forse la pioggia l'aveva dissolto e
cancellato; Arianna aveva compreso cosa voleva realmente fare
nella sua vita: avrebbe studiato per diplomarsi come infermiera
professionale e avrebbe lavorato in un reparto di pediatria.
E così fu. Divenne un'ottima infermiera, ma accanto alle
competenze proprie del suo lavoro, univa la sua vecchia passione
per la recitazione, non più volta al successo personale, ma come
strumento per sdrammatizzare i momenti traumatici che i suoi
pazienti spaventati dovevano affrontare.
Giocava, scherzava, faceva dispetti ed inventava ogni sorta di
trucco per preparare un bimbo ad un esame fastidioso, se non
addirittura ad un intervento, , o semplicemente per far
accettare iniezioni, tamponi e quant'altro.
Cullava quei bambini come fossero figli suoi, era instancabile
ed appassionata.
Se i medici le davano il permesso e le concedevano lo spazio,
allestiva siparietti e creava fondali con cartone e con polistirolo
dove far recitare i piccoli che stavano meglio, come in un grande
gioco di prestigio, pieno di colori dove per breve tempo ci si
potesse dimenticare di essere ricoverati in una clinica.
Aveva raccolto tutte le sue storie in un grande libro illustrato
e le aveva musicate con effetti sonori e canzoni; le utilizzava
secondo i casi, sempre attenta ad ogni esigenza.
Inutile dire quanto i bambini si affezionassero a lei, come
fosse una fata buona, prodiga di sorrisi e di piccole magie.
Sapeva sempre cosa fare e cosa dire anche ai genitori che
spesso si trovavano in difficoltà o non sapevano gestire i capricci
giustificati e le paure dei piccoli malati.
Tutto ciò aveva provocato episodi spiacevoli di invidia da parte
di talune sue colleghe, ma non era certo colpa sua se possedeva
questo amore innato e queste capacità empatiche alle quali
nessuno poteva restare indifferente.
Gli anni passavano, Greta cresceva sana, circondata da tanto
affetto e da mille attenzioni, il ciondolo con la stella era
diventato di sua proprietà e non lo toglieva mai.
Arianna le era rimasta legata indissolubilmente, lei era stata
l'astro che aveva illuminato il suo cammino.
E nel suo cammino c'era anche Gregory, l'aveva sposato in un
fulgido mattino di fine aprile, in mezzo ad un prato fiorito.
Le difficoltà erano state molte, molti i sacrifici e le rinunce,
ma
la
tenacia
e
la
determinazione
li
avevano
sempre
accompagnati
Da quel matrimonio erano nati due figli maschi, Luca e Michele,
oramai divenuti adulti e partiti ognuno per la propria strada.
Luca, con grande soddisfazione dei genitori, aveva intrapreso
la carriera di regista, il secondogenito era uno stimato avvocato
ed abitava con la moglie in un'altra città.
Con un profondo sospiro, Arianna tornò alla realtà del suo
terrazzo, commossa e felice di aver ripercorso la sua vita, tra i
ricordi ancora così vividi nella memoria e così pulsanti nel suo
cuore.
Per un breve istante, una piccola nube nera passò davanti alla
luna oscurandola, il vento era aumentato d'intensità e la
temperatura sembrava più fresca.
Le foglie dei gerani tremolavano appena e nell'aria si spandeva
il profumo acre di una candela alla citronella, posizionata in zona
riparata, accesa per tenere lontane le zanzare.
I ciondoli metallici tintinnavano con maggiore insistenza.
Adesso, la luna brillava nuovamente di luce argentata e le
stelle punteggiavano il blu come una cascata di diamanti.
Arianna era ancora persa nella contemplazione del mistero
cosmico, non si accorse quando Gregory la raggiunse e la cinse da
dietro in un tenero abbraccio ammirando lui stesso lo spettacolo
celeste.
Lei inclinò la testa appoggiandosi a lui come a cercare
protezione, chiuse gli occhi per un momento, poi li riaprì
nell'attimo esatto in cui una scia luminosa solcava il cielo
andandosi a spegnere nell'oscurità infinita.
Silvia Peroni
7
IL PRIMO UOMO NELLO SPAZIO
«Vnimanie, vnimanie: gavarì Moskva»...
«Attenzione, attenzione: parla Mosca.
Dopo il completamento del programma di ricerche e di volo, la
nave spaziale sovietica Vostok 1° ha compiuto un felice
atterraggio nella zona prestabilita entro i confini dell'Unione
Sovietica, alle 10,55 (8,55 ora italiana [NDR]) del 12 aprile
1961...»
Jurij Levitàn, speaker di Radio Mosca, la voce ufficiale delle
notizie sensazionali, colui che nel '53 aveva comunicato che
Stalin era morto, annuncia al mondo la conclusione del volo nello
spazio del primo cosmonauta della storia.
Questa sera, gentili ascoltatori, abbiamo l'opportunità di
sentire dalla viva voce del nostro ospite come sono andate
davvero le cose.
Il Maggiore Jurij Alekseevic Gagarin, che si trova nei Pascoli
del Cielo, vestito con la sua uniforme con l'onorificienza d'Eroe
dell'Unione Sovietica appuntata sul petto, ci accoglie con
cordialità nel pezzo di giardino che gli è stato assegnato:
«Da qui le stelle si vedono benissimo, meglio che dagli oblò
della Vostok I!»
Come si trova qui?
«benone! Ci abitano persone che, durante la loro vita, hanno
compiuto imprese speciali. Più avanti potrà parlare con quei
Vichinghi che per primi sbarcarono in America o quei Polinesiani
che attraversarono l'oceano per approdare in Australia. Per non
nominare Henry Morton Stanley o David Livingston, Cristoforo
Colombo o Ferdinando Magellano...
Di tanto in tanto, la sera davanti al fuoco e ad un buon boccale,
ci riuniamo insieme e qualcuno racconta le sue avventure. Più in
là, poi, su questo stesso sentiero c'è il settore riservato agli
scienziati...»
E lei cosa si sente: un esploratore o uno scienziato?
«Oh bella, un esploratore!!! Sono stato il primo uomo che ha
visto la Terra dallo spazio ed ha dimostrato in maniera
inoppugnabile che ruota intorno a se stessa come diceva il vostro
Galilei.»
C'era bisogno d'andar fin lassù per dimostrare una cosa che i
nostri ragazzi studian alle scuole medie? In fin dei conti oggi
nessuno mette più in dubbio la teoria eliocentrica!
«Sì, però, finché io non ho descritto materialmente un'orbita,
nessuno aveva mai visto la Terra da fuori!»
Da alunno modello a cosmonauta.
Bene, Maggiore Gagarin, perché non ci racconta la sua storia?
«Nacqui a Klushino, nell'Oblast di smolennsk, il 9 marzo 1934 e
morii il 27 marzo 1968, a Kirzak, a soli 34 anni appena compiuti.
Fui un aviatore ed un cosmonauta dell'Unione Sovietica.
Mio padre era un falegname e mia madre, una contadina.
Crebbi in un Kolkhoz, una di quelle cooperative agricole che
sorsero un po' dappertutto da noi.
A scuola tutti i miei professori riconobbero che avevo una
spiccata inclinazione per le materie scientifiche, tuttavia dovetti
interrompere gli studi a causa dell'invasione tedesca del '41.»
Poi come fece a diventare aviatore e cosmonauta?
«Finita la guerra, M'iscrissi all'istituto tecnico-industriale di
Saratov e conseguii il diploma di Metalmeccanico. Nel frattempo,
scoprii che avevo la passione per il volo.
Nel 1955 m'iscrissi in un aeroclub e feci la mia prima
esperienza a bordo di un aereo: uno Yak-18.»
E poi?
«M'iscrissi ad una scuola d'aviazione: l'Accademia Aeronautica
sovietica di Orenburg, dove mi diplomai a pieni voti nel 1957.»
L'anno dello Sputnik...
«Infatti. Quell'anno mi trasferii in Ucraina per perfezionare
le mie conoscenze in alcune scuole speciali per l'aviazione.»
E le sue capacità furono notate dai superiori...
«Erano talmente entusiasti di me che mi permisero di
collaudare sofisticate apparecchiature e di approntare test
altamente specializzati.»
La mia passione per il volo mi portò ad essere scelto nel
1959, insieme ad alcuni colleghi, per l'addestramento con
l'obiettivo di diventare cosmonauta.»
Lei ne fu orgoglioso?
«Chi non lo sarebbe stato? Erano anni che studiavo e volavo e
sentivo ormai che l'aviazione era la mia vita!»
La grande impresa.
E poi venne il momento della missione...
«Dopo il soggiorno ucraino, ritornai a
Zvëzdnyj Gorodok, insieme ad altri venti candidati per
superare nuovi test attitudinali e infine venni scelto proprio io
per affrontare la missione orbitale con un essere umano
a bordo di una cosmonave.»
Come si svolse la preparazione?
«C'era una certa ansia: Iljuscin, un mio collega, aveva tentato
una missione nello spazio prima di me, ma aveva fallito, pur
tornando vivo a Terra. I dirigenti dell'agenzia spaziale sovietica
volevano assolutamente realizzare l'obiettivo di spedire un uomo
nello spazio, seppure per una sola orbita.
Così la mia partenza fu anticipata al 12 aprile 1961 alle 9,07
(ora di Mosca [NDR]).
La Vostok I (Oriente [NDR]) pesava 4,7 tonnellate. Era un
luogo molto ristretto: io ero legato al seggiolino e non potevo far
nulla perché tutto era comandato da terra.
Sapevo che dovevo atterrare in un punto imprecisato, perché
non si voleva che i nemici del nostro Paese, che sicuramente ci
stavano spiando, s'impadronissero dei nostri segreti militari.
Così, tramite la radio, potei dire quella parola "pandekali!"
(partiamo [NDR]) e fui spedito nello spazio. L'orbita descritta
era di forma ellittica: aveva un apogeo di 302 km ed un perigeo
di 175 km. La Vostok viaggiava a 27.400 chilometri all'ora.
Il volo complessivamente durò 88 minuti.»
A parte queste informazioni, cosa provò quando le dissero che
lei, proprio lei, avrebbe compiuto quell'impresa?
«Che dovevo prepararmi in modo impeccabile perché non avrei
avuto un'altra occasione simile.»
Ci può raccontare il momento della partenza?
«Di prima mattina mi fecero salire a bordo della Vostok.
Era una navicella piuttosto piccola ed era difficile muovercisi
dentro.
Aveva un paio di oblò,attraverso i quali si poteva vedere
l'esterno.
La capsula si trovava in cima ad un razzo a tre stadi,
alimentato da combustibile liquido.
Tramite la radio di bordo, In cuffia, ero in comunicazione con
la base terrestre.
Indossavo una tuta corredata di bombole d'ossigeno. Mi
legarono al seggiolino in modo da non cadere quando sarebbe
avvenuto il lancio e per evitare di svolazzare per l'angusto
ambiente quando mi fossi trovato in assenza di peso.
Poi avvenne il lancio. Uno scossone. I motori del razzo
spingevano come dei dannati e io vedevo dagli oblò che salivamo
velocissimamente. Il cielo divenne improvvisamente nero e
subentrò una calma irreale. Io, solo io, ero a bordo di quella
navicella e stavo volando nello spazio a quasi 300 chilometri dalla
Terra...»
Fu lei a dare al suo volo il nome di Kedr (cedro [NDR])?
«Sì, ed usai questo nomignolo nei miei collegamenti radio con la
base.»
E' passata alla storia la sua definizione della Terra come
"pianeta blu"...
«Durante il volo, guardando dalla navicella ciò che nessuno
aveva mai visto prima, comunicai questa indescrivibile emozione.
Ancora oggi, quando ci penso, sento come un brivido giù per la
schiena. E' incredibile! S'immagini di vedere un mappamondo coi
mari ed i continenti. Ovviamente una parte era illuminata dal sole
e l'altra era al buio. Notai soprattutto l'azzurro degli oceani.
riavvicinandomi, mi accorsi che l'Europa era in parte coperta da
nubi, ma il colore che predominava era l'azzurro. Noi non ce
l'immaginiamo neanche, ma la tonalità che proiettiamo nello
spazio interstellare è proprio quello ed infonde in chi l'osserva
una serenità straordinaria.»
Venne il momento di rientrare...
«Purtroppo sì! Effetuata l'orbita, cominciai la discesa.
Si
accesero
i
razzi
frenanti
e
la
capsula
rientrò
nell'atmosfera, passando per gli strati più densi. Però, ad un
certo punto dovetti proiettarmi fuori dalla navicella perché la
Vostok non era predisposta per un atterraggio morbido.»
Non c'erano i paracadute?
«No. Sapevo che quando fossi giunto all'altezza di 7 mila metri
mi sarei dovuto tuffare coi paracadute che avevo attaccati alla
tuta prima che la capsula si schiantasse al suolo.»
così calai nella vasta pianura russa, nei pressi della località di
Takhtarova.
Erano le 10,20 (ora di Mosca [NDR]).
Che sensazioni provò mentre si riavvicinava alla Terra?
Aveva paura?
«No, ormai la paura di volare così in alto mi era passata e
quindi mi sentivo tranquillo. In più tutto funzionò alla perfezione.
Si sa che quello è uno dei momenti più critici di un volo spaziale:
se i costruttori delle capsule non hanno lavorato bene si diventa
una stella cadente perché l'attrito sulle pareti esterne è così
forte che si prende fuoco. In più, per alcuni minuti non si
comunica con nessuno, perché la radio non funziona: si è proprio
soli, soli con se stessi e bisogna sperare che tutto vada liscio. E
tutto andò liscio!»
E' vero - come ha scritto alcuni anni fa la Pravda - che certi
soldati che la incontrarono subito dopo l'atterraggio le chiesero i
documenti?
«Fu un episodio molto imbarazzante, ma si spiega col fatto che
in URSS la notizia del mio viaggio non era ancora stata data.
Questi nostri militari, quando mi videro con la tuta ed il
paracadute, non sapevano nulla di me e della mia missione nello
spazio.
Quando m'incontrarono in quella zona isolata non sapevano chi
fossi.
Poi la radio diede l'annuncio e fui molto festeggiato.
In realtà, certi contadini, che mi videro con la tuta spaziale ed
il paracadute, mi offrirono, come si fa da noi con gli ospiti, pane
e cipolle.»
Il trionfo.
Al suo arrivo a Mosca - raccontano le cronache - migliaia di
russi l'accolsero come un eroe!
«Sì, le garantisco che fu un momento straordinario della mia
vita: sapevo che in quel momento ero nei cuori di tutto il mio
popolo. Io, in un certo senso, avevo rappresentato il mio grande
Paese in questa impresa che non sarebbe stata possibile se tanti
non si fossero sacrificati con me.»
Come
si
sentì
quando
Nikita
Krushcev
l'insignì
dell'onorificenza di "Eroe dell'Unione Sovietica"?
«Ero veramente felice perché il nostro Paese aveva, grazie a
me, raggiunto un obiettivo straordinario: gli americani, allora,
erano molto più indietro di noi.»
Si dice, in Occidente, che lei non sia stato il primo uomo a
volare nello spazio...
«Chi racconta queste bugie?»
I fratelli Judica Cordiglia sostengono d'aver intercettato
delle comunicazioni tra terra e spazio di un cosmonauta sovietico,
di cui non è noto il nome, inviato nel febbraio 1961, che rantolava,
come colto da un infarto mentre volava in una navicella simile alla
sua Vostok.
«Sono frottole di gente nemica dell'URSS. Io sono stato il
primo uomo, come Valentina Tereshkova è stata la prima donna.
Noi russi siamo stati i primi ad andare nello spazio.»
Il sacrificio.
riconoscerà, però, che ci son stati dei suoi colleghi che son
morti in incidenti dovuti a cattiva fabbricazione delle navicelle...
«Tutte le grandi scoperte scientifiche hanno bisogno di gente
che si sacrifichi...»
Come Vlaidimir Komarov?
«Non doveva andare così!»?
E come andò?
«Nel 1967 lanciammo la prima navicella del progetto sojuz.
Vladimir Mikhailovic fu scelto per il volo inaugurale. Però accadde
che in fase di rientro gli strumenti di bordo per il pilotaggio della
cosmonave non funzionarono a dovere. Komarov, da uomo esperto
qual era, prese il comando delle operazioni, ma, una volta
rientrato nell'atmosfera i paracadute non si aprirono. La sojuz si
fracassò al suolo.»
Lei ne fu molto addolorato?
«Certo, volevo bene a quel nostro collega e speravo che la
Sojuz diventasse la navicella ammiraglia del progetto spaziale
sovietico.»
Nei fatti lo è diventata!
«Ha ragione, ma Komarov si è sacrificato!»
Anche lei, un giorno, ha dovuto sacrificarsi!
«Se allude all'incidente aereo in cui ho perso la vita sappia
che, se volevo, avrei potuto salvarmi, ma sarebbero morte tante
altre persone che abitavano in quel villaggio che stavamo
sorvolando coi nostri MIG.»
Ci può raccontare come andarono le cose?
«Stavamo facendo un volo di prova su questi MIG quando
all'improvviso ci siamo trovati di fronte ad altri due aerei. Per
evitare di scontrarci con loro, siamo scesi troppo e siamo
precipitati. Ma siamo riusciti a non cadere sulle case abitate. ci
sarebbero stati un sacco di morti: bambini, donne, anziani. Se in
quel momento mi fossi lanciato fuori dall'aereo mi sarei salvato,
ma loro sarebbero morti: preferii sacrificarmi. Nel momento
della mia morte per un attimo pensai al dolore che avrebbero
provato mia moglie e i miei bambini! So, però, che il mio gesto è
stato lodato nel mio Paese e penso che anche loro credano che
Jurij Alekseevic era un brav'uomo.»
Un Eroe?
«No, uno che non ammazza gli altri per salvare se stesso. Vede
gli eroi non sono solo quelli che fanno grandi scoperte o compiono
delle esplorazioni straordinarie, mai avvenute prima, ma che nel
momento in cui devono fare delle scelte non pensano solo a sé,
ma si ricordano che ci sono anche tante altre persone che hanno
diritto di vivere.»
Sa che nel mio Paese ci sono ancora delle vie intitolate al suo
nome?
«Lei mi sta dicendo che sulla Terra ci si ricorda ancora di me?
Ne sono veramente orgoglioso!»
Ci tende la mano e ce la stringe con forza:
«Ho sempre ammirato l'Italia e gli Italiani, anche se non ho
mai potuto visitare il vostro Paese. Se da voi ci si ricorda ancora
di me vuol dire che non sono passato invano sulla Terra.»
Le stelle ed i pianeti si vedono meglio qui o sulla Vostok?
«Da qui, da qui: sono veramente meravigliose!!!»
Come la Terra vista dalla Vostok?
«No, quello no: è una sensazione talmente straordinaria che me
la porterò sempre con me.»
Bologna, 7 settembre 2009
Pier Luigi Giacomoni
8
IL CASTELLO FATATO
Miriam era figlia di contadini; la più piccola di tre figli.
Per motivi di salute fin da piccolina era costretta a stare per
lunghi periodi fuori casa, lontana dalla famiglia!
Per questo non faceva nessuna fatica a socializzare con
estranei.
Fino all'età di quattordici anni, da un ospedale all'altro! Da una
città all'altra!
Poi appena adolescente, decise di recarsi in un'altra città per
studiare.
Da quel momento si distaccò suo malgrado definitivamente
dalla sua famiglia.
Andava a casa solo per le vacanze natalizie, pasquali e estive.
Naturalmente viveva in istituto.
Li si fece diversi amici e amiche che l'aiutarono molto a non
pensare che la maggior parte dei suoi parenti l'avessero quasi
dimenticata.
La mamma diceva che Miriam stava meglio lontana da casa,
perché per lei erano più importanti gli amici della famiglia.
Come la conosceva poco! O meglio, non la conosceva affatto.
Un bel giorno quando Miriam aveva sedici anni conobbe un
uomo, che aveva diciotto anni più di lei!
Fu una bella storia, ma difficile per svariati motivi, uno dei
quali era che lui viveva in un'altra città. Durò solo due anni,
perché purtroppo si ammalò e morì!.
Miriam confidò il suo grande dolore alla mamma e alla sorella,
ma si rese ben presto conto che a loro poco importava del dolore
che lei provava o forse nemmeno lo capivano.
Miriam cominciò a pensare che con la morte del suo ragazzo,
un'altra stella si era aggiunta in cielo a vegliare su lei!
Infatti non c'era giorno che lei non rivolgesse gli occhi al cielo
puntando ora questa, ora quell'altra stella, pensando al nonno,
agli angioletti e ora a quel bel giovane che l'aveva lasciata per
vegliare meglio su lei da lassù!
Intanto si fece vivo con una bella lettera una sua fiamma
adolescenziale,
la corrispondenza con Mirko durò per quattro anni buoni.
Finchè un bel giorno decisero di incontrarsi.
Fu un incontro fantastico! Da tanto tempo desiderato.
La seconda sera, si recarono in spiaggia,
dopo aver camminato a lungo a piedi nudi con l'acqua a mezza
gamba, raccontandosi a vicenda parte della loro passata vita;
finirono a terra abbracciati, si amarono ardentemente a due
passi dal mare che da tanto era calmo sembrava una tavola blu.
Lui dopo l'amore si addormentò; lei tra mille pensieri, domande
alle quali non sapeva dar risposta, da prima si mise a scrutare il
cielo blu notte che miriadi di stelle, stelline che sembrava si
rincorressero, giocassero a nascondino, rischiaravano e il mare
sottostante nel rifletterle sembrava unirsi al cielo formando un
immenso blu.
Lei si mise a costruire un castello di sabbia, una lacrima le
scivolò lungo il suo tondo visino, volse gli occhi al cielo e pensò:
che bello sarebbe abitare un bel giorno in un castello vero,
lontano da tutto e da tutti, insomma in un immenso blu, col suo
principe azzurro che ora mentre lei costruiva il castello di sabbia
e piangeva, dormiva ignaro dei suoi fantasiosi pensieri.
Quando lui si destò, la vide immersa nei suoi pensieri,
incantata davanti a quel ormai terminato castello per lei fatato.
Lui disse:
- E' meraviglioso! Mentre io dormivo tu hai costruito un così
grande castello! –
E lei:
- Lo sai? Questo è un castello fatato! Dentro c'è una bimba
che ha sempre sognato il suo principe azzurro che ora è arrivato!
E poi, vedi? Dal mare è circondato;
il cielo da stelle adornato gli fa da tetto. Si abbracciarono guardando sognanti il meraviglioso castello di
sabbia e abbracciati si addormentarono
Nella notte mentre i due innamorati dormivano, si alzò un
forte vento che fece crollare quel meraviglioso castello,
costruito con tanto amore, cura e speranza!
Al risveglio videro lo scempio;
desolati e tristi, si alzarono per fare ritorno alla di lui casa.
Camminarono silenziosamente, tenendosi per mano; con in
cuore la tristezza della consapevolezza che quel loro breve
vissuto sarebbe rimasto nel tempo solo un bel ricordo!
L'indomani mattina ella ripartì.
Era una bellissima giornata di Giugno;
il sole splendeva alto in cielo, ma nel suo cuore di fanciulla, solo
pioggia di lacrime.
Il rapido era strapieno di gente chiassosa.
Lei sedette in un cantuccio accanto al finestrino con nel cuore
già il rimpianto di chi aveva amato tanto!.
Le si sedette accanto una signora con tanta voglia di
chiacchierare, ma lei aggiustandosi gli occhiali per non far
trapelare i suoi bei azzurri occhi lucidi, si sistemò meglio che
poteva sul suo sedile, facendo finta di dormire.
Ad un certo punto sentì una voce forte:
- Signori, biglietto, signori, biglietto! Aprì gli occhi, il controlloree ra proprio lì, davanti a lei!
Allora capì,
si era davvero addormentata!
Si stiracchiò, poi aprì la borsetta e porse il biglietto a quel bel
uomo di mezz'età che le stava di fronte!
Mentre lui lo prendeva, le disse:
- Con calma signorina; dormito bene?... Ma come mai
quell'espressione così triste? Non è contenta che sia finito
l'anno scolastico?... Si, perché non so, ma dall'aspetto, lei è così
giovane che credo sia ancora studentessa!... O forse mi sbaglio? Miriam ancora tutt'assonnata, lo guardava incredula!
Come si assomigliava al suo principe che aveva lasciato in
un'altra città solo qualche ora prima.
Era forse una decina d'anni più grande, si perché non voleva
usare la parola vecchio! Ma come gli assomigliava!
Alto quasi più di lui,
biondo come lui, capelli un po mossi, niente barba come Mirko.
Lo guardò ancora un attimo in silenzio e poi disse:
- Ma col treno così affollato di gente, ha tempo di perdersi in
chiacchiere con me?! E lui:
- Non avrei tempo, ma con una fanciulla così carina, il tempo si
trova, non credi? E ancora:
- Come ti chiami? Io Italo. Lei porgendogli la sua gelida mano,
- Miriam. –
Piacere - disse lui e lei dolcemente gli sorrise.
- Beh! Ora è meglio che io continui a fare il mio dovere! - e così
dicendo, si alzò dandole un buffetto su uno zigomo.
E poi:
- se faccio in tempo, prima che tu arrivi a destinazione
ripasserò, non fosse altro che per salutarti! - Ok! - replicò lei e si risistemò meglio che poteva sul suo
sedile, ma sapeva già che non sarebbe più riuscita ad
addormentarsi, perché la sua destinazione era ormai prossima!
E poi una miriade di pensieri le affollavano la mente!
Che strano-poche ore prima pensava solo a Mirko che aveva
lasciato a quasi seicento km. Di distanza; e ora che sentiva
ancora quella chiara, calda voce:
“Signori biglietti! Biglietti signori!”
Era da essa affascinata, ma ancorpiù l'aspetto fisico di Italo
la intrigava!
Che stupida son stata! Si diceva, avrei potuto chiedergliquanti anni hai,
dove abiti, sei sposato o fidanzato!
E ancora mille altre cose! Invece la mia timidezza o stupidità,
mi hanno bloccata!
Mentre si riempiva la testa di tutto quello che avrebbe potuto
chiedergli e non l'ha fatto;
il treno fa una sosta!
Scende tantissima gente, ma altrettanta ne sale!
Il posto che poco prima era stato occupato dal controllore
viene preso da una bella ragazza che subito cerca di prendere
con Miriam un argomento di conversazione, lei daprima fa la
sostenuta, ma poi decide che arrivati a questo punto-sarebbe
stato meglio socializzare,
così dopo le presentazioni cominciarono a parlare.
Luisa, così si chiamava la nuova compagna di viaggio aveva con
sé una yogurtiera; ad un tratto si alzò per aggiungere del latte ai
fermenti vivi-dicendo a Miriam:
- Ne vuoi un po'? Te li posso mettere in questo contenitore, e
le fece vedere un piccolo recipiente di plastica col coperchio.
E ancora:
- Per stanotte puoi lasciarli qui dentro, poi domani ti
premunisci di una yogurtiera e aggiungendo di tanto intanto del
latte, avrai sempre in casa yogurt freschissimo! Miriam ascoltava e guardava schifata quel che Luisa faceva-poi
disse:
- No, grazie, non me ne dare-non sono costante! Li farei morire
subito! E ancora:
- Io lo yogurt preferisco comprarlo confezionato! - Come vuoi; guarda che te lo do volentieri! – replicò Luisa.
- Lo credo! Ma davvero non riuscirei a gestirlo! Mentre parlavano riapparve il controllore che rivolgendosi a
Luisa:
- Signorina, mi favorisca il biglietto! E lei:
- E se non ce l''avessi? - Mi vedrei costretto a farle una bella multa! Luisa guardò Miriam e le fece l'occhiolino.
Miriam subito non capì il perché di quel segno, ma le sorrise.
I due continuarono a battibeccare, Miriam tirò fuori dalla
borsa un libro-tascabile e per togliersi dall'imbarazzo, si mise a
leggere.
Ad un certo punto Italo si scusò con lei:
- Ero ripassato di qui per fare ancora qualche chiacchiera con
te, e guarda chi ti dovevo incontrare! Ma non tutto il male viene
per nuocere! - e poi rivolto sempre a Miriam: - Siete forse
amiche voi due? E lei:
- Ci siamo conosciute un'oretta fa, ma niente e nessuno ci può
vietare di rimanere in contatto e diventarlo!
- Certo! - ueplicò lui.
Luisa intanto tirò fuori il biglietto e lo porse a Italo che
prendendolo disse::
- E ci voleva tanto! Lei non replicò, ma rivolgendosi a Miriam:
- E' proprio vero che dell'acqua che non vuoi bere, ti ci
affoghi! E ancora:
- Io oggi ne avrei fatto volentieri a meno di incontrare questo
individuo, - naturalmente facendo riferimento al bel controllore,
- ma si vede che questo incontro era scritto nelle stelle! Tu ci
credi? Miriam sorridendo,
- Se ci credo! Non lo dico a nessuno, ma a te ora devo proprio
dirlo! Non solo ci credo, ma ogni tanto mi diletto anch'io a
interpretarle! - Davvero! - replicò l'altra; - allora mi devi assolutamente
lasciare il tuo numero di telefono, e -aggiunse:- mi piacerebbe
che almeno una volta tu le interpretassi per me! - Lo farò con piacere, ma ricordati che io non sono una
professionista! - disse con modestia Miriam.
Italo che aveva ascoltato tutta la conversazione delle due
ragazze, s'intromise, rivolgendosi a Miriam:
- No, scusa, ma adesso il tuo numero lo devi dare anche a me! -
E continuò:
- Sì, perché anch'io ci credo! E vorrei poterti contattare. –
- Certo! - replicò Luisa, rivolgendosi a Miriam: - vorrebbe
poterti contattare per vedere se le stelle per lui in un non
lontano futuro prevedono un'altra preda che poi diventerà
vittima! - Non essere così crudele, - le disse lui.
Miriam un poco imbarazzata disse:
- Non so che cosa ci sia stato tra voi due, ma mi pare di capire
che ora non corra molto buon sangue! Comunque, sono solo affari
vostri.Luisa replicò:
- Ti basti sapere che a una settimana dal nostro presunto
matrimogno, mi ha rivelato di essere già sposato! E lui:
- Lo sai Luisa il motivo per cui non te l'ho detto prima! Ti
amavo troppo e avevo paura di perderti anzi-tempo! Comunque
ora sono separato! Miriam pensò: “interessante!”
Volse il volto verso il finestrino e esclamò:
- Accidenti! Sono arrivata! –
Raccolse in fretta la borsa di paglia che aveva deposto sotto le
gambe, si mise a tracolla la borsetta bianca e salutò, prima Luisa,
poi il bel controllore che reclamò:
- A me niente bacini?! Allora Miriam baciò anche lui. Appena scesa, le sovvenne che si
era scordata di dare ai due il numero di telefono; peccato pensò
– mi sarebbe piaciuto risentire Luisa, pazienza, ormai è fatta! E
ancora – se sarà scritto nelle stelle prima o poi ci rivedremo!
Mentre scendeva le scale della stazione, pensava ancora –
sarebbe bello rivedere anche Italo, ma forse mi attraie così
tanto, perché assomiglia in un modo esagerato a Mirko? Si
domandò.
Arrivata a casa, la sua vita riprese il vecchio tran-tran di
sempre! Andava a lavorare, alla sera sbrigava le faccende di
casa; spesso nei fine-settimana si recava dai suoi genitori che la
martoriavano sempre con la solita domanda:
-
Cosa aspetti a trovarti un marito? - E lei sempre replicava
- Quando le stelle decideranno lo troverò anch'io! Una sera di Agosto, dopo cena decise di recarsi da sola in
spiaggia.
Era ancora in ferie, ma era già tornata per riordinare
ulteriormente la sua casa, alla quale teneva tanto! Quel giorno
era stato per lei particolarmente triste! Già dal mattino presto
si era destata inversa, perché la notte precedente aveva sognato
il suo adorato nonno, morto una decina di anni prima, ma che lei
ricordava e pensava assiduamente! Nel sogno si era rivista
piccola imbraccio a lui.
Pensava “che bello sarebbe stato averlo ancora, potergli
raccontare del suo ragazzo morto qualche anno fa; parlargli di
Mirko e perché no! Anche di Italo e Luisa!” Invece ormai doveva
accontentarsi, quando era fortunata di vederlo solo in sogno e
pensarlo ogni volta che le faceva piacere.
Così dopo aver sfaccendato per tutta la giornata, tra un
pensiero e laltro; giunta la sera, stanca-morta, salì sulla sua
panda rossa e si recò in riva al mare.
Guidava con frenesia, frenando bruscamente per ripartire
ancor più velocemente.
Finalmente arrivò sana e salva! Pensò: “anche stavolta le mie
stelle del cielo mi hanno aiutata!”
Settembre 2009
Mariangela Zaccone
9
ADDIO TERRA
Introduzione
Questo è un brutto racconto e non credo che possa terminare
così, perché sento che fa parte di una storia molto più grande e
articolata. Il racconto apparentemente catastrofista contiene
una pandemia, e anche per questo motivo ho avuto tante
indecisioni a pubblicarlo. Fatto sta che ho iniziato a scrivere di
questa pandemia molto tempo prima che iniziasse quella vera o
presunta dei nostri giorni. Ora non ho potuto fare a meno di
ritoccare il racconto, dato che si tratta di una sorta di
memoriale storico, includendo anche alcuni cenni all'influenza che
in questo periodo spopola tra i nostri telegiornali.
Ci tengo a precisare che tutto ciò che scrivo qui è frutto della
mia fantasia (potrebbe essere diversamente?!). Alcuni fatti
storici sono veramente accaduti. Altri, anche se veri, li ho piegati
ai fini della storia del racconto.
Anche se è uno dei racconti più neri e pessimistici che abbia
mai scritto, spero che tu lettore riesca a cogliere qui il
messaggio di speranza che ho voluto trasmettere. Pertanto non
osservare solo la distruzione e la morte, ma sappi cogliere la
nuova speranza nella rinascita del genere umano.
1
Quel giorno l'aria era particolarmente pungente. Il capitano
Yosef Henlil si coprì la faccia e, come tutte le mattine da circa
un anno, si recò allo spazioporto per coordinare i preparativi
d'imbarco. Erano giorni frenetici: mancava una settimana alla
partenza e i dettagli da rivedere o riarrangiare si moltiplicavano
di ora in ora.
La base era sonnolenta come lo stanco ondeggiare delle
fronde. Erano le 4.30 del mattino, l'ora consueta di inizio lavoro,
e nel parcheggio c'erano solo poche e sparute vetture.
L'illuminazione alogena tutt'intorno al perimetro cominciava a
confondersi col grigiore metallico dell'alba mentre il timido
cinguettio
di
qualche
uccello
echeggiava
dalla
foresta
circostante. Il basso ronzio degli accumulatori di energia faceva
da
tappeto
agli
sporadici
sibili
dei
servomotori
per
l'autoregolazione dei canali di aerazione.
Le porte si richiusero dietro le spalle del capitano. Alcuni
settori erano ancora bui, in altri le luci giallastre indicavano la
presenza di membri del personale. L'uomo si scoprì il viso e si
diresse
verso
un
ampio
corridoio
tappezzato
di
mappe
geosatellitari.
"Buongiorno", disse al sensore di porta del suo ufficio. La
porta con una morbida accelerazione si aprì. Il sensore aveva
trasmesso il suono al sistema interno, che l'aveva analizzato,
comparato, diversificato e riconosciuto. Quel sistema era attivo
da oltre mezzo secolo e nonostante tutto funzionava ancora alla
perfezione. Nessun altro sarebbe potuto entrare nel suo ufficio,
nemmeno registrando e ritrasmettendo la sua stessa voce: il
sistema non ne avrebbe mai accettato una copia facsimile. Lui
credeva che tale marchingegno fosse dettato dalla paranoia dei
tecnici piuttosto che dall'effettiva necessità: la civiltà del
neoevo era del tutto priva di criminalità, servizi segreti e eroi in
stile James Bond, quel famoso personaggio della narrativa di fine
novecento. Con l'eliminazione del sistema monetario, in quel
residuo di mondo erano in poche decine di anni sparite tutte le
manifestazioni negative connesse al profitto e alla proprietà.
L'ufficio era un'ampia stanza con un arredamento sobrio e con
un leggero retro-odore di carta, un po' come una vecchia
biblioteca del ventunesimo secolo. Un grande tavolo col piano
rivestito di un visore aptico occupava un lato della stanza. Due
scansie dai ripiani pieni di grossi tomi coprivano interamente le
due pareti ai lati. Alle spalle del tavolo, da una grande finestra
opaca, si intravedeva la pista interna della base.
L'uomo si avvicinò al pannello e schiarì la superficie. Guardò la
NOAH13,
l'ultima
astronave
rimasta
sul
pianeta.
Un
rimorchiatore stava trasportando un grande container di viveri
mentre quattro operai lo aspettavano vicini ad un sollevatore che
l'avrebbe imbarcato nella nave. Si ravviò una ciocca canuta di
capelli e appoggiò la mano al pannello, percependone una piacevole
frescura. Pensò al compito che lo aspettava e alle vite che
avrebbe traghettato nel nuovo mondo, come l'ultimo moderno
nocchiero. Chiuse gli occhi. Giorno dopo giorno una inquietudine
crescente gli montava dalle viscere, prendendogli stomaco, cuore
e cervello. Faceva una fatica immane ad osservare tanta perduta
bellezza e a pensare di lasciarla al suo destino. O forse era il
contrario? Sorrise amaramente. A pensarci bene era il genere
umano ad essere stato abbandonato, vissuto lì per un frammento
di vita, in quello splendore perduto per tanti, ma ancora vivo,
pulsante. C'erano giorni in cui si addentrava per la foresta,
lontano da tutti, e respirava a pieni polmoni, abbracciando avido
tutto il pianeta, come se volesse mettere radici per diventar con
esso una unica cosa. Poi piangeva silenziosamente, donando a quel
luogo le sue ultime lacrime. In quei momenti di sconforto si
gettava a capofitto nel lavoro, e più si sentiva oppresso dal peso
che lo gravava, più si consumava in quell'attività frenetica, quasi
volesse ricostruire col suo lavoro ciò che millenni di vita avevano
distrutto. Come si fa a vivere sentendo le medesime vibrazioni
che scuotono elettricamente il proprio corpo e purtuttavia
restare immobili a danzare in una perenne pantomima di realtà?
Così come un faro che nei giorni di burrasca indica la salvezza ai
marinai più coraggiosi, sentiva il suo coraggio venir meno,
osservando da lontano quella luce intermittente che si faceva
sempre più fioca e evanescente, e nonostante tutto così
prepotente e inquietante da mettergli addosso un malessere
nero come un universo in espansione.
Al suo tavolo il computer illuminò il visore e emise un tenue
segnale sonoro: aspettava un suo cenno vocale per iniziare
l'attività di ricerca. L'uomo si riscosse dalle sue elucubrazioni,
riopacizzò la finestra, si sedette e sfogliò la documentazione che
gli restava da inserire. Ogni capitano aveva il compito di scrivere
e controllare parte del memoriale che l'umanità lasciava al
destino della Terra. Lui era l'ultimo a ottemperare a un simile
lavoro. Ormai non restava altro che controllare ciò che l'umanità
aveva scritto negli annali della sua travagliata storia. L'archivio
centrale conteneva il racconto prepotente dell'uomo, la natura al
di là della finestra tacitamente si leccava le ferite provocate da
quell'invadente ospite.
I prodromi del disfacimento dell'ultima delle civiltà terrestri
si ebbero nella seconda metà del diciannovesimo secolo, quando il
mondo occidentale iniziò un processo di industrializzazione
selvaggia che lo portò in pochi secoli a disastri ambientali
irreversibili. A denunciare e a prevedere questo fenomeno,
seppur limitatamente agli aspetti socioeconomici, fu il movimento
luddista, nato alla fine del diciottesimo secolo. Distruggevano le
macchine, come se la distruzione causata da una guerra avesse
potuto bloccare il flusso di denaro che ne oliava gli ingranaggi.
Nel 1945, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, venne
impiegato per la prima volta il nucleare. Furono gli Stati Uniti
d'America che nel luglio di quell'anno nel deserto del New
Mexico effettuarono il Trinity test, dove fecero esplodere per
la prima volta una bomba atomica. Qualche giorno più tardi, il 6
agosto a Hiroshima e il 9 a Nagasaki, due città del Giappone, gli
Stati Uniti d'America sganciarono due bombe atomiche che in
pochi attimi fecero decine di migliaia di vittime. I numero di
morti si moltiplicò nei mesi e negli anni a venire. Il disastro
ambientale immediatamente e posteriormente al bombardamento
fu immane: le radiazioni nucleari sino alla metà del ventunesimo
secolo furono causa di morte e malattie in tutte le aree
limitrofe. Hiroshima e Nagasaki diventarono le due maggiori zone
desolate e improduttive del Giappone.
Dopo il 1945 diversi Stati condussero ripetuti esperimenti
nucleari, soprattutto per fini bellici. Stati Uniti d'America,
Russia, Regno Unito, Francia, Cina, India, Israele, Sudafrica,
Taiwan, Pakistan e altri Stati minori adibirono intere aree
terrestri
e
marine
per
testare
i
loro
ordigni
nucleari.
Conseguenze dirette sull'uomo questi esperimenti non ne ebbero,
ma provocarono un disastro ambientale all'intero ecosistema
delle aree interessate.
Nel 1986 un'altra catastrofe ambientale si verificò in Russia
(dal 1991 quella stessa regione divenne lo Stato indipendente
dell'Ucraina). A causa di errori umani, nella centrale nucleare di
Cernobyl si ebbe l'esplosione di un reattore, che provocò la
dispersione di grandi quantità di materiale radioattivo. Nei giorni
e nei mesi successivi una nube radioattiva interessò buona parte
dell'Europa. L'area di Cernobyl fu totalmente evacuata e non
vide mai più insediamenti umani.
2
La NOAH13 era l'ultima astronave rimasta sul pianeta, adibita
alla migrazione degli ultimi duemila uomini della Terra. Sin dai
primi anni del ventiseiesimo secolo, l'umanità, già sterminata dal
susseguirsi di svariate catastrofi ambientali, decise di migrare
su un altro sistema solare, dato l'imminente esaurimento delle
risorse naturali e vista l'insostenibilità della qualità di vita a cui
si erano ridotti i due milioni di sopravvissuti del pianeta.
Agli inizi del venticinquesimo secolo la prima spedizione
interstellare aveva individuato un pianeta simile alla Terra in uno
dei sistemi solari della Cintura di Orione. L'equipaggio della
spedizione NOAH1 al ritorno sulla Terra riferì che il pianeta
sembrava allo stadio primordiale e privo di contaminazioni nocive,
ideale per la colonizzazione da parte dell'uomo.
Per tutto il venticinquesimo secolo i viaggi interstellari verso e
da quel sistema si ripeterono più volte a cadenza sempre
maggiore.
Equipe
di
scienziati
e
tecnici
studiarono
minuziosamente per anni l'ecosistema del pianeta reputandolo
infine idoneo alla vita del genere umano. Il pianeta aveva una
gravità e una massa leggermente inferiori a quelli della Terra.
C'erano continenti, oceani, foreste pluviali e tropicali, corsi
d'acqua, specie di mammiferi, rettili, uccelli e insetti, alcuni
molto particolari e di grandi dimensioni, e un'aria decisamente
pura e respirabile. Insomma era un eden incontaminato, ideale
per la vita e per la colonizzazione.
La decisione di migrare su di esso arrivò dopo il 2496, quando
la spedizione della prima astronave della serie NOAH scoprì una
costruzione piramidale in una zona del pianeta che non era ancora
stata esplorata.
Le ipotesi sulla primordialità del pianeta allora caddero. Era
palese il fatto che quella piramide aveva origini artificiali.
Costruita di un materiale sconosciuto, resistente agli agenti
atmosferici, spiccava per la precisione delle sue linee. Le analogie
con le piramidi terrestri si sprecarono. Ipotesi piovvero da un
po' tutte le branche scientifiche. Il mistero della costruzione fu
risolto nel decennio tra il 2512 e il 2522, quando un equipaggio di
tecnici, effettuando degli scavi intorno al suo perimetro,
trovarono un portale finemente decorato di bassorilievi in cui
erano rappresentati degli esseri, simili agli uomini, impegnati in
scene di vita quotidiana, o intenti a costruire quella piramide, o a
indicare luoghi e mappe stellari oppure a descrivere le basi del
loro linguaggio.
La tecnologia che gli uomini trovarono al suo interno era di un
livello più avanzato di quella terrestre. Aveva strumenti dal
design gotico, semplici e immediati da comprendere, grazie anche
ai grafici stilizzati che ne facevano intuire l'utilizzo. Fu trovato
un archivio di documenti in vari supporti, da quelli scritti a
stampa su un materiale simile alla carta, a quelli consultabili
tramite connessioni sensoriali. Le informazioni che sconvolsero
gli uomini furono quelli a trasmissione cerebrale. Particolari
esagoni metallici, racchiusi in una mano, trasferivano all'ospite
una conoscenza tramite esperienze illusorie che interessavano i
cinque sensi e la propriocezione, aprendo molteplici canali
cognitivi e facendo vivere delle esperienze virtuali di vivida
nitidezza. L'esperienza era simile alle visioni indotte dalle
droghe sintetiche e naturali, diffusesi ampiamente alla fine del
ventesimo secolo, con la differenza che il passaggio dallo stato
vigile a quello di trance con l'esagono avveniva in modo parallelo e
naturale, come se si vivesse per poco tempo due vite in un
intenso e totale stato catatonico di schizofrenia organizzata.
Anche il lavoro dei linguisti fu decisivo: si dedicarono allo studio
delle strutture del linguaggio e alla comprensione dei documenti
ritrovati. Seppero così acquisire in pochi mesi le informazioni
essenziali che quella civiltà aveva lasciato, presumibilmente
proprio per eventuali visitatori di altri mondi.
Il problema a cui far fronte per una possibile colonizzazione
fu quello del fabbisogno
energetico.
Ciò che si doveva
assolutamente non fare era lo sfruttamento selvaggio e
l'inquinamento delle risorse naturali e dell'ecosistema. Gli
antropologi e i sociologi non si facevano però illusioni: era nella
natura dell'uomo essere parassita dell'ambiente in cui viveva. I
buoni propositi sarebbero stati dimenticati nei millenni a venire,
via via che l'umanità dimenticava le origini e le motivazioni di
quella colonizzazione. Una soluzione la diede proprio la tecnologia
presente nella piramide. Il sistema interno si autoalimentava
dall'ambiente, così come facevano le piante e la vegetazione. La
fotosintesi era una delle risorse maggiori di energia della
piramide. La struttura effettuava anche una profonda simbiosi
con la terra e il sottosuolo, o trasformava a proprio vantaggio
l'energia cinetica dei venti e delle piogge. Era un elemento
artificiale che si integrava con l'ambiente, sistema che resisteva
in quel pianeta da centinaia di millenni.
Il sottosuolo del pianeta era anche ricco di giacimenti
petroliferi, a testimonianza che la vita biologica si sviluppava da
centinaia di migliaia di anni. Alcuni scienziati discussero anche
l'opportunità di sfruttare i giacimenti, almeno per la fase iniziale
della colonizzazione. La proposta però fu scartata per via delle
implicazioni che avrebbe avuto nel futuro della vita in quel
pianeta. L'umanità non aveva ancora dimenticato l'esperienza
terrestre, situazione che non si voleva che si ripetesse anche in
quella nuova casa.
Nella Terra, dopo il 1950, via via che la richiesta di petrolio
aumentava, a periodicità sempre minore si verificarono diversi
disastri petroliferi che interessarono l'ambiente marino di tutti
i mari e oceani del pianeta. L'ultima catastrofe petrolifera si
ebbe nel 2095 nell'oceano indiano. La disponibilità di petrolio,
dopo poco più di un secolo di intenso sfruttamento, era giunta al
termine. Le grandi compagnie petrolifere, associatesi per
combattere la crisi in un'unica organizzazione, ottennero la
concessione di estrarre il petrolio da sacche rilevate a
chilometri di profondità dal fondale marino. Per effettuare tali
estrazioni ci si avvalse di tecniche che facevano largo uso di
esplosioni nucleari. Una vasta area del fondale marino non resse a
tali sollecitazioni telluriche e sprofondò provocando una voragine
ampia oltre due milioni di chilometri quadrati. La catastrofe fu
duplice:
il
petrolio
delle
sacche
sottostanti
fuoriuscì
distruggendo interamente l'ecosistema marino. Il maremoto che
si scatenò provocò uno tsunami che investì tutte le coste e le
isole dei paesi che si affacciavano nell'oceano indiano. La grande
ondata dell'aprile del 2095 fu decine di volte più disastrosa di
quella verificatasi nel 2004: morirono circa cinque milioni di
persone, tutte le linee costiere vennero distrutte e tutte le isole
si inabissarono per sempre.
3
"Avanti",
disse
il
capitano
Henlil.
La
porta
si
aprì
automaticamente e una donna di media statura entrò con in mano
una cartella di documenti.
"Buongiorno", disse poggiando sul tavolo l'incartamento. Si
aggiustò il colletto del lungo camice bianco.
"Buongiorno, Inanna... cos'hai lì?". Disse l'uomo.
La dottoressa Inanna Rogers era il medico che dirigeva e
curava i lavori del reparto sanitario. Era una donna energica di
media statura, coi capelli corvini legati in una lunga e fluente
coda che, come quel giorno, infilava all'interno del camice per
evitare che disturbasse il suo lavoro.
"Sono le analisi cliniche degli ultimi passeggeri." Gli rispose con
una smorfia.
"Tutto bene?" Gli chiese Henlil chiudendo un fascicolo e
riponendolo in un cassetto.
"Nella norma", gli rispose lei sgranchendosi le spalle. "Una
decina di casi di influenza che dovrebbero rientrare prima della
partenza, e comunque per l'attraversata abbiamo uno stato
sanitario sostenibile. Ci sono invece dei problemi per quanto
riguarda lo stato psicologico di alcuni soggetti, che non accettano
l'idea di lasciare la Terra."
L'uomo emise un grugnito e le sorrise di sbieco. Il rapporto
con la dottoressa Rogers non si limitava al solo lavoro. Inanna era
una amica di vecchia data che conosceva a sufficienza il profondo
attaccamento dell'uomo per il pianeta. Spesso insieme al suo
compagno trascorrevano delle serate con Yosef confidandosi
dubbi e timori della loro nuova sorte.
L'uomo si alzò e si diresse verso una macchina elettronica che
preparava a comando delle bevande.
"Cosa prendi?" Le chiese.
"Un caffé molto lungo, grazie." Le rispose la donna.
"Un caffé doppio lungo e un caffé normale." Disse rivolgendosi
alla macchina, che iniziò in un sommesso ronzio a preparare le
due bevande.
"Le specie dei piccoli mammiferi sono già state imbarcate?"
Disse Inanna mentre sorseggiava il caffé che Yosef le aveva
portato.
"Sì, le hanno imbarcate ieri." Le rispose. "Abbiamo dieci coppie
di venti specie di piccoli mammiferi e svariate coppie di uccelli e
rettili."
"E i lepidoptera?"
"Sì, anche quelli", rispose l'uomo. Poi aggiunse: "sia farfalle
che falene".
Yosef premette un piccolo rigonfiamento sul visore aptico. Sul
piano apparve un microambiente in cui alcune farfalle volavano da
una pianta all'altra. I due per alcuni minuti osservarono in
silenzio quella scena, mentre il pannello multimediale trasmetteva
loro i suoni naturali di quel sistema.
"Mi sembra un sogno", disse lei interrompendo il silenzio.
"Un sogno..." le fece eco Yosef bloccando la scena in un fermoimmagine particolarmente suggestivo.
"La nostra civiltà sta tornando alle origini, non pensi?"
L'uomo non disse nulla. Inanna si alzò e andò a buttare i
bicchieri di carta in un cestino biologico: il macchinario in pochi
minuti li avrebbe assimilati e ricomposti in nuovi contenitori.
"Non penso", rispose dopo un po' il capitano: "Siamo noi le
nuove origini dell'uomo... e allo stesso tempo anche i suoi ultimi
figli." Fece un gesto sul visore e le immagini ricominciarono a
scorrere.
"Tra un'ora ci sarà l'imbarco dei microambienti nella Noah:
vuoi assistere?" Chiese a Inanna.
Lei sorrise: "Noah... e tu hai pure una fluente barba bianca!
Certo che vengo."
Le
navi
della
serie
Noah
erano
state
ventiquattresimo
secolo,
dopo
alcuni
secoli
sperimentazioni,
fallimenti
e
successi
con
costruite
di
nel
intense
l'impiego
di
antimateria per la produzione di energia. Mediante l'impiego di
una evoluzione di protonio stabile, particelle formate da atomi di
protoni e antiprotoni, si riuscì a far sì di trasferire la materia da
un luogo fisico all'altro a velocità centuplicate da quelle della
luce. Il processo consisteva nell'annichilire in energia lo scafo
delle navi spaziali, mantenendo immutata la sua materia interna.
Gli scafi così annichiliti entravano in una terza dimensione,
diversa da quella della materia o dell'antimateria, che gli
scienziati chiamarono "dimensione pensiero", data la sua natura
di pura energia in cui era possibile superare ogni limite e
distanza fisica. Lo scafo veniva dunque trasformato in "energia
pensiero" e istantaneamente entrava nella terza dimensione,
riuscendo a percorrere distanze fisiche a velocità inimmaginabili,
per l'appunto chiamate "velocità pensiero".
I viaggi interstellari divennero sempre più frequenti. Si
sondava l'universo in cerca di un pianeta che potesse ospitare gli
ultimi due milioni di esseri umani sopravvissuti. Nella seconda
metà del venticinquesimo secolo venne trovato e studiato il
pianeta che poi fu battezzato Nuova Terra. Dopo la scoperta
della piramide, gli esploratori furono sconcertati dallo scoprire la
storia che in essa era custodita: gli esseri umani erano i
discendenti degli abitanti che mezzo milione di anni prima
avevano popolato quel pianeta. I documenti ritrovati nella
piramide raccontavano la storia di esseri simili all'uomo che, dopo
aver esaurito le risorse di quel pianeta, cercarono e trovarono un
altro luogo in cui vivere: era la Terra. Gli esseri umani erano
quindi i figli di quei colonizzatori. I loro antenati avevano lasciato
il pianeta di origine, affinché il lento processo naturale ne
ripristinasse l'ecosistema ampiamente danneggiato. Sulla Terra
avevano poi dimenticato le proprie origini, si erano quasi estinti,
avevano viaggiato per i continenti, si erano insediati e avevano
popolato delle aree, si erano evoluti e infine, come uno scherzo
del destino, dopo aver consumato le risorse del pianeta, stavano
ritornando al pianeta di origine.
4
Nel 1980 fu identificato un virus che poi fu classificato con
l'acronimo HIV. La Sindrome di Immuno Deficenza Acquisita
(AIDS) progressivamente colpì milioni di persone. Il virus si
trasmetteva maggiormente per via ematica e sessuale. Per via
della condizione mutagena del virus, il vaccino definitivo che
risolse il problema fu scoperto solo agli inizi del ventiduesimo
secolo in dei laboratori biotech di Bangkok in Thailandia.
Un evento particolare collegato all'AIDS, al virus HIV e alle
persone infette, fu l'ondata nazionalista che si scatenò in tutti
gli Stati mondiali dopo l'11 settembre 2001, quando due aerei di
linea, presumibilmente dirottati da una cellula terroristica
denominata AL-QAEDA, si schiantarono sulle due torri gemelle
del World Trade Center di Manhattan a New York. Si ripeteva
l'evento del 1945 quando un aereo si abbatté sull'Empire State
Building. Nell'episodio del 2001 lo schianto dei due aerei di linea
fu una catastrofe totale: le due torri crollarono interamente
provocando migliaia di vittime. L'intero World Trade Center fu
distrutto. Le restrizioni che gli Stati adottarono, sulla scia degli
Stati Uniti d'America, furono sempre maggiori culminando nel
decennio tra il 2015 e il 2024 in politiche nazionaliste e
autarchiche particolarmente rigide. Nonostante l'elezione del
primo presidente americano di colore che in quegli anni riportò
un timido accenno di ottimismo, i primi sentori di questa crisi si
ebbero alla fine del 2008 quando il sistema bancario mondiale
iniziò a collassare. I novanta anni a partire dal 2019 furono
definiti come il secolo oscuro del mondo.
Questa situazione nel 2025 fece decidere le grandi potenze
del pianeta, che ricevettero il benestare dell'ONU e dell'OMS,
di adibire il continente africano a ghetto per tutte le persone
sieropositive e per tutti i malati di AIDS. Dal 2026 al 2035 tutti
gli Stati attuarono un sistematico processo di individuazione e
deportazione in Africa delle persone infette. Dall'Africa
accelerarono l'ondata migratoria verso l'Europa permettendo il
passaggio ai sani e impedendolo agli altri. Il nuovo continentelazzaretto lentamente si allontanò dalla velocità di vita del resto
del mondo. Successivamente la vita ivi presente ebbe lentamente
a estinguersi: nel 2150, per la prima volta nella storia del
giornalismo, i media si riferirono all'Africa come continentefantasma.
Al di sotto di questa situazione covava un male maggiore,
dovuto alla scarsità di cure sanitarie in cui versavano le persone
dei paesi più poveri, e all'ondata migratoria a cavallo del
ventesimo e del ventunesimo secolo di questa umanità verso il
benessere dei paesi più ricchi.
Nei cento anni dal 2250 e il 2350 il genere umano subì una
violenta pandemia. Una variante mutagena del virus di Marburg,
isolato per la prima volta nel 1967 nella città tedesca da cui
prese il nome, si diffuse con sistematicità fino a sterminare di
febbre emorragica quasi interamente la popolazione del pianeta
Terra.
La propagazione di questo virus sfuggì ai controlli delle grandi
industrie farmaceutiche che, dopo la seconda metà del ventesimo
secolo, si dedicarono più al guadagno monetario piuttosto che al
benessere degli esseri umani. Negli anni '70 del ventesimo
secolo, dopo che alcuni rappresentanti di queste grandi industrie,
insieme
a
esponenti
degli
Stati
e
dei
Media
maggiori,
segretamente si accordarono per attuare una sistematica e
controllata distribuzione di virus influenzali e relativi vaccini, a
cadenza controllata la popolazione mondiale fu informata con
annunci allarmistici della diffusione di pericolose pandemie
influenzali. Alla fine degli anni settanta del ventesimo secolo ci
fu l'influenza suina. Alla fine degli anni novanta ci fu l'allarme
per l'influenza aviaria, denominata l'"influenza dei polli". Agli
inizi
del
ventunesimo
secolo
l'influenza
bovina
occupò
l'attenzione dei media per poco tempo, dato che i riflettori
erano più puntati verso la guerra della "democrazia", dei paesi
occidentali verso alcuni paesi del medio-oriente, in particolar
modo Afganistan e Iraq. Tra il 2009 e il 2011 ci furono gli allarmi
per l'"influenza dei maiali", variante del virus degli anni settanta.
Il virus però non ebbe una fase di test approfondita, poiché,
dopo la crisi e il crollo del sistema economico mondiale, le
industrie farmaceutiche furono costrette ad anticipare la
distribuzione del virus, in precedenza programmata per il 2015.
La pericolosità del virus fu talmente insignificante che tale
influenza fu poi denominata "influenza mediatica", in quanto la
popolazione mondiale fu colpita dall'influenza solo sulla carta,
fiumi di notizie diffusesi grazie ai mezzi di comunicazione. Le
industrie farmaceutiche comunque raggiunsero l'obiettivo finale,
cioè la successiva commercializzazione dei vaccini, operazione
che superò ogni più ottimistica loro aspettativa. Nel 2021 e nel
2035 si ebbero quelle che poi vennero definite "influenze
placebo", pandemie basate su messaggi allarmistici dei media più
che su un pericolo reale. L'esperienza dell'"influenza mediatica"
aveva reso più sicure le industrie farmaceutiche, che, invece di
impegnare risorse per la produzione di nuovi ceppi di virus
influenzali, si orientarono a far leva su nuove tipologie di virus
virtuali, pronti a colpire le psicologie delle masse.
Il vero agente patogeno, quello che avrebbe decimato gli
esseri umani del pianeta Terra, per tutto il ventunesimo secolo si
era manifestato in pochi uomini, soprattutto bianchi trasferitisi
per missione o per lavoro in Africa o in Asia. Il virus delle
scimmie verdi, così veniva chiamato, con l'ondata migratoria di
gente povera che dall'Africa e dal mediooriente migrò in Europa
e in America del nord in cerca di sorte migliore, nella metà del
ventitreesimo secolo riapparve nel cosiddetto occidente del
mondo in un nuovo ceppo virale, più resistente, più rapido a
diffondersi e in grado di rimanere in latenza per anni. I
laboratori di tutto il mondo si applicarono e si dedicarono per
decenni a cercare una cura. Una terapia però non fu mai trovata
e le persone continuarono a morire di emorragie interne, febbri
che in poche settimane portavano ad una straziante morte. La
diffusione del virus di Marburg non fu uniforme su tutto il
pianeta. Ricerche statistiche dimostrarono che una percentuale
maggiore di sopravvissuti
risiedeva in Sud America, più
precisamente
nell'area
amazzonica.
Osservando
le
mappe
pandemiche si notava che quanto più ci si allontanava da
quell'area più l'incidenza del virus si allargava. Nella prima metà
del ventiquattresimo secolo ci fu una ondata migratoria di
persone più abbienti che si spostarono in Amazzonia e nell'area
circostante. Questo flusso, sebbene ebbe qualche esito nelle
generazioni a venire, non risparmiò le persone portatrici del
virus.
5
Pioveva a dirotto. Gli ultimi portelli della nave vennero chiusi e
il sistema interno di pressurizzazione entrò in funzione. I
duemila passeggeri ospiti erano raggruppati nelle sette aree di
soggiorno, grandi locali con un visore su ognuna, dove in quel
momento venivano trasmesse le immagini dell'esterno spazzato
da forti raffiche di vento e di pioggia.
Un sommesso brontolio accompagnò un leggero movimento
della nave quando questa si alzò lentamente da terra. Una voce
metallica annunciò inutilmente che la nave si era staccata dal
suolo terrestre. Un metro dopo l'altro i visori mostrarono un
orizzonte sempre più ampio e grigio e al di sotto le cime degli
alberi della foresta che via via si facevano sempre più indistinte.
Nei locali il silenzio irreale a volte veniva interrotto da un
singhiozzo o da un gemito. Alcuni bambini affondavano il viso
piangendo nelle pance dei loro genitori. Alcuni adulti si tenevano
per la vita come se temessero che quel distacco potesse dividere
anche loro. Altri se ne stavano soli e immobili, con in volto
scolpita una chiusa e dura maschera di rassegnazione.
Il capitano Henlil era in piedi di fronte al portale visivo
dell'area di comando. Poco distante da lui c'era la dottoressa
Inanna e qualche altra persona dell'equipaggio. Il personale di
sala era chino sui visori di controllo dove semplici quadri luminosi
segnalavano lo stato dello scafo.
La nave pensiero lentamente si fermò ad altitudine di
cinquecento metri. Era l'altezza preprogrammata per entrare
nella terza dimensione di viaggio.
"Registrate ogni cosa", disse Henlil senza distogliere lo
sguardo dal visore. Dopo qualche minuto si avvicinò ancora di più
al pannello, quasi a voler imprimere per l'ultima volta l'immagine
della Terra nelle sue retine. Sospirò lentamente, poi si girò e
abbracciò la sala con lo sguardo. Gli occhi di ognuno ora erano
rivolti a quell'uomo, fiero capitano della nave stellare NOAH a
trasportare gli ultimi duemila esseri umani del pianeta Terra.
Un uccello esibì il suo volo aggraziato di fronte agli obiettivi
della nave, riempiendo il visore con una immagine piena di
speranza. Poi Henlil respirò profondamente. Infine impartì alla
nave il comando di partenza: ADDIO TERRA!
Giuseppe Di Grande