Star
Rossana Zago, Davide Rigonat, Lavella, Davide Schito
Paolo Dapporto, Bruno Elpis, luce allievi, Erika Marzano
Caterina Russo, Roberto Pinna, Erika Zanotti, Dora Carbone
Copertina
Ilaria Tuti
Editing e impaginazione
Fabrizia Scorzoni
Prima edizione marzo 2014
Questo ebook è distribuito con Licenza Creative Commons BY-NC-ND
È consentita la riproduzione, parziale o totale, dell’opera e la sua
diffusione a uso personale dei lettori, purché sia riconosciuta
l’attribuzione dell’opera al suo autore, l’opera non venga modificata
e non venga riprodotta a scopo commerciale.
http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/
Abaluth
Sommario
Stelle, stelline e Guerre Stellari.................................................1
La stella......................................................................................7
Cinque Stelle............................................................................14
Samia........................................................................................18
Stelle........................................................................................21
Presagio di morte.....................................................................24
... e stelle sul soffitto... ............................................................27
100 Suns...................................................................................33
Routine.....................................................................................44
Inganni di luce..........................................................................47
Una giornata luminosa.............................................................50
La vita è una cosa meravigliosa...............................................56
Abaluth
Star
Stelle, stelline e Guerre Stellari
Rossana Zago
Luca è in camera sua. Impugna a due mani la spada laser e
combatte contro Dart Fener un duello iniziato sul tappeto, proseguito
sul letto e che adesso si è spostato fra i pacifici orsetti di peluche.
«Luca, per piacere, vai a prendere il latte?»
«Uffa!»
Ripone la spada laser, rimette gli orsetti al loro posto, indossa
sciarpa, giubbotto, berretto e va dalla mamma.
«Ecco. I soldi sono giusti. Non perderli, mi raccomando.» Lei
controlla che il giubbotto sia ben chiuso, poi gli fa l’occhiolino e
dice: «Lo sai che devi mettere le scarpe, vero?»
Luca strizza entrambi gli occhi, li riapre, sorride: «Sì, sì. Così non
ho i piedi freddi. Sì.»
Infila le scarpe e, quando chiude le linguette in velcro, le monetine
cadono per terra e la mamma lo aiuta a cercarle. Prima di uscire si
china verso di lei e riceve un bacetto di saluto sulla guancia ruvida
del primo accenno di barba.
Fuori fa freddo. Mette le mani in tasca e continua a stringere le
monetine gelide per paura di perderle. Cammina lentamente e fa
attenzione ad attraversare la strada, come gli ha insegnato la mamma.
Un gruppo di ragazzi sta chiacchierando all’angolo fra l’edicola e
il negozio di modellini. Luca guarda dritto davanti a sé e continua a
camminare.
«Ehi, Guerre Stellari! Dove stai andando?»
Stringe più forte le monetine. Continua a camminare.
Uno si stacca dal gruppo, gli si mette davanti e Luca è costretto a
fermarsi.
«Devo prendere il latte» bofonchia e prova a scartare a destra. Poi
a sinistra. È troppo lento: è sempre troppo lento, con quei ragazzi.
Resta fermo, si guarda intorno, ma la strada è deserta.
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Si sono avvicinati anche gli altri. Lo guardano. Ridacchiano. Uno
lo riprende con il telefonino. Luca allunga la mano, per nascondersi,
e le monete rimbalzano e rotolano sul marciapiede. Non ne recupera
nemmeno una: è sempre troppo lento. Eppure è alto come un uomo e
forte quanto loro. Ma si sta esercitando, e quando sarà un cavaliere
Jedi, allora sì, che potrà camminare per la strada senza paura.
«Ehi, Guerre Stellari, ma ce l’hai tu l’innamorata? Sai, come Luke
Skywalker e la principessa Leila…» Non sanno niente e fanno solo
brutta figura.
«Luke Skywalker e Leila non sono innamorati, sono fratelli»
spiega. «Luke Skywalker si innamora di Mara Jade e Leila di Ian
Solo.» Sorride: è stato bravo.
I ragazzi borbottano fra loro, poi uno gli mette una mano sulla
spalla. Luca si divincola e vorrebbe avere la sua spada laser, ma è
rimasta a casa, accanto agli orsetti. Ansima, gli occhi sgranati e un
rivolo di saliva che scende dalla bocca semiaperta.
«Ehi, tranquillo, Skywalker.» Il ragazzo non lo tocca più e gli
mostra le mani, palmo in avanti. Luca non si fida di chi segue il lato
oscuro della forza, ma un cavaliere Jedi non deve avere paura; si
concentra per entrare in contatto con il lato chiaro della forza e subito
si sente più calmo.
Lasciatemi andare… lasciatemi andare… lasciatemi andare… ma
non riesce a manipolare la forza e i ragazzi non si spostano.
«Senti, qua vicino abita Mara Jack…»
«Jade, si chiama Jade.»
«Sì, ok, Jane. Ti sta cercando. Vero ragazzi che ci ha chiesto di
Luca?» sono tutti seri e annuiscono.
«Davvero ha chiesto di me?»
«Sì, certo. Sei o non sei Skywalker?»
Luca annuisce eccitato. «Dov’è, dove posso trovarla?» Ha fretta,
adesso; si avvicina a quello che ha parlato e lo prende per la giacca.
Il ragazzo fa una faccia strana e un suo amico interviene: «Dai,
lascialo. Ti ci portiamo noi, va bene?»
Salgono in macchina in cinque. Luca è seduto davanti, allaccia la
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cintura e guarda fuori, ma dopo poche centinaia di metri non riconosce più niente. Posa il dito sul comando per abbassare il finestrino:
giù, su, giù, su, giù, su… fino a quando gli intimano di smetterla.
Dondola la testa avanti e indietro e cerca il lato chiaro della forza.
Sono arrivati.
La strada è larga, a quattro corsie, con uno spartitraffico centrale.
«Dai, scendi. Vedi? È quella là. Ti sta aspettando.»
Obbedisce. Le luci dei lampioni e i fari delle macchine lo confondono. Sbatte le palpebre. Ci sono molte donne e non sa quale sia
Mara Jade; si gira per chiedere aiuto, ma l’auto è già ripartita.
Una donna si avvicina ancheggiando nella minigonna troppo corta,
gli parla e lui non capisce bene cosa voglia.
Prova a chiedere se conosce Mara Jade e lei ride, di lui. Vorrebbe
tornare a casa, ma non sa da che parte andare. Si avvicina a uno dei
platani che costeggiano la strada, si appoggia all’albero e cerca di
sentire la forza. Tira su con il naso: non è un cavaliere Jedi, ha
freddo, vuole la mamma e gli scappa la pipì.
Una delle donne, la più vicina a lui, lo guarda ogni volta che si
accende una sigaretta; poi soffia il fumo verso l’alto, socchiude gli
occhi e fissa il cielo nascosto dalla luce dei lampioni.
Il tempo passa e Luca ha tanto freddo che non riesce quasi a
muoversi.
«Cosa fai ancora qui?» La donna ha la voce roca e un odore strano.
«Cercavo Mara Jade e mi sono perso.»
Lei lo guarda, ride.
Lui è arrabbiato e stringe i pugni.
«Ah, sì. Adesso ricordo, è quella di Guerre Stellari! E tu chi sei?
Luke Skywalker?»
Luca annuisce. «Sei tu Mara Jade?»
«Chiamami pure Mara» concede, e aggiunge: «Mi hanno chiamato
in modi peggiori. Dai, ti accompagno fino dai Carabinieri che ti
riportano a casa.»
«Mi scappa la pipì.»
«Guarda che bel platano, sembra fatto apposta. Sbrigati.»
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Luca non si muove.
«Se vuoi mi giro, ma stai tranquillo che non hai niente che non ho
già visto.»
«Non sono capace di fare pipì in piedi» ammette.
«La farai dai Carabinieri allora, andiamo.»
«Mi scappa la pipì. Devo farla s-u-b-i-t-o.»
Lei si stringe nella giacca troppo attillata. «Ce la fai ad arrivare
fino a quel camper?» Non aspetta risposta e si avvia.
Dentro ci sono altre due donne. Il bagno è davvero troppo piccolo,
e anche sporco; è difficile abbassare i pantaloni con le mani intorpidite dal freddo: si bagna le mutande, ma poco. Si pettina con le mani,
controlla che la maglietta intima non esca dai pantaloni e di aver
chiuso la cerniera.
Esce e resta in piedi, immobile.
Mara si avvicina. Il ragazzo ha le labbra livide e trema. «Dai che ti
preparo qualcosa di caldo. Oggi mi sento buona.» Zittisce le altre due
che protestano in una lingua incomprensibile, rovista all’interno dei
pensili del minuscolo angolo cottura e ne estrae un barattolo. «Che ne
dici di una minestrina?»
Luca dondola avanti e indietro e non risponde.
«Allora? Cos’è, non ti piace la minestrina?»
«No, non tanto.»
Lei studia il barattolo, guarda il ragazzo e sorride.
«Sai cosa? Ci mettiamo le stelline, così diventa come la minestrina
che mangiava Luke Skywalker in Guerre Stellari. Che ne pensi?»
Mara ha i denti scuriti dal tartaro, il trucco sbavato e negli occhi
una luce triste, ma la forza scorre in lei e Luca smette di dondolare e
rilassa le spalle.
«Luke Skywalker mangiava le stelline?»
«E cosa vuoi che mangiasse? Certo che mangiava stelline; uno che
viaggia fra le stelle non può mica mangiare tortellini!» E ride.
Ride anche Luca. Ridono anche le due donne. Il camper non è un
brutto posto.
Mangiano tutti e quattro attorno alla piccola tavola; Luca sbrodola
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un po’ di minestrina sul tovagliolo di carta che ha messo al collo,
Mara gli porge un altro tovagliolo e lo aiuta a sistemarlo per bene.
Fra un boccone e l’altro parlano di Guerre Stellari, della mamma e
del papà di Luca, della scuola, dei ragazzi che lo hanno portato fino a
là; poi le donne parlano fra loro, e gli sorridono. Fa caldo, gli è
venuto sonno, non ha voglia di uscire e non vuole lasciare Mara Jade.
«La tua mamma sarà in pensiero, se non sa dove sei…» prova a
convincerlo Mara.
«Oh!» e arrossisce. Fruga nella tasca dei pantaloni, ne estrae un
biglietto stropicciato e lo porge soddisfatto a Mara.
La donna lo legge, sembra voler dire qualcosa, ma ci ripensa e
compone il numero di telefono scritto sul biglietto.
Mara ha tanto insistito per portarlo a vedere le stelle che Luca ha
acconsentito a seguirla.
La strada a quattro corsie adesso è deserta ed è acceso solo un
lampione ogni due. Lei sta fumando e l’odore fa tossire Luca. Tira
un’ultima boccata e getta la sigaretta in mezzo alla strada.
«Guarda» dice indicando il cielo. «Quella è l’Orsa Maggiore, vedi
il grande carro? E dalla parte opposta Cassiopea, a forma di W.
Visto? E lì, in mezzo, la stella polare!»
«Wow!» Ma non riconosce le forme che lei gli mostra: solo tanti
puntini sparsi nel cielo, proprio come le stelline sparse nel brodo.
«Tu ci sei stata, vero?» chiede.
«Oh, sì. Volo fra le stelle ogni notte.»
«E com’è?»
Mara cerca un’altra sigaretta. La accende e soffia il fumo di lato,
per non disturbare il ragazzo.
«Bello. La terra vista da distante è tutta azzurra e verde, con le
nuvole bianche. E le cose che quaggiù ti fanno soffrire, lassù non si
distinguono più.»
«Ci andiamo insieme?»
Tira una boccata e lascia uscire il fumo lentamente.
«La prossima volta che ci vediamo.»
«Prometti?»
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«Certo!» Vorrebbe fargli una carezza, ma il ragazzo si scosta e lei
si concentra sulla sigaretta, sulla strada e sull’auto che si sta avvicinando.
Luca vede la mamma scendere dalla macchina e le corre incontro:
gli mancavano i suoi abbracci. C’è anche papà con lei.
«Amore, come stai? Va tutto bene?» chiedono.
Annuisce. Sorride. Ha tante cose da raccontare. Troppe. Annuisce
di nuovo.
«Mara. Ho incontrato Mara Jade!» annuncia. Ma quando si gira
Mara è sparita. La cerca in cielo e indica un puntino luminoso che si
muove. «Guarda, mamma, guarda! Sta viaggiando verso le stelle!»
La mamma segue la traiettoria indicata da Luca fino alle luci di un
aereo di passaggio. «Ho visto, amore.» Rivolge una domanda muta al
marito che scuote la testa: non ha visto da che parte è andata la donna
che era con Luca.
«Penso che possiamo tornare a casa» dice.
Luca si siede sul sedile anteriore, allaccia la cintura e guarda fuori.
«Lì, mamma, papà. Mara Jade abita lì.»
Il papà stringe le mani sul volante, la mamma si allunga verso
Luca e chiede sottovoce: «Sei stato lì dentro?»
«Sì» sbadiglia lui.
«Cos’avete fatto di bello?» continua a indagare.
«Abbiamo mangiato la minestrina di Guerre Stellari.» Appoggia la
testa al finestrino, chiude gli occhi e mormora: «La forza scorre
potente in Mara.»
Il papà allenta la stretta sul volante e la mamma si abbandona sullo
schienale.
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La stella
Davide Rigonat
Anche quella mattina, come accadeva ogni volta che abbandonava
le sue compagne celesti e tornava nel nostro mondo, il risveglio fu
tutt’altro che piacevole. Un violento conato di vomito la catapultò nel
mondo dei vivi costringendola a piegarsi in due dal dolore, mentre i
grandi occhi scuri le schizzavano fuori dalla faccia. Anche passato lo
shock iniziale, le ci vollero parecchi minuti per capire dove si trovava.
“Ma dove diavolo sono finita, questa volta?” pensò mentre tentava
di focalizzare quello che la circondava. Alla fine riuscì a riconoscere
il sottopassaggio numero quattro della Stazione Centrale.
“Ecco perché fa così freddo.”
Raccolse le poche cose che ancora le erano rimaste e si avviò
barcollando verso il bagno della stazione. Quella volta era davvero
peggio del solito, tanto che salire la rampa di scale che la separavano
dalla superficie terrestre si rivelò un’impresa al di là delle sue forze.
Il suo corpo urlava di dolore e lo stomaco cedette di schianto a metà
della salita. Vomitò con forza quel poco che aveva nello stomaco
insudiciandosi le scarpe malandate. Una studentessa che percorreva
la rampa in senso opposto le lanciò subito uno sguardo disgustato e si
allontanò deprecando a mezza voce l’inciviltà e la barbarie della
società moderna. Quando raggiunse la porta dei bagni delle donne si
fermò un attimo, fece un profondo respiro, afferrò la maniglia ed
entrò quasi a occhi chiusi. Silenzio... Per fortuna la toilette era
deserta. Per prima cosa aprì l’acqua fredda e ci cacciò sotto la testa.
Dopo un paio di minuti di questa medicina, la nebbia che le invadeva
il cervello cominciò a diradarsi. Con la coscienza arrivò però anche
la consapevolezza del fetore che emanavano sia lei che i suoi vestiti.
“Uhm... Mi sa che è ora di darsi una ripulita... Ma quanto tempo è
passato dall’ultima volta?”
Si trasferì in uno dei bagni per disabili e ci si chiuse dentro. Nella
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mezz’ora successiva si dedicò a lavarsi alla bell’e meglio e a cercare
di togliere almeno le macchie più recenti ai suoi abiti già troppe volte
rattoppati. Il risultato le parve soddisfacente, soprattutto visto il poco
tempo che aveva potuto dedicare a quel complicato intervento. D’altronde non poteva indulgere di più in simili frivolezze. L’altoparlante
della stazione aveva annunciato le nove e mezzo di mattina e lei era
già in ritardo sulla sua tabella di marcia.
Visto che si trovava già alla stazione e che ancora le dolevano tutte
le ossa, decise di approfittarne e si piazzò vicino a una delle entrate
secondarie per chiedere l’elemosina. Si sedette a terra a fianco della
porta scorrevole e cominciò a emettere piccoli lamenti facendo finta
di guardare in terra. La posizione che aveva scelto non era casuale,
ma era tale da consentirle di vedere con la coda dell’occhio tanto
l’angolo dell’edificio quanto l’interno: se uno dei Signori della
stazione l’avesse sorpresa a mendicare nel proprio territorio non
avrebbe esitato a darle una severa lezione. Rubare l’elemosina a un
collega era considerato un crimine intollerabile nel mondo sotterraneo dei mendicanti e nessuno avrebbe avuto la minima pietà per
lei. Doveva essere certa di avere il tempo di scappare, sempre
sperando che le gambe non la tradissero. In circa due ore riuscì a
raccattare il denaro sufficiente per comprarsi due o tre birre, un po’ di
pietà, una discreta dose di disprezzo e una quantità sorprendente di
indifferenza. Sapeva di aver sfidato la buona sorte anche troppo a
lungo, così si alzò, si concesse una delle birre e si avviò verso la
mensa dei poveri.
Come sempre la fila era già molto lunga. Anche quando i morsi
della fame infierivano senza pietà, non c’era niente da fare: bisognava aspettare pazientemente il proprio turno. La cosa peggiore era
però che, nell’attesa, si veniva regolarmente avvicinati da qualche
scrupoloso volontario che non sembrava avere altro scopo nella vita
se non quello di interessarsi dei problemi degli altri, di sbattere loro
in faccia lo squallore della vita che conducevano e di spiegare che
avevano bisogno di farsi aiutare, tutti indistintamente. Lei odiava
quella gogna, ma non poteva farne a meno. Spesso quello era l’unico
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pasto che faceva, e, nelle sue condizioni, doveva assolutamente
cercare di nutrire il suo involucro terreno. Se avesse ceduto durante il
giorno, per lei sarebbe stata la fine. Ne era certa. Nonostante gli spintoni riuscì a entrare e a trovare un posto a sedere. Consumò il suo
pasto rapidamente, senza mai smettere di tenere sott’occhio i suoi
commensali che, le pareva, guardavano con avidità la sua ciotola di
minestra. Non c’era solidarietà in quel luogo: dalle occhiate ingorde
e piene di ferocia che tutti quei miserabili si lanciavano l’un l’altro di
sottecchi era chiaro come la fame non potesse in alcun modo avvicinare le persone. Di questo era sicura, tra gli ultimi della società non
vi poteva essere alcun legame che un piatto di pasta non potesse
spezzare. Anche gli operatori le sembravano sospetti. All’inizio si era
addirittura divertita a osservare come la voglia di aiutare i più bisognosi così sbandierata a parole si scontrasse con la meccanicità e la
rudezza dei modi. Non gliene faceva comunque una colpa, in fondo
dovevano servire almeno quattrocento pasti al giorno per sette giorni
su sette. Sarebbe stato stressante anche per un santo.
Una volta lasciata la mensa andò a sedersi sul sagrato della vicina
chiesa di Sant’Alessio da Roma per riposare un po’ e digerire con
calma. Mentre si crogiolava al sole, approfittò del breve momento di
relax per guadagnare qualche soldo. Tirato fuori il suo pezzetto di
cartone scarabocchiato lo appoggiò a terra in bella vista, così che
chiunque passasse potesse leggere delle sue incredibili disavventure e
decidere di donarle una moneta o due. Quella era una sua tappa fissa,
anche perché in quella zona la gente sembrava più generosa che
altrove. Forse si sentivano in dovere di dare qualcosa ai più poveri;
dopotutto si trovavano davanti alla casa del patrono dei mendicanti.
Stavolta però non riuscì a raccogliere che pochi spiccioli prima di
venire allontanata in malo modo dal sagrestano.
Il pomeriggio era abbondantemente cominciato e lei era in terribile
ritardo sulla tabella di marcia. A quell’ora avrebbe già dovuto racimolare almeno il doppio di quanto aveva in tasca. Doveva inventarsi
qualcosa, e anche in fretta. Non poteva permettersi di aspettare la
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sera, anche perché non aveva jolly da giocarsi all’ultimo minuto. Non
poteva certo sperare di rubare qualcosa a qualche passante come
aveva visto fare ad altri disperati; non aveva l’abilità necessaria e
sapeva bene che per i ladri presi in flagrante, specie se coperti di
stracci, di solito la punizione era dura e immediata. L’unica altra
possibilità per salvarsi in corner sarebbe stata quella di vendersi a
poco prezzo a qualche orco desideroso di compagnia. In passato,
presa dalla disperazione, era ricorsa a questa estrema risorsa. Ricordava che qualche anno prima era stata decisamente attraente e che gli
uomini la guardavano volentieri. Ma questo era stato in un’altra vita,
in un altro mondo. Ora le cose erano cambiate. Decisamente. L’ultima volta che aveva tentato la carta dell’adescamento, circa un anno
prima, le conseguenze erano state davvero pesanti. Passando sopra
all’irrisione e al disprezzo che accompagnavano la maggior parte dei
tentati approcci, era finalmente riuscita ad agganciare uno sbandato
che evidentemente non si faceva dei grandi problemi di estetica nelle
sue scelte. L’aveva portata in macchina in un vicolo stretto e buio e lì
l’aveva addirittura baciata. Le aveva ordinato di togliersi la maglietta
mentre lui armeggiava con la patta dei suoi jeans. Appena si era reso
conto della spaventosa magrezza del suo corpo e delle piaghe che ne
segnavano la carne, l’uomo era rimasto a bocca aperta. Dopo qualche
secondo però si era riscosso: in un attimo il desiderio sul suo volto si
era trasformato in disgusto. Le aveva ringhiato contro il suo odio e
l’aveva accusata di volerlo ingannare, anzi, uccidere trasmettendogli
qualche strana malattia. Le aveva affibbiato tutti i peggiori epiteti che
conosceva mentre il fuoco dell’odio bruciava nei suoi occhi. Poi era
passato all’azione. L’aveva lasciata nel vicolo qualche minuto dopo
con un occhio tumefatto e due denti scheggiati. La lezione non era
stata più dimenticata, tanto che si era ripromessa di non provarci mai
più. Non le rimaneva quindi che provare a chiedere nuovamente
l’elemosina per strada, così si rassegnò e si diresse verso il centro
città.
Passò inginocchiata a terra le successive quattro ore, ma quel
pomeriggio sembrava che la fortuna le avesse voltato le spalle. Non
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aveva racimolato neppure i soldi necessari per comprarsi un caffè.
Presa da un profondo sconforto si ritrovò in ginocchio a piangere
disperatamente come un bambino. Doveva essere davvero uno spettacolo pietoso da vedersi, tanto che tutti cominciarono ad attraversare
la strada per raggiungere il marciapiede opposto. Neppure si accorse
della corpulenta signora con la pelliccia che le si avvicinò da dietro e
che le mise un paio di banconote in mano. Quando si rese conto di
quanto era successo cessò immediatamente di piangere e restò come
imbambolata. Non riusciva a spiegarsi da dove venivano tutti quei
soldi, né riusciva a immaginare che qualcuno avesse potuto regalarle
spontaneamente qualcosa, men che meno del denaro. Capiva solo che
la sua situazione era improvvisamente migliorata e che le sue preoccupazioni, almeno per quel giorno, erano finite. Si sentì stranamente
leggera, tanto che neppure si accorse dei feroci commenti dei
passanti che avevano assistito alla scena. Le parve solo che qualcuno
stesse dando della commediante a qualcun altro, ma non riuscì a
ricordare esattamente i dettagli.
Con l’avvicinarsi dell’oscurità sembrava che l’animo degli uomini
si ribellasse alle convenzioni sociali e ai valori morali che il progredire della cultura vi aveva radicato: una sorta di belva primordiale si
svegliava e tentava di forzare le catene con cui era stata imbrigliata.
Man mano che la luce diminuiva, l’ostilità nei suoi confronti aumentava. Dal viso delle persone che la vedevano seduta sulla panchina
scomparivano la pietà e persino l’indifferenza, sostituite dal sospetto,
dal ribrezzo e dall’odio. Era come se la sua faccia scavata prematuramente e senza pietà dalla vita fosse un’offesa immotivata alla loro
tranquillità, una specie di indefinito j’accuse al loro modo di vivere
che avrebbe dovuto essere punito. La maggioranza dei passanti si
limitava a lanciarle sguardi di fuoco o a esibire smorfie di disgusto o,
in alcuni casi, di timore e paura; non mancavano però i più coraggiosi che, specie in gruppo, si avvicinavano spavaldi per dirle ciò che
si meritava o per farle capire che doveva togliersi di torno. Lei aveva
ormai imparato a riconoscere già da lontano i soggetti più zelanti
nella difesa della pubblica decenza, così di solito riusciva ad allonta11
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narsi prima ancora che le si avvicinassero. Nonostante l’abitudine, le
male parole che le vomitavano addosso riuscivano ancora a ferirla,
forse ancor più profondamente di quanto facessero le prepotenze e gli
schiaffi che ogni tanto qualcuno usava per sottolineare certi concetti.
Così optava per la fuga, anche se le sue erano solo ritirate strategiche; appena possibile tornava al parco ad aspettare che le sue
sorelle riprendessero a splendere in cielo. Non capiva perché tutti la
guardassero con diffidenza e distacco; lei cercava di non dar fastidio
a nessuno e aveva davvero poche esigenze... forse però gli altri
riuscivano a vedere che lei non era di questo mondo e per questo la
tormentavano. Forse addirittura la temevano. Che la causa del loro
comportamento fosse la paura del diverso o un qualsiasi altro motivo,
una cosa era certa: lei li odiava tutti, così come odiava dover dipendere da loro per mantenere in vita il suo guscio mortale.
Quella sera sembrava che il parco fosse deserto, così poté sedersi
proprio sulla panchina all’incrocio dei due viali principali: in quel
punto la visuale del cielo era priva di ostacoli e non c’erano luci che
impedivano di scrutare le sue profondità. Sembrava che nessuno si
fosse accorto del lampione che lei aveva preso a sassate qualche
mese prima, o per lo meno a nessuno interessava segnalare o riparare
il danno. Rimase ad aspettare per circa due ore, che furono però
tutt’altro che tranquille: l’impazienza e la smania di partire avevano
occupato la sua mente ed erodevano il suo essere. Aveva l’impressione che un mostro invisibile e tremendamente vorace fosse intento
a strapparle a morsi la carne dalle ossa. Il cielo notturno era limpido e
senza nuvole e già molte stelle avevano fatto la loro comparsa su
quello schermo fantastico. Erano libere e felici: anche lei non vedeva
l’ora di librarsi in alto e lasciare quel mondo gretto e sporco; voleva
poter volare e dimenticarsi di tutto e di tutti, anche se sapeva che a
causa della sua maledizione sarebbe stato solo per poco. La mattina
dopo si sarebbe svegliata da qualche parte in quella maledetta città e
tutto sarebbe ricominciato. Per l’ennesima volta cullò il pensiero che
forse, un giorno, quel circolo si sarebbe rotto e che lei non avrebbe
più dovuto lasciare il suo posto nel cielo. In fondo era stata lei con la
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sua insana curiosità a dar il via a quella tortura... e questo significava
che in qualche modo avrebbe potuto anche porvi fine. Doveva
ammettere però che aveva paura: e se avesse sbagliato qualcosa e la
sua situazione fosse, non si sa bene in che modo, peggiorata? Si
rendeva conto che probabilmente non era ancora abbastanza disperata e non credeva abbastanza in sé stessa per fare un nuovo salto nel
buio.
Improvvisamente arrivò. Il Traghettatore si muoveva silenzioso
come sempre, poco più che un’ombra tra le altre. Non disse una
parola, ma si fermò accanto a lei in attesa di ricevere il giusto tributo.
Quell’essere oscuro pretendeva un sacrificio per i suoi servigi: non
era lo stesso per tutti, ma era sempre e comunque qualcosa di
prezioso o di difficile reperimento per colui che doveva separarsene.
Nel suo caso, come in quello di molti altri, si trattava di denaro. Quel
pomeriggio era riuscita a raccogliere più soldi del solito, così, per
una volta, poté pagare la somma richiesta senza dover implorare e
umiliarsi perché si accontentasse di ciò che aveva. Il Traghettatore
prese il denaro e le porse in cambio il Biglietto. Era felice... anche
quella notte avrebbe potuto partire. Strinse forte ma delicatamente tra
le mani il suo salvacondotto mentre una lacrima solitaria scendeva
lentamente attraverso i profondi solchi che segnavano il suo viso.
L’ombra accanto alla panchina era sparita nel nulla senza che lei si
fosse accorta di nulla. Dopo essersi assicurata che non ci fosse
nessuno nei paraggi, fece un profondo respiro e partì. Mentre cominciava a librarsi in aria contemplò per un attimo il suo guscio terreno,
nient’altro che un sacco tremolante gettato di traverso su una
panchina del parco. Ebbe l’impressione che fosse scosso da violenti
brividi, ma dimenticò presto ogni dettaglio mentre, rapida e inesorabile, la diacetilmorfina le bruciava le vene e le annientava la mente.
Finalmente libera, corse a raggiungere le sue sorelle e si sentì di
nuovo la stella più luminosa di tutte.
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Cinque Stelle
Lavella
Cinque stelle, l’avevo presa per questo, lo ricordo perfettamente.
Ero andata sul sito Tata Angelo, portale che non ha niente a che fare
con la moglie di Gigi d’Alessio, molto accreditato per la ricerca di
una tata. A pensarci bene anche il sito aveva cinque stelle da qualche
parte. Avevo letto tutti i curricula e mi aveva colpito il suo. Ben tre
persone avevano inserito un feedback più che positivo e questo mi
aveva rassicurato più di ogni altra cosa. Non le avevo contattate ma
avevo chiamato direttamente lei, la tata. Ero partita in quarta, catturata da quelle cinque stellette che brillavano accanto al suo nome.
Il primo segnale inquietante l’avevo avuto quando aveva spruzzato
l’enterogermina nel naso del bambino pensando che fosse soluzione
fisiologica. Lì mi ero accorta che non sapeva leggere molto bene.
Questa “scola dell’obligo” di cui faceva cenno nel suo curriculum
quindi era molto meno di quello che si potesse immaginare. Il
problema è che era pure presuntuosa. Come tutti i condannati all’ignoranza era convinta di saperne più degli altri e non era disponibile
a imparare o a mettersi in discussione. Se cercavo di spiegarle cosa
sbagliava mi rispondeva in maniera arrogante e maleducata, a volte
sbattendo porte e lanciando oggetti. Ho sopportato per poco, fortunatamente, perché gli eventi hanno preceduto ogni mia considerazione
razionale. Mi viene la pelle d’oca però quando penso che ha rischiato
di soffocare il mio bambino perché era convinta che respirasse attraverso la testa e non attraverso il naso. Lo aveva messo con la faccia
sul cuscino in modo da non fargli perdere il ciuccio. Il fatto che la
fontanella si muovesse per lei era segno di respirazione, una sorta di
polmone sulla testa del bambino. Secondo questa pazza il naso
sarebbe stato collegato solo in un secondo momento. Me l’aveva
detto anche con l’aria di chi si rivolge alla più irrecuperabile delle
incapaci. Quando le avevo fatto notare che il bambino così non respi14
Abaluth
Star
rava mi aveva detto con sufficienza: «A questa età respirano dalla
testa.»
Ero rimasta impietrita. Non volendo credere alle parole che avevo
sentito avevo chiesto: «Vuoi dire che sono già tanto intelligenti da
girarsi se non respirano?»
«No, signora, voglio dire che respirano attraverso la fontanella e
non ancora attraverso il naso, possibile che lei non sappia neanche
questo? »
Avevo capito bene quindi. In varie occasioni aveva dimostrato
apertamente la sua ignoranza ma questa volta appariva davvero pericolosa. Non ho potuto fare altro quindi che licenziarla in tronco.
Quando aveva sputato sulla fronte del bambino per fargli passare il
singhiozzo mi ero risentita, ma poi mi ero detta che in fondo non
aveva fatto nessun danno, si trattava solo di una volgare credenza
popolare. Ma ora rabbrividivo di fronte al rischio che avevo corso
affidandole la mia creatura. Me ne ero accorta in tempo per fortuna.
Solo dopo avevo scoperto anche quello che aveva rubato. Mi saliva il
sangue alla testa se ci pensavo. Che disgraziata!
“No, io devo sentirli, questi che le hanno dato cinque stelle, non è
possibile che si siano trovati bene” ho pensato.
È diventata ormai una questione di principio, quasi un’ossessione.
Se non fossi a questo inutile corso sarei già al telefono. Invece
continuo a disegnare otto su un foglio bianco senza mai staccare la
penna mentre la voce monotona del docente va per i fatti suoi.
Nessuno lo segue. I due davanti a me giocano a tris mentre il mio
vicino manda e riceve sms. I miei pensieri vagano e la mia rabbia
cresce. Avevo affidato mio figlio a un’incompetente e non me lo
posso perdonare. Le avevo permesso inoltre delle confidenze che non
avrei dovuto consentirle. Ripenso a tutte le volte che mi aveva aggredito verbalmente, a cominciare da quando non aveva capito cosa
c’era scritto sul contratto, a quando mi aveva chiesto dei soldi fuori
busta altrimenti non avrebbe ottemperato ai suoi doveri contrattuali.
Perché le avevo permesso di farlo e non l’avevo mandata via subito?
Quanti rospi avevo ingoiato solo per la paura di non trovare un’altra
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Abaluth
Star
tata a cui affidare mio figlio. Finalmente una pausa caffè, il docente
non ha neanche finito di dire la parola “pausa” che già tutti sono
schizzati fuori. Se non fossi obbligata ad accumulare crediti formativi
non ci sarei mai venuta qui.
Approfitto della pausa per fare due telefonate.
«Pronto, sono..., ho visto la sua recensione... Poche parole solo
stelle... Volevo saperne di più.»
Il tipo senza scomporsi mi dice di averla licenziata su due piedi
perché somministrava di nascosto medicinali al bambino. «Io e mia
moglie facciamo solo cure omeopatiche, lei non le condivideva e
curava i bimbi a modo suo. L’ho trovato eccessivamente invadente e
non mi sono più fidato.»
«Ma... Tutte quelle stelle?»
«Non me la sono sentita di rovinarle la carriera. Inoltre temevo
qualche ritorsione sulla famiglia.»
«Ma questo non è corretto, soprattutto se la recensione riguarda
una tata. Ci ha pensato che poi ci devono stare i figli degli altri con
questa folle? »
«Signora, ora non mi faccia la predica, ho molto da fare e già le ho
dedicato troppo tempo.»
“Vaffanculo. Incosciente, incivile, superficiale!”
«Pronto, sono..., ho visto la sua recensione... Talmente tante stelle
che mi sono tuffata a capofitto... Ma poi...»
«È una brava ragazza, solo un po’ ignorante e presuntuosa, pensa
di essere al di sopra di tutti. L’ho mandata via perché faceva di
nascosto ai bimbi un infuso calmante per farli dormire... Non me la
sono sentita però di farle una recensione negativa...»
«Così farà lo stesso infuso a tutti! Non dico che doveva farla
proprio negativa ma poteva almeno mantenersi sul neutro, tre stelle
erano sufficienti per non gettare troppo fumo negli occhi... cinque
sono decisamente troppe!»
«Si, forse ho esagerato ma ho solo confermato il feedback precedente.»
“Che delirio! Assenza di responsabilità collettiva.”
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Abaluth
Star
Sta riprendendo la lezione, accidenti.
Infuso calmante. Me ne aveva parlato, al suo paese lo fanno con le
foglie di cocaina, mi raccontava che lo somministrava ai suoi
bambini. Non voglio neanche pensare che potrebbe averlo dato anche
a Marco. Dopotutto se non si fa scrupoli con i suoi figli perché
dovrebbe farsene con i figli degli altri? Sarò la prima a fare una
recensione negativa? Ma, in fondo chi me lo fa fare?
Perché devo assumermi io la responsabilità di una recensione
negativa? Sa dove abito e frequenta brutta gente. Mi manterrò sul
neutro anch’io, senza esagerare però.
E ora dove la trovo un’altra tata? Del giudizio di chi mi potrò
fidare ora? Quella prepotente nel frattempo continuerà a fare danni.
Mentre mi tormento pensandoci, continuo a disegnare otto sul
foglio senza mai staccare la penna. Mi sembra di essere in una strada
senza sbocchi. Devo assolutamente riuscire ad arrivare a casa prima
che chiuda il nido condominiale, così cerco di iscrivere Marco e
taglio la testa al toro. Finalmente la lezione è finita. Mentre mi dirigo
frettolosamente verso l’uscita, la ragazza che mi rilascia l’attestato di
frequenza mi consegna un questionario di gradimento pregandomi di
compilarlo. “Solo questo ci mancava.” Metto velocemente cinque
stelle su tutto e scappo a casa. Spero che il nido sia ancora aperto.
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Abaluth
Star
Samia
Davide Schito
(Dedicato alla memoria di Samia Yusuf Omar. Ispirato dalla canzone “Star” di
Bryan Adams.)
There’s a road, long and winding
The lights are blindin’ but it gets there
Il mare è calmo, stanotte, ma dicono che non durerà. La storia
della mia vita, in pratica: non ci sono mai stati due momenti consecutivi in cui mi sia sentita non dico felice – perché secondo me
nemmeno esiste, la felicità – ma almeno serena, tranquilla. Ogni
volta che riuscivo, combattendo, a conquistare qualcosa, arrivava la
doccia fredda. Puntuale. È stato così che ho imparato a non aspettarmi più niente.
Il mare. Mi è sempre piaciuto guardarlo, al tramonto, quando il
sole sembra colargli dentro imbrattandolo di rosso. Non mi ero mai
resa conto, le volte che ero rimasta ad ammirarlo dalla spiaggia, di
quanto potesse essere spietato. Me ne accorgo solo ora che cerco di
attraversarlo senza sapere se mai ce la farò, a vedere la terra davanti a
me, a toccarla e a lasciarla scivolare tra le dita.
Quel viaggio, che bei ricordi. Così diverso da questo. Eravamo in
aereo, certo. Tutti insieme. Dividevo la fila con persone che avevo
visto solo di sfuggita, qualche volta, ma la cui fama era arrivata
anche nel nostro piccolo villaggio, tramite la radio. Di televisione
nemmeno se ne parlava, figurarsi. Fu un viaggio lunghissimo, quello,
a pensarci. Ma a me volò via in un attimo. Appena decollammo mi
addormentai e sognai quello che poi sarebbe stato l’unico sogno mai
avveratosi nella mia vita.
Come posso descrivere le sensazioni che provai entrando in quello
stadio? Mi mancò il respiro, letteralmente. Ruotai su me stessa, gli
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Abaluth
Star
occhi al cielo, incantata come una bambina. Poco ci mancò che
finissi sulla pedana del salto in lungo proprio mentre un concorrente
stava preparandosi a saltare. Un giudice mi bloccò al volo. Che
vergogna.
Per me era già una vittoria essere arrivata fin lì. Quando mi
sistemai ai blocchi di partenza e sentii il colpo di pistola, scattai con
tutta la forza che avevo nelle gambe, e non era poca, credetemi. Mi
sembrò di volare. Corsi tutti quegli interminabili duecento metri con
gli occhi completamente chiusi, pregando solo di non invadere la
corsia accanto. Non successe, per fortuna. A un certo punto sentii il
boato del pubblico, un’esplosione talmente fragorosa che quasi mi
scaraventò a terra. Avevo tagliato il traguardo. Quando riaprii gli
occhi le vincitrici già facevano il giro di campo con la bandiera
addosso. Ero arrivata ultima. Ma non mi importava. Non mi importava nulla.
Pregustavo già una nuova vita davanti a me. Ero pronta a sputare
sangue per fuggire una volta per tutte. Ma la vita aveva di nuovo
deciso altrimenti. E fu così che tutto ricominciò, esattamente come
prima.
Sola, ancora una volta. È così che ho deciso di correre questa gara
contro me stessa, contro Dio e il destino.
Everybody wants an answer, everybody needs a friend
We all need a shinin’ star on which we can depend
È la prima notte che passiamo su questo barcone malmesso. Siamo
in centinaia, da fuori non avrei mai pensato che potesse contenere
tanta gente.
Mi si avvicina una donna incinta di almeno sette mesi, a giudicare
dal pancione.
«Ci credi in Dio?» mi chiede.
Io rimango un po’ spiazzata, che razza di domanda è mai quella?
Da fare a una sconosciuta, poi. Le indico le stelle. Il cielo si confonde
col mare. Neri entrambi, più della nostra pelle.
«Non mi serve Dio, ho la mia stella, lassù.»
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Abaluth
Star
«Dove?»
Mi avvicino e punto il dito verso l’alto. «Lassù, la vedi?»
Mi guarda e sorride.
«Adesso capisco. Quella stella non funziona, l’ho già usata io.»
Rimaniamo così per qualche secondo. Poi scoppiamo a ridere,
insieme. Senza riuscire a smettere. Non credo di aver mai riso così in
vita mia.
«Ora si spiega tutto» riesco a dire fra le lacrime.
Lei si fa seria all’improvviso. «Direi che è il caso di cercarne una
nuova, sorella. Ne avremo bisogno.»
Mi appoggia una mano sulla spalla e se ne va, lasciandomi da sola
a fissare il cielo.
Il mare è calmo, stanotte, ma dicono che non durerà. Ma intanto io
la mia nuova stella l’ho trovata. In fondo l’importante è sempre
tagliare il traguardo. Sperando che non sia l’ultimo.
So tonight we’re gonna wish upon a star
We never wished upon before…
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Abaluth
Star
Stelle
Paolo Dapporto
«Ecco qua, Elena. Oggi però è l’ultima volta.»
«Questa è proprio bella.»
«Mi dispiace, ma da quando mi hanno messo in cassa integrazione
non posso più permettermeli cento euro a settimana.»
«Lo sai che non sono cara. Rispetto a tante altre…»
«Non è che tu la dia proprio gratis, ma non ti preoccupare, non
voglio tirare sul prezzo. Sarà un grosso sacrificio non venire più da te
il martedì sera.»
«E come ti arrangerai?»
«Boh, mi arrangerò da solo.»
«Non spargere troppo la voce, altrimenti vado in cassa integrazione pure io.»
«Pronto Fabio, sono Elena. Ho pensato a quello che mi hai detto
ieri sera.»
«Mi fai scopare gratis?»
«Ahah! Senti, tu sei il mio cliente preferito e lo farei volentieri, ma
sai, la deontologia professionale non me lo consente.»
«Allora cosa vuoi?»
«Ho qualche problema anch’io, forse troviamo un punto di incontro.»
«Sono tutto orecchi.»
«I miei condomini mi hanno piantato un casino. Hanno protestato
con l’amministratore per il via vai dei clienti a tutte le ore del giorno
e della notte. Ma soprattutto per i rumori. Quando arrivano al punto,
non tutti sono silenziosi come te. C’è chi grida, c’è chi canta, alcuni
tossiscono, alcuni starnutiscono, altri scoreggiano. I vicini sentono e
si lamentano. Sai, i bambini...»
«E io che posso farci?»
«Una volta mi hai detto che vivi da solo in campagna, vicino alla
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Abaluth
Star
città. Mi è venuta un’idea pazza, ma più la scaccio, meno mi sembra
pazza. L’idea è venire ad abitare da te, a casa tua. È isolata, lontana
da sguardi indiscreti, l’ideale anche per i miei clienti.»
«E io che ci guadagno? Mi paghi l’affitto?»
«Ma quale affitto! Ti faccio scopare gratis tutti i martedì, anche per
tutta la notte.»
«Che cascata di stelle, Fabio!»
«D’agosto è sempre così. Qualcuno ci ha scritto anche belle
poesie. Però non sono stelle, sono piccoli meteoriti.»
«Ma che dici? Noi le abbiamo sempre chiamate stelle cadenti.
Quando ero una bambina, chiudevo gli occhi ed esprimevo un desiderio.
È così bello che non ho voglia di salire in camera. Stendiamoci sul prato.»
«Ok, vado su a prendere un plaid.»
«È tanto tempo, sai, che non lo faccio all’aria aperta. Da quando
avevo un fidanzato, uno spiantato come te, che non aveva nemmeno
la casa. Andavamo a...»
«Non raccontarmi la storia della tua vita. Tu mi conosci: se non
sono concentrato, mi blocco.»
«Come sei complicato. Qui è tutto così semplice.»
«Appunto. Ora però girati!»
«Non sono mai riuscita a capire che soddisfazione ti dia questo tuo
vizietto. Ma stasera no. Mi piace troppo guardare il cielo carico di
stelle, quelle cadenti e quelle che restano in piedi. Mi girerò il primo
martedì che piove, giuro.»
«Farò la danza della pioggia. Ora, però, basta parlare.»
«Ok, datti da fare!»
«Cosa ti prende, Elena? Fingi con me?»
«Fabio... Fabio... non faccio finta... ho goduto... un orgasmo...
erano più di cinque anni...»
«Come vanno gli affari?»
«Gli affari vanno bene. I clienti stanno aumentando, ma non ho
voglia di parlarne.»
«Non ti passi per la testa di portarli sul prato, eh! Del prato sono geloso.»
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Abaluth
Star
«Ma li hai guardati in faccia i miei clienti? Ti sembrano da prato?
Arrivano qui a occhi bassi e non vedono l’ora di entrare in camera e
di chiudere la porta. All’aperto si sentirebbero nudi, nudi per
davvero.»
«Meglio così. Non mi va di incontrarli sul prato e in giro per la casa.»
«Lo sai che mi è tornato il ciclo? Si era come bloccato, chissà per
quale motivo. Ora è ritornato. Come prima, quando ero una ragazzina.»
«Peccato, stasera ho una voglia...»
«Non preoccuparti, è finito.»
«Bene! Sdraiati sul plaid!»
«Tu non la vedi, ma su, proprio sopra la tua testa, sta passando una
stella cometa, come quella dei Re Magi. Chissà, forse indica la strada
anche a me. Che dici, Fabio, bestemmio?»
«Ti è piaciuta la cena che ti ho preparato?»
«Ottima! Non ti facevo così brava in cucina.»
«Mi è sempre piaciuto sfornellare coi dolci e con gli arrosti. Mia
nonna mi diceva: se prepari una cosa buona, ti senti buona dentro.
Ho imparato tante cose da lei.»
«Io ho cominciato a risistemare la casa. Piano piano, con tutto il
tempo libero che ho. Oggi ho riparato il tavolo di cucina che aveva
una gamba zoppa e non stava mai fermo. Nella ditta dove lavoravo,
facevo il falegname. Ero un bravo artigiano, ma con la crisi...»
«Dopo tanti anni vissuti in una camera, sola dentro i miei pensieri,
a casa tua mi sento… ecco, mi sento in pace con me stessa.»
«Lo sai, Elena, che mi è venuta la voglia di lavorare il campo
accanto al prato. Cosa ne dici di un orto con pomodori rossi,
zucchine, piselli e peperoni?»
«Dico che faresti bene ora che la famiglia sta crescendo...»
«Eh?»
«Sono incinta, Fabio! Avremo un bambino.»
«Ma...»
«Shhh, zitto. Adesso facciamo l’amore!»
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Abaluth
Star
Presagio di morte
Bruno Elpis
Determinavi la posizione degli astri e cercavi di misurare le
distanze che ti separavano da obiettivi e certezze.
Al nadir rilevavi l’ampiezza degli angoli, tratteggiavi congiungenti
e proiezioni, prolungavi i percorsi delle stelle lungo le intenzioni del
destino.
Il cammino dorato delle costellazioni descriveva fasi e figure del
tuo futuro: ombre allungate, fotogrammi, riedizioni di angosce e paure.
Assistendo allo spettacolo del cielo, rivivevi la violenza patita con
la nascita e scoprivi – tuo malgrado – sentimenti e rimorsi.
Avevi attribuito a ogni luce una nicchia e il cielo, nelle tue personali convinzioni, era diventato una chiave di lettura: un reticolato di
coordinate che indicavano i punti di stallo della tua esistenza.
Nelle cellette dell’alveare celeste avevi incasellato luci astrali e
pulsazioni luminose; così rivivevi, fantasmatizzato, il passato in una
ricostruzione studiata e capivi ogni frase, la tua ribellione e lo spavento.
Il tuo viaggio proseguiva alla ricerca dell’interpretazione di te
stesso; dovevi individuare e comprendere il tuo evento traumatico
per approdare all’arte suprema: rinascere e reinventarti.
Lo zodiaco era la tua forma di scaramanzia.
Osservando il circolo delle figure celesti, ti eri fermamente
convinto che gli astri influissero sul destino di ogni essere umano.
Attraverso lo zodiaco interpretavi l’antica tendenza a collegare le
vicende spaziali con la vita terrena e i suoi eventi.
Preferivi di gran lunga i segni doppi, come i pesci e i gemelli, o
quelli combinati e ibridi, come il sagittario e il capricorno.
Così, una notte, nei Dioscuri hai letto un presagio di morte.
Il tuo futuro era scritto con il sangue nelle cifre lattescenti che le
stelle tracciavano.
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Abaluth
Star
In un primo momento hai ignorato Castore e Polluce, per cercare
altri indizi più confortanti nella volta siderale.
Ma hai trovato soltanto una terribile conferma.
Così, credendoti Copernico, hai inventato di sana pianta la costellazione della Sfinge. Perché in alcune stelle contigue intravedevi il
mostro alato con la coda del serpente.
Alla fine ti sei arreso di fronte a una promessa così nefasta. La
Sfinge ti guardava con la testa del leone e, provvisoriamente, hai
risolto il tuo conflitto con uno scherzo: eri caduto come stella in una
notte d’agosto, attraversando il cielo invaso dagli sciami delle
Perseidi, il cielo trafitto dai passaggi delle Leonidi.
Intanto le meridiane stampate dalla luna si allungavano in ombre
virtuali, che parevano inquietanti totem: l’orchestra del firmamento
suonava una musica sinistra, la sinfonia lugubre che era oscuro
presagio di morte per il tuo domani.
Quando, il giorno dopo, ti sei risvegliato – ancora vivo! – la meraviglia e la speranza ti hanno invaso.
Avevi creduto che non avresti superato la notte.
Ti sei affacciato guardingo sul nuovo giorno, perché la vita delle
ore successive era disseminata di minacce e di insidie.
Ti muovevi come un animale inseguito nel bosco, consapevole che
il terreno era pieno di tagliole. Sapevi che i cespugli sono ottimi
nascondigli per tendere agguati.
Le ore passavano. Lentamente.
Non succedeva nulla.
Eri ancora vivo, sempre vivo, nonostante la premonizione…
Ti sei coricato, perplesso ma contento.
Il tuo sesto senso aveva fallito.
Buon per te, le tue capacità divinatorie si erano rivelate assai
modeste.
Com’era possibile che tu avessi preso un simile granchio? Per
connessione hai pensato al cancro dello zodiaco.
Ti sei addormentato, felice di aver eluso la morte.
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Abaluth
Star
Il giorno dopo, leggendo il giornale, te ne sei fatto una ragione. Un
titolo ti ha colpito: “L’oscillazione dell’asse terrestre ha mutato i
segni zodiacali. Con il passare dei secoli c’è stato uno sbalzo di circa
un mese nell’allineamento delle stelle.”
Significava che avevi un segno zodiacale diverso da quello che ti
era stato assegnato, perché nei secoli l’attrazione gravitazionale della
Luna aveva fatto oscillare la Terra intorno al suo asse; quindi la terra
aveva mutato la sua posizione rispetto alle costellazioni.
Dunque, era quello il motivo della profezia sbagliata.
Rinfrancato, sei uscito di casa.
Ti sei messo a ballare per la gioia.
Hai deciso che non avresti più consultato le stelle per trarne indicazioni e previsioni.
In preda all’euforia hai attraversato la strada.
Eri talmente contento che non ti sei accorto di nulla. Neppure del
semaforo rosso.
Un bisonte ha frenato e ha cercato di evitarti.
Ma era troppo tardi.
Sull’asfalto le ruote dell’autotreno hanno disegnato nuovi graffiti.
Il tuo sangue ha imitato le incisioni primitive e rupestri di una
scena di caccia cruenta.
Su, nel cielo del mattino, le stelle erano troppo pallide a causa
della luce del giorno: il destino era invisibile all’occhio nudo di testimoni sbigottiti. Nessuno avrebbe potuto vedere che Orione strizzava
l’occhio a Sirio con un’espressione feroce di complicità assassina.
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Abaluth
Star
... e stelle sul soffitto...
luce allievi
ma se domani io
mi accorgessi che ci stiamo sopportando
e capissi che non stiamo più parlando
se ti guardassi e non ti conoscessi più
io dipingerei
di colori i muri e stelle sul soffitto …
(I dubbi dell’amore - Fiorella Mannoia)
Ero ancora convinta che prima o poi mi sarebbe passata.
E invece ogni sabato mi ritrovavo in mezzo a loro.
E ogni sabato ballavo accanto a loro.
Loro ormai s’erano accorte della mia presenza.
Qualcuna ogni tanto mi guardava, con quel genere di occhiata che
ormai avevo imparato a riconoscere e che senza rendermene conto
avevo imparato a ricambiare.
Salvo poi distogliere lo sguardo all’ultimo momento.
Come se i miei occhi, puntati negli occhi della ragazza che mi
guardava, non volessero vederci riflessa la tristezza che mi pesava
dentro.
Ma c’erano pure dei sabati in cui quella tristezza mi usciva fuori.
Una tristezza folle, arrabbiata, arrogante.
E gli occhi della ragazza che quel sabato mi guardava la videro e la
riconobbero.
E mi sorrisero con la stessa follia e con la stessa rabbia e con la
stessa arroganza.
E allora sentii ritornare quella sensazione, che mi scoppiava come
un fuoco nella pancia e nel cervello.
E mano a mano che la ragazza si avvicinava e continuava a ballare
e continuava a guardarmi e continuava a sorridermi, quella sensa27
Abaluth
Star
zione mi stringeva il fiato in gola e mi paralizzava le gambe e la
coscienza.
Era così che si sentivano le troiette di Piero mentre lui le corteggiava?
La ragazza si chiamava Concetta ed era la stessa ragazza che quel
primo sabato sera, dal bordo della pista dove m’ero fermata a guardare, avevo visto ballare attaccata a quell’altra.
Quella prima sera m’ero immedesimata con quell’altra e l’avevo
compatita per il suo destino di preda, predestinata a subire il fascino
della Dea, condannata a piegarsi in ginocchio davanti a Lei, mentre
Lei la stregava con i suoi sortilegi.
Ma da quella prima sera erano passati tanti sabati.
E dentro di me erano successe tante cose.
E questa volta io non ero più ferma sul bordo della pista a guardare.
Questa volta io mi trovavo in mezzo alla pista a ballare.
E mentre Cetta mi ballava vicina, sempre più vicina, ero ben
consapevole che questa volta la preda ero io.
E l’esserne consapevole non serviva a niente.
Se in quel momento fosse arrivato qualcuno a gridarmi “scappa!
vai via!”, io non sarei riuscita a muovere neanche un passo.
Era così che si sentivano le troiette di Piero mentre lui le conquistava?
Cetta non era una luce che t’illuminava.
Cetta era una forza magnetica che ti attirava.
Con quei capelli neri che le scendevano come serpenti per coprirle
una metà del viso.
Quel viso dalla carnagione scura e dai lineamenti drammatici di
un’attrice di tragedia.
Ma ciò che veramente mi toglieva il fiato, la forza magnetica che
mi paralizzava le gambe e la coscienza, era la presenza e la vicinanza
fisica di quel corpo di donna, pieno e pesante di sensualità, di cui
sentivo tutto il calore e l’odore mano a mano che ne venivo attratta,
ancora più vicina, sempre più vicina.
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Abaluth
Star
Era così che si sentivano le troiette di Piero mentre lui si chinava a
baciarle?
A svegliarmi fu la musichetta stupida del cellulare.
Freddo, panico, il chiarore assurdo di stelle fosforescenti appiccicate sul soffitto.
«Pronto…»
«Dove sei?»
«Piero…»
«Gaia… dove sei?»
«… cazzo! … che ore sono?»
«Gaia! dimmi dove sei!»
«… scusami… mi sono addormentata…»
«GAIA! DIMMI DOVE CAZZO SEI!»
Saltata su dal letto un momento dopo di me, Cetta aveva acceso la
luce del comodino.
Mentre cercavo di spiegare a Piero dove mi trovavo, lei s’aggirava
nuda e infreddolita per la stanza, alla ricerca dei nostri vestiti sparsi
sul pavimento.
Non mi guardava e non mi parlava.
Sapeva che la colpa era sua.
“Cinque minuti” aveva detto, “cinque minuti e ci alziamo .”
E invece c’eravamo addormentate.
Cazzo!
Era tardissimo!
La consapevolezza di quello che avevo fatto m’arrivò all’improvviso, come una secchiata d’acqua gelata.
E allora smisi di affannarmi a rivestirmi, allacciarmi e abbottonarmi.
E smisi di preoccuparmi e di tormentarmi e di scervellarmi per
cercare delle giustificazioni da raccontare a Piero.
E delle scuse da raccontare a mio papà che, non sentendomi arrivare alla solita ora, m’avrebbe sicuramente chiamata (anzi era strano
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Abaluth
Star
che non m’avesse già chiamata) e m’avrebbe aspettata in piedi per
farmi il cazziatone del secolo.
A Cetta non mi veniva niente da dire e non riuscivo a guardarla e
non avrei nemmeno voluto che m’accompagnasse attraverso l’atrio e
il cortiletto e il portone che s’apriva sul vicolo.
E soprattutto non avrei voluto che rimanesse lì con me, in silenzio,
a guardare le poche stelle che riuscivano a bucare la foschia della
notte e ad aspettare di veder spuntare dall’imbocco della via i fanali
della macchina di Piero che veniva a prendermi (ammesso che non
mi chiamasse un’altra volta sul cellulare, cristonando perché non
aveva capito le indicazioni che gli avevo dato ed era andato a
perdersi in chissà quale altro casino di sensi unici).
Non so in che modo Piero l’abbia guardata mentre io m’affrettavo
a salire senza neanche salutarla e lui se ne stava in piedi dall’altra
parte con la mano appoggiata sul tetto della macchina.
«Almeno ti sei divertita?»
«Scusa…»
«Non potevi almeno avvertirmi?»
«Mi dispiace… in discoteca non c’eri… e nel parcheggio la
macchina non c’era… e di chiamarti non mi andava… e comunque
contavo di tornare prima di te… poi lei ha voluto andare a casa sua…
e poi ci siamo addormentate…»
«Io non so se riesco a sopportarla questa cosa…»
«Che cosa?»
«Cioè, adesso funziona così? Il sabato ti porto in discoteca e tu ti
fai caricare da qualcuna e a una certa ora ti vengo ad aspettare sotto
casa sua?»
«Se non ci fossimo addormentate io sarei tornata prima di te e tu
non te ne saresti neanche accorto che ero andata via…»
«A me non sta bene questa cosa.»
«Piero… più che chiederti scusa e dirti che mi dispiace io non so
che cosa dirti… cioè…»
30
Abaluth
Star
«A me questa cosa non sta bene per niente.»
«Cioè… A te questa cosa non sta bene? E a me? Pensi che a me
stia bene? Io t’ho mai detto niente per le troiette che ti scopi tu? E per
le troiette che ti porti fuori mentre siamo in discoteca con gli altri?
Cioè… che figura pensi che ci faccia io? Io lì con loro e loro che
sanno benissimo che tu ti scopi qualcun’altra nel parcheggio?»
«Gaia… non sono io che ho creato questa situazione.»
«E chi l’ha creata? Sei stato tu a dire che non potevamo lasciarci
così e che dovevamo continuare a stare insieme…»
«No! Lo avevamo deciso tutt’e due!»
«Piero… dimmi cosa vuoi che faccia…»
«Non lo so…»
«Vuoi che la piantiamo lì?»
«Forse è meglio…»
«Già… adesso non ti sta più bene…»
«Gaia… non è colpa mia se le cose sono andate così…»
Era tardissimo.
La macchina di Piero arrancava su per il vialetto inghiaiato che
dalla statale saliva verso casa mia ed ero convinta che da un secondo
all’altro i fanali avrebbero illuminato la figura di mio papà che ci
aspettava in piedi in mezzo al cortile.
Sarebbe stata la conclusione perfetta.
Invece in cortile non c’era nessuno e le luci di tutte le finestre
erano spente e il cane, che conosceva il rumore della macchina di
Piero, non s’era neppure scomodato a uscire dalla sua cuccia per dare
una mezza abbaiata.
Piero spense il motore e rimase lì seduto immobile a guardare
avanti, verso le luci del paese che brillavano dalla cima della collina
di fronte.
«Piero… vuoi che la piantiamo lì davvero?»
«Non lo so…»
«Va be’… quando lo saprai fallo sapere pure a me…»
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Abaluth
Star
Piero non girò neanche la testa per guardarmi scendere dalla
macchina e prima ancora che chiudessi la portiera aveva già riacceso
il motore.
Rimasi ferma vicina alla porta di casa a guardare mentre faceva
manovra in cortile e imboccava il vialetto inghiaiato e ritornava sulla
strada e accelerava e scompariva dietro la prima curva.
E rimasi ancora lì a guardare le luci della sua macchina che ricomparivano dalla curva successiva.
Lì tra i bricchi faceva meno freddo che giù in città e la città era
soltanto un alone di luce arancione che si alzava verso il cielo da
dietro l’ultima collina.
E sul panorama delle colline e delle vigne si distingueva, più netta
che in altre notti, la linea di confine tra il freddo che ristagnava denso
di foschia nel fondovalle e l’aria meno fredda (certe notti quasi
tiepida) che galleggiava limpida più in alto.
E, sopra tutto, un cielo di un milione di stelle.
Cetta m’aveva baciata in mezzo alla pista di una discoteca.
M’aveva baciata davanti a tutti.
E m’aveva presa per mano e m’aveva tirata nella penombra, tra le
poltrone a lato della pista, e lì m’aveva baciata di nuovo.
E m’aveva tirata ancora per mano e m’aveva portata fuori dalla
discoteca ed eravamo salite sulla sua macchina e lì m’aveva baciata
ancora.
E m’aveva portata a casa sua, nell’appartamento al piano terreno
della vecchia casa che s’affacciava sul vicolo.
E m’aveva tirata per mano nella camera da letto, illuminata dalla
luce di un piccolo lampione che filtrava tra le persiane della finestra.
E, mentre lei mi baciava e m’infilava le mani dappertutto e mi
strappava i vestiti di dosso e mi spingeva sul letto, il mio cervello
aveva smesso di funzionare.
E i miei occhi s’erano persi nel chiarore assurdo di stelle fosforescenti appiccicate sul soffitto.
32
Abaluth
Star
100 Suns
Erika Marzano
(La canzone 100 Suns è di 30 Seconds To Mars)
I believe in nothing
Not the end and not the start
Jonathan avrebbe voluto spaccare quel disco natalizio che ormai
girava a ripetizione da giorni. Una fastidiosissima voce femminile si
alternava a cori di voci bianche nell’interpretazione delle più famose
melodie anglosassoni di quel periodo. Una ciocca di capelli sfuggita
da dietro l’orecchio fu subito rimessa a posto. Aveva sentito un’infermiera dubitare del suo orientamento sessuale a causa della sua lunga
e folta capigliatura castana, con boccoli che diventavano oro sulle
spalle. Che poteva saperne lei della moda? Era vecchia. Con un po’
di fortuna, aveva pensato Jonathan, presto se ne sarebbe andata in
ferie e solo i più sfigati sarebbero rimasti nell’istituto; gli infermieri
più silenziosi, quelli che si fanno i fatti loro e lavorano soltanto.
Anche di pazienti, ormai, ne erano rimasti pochi o quasi nessuno.
C’erano i casi più disperati, quelli che andavano praticamente legati
al letto a causa delle violente crisi di astinenza, quelli senza famiglia
che preferivano magari la compagnia di qualche bicchiere, un paio
un po’ più anziani e poi c’era lui. I membri della sua band erano
andati a fargli visita proprio il giorno prima, indossavano tutti un
cappellino da Babbo Natale che stonava con gli abiti di pelle nera da
autentici rockettari; gli avevano portato un regalo ciascuno ma lui
non si era disturbato a scartarli. Pensava lo avrebbero tirato fuori di lì
e invece il manager, con la preziosa collaborazione del loro personale
medico, aveva consigliato di trascorrere ancora un po’ di tempo lì
dentro. O almeno a loro dire. Balle, aveva pensato Jonathan, ma che
poteva farci? Suo padre l’aveva disconosciuto ormai da tempo; forse
si era ricordato di avere una qualche parentela solo il giorno che il
33
Abaluth
Star
disco della sua band aveva vinto il Grammy come “Best Alternative
Album”. Sua madre avrebbe dedicato tutto il suo amore di nonna ai
nipotini appena nati, era il primo Natale dei gemelli e lo zio cantante
in riabilitazione avrebbe rovinato tutto il quadretto.
He’s making a list and checking it twice; gonna find out who’s
naughty and nice. Sorrise beffardo; era stato cattivello quell’anno,
Babbo Natale l’avrebbe ricompensato comunque?
«Qui per Natale, menestrello?»
L’uomo per la prima volta staccò lo sguardo dalla finestra che
fissava ormai da ore. Chi aveva parlato era una persona sulla settantina, l’unica persona in quell’istituto che Jonathan aveva imparato ad
amare. La sua storia era triste, struggente, quasi da film. Un professore di liceo in pensione che aveva perso la figlia quando era piccola
in un incendio e da quel giorno aveva sostituito l’amore per lei con
l’amore per la bottiglia. Erano ormai anni che entrava e usciva dai
centri di riabilitazione per combattere la dipendenza; ci aveva preso
gusto, diceva lui, era un modo per conoscere nuove persone. Chiamava Jonathan “menestrello” e spesso gli chiedeva di cantare
qualche canzone del suo repertorio. Non l’avrebbe fatto per nessun
altro, solo per lui.
«Ho ricevuto tanti inviti da Hollywood, ma sai ho preferito rifiutare per rimanere qui. Questo posto è roba di alto livello!» La voce di
Jonathan era calda e pacata.
Il vecchio annuì, rise e tossì, poi si trascinò a fatica fino alla prima
sedia disponibile della sala comune. Tirò fuori una sigaretta da una
tasca logora della giacca e si guardò furtivo attorno. Fece segno al
cantante di star zitto con il dito davanti alla bocca e l’annusò prima di
accenderla con un fiammifero già usato.
«Perché non spegniamo quella robaccia e non ci delizi con qualcosa di tuo, menestrello?»
Jonathan rivolse nuovamente la testa verso la finestra aperta. Lì
fuori non vedeva anima viva, tutto bianco, tutto candido, tutto puro.
«Non ne ho voglia, vecchio. Devo ancora entrare nello spirito
natalizio quest’anno.»
34
Abaluth
Star
L’anziano sbuffò quando entrò un’infermiera infuriata che gli
strappò la sigaretta di mano. Quante volte gli aveva ripetuto che
all’interno dell’istituto era vietato fumare. C’erano anche enormi
cartelli sparsi ovunque. Con uno strattone lo fece alzare e lo spinse
verso il corridoio, verso la sua stanza. Jonathan rimase ancora una
volta solo.
I believe in nothing
Not the earth and not the stars
«Buon Natale.»
Il suo status di VIP gli dava diritto a qualche vantaggio, come per
esempio i pasti in camera ogniqualvolta avesse voluto. Quella
mattina lo voleva, infatti. Era la mattina di Natale e non aveva
nessuna intenzione di fare gli auguri ai pazienti o men che meno agli
infermieri. Magari l’avrebbero pregato tutti di andare al piano e di
cantare qualche cosa. Jonathan non l’avrebbe sopportato. Per questo
si meravigliò quando una ragazza, un’adolescente a occhio e croce, si
presentò davanti alla porta della sua camera con un pacchetto in
mano mentre stava consumando la colazione. Aveva ancora il
cucchiaio pieno di brodaglia di latte e cereali sospeso a mezz’aria e la
bocca aperta. L’aveva già vista lì, l’avrebbe giurato. Ma non era una
paziente, lavorava forse lì? Era un’aspirante infermiera? Faceva le
pulizie durante il periodo di festa per arrotondare? Non poteva essere
una fan, no. Il suo manager e tutto l’entourage avevano faticato per
cercare un centro il più possibile lontano dalla vita e da ogni essere
umano. Ai media erano state raccontate un sacco di balle ed erano
stati diffusi così tanti falsi gossip su di lui che ci sarebbero voluti
parecchi mesi prima di venirne a capo. In più non presentava i tipici
segni di incontro-con-il-frontman: respiro accelerato, sudorazione
fredda, lacrimazione incontrollata, gambe molli, mancanza di voce,
eccetera.
Jonathan abbassò il cucchiaio.
«Buon Natale a te» rispose composto, con un’aria a mo’ di punto
interrogativo. Stava cercando di farle capire telepaticamente che si
stava chiedendo chi fosse e cosa volesse.
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Abaluth
Star
Senza far troppi complimenti la ragazza varcò la soglia della
stanza, come se quelle quattro parole non fossero state la cortese
risposta al suo augurio ma un invito a entrare. Lanciò il pacchetto sul
letto, si sfilò cappello di lana, guanti, giubbotto pesante e buttò
sbadatamente anche questi sul letto. Poi riprese il pacchetto e si avvicinò al minuscolo tavolino-scrivania sul quale era appoggiato il
vassoio con la colazione per il cantante.
«Buon Natale» ripeté allungandogli il pacco ben incartato.
Lui lo guardò con diffidenza e non si mosse dalla posizione in cui
si trovava.
«E tu sei…?»
La ragazza scrollò i capelli ancora appiattiti dal cappello. Erano
lunghi e color rosso fuoco con sfumature arancioni, ma alcune
ciocche erano raccolte in dread formando quasi una pettinatura stile
rasta. Jonathan notò piacevolmente, spostando lo sguardo dal regalo
alla figura di fronte a lui, che non indossava un trucco pesante: solo
una linea di eyeliner nero sugli occhi che terminava con un’elegante
virgola all’insù donandole uno sguardo da gatta; al labbro inferiore,
sulla destra, portava un piercing nero di quelli ad anellino che le si
infilava in bocca. Non era molto alta e sicuramente se lui si fosse
alzato in piedi l’avrebbe fatta sembrare minuscola a confronto.
«Credevo lo sapessi già. Mi chiamo Eireen, svolgo qui i servizi sociali.»
Jonathan, disinteressato, tornò a rivolgere l’attenzione alla sua
colazione consumata a metà. Rise tra i baffi e commentò a bassa
voce: «Servizi sociali, eh? Sei una teppistella dunque.»
«Se così si può dire… Ho sfasciato il locale dove lavora il mio ex.
Mi aveva tradita.» Senza fare troppi complimenti Eireen afferrò un
biscotto dal vassoio del cantante e lo morse, sempre tenendo stretto il
pacchetto davanti a sé. Jonathan voleva sbottare irritato, ma riflettendoci qualche secondo pensò che in realtà il comportamento della
ragazza lo intrigava molto.
«E fai i servizi sociali anche il giorno di Natale?»
La ragazza si strinse nelle spalle rispondendo che non aveva altro da fare.
«Questo è per te comunque.» Gli allungò il pacchetto fino quasi a
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Abaluth
Star
sfiorargli il naso immerso nella ciotola della poltiglia-cereali.
«Sei una mia fan?» Finalmente l’uomo afferrò il pacchetto
poggiandoselo in grembo.
«No, in realtà no. Ho fatto un regalo a tutti i pazienti rimasti qui
per le feste. Al vecchio ubriacone, per esempio, ho regalato una pipa
intagliata a mano e sembra aver apprezzato.»
«Anche i delinquentelli hanno un cuore quindi.» Ridacchiò tra sé e
sé per la battuta, mentre apriva il pacchetto strappandone la carta
natalizia con decorazione rosse e dorate.
«Che stupido essere fan di qualcuno. Insomma voi sareste le
“star”? Quelli che possono guardarci dall’alto in basso perché hanno
qualcosa in più? Un “talento”.» Eireen muoveva le mani a mo’ di
virgolette mentre parlava.
«Guarda dove t’ha portato il tuo “talento”.» Continuava a fare quel
gesto che Jonathan trovava assai irritante. «Qui. In questa stanza…
con la tua colazione a letto però!» Afferrò un altro biscotto. La
rock-star pensò che in fondo questa ragazzina non aveva affatto tutti i
torti. Il suo saper mettere in musica due belle paroline non gli dava il
diritto di essere paragonato a splendidi astri nel cielo che illuminano
il cammino dei viandanti.
«Anche durante i nostri giorni più duri, ricordiamoci tutti che
siamo fatti di polvere di stelle. Lo diceva Carl Sagan.» Mentre Eireen
pronunciava questo nome Jonathan pensò di non avere la minima
idea di chi egli fosse. «O forse era Walt Disney? Il punto è che io
sono una stella tanto quanto lo sei tu.»
«Infatti anche tu sei qui.» Jonathan era finalmente riuscito ad
aprire il pacco e stava estraendone il maglione che conteneva. Era di
lana pesante, dolcevita, color bianco panna, con decorazioni natalizie. Quei fiocchi di neve, rossi per giunta, quegli alberelli addobbati
(questa volta avevano il colore giusto) fecero spuntare una smorfia di
disgusto mista a divertimento sulla faccia dell’uomo.
«Pensi sia della taglia giusta?»
«Ah, certo! La taglia è perfetta… è la fantasia che mi lascia un po’
perplesso.»
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Abaluth
Star
«Ma come? È molto di moda tra voi “star”, cercalo su Buzznet.»
Ancora quel gesto. Jonathan si strinse nelle spalle, dopotutto gli unici
che avrebbero potuto vederlo erano i pazienti e le infermiere, che non
avrebbero riconosciuto la differenza tra un outfit da palcoscenico e
quel maglione. Lo indossò sulla maglia nera del pigiama, era
morbido e caldo. Dopotutto Eireen era stata gentile.
«Gli unici capi d’abbigliamento che le donne mi regalano solitamente sono i reggiseni che mi lanciano sul palco.» Rise cercando uno
sguardo d’approvazione della ragazza che però non trovò, allora
simulando un colpo di tosse tornò serio.
«Grazie comunque. Quanti anni hai detto di avere?»
«In realtà non l’ho detto. Ne ho diciannove. Tu?»
«Tu quanti me ne dai?» Jonathan cominciò a dondolarsi sulla sedia
con uno sguardo tra l’ambiguo e il tenebroso, toccandosi l’orecchino
che indossava al lobo destro.
«Mmmhh… non saprei. Una trentina?»
Il cantante scoppiò a ridere rischiando di cadere all’indietro con
tutta la sedia; una volta ripreso l’equilibrio dovette tenersi la pancia
per le risate.
«No, davvero, sei troppo buona.» Si asciugò le lacrime. «Ne ho
quarantuno. O meglio domani ne compio quarantadue. Però grazie.»
In effetti nessuno avrebbe mai indovinato la sua età, sembrava molto
più giovane di quanto non fosse. Anche a causa del suo comportamento scellerato da giovincello.
I believe in nothing
Not the day and not the dark
Eireen stava spalando la neve davanti all’entrata del centro di
riabilitazione come le avevano chiesto le infermiere. Jonathan uscì
per fumarsi una sigaretta. Era la prima volta che metteva piede fuori
dal suo ricovero.
Per qualche minuto rimase a guardare la ragazza senza fiatare; il
fumo della sigaretta si confondeva con la condensa che usciva dalla
bocca.
«Schiaviste del cazzo.»
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Abaluth
Star
«Com’è la vita delle stelle, Jonathan?» gli chiese la ragazza
fermandosi e appoggiandosi alla pala.
Quella domanda lo colse di sorpresa; si appoggiò a un cespuglio
innevato che riusciva a malapena a mantenere il suo peso e guardò il
cielo, riflettendo.
«Vediamo… tutti vanno a letto con tutti, una specie di mega orgia.
Tutti sono così maledettamente noiosi e prevedibili e le loro vite
sembrano dei film scritti da pessimi sceneggiatori. Se non guidi una
bella macchina non sei nessuno, se uno stuolo di paparazzi non ti
segue non conti niente. Ogni festa sembra una sfilata di moda, una
sfilata di ostentazione a chi è più coglione e chi luccica di più. Non
tutti hanno tanti soldi, ma fanno finta di averli. Fanculo Los
Angeles!» urlò al vento.
La diciannovenne sospirò e ricominciò a spalare.
«Non sono tutti così.»
«Che ne sai tu, ragazzina? Io vivo tutti i giorni in quella merda e ti
posso assicurare che è una cazzo di schifezza.»
«Io so che non sono tutti così.» Jonathan la guardò incuriosito.
«Tu non sei così».
Questa frase fece spuntare un sorriso sul viso barbuto del cantante
che guardò Eireen con tenerezza. Si stropicciò gli occhi sentendo una
lacrima congelata scendergli sulla guancia.
«Credimi, anch’io, sotto sotto, sono esattamente così. O almeno lo
sono di facciata, devo esserlo se voglio sopravvivere in quella
giungla.»
«Ti va di spalare?» La risposta era ovviamente no, ma cosa poteva
dire? Lei era una diciannovenne che stava pagando per aver sfasciato
il locale del fidanzato traditore, lui un quarantenne sfondato di soldi
che stava pagando per aver sfasciato la sua stessa vita a causa del
troppo alcool e delle eccessive droghe; chi meritava di più di spalare?
Senza fiatare le strappò la pala di mano e cominciò a lavorare molto
più velocemente di lei.
«Me la dai una sigaretta?» Lui si sfilò la sua di bocca e gliela
passò.
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Abaluth
Star
«Non ti sprecare, mi raccomando! Non è che vai in bancarotta,
eh?!» Risero.
«Anche tu, devo ammettere, non sei così come dipingono i giovani
d’oggi.» Il cantante aveva parlato col fiatone per la fatica.
«Ehi, superstar, rallenta! Non vorrai farti venire un infarto! Sei
vecchio, sai?» Tirò una boccata dalla sigaretta già consumata. «Sono
alternativa, magari. Sono come te. Siamo la luce nel buio dei nostri
universi. Siamo gli hipster dei nostri rispettivi mondi.»
«Ragazzina, hipster a chi?» Senza farsi vedere raccolse un
mucchietto di neve da terra e, modellato a forma di palla, lo lanciò
contro di lei, che subito rispose.
In quel momento un’infermiera, la più anziana e arcigna, uscì.
«Voi! Smettetela immediatamente. Tu sei qui per espiare le tue
colpe. Lei è qui per rimettersi in piedi. Non siete due bambini, smettete immediatamente di giocare!» Così come era arrivata se ne andò.
«Va bene signora Grinch!» Le urlò dietro Eireen, e in effetti
l’espressione dell’infermiera non era dissimile da quella del mostro
verde famoso per il suo odio al Natale.
Per evitare che lei sentisse e uscisse di nuovo, Jonathan, abbandonata la pala a terra, corse verso la ragazza e le tappò la bocca con la
mano ridendo.
«Espiare le tue colpe.» L’uomo fece il verso dell’infermiera guardando Eireen negli occhi. Erano verde smeraldo.
Allontanandosi da lei dopo un momento di imbarazzo dovuto
all’incontro dei due sguardi, al toccarsi dei due corpi, Jonathan
spostò lo sguardo verso l’alto e vide il vecchio dietro la finestra della
sua stanza che mimava un’azione, stava baciando il vetro. Gli lanciò
un’occhiataccia e gli fece un gestaccio, stando attento che Eireen
fosse lontana in quel momento.
I believe in nothing
One hundred suns until we part
Un ragazzo faceva avanti e dietro tracciando un solco davanti
all’entrata del centro. Jonathan riusciva a vederlo bene stando affacciato alla vetrata della sala comune. Aveva tracciato un solco nelle
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Abaluth
Star
zone dove era passato e ripassato. Sembrava impaziente. A ogni
rumore girava la testa verso la porta nella speranza che uscisse qualcuno. Guardava in basso, verso i piedi, ma ogni tanto alzava lo
sguardo per incontrare l’espressione stupita del cantante.
Jonathan si grattò il collo; gli prudeva a causa del dolcevita bianco
che non era abituato a indossare.
Il vecchio aveva in bocca la pipa intarsiata di cui Eireen gli aveva
parlato. Non era accesa e ogni due per tre doveva far segno che era
vuota e mostrarla alle infermiere che partivano in quarta appena lo
vedevano.
«Se va avanti così consumerà il vialetto e le scarpe.» Si affacciò
anche lui, curioso.
«Ma secondo te cosa vuole?»
«Direi più che altro, chi vuole.» Sottolineò col tono della voce il
“chi” e tirò Jonathan per il collo del maglione per fargli voltare la
testa verso il corridoio dove Eireen stava aiutando le infermiere a
trasportare dei pesanti sacchi neri verso la lavanderia.
«Io insegnavo, ne ho visti di giovanotti! E quello mi sembra
proprio il tipo della nostra cara amica.»
Jonathan strabuzzò gli occhi, cercando di scacciare via quel
pensiero.
«Ehi bimba!» la chiamò il vecchio. «Vieni un po’ qua.»
Eireen lasciò momentaneamente il suo sacco nel corridoio e corse
verso la finestra cercando di riscaldarsi le mani sfregandole tra loro.
«Dicci, lo conosci quello?»
Eireen non poteva credere a ciò che vide. Abbandonò tutto e tutti
in fretta e furia e si precipitò fuori senza nemmeno indossare il giubbotto.
Il cantante e il vecchio ubriacone avrebbero tanto voluto ascoltare
quello che i due si stavano dicendo, ma le megere avevano tassativamente vietato l’apertura delle finestre durante il periodo invernale. Si
accontentarono di vedere i due gesticolare per parecchio tempo,
finché dopo un po’ entrambi non si calmarono.
Lui si avvicinò ad Eireen, si sfilò il cappotto e glielo appoggiò
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Abaluth
Star
sulle spalle, le prese il viso tra le mani e le sussurrò qualcosa all’orecchio.
Un battito di mani ricordò loro che era arrivata l’ora della terapia
di gruppo. Neanche a Natale e con un gruppo così esiguo l’avrebbero
potuta scampare.
Jonathan pensò che Eireen finiva il turno prima di cena e non
avrebbe potuto vederla fino al giorno dopo. Il pensiero lo rattristò.
«Forse è solo suo fratello» cercò di consolarlo il vecchio insegnante vedendolo così giù mentre si avviavano nella sala della
terapia di gruppo. Lì dentro le sedie erano già state disposte a
cerchio.
«Forse è solo un amico» continuò.
Un’infermiera entrò in camera sua mentre si stava vestendo, senza
dire se né ma. Jonathan si stirò con la mano il maglione bianco natalizio stropicciato e la guardò infastidito e un po’ assonnato. La
ragazza aveva un’espressione imbronciata e i capelli raccolti in una
coda di cavallo che lasciava scappare i ciuffi più ribelli. Era piuttosto
brutta, pensò Jonathan. O forse se si fosse curata di più… Sempre
senza aprir bocca appoggiò sul tavolino della stanza un bicchierino di
plastica opaca contenente una capsula celeste. Stava per uscire dalla
stanza quando evidentemente si ricordò di qualcosa, infilò le mani
nelle tasche e da una tirò fuori un bigliettino. Lo consegnò direttamente in mano al cantante e pronunciò le prime parole che Jonathan
avesse sentito da lei sin da quando era iniziato il suo ricovero.
«Eireen, la ragazza che svolgeva il servizio sociale qui, se n’è
andata. Ha fatto pace col suo fidanzato, credo, e adesso sconterà il
resto della pena in una parrocchia vicino casa sua. Sai, lei era un po’
fuori mano da queste parti. Sembra che abbia insistito col giudice nel
venir qua perché voleva conoscere te, è una fan del tuo gruppetto o
quello che è… Comunque ha detto di darti questo.»
Poi uscì, proprio come era entrata, sbattendosi la porta dietro.
Jonathan aprì il bigliettino lentamente, quasi tremando. Lottava
con tutte le sue forze per trattenere le lacrime. Tirò su col naso e se lo
asciugò con la manica del maglione bagnandola tutta.
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Abaluth
Star
Rise nel vedere la scrittura della ragazza; chissà perché, era
proprio come se l’era immaginata. Poteva davvero l’incontro di un
giorno cambiargli l’esistenza? Non erano cose che si leggevano nei
libri? Che si guardavano nei film?
“Buon compleanno J.!
Ricorda, non sei una stella. Tu per me sei il sole.
E.”
Jonathan decise finalmente di liberare le lacrime salate che gli
andarono a finire dritte in bocca. La teneva aperta perché stava sorridendo.
“E tu per me sei stata cento soli” pensò lui. Richiuse il pezzo di
carta, lo infilò in tasca e ingoiò la capsula colorata nel bicchierino
davanti a lui.
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Abaluth
Star
Routine
Caterina Russo
Questa giornata mi ha proprio distrutto!
Come molte giornate in questi ultimi mesi.
Prima il lavoro, poi di corsa a far la fila alle poste per pagare le
bollette, poi a casa a pulire, poi la cena e i piatti...
Figurati se quel pigrone si stacca dal divano! Da quando siamo
sposati li avrà lavati sì e no quattro volte.
Si piazza davanti alla consolle e guai a chi lo distrae da sparatorie
o inseguimenti vari; gioca per ore senza degnare della minima attenzione me o quello che succede in casa, e nel mondo. Ore, senza mai
avere un attacco di epilessia: come farà?
E ora finalmente riesco a rilassarmi un po’ prima di crollare a letto.
Un bel bagno caldo è quello che ci voleva e... Ma cos’ha questa
piastra? Perché ancora non si è scaldata? Ah... ehm... forse dovrei
attaccare la spina!
Cavolo! Sono proprio fusa e domani sarà un altra giornatina così.
Devo riuscire a essere fuori casa dieci minuti prima per sbrinare i
vetri della macchina: stamattina la temperatura era meno due!
E poi forse avrò più probabilità di trovare parcheggio sotto l’ufficio, cosa che ultimamente è diventata un’impresa e col gelo non è
bello farsi un chilometro a piedi!
Mi devo ricordare di chiedere a Stefania un cambio turno per
venerdì, lei preferisce fare la mattina se non ricordo male e così
riuscirò ad andare dalla parrucchiera, rimando da troppo tempo e ho
proprio voglia di farmi un bel colore prima della partenza.
Cavolo! Mi son scordata di portar su la valigia dalla cantina:
un’altra cosa da fare domani.
Dopo il lavoro devo passare a salutare Alessia, non la vedo da un
po’ e devo anche darle i soldi per il calendario dell’associazione.
Cosa aveva detto? Dieci? Quindici euro? Forse quindici sono
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Abaluth
Star
troppi, ma ormai le ho detto che lo avrei preso, quindi...
Se riesco faccio anche un salto al centro commerciale: ho un paio
di buoni sconto da spendere prima che scadano.
Allora, mi serve lo shampoo, i fazzolettini (mannaggia al raffreddore!) e la cannella così domani sera provo a fare la torta di Lucia!
Uhm... no questa ciocca è troppo grande, prendiamo meno capelli;
ecco, così va bene.
Dunque, la torta. Non so mica se faccio in tempo, deve cuocere
quasi un’ora.
Magari faccio quella con le mele che è più veloce.
Fammi vedere che ore sono... le undici?! Di già?
Mamma mia che vita, le giornate volano così veloci. Sì, ho proprio
bisogno di questo viaggio, una bella crociera nel Mediterraneo.
Ho fatto bene a prenotarla di nascosto, sarà una bella sorpresa per
tutti.
Immagino l’invidia mentre io sarò a Barcellona passeggiando
lungo La Rambla, finalmente libera dal pensiero di bollette, lavanderia, aspirapolvere, turni di lavoro, traffico e molto altro ancora.
Finalmente solo io, me e me medesima!
What the world needs now is love, sweet love... è tutto il giorno che
ho questo motivetto in testa. Chi lo cantava? Streisand? No, non mi
pare. Non mi ricordo nemmeno dove l’ho sentita...
Ok, qui ho quasi finito. Controllo solo se Jack ha abbastanza croccantini per la notte e via sotto le coperte dove già mi aspetta la boule
calda.
Ah, no! Devo ancora chiudere la finestra della camera.
Oh, che luna spettacolare stasera! Non fosse per il freddo starei qui
sognante per ore.
Ma... era una stella quella? Una stella cadente! Sì, che bello!
Devo esprimere un desiderio, dai! Un bel desiderio.
Pensa, dai, qualcosa di bello!
Mah... niente!
Be’, adesso sono troppo stanca, voglio solo dormire.
Ci penserò domani.
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Abaluth
Star
Ah, sì, ci sono!
Desidero divertirmi da matti durante la splendida crociera in giro
per il Mediterraneo sulla Concordia.
Dedicato alle trentadue persone che, partite in cerca di svago,
divertimento e relax, hanno trovato la morte.
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Abaluth
Star
Inganni di luce
Roberto Pinna
Odio gli specchi. Giochi di luce che riflettono un’immagine fittizia
della realtà. Ogni giorno, sempre uguali e sempre diversi, mai in
fondo veri.
Ne ho uno in salotto; molto bello. Era di mia nonna, con cornici in
legno lavorato e alcune macchie color ruggine lasciate chissà quando,
chissà in che giorno, dall’inesorabile scorrere del tempo. Ogni giorno
lo fisso con odio. In vent’anni che ci conosciamo non ha mai avuto il
coraggio di essere sincero. Come un amico che ha paura di ferirti,
come un ipocrita benpensante. C’erano giorni in cui ero a pezzi e lo
vedevo e altri in cui mi sentivo il migliore e lo notavo.
Poi una sera mancò la luce, fuori pioveva a dirotto. Mi voltai e lo
vidi; guardai il richiamo di ombre proiettate dentro i miei occhi scuri
e vidi.
Un ragazzo fattosi uomo ma ancora incapace di considerarsi tale.
Non bellissimo: occhi troppo piccoli, naso troppo grande; non esattamente un fisico perfetto. Forse nemmeno bello, osservabile magari;
come tutte quelle cose della vita che poi finiscono col passare inosservate.
Dietro quell’involucro, un carattere da schizofrenico. Tante fobie
nascoste da una forte autostima costruita su castelli di carta dove il
vento non ha mai soffiato per davvero. Intelligenza, forse, ma mai
sfruttata, per pigrizia o per il semplice adagiarsi alla leggerezza
nell’aspettare che la vita faccia il suo corso. Forse neanche tanta
intelligenza, ma abbastanza convinzione di intelligenza, quella sì. La
sintesi perfetta di potenza e potenziale. Non a caso da bambino
cicciottello, rinnegando se stesso, adorava la sua ombra: agile nel
muoversi tra le foglie, i selciati e i campi dentro i quali passava in
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Abaluth
Star
solitaria tutte le estati della sua infanzia. Si ricordò di quelle estati e
in particolare delle lunghe notti di luna piena in cui con suo nonno
faceva la guardia al vigneto. Non riusciva mai a resistere e si addormentava molto prima dell’alba. Prima di chiudere gli occhi però si
accovacciava sui pantaloni dell’anziano, che sembravano essere
sempre così pesanti, e provava a fare ogni tipo di domanda gli
venisse in mente: di alcune non capiva la risposta, di altre la risposta
non era mai quella sperata e infine di alcune non ha memoria. Gli
venne in mente però di quella sera in cui la luna nascosta dalla
foschia del calore di metà luglio lasciava il ruolo da protagoniste alle
stelle; le osservava: tutte uguali e tutte diverse. In maniera spontanea
chiese al nonno se sapesse di quale materia fossero fatte le stelle. Un
mezzo sorriso sotto i baffi bianchi, non lo aveva mai visto sorridere
così; di luce, si sentì rispondere. Ci fu un attimo di silenzio, entrambi
pensavano, poi il nonno lo ammonì dal lasciarsi affascinare dall’inganno delle stelle, perché altro non sono che corpi morti ai quali il
tempo permette di prendersi gioco degli esseri umani. Da quel giorno
non gli piacquero più le stelle. Pensò che anche sua mamma era una
stella: bella e ingannevole. Lo riempiva di complimenti che perfino
lui così piccolo pensava di non meritare; si senti molto solo. Una
solitudine che porta dentro e che ha costruito mille sfaccettature di
lui; perché chi è solo impara a conoscere i propri istinti e lui aveva
imparato anche a nasconderli. Ora da grande sperava in una proiezione di sé che nemmeno lui poteva prevedere.
Amore ne aveva ricevuto tanto, ma di coraggio poche tracce. La
paura di venir ferito spesso porta a non partecipare alla competizione
e così fece lui. Nascose il cuore dentro un baule ammuffito all’interno del suo stomaco e giocò con i sentimenti altrui senza mai usare
i propri. Sapeva fingere bene, sapeva farti credere di essere il centro
del mondo e poi innescava la bomba per farti crollare il terreno sotto
i piedi. Non tutti capirono che la sua non era cattiveria ma semplice
paura. O forse a lui veniva semplice pensarla cosi. Fedeltà verso le
donne poca, verso gli amici troppa. Spesso si sentiva solo anche se
circondato da persone che conosceva da una vita, molto simili a lui
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Abaluth
Star
eppure distanti anni luce dal suo modo di essere. Modo di essere che
poi era vago e astratto persino per il suo stesso inconscio. Esperienza
di vita tanta, o per lo meno in confronto a chi lo circondava. Ma difficilmente riusciva a sentirsi sazio e portava rancore perfino per il suo
passato, per gli stessi gesti che un tempo faceva con passione.
Vidi tutte queste sensazioni muoversi tra le righe di colore castano
che nei miei occhi partono dal nero della grande pupilla che in quell’istante cercava di scrutare nell’oscurità. Poi tornò la luce, e non vidi
più niente.
Squillò il telefono. Alzai la cornetta in marmo. Uscii a farmi una
birra. La vita tornò quella di sempre: vento in faccia e tanti specchi
plastificati. Quello vero, di specchio, lo rimisi al suo posto, dentro
quel vecchio baule dai ganci saldati in ferro, dove feci un po’ di
spazio anche per me.
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Abaluth
Star
Una giornata luminosa
Erika Zanotti
Si era svegliato particolarmente di buon umore quella mattina. Era
presto come sempre, ma quando aprì gli occhi la moglie non era già
più al suo fianco, si era sicuramente alzata di buona lena per fare le
pulizie della domenica, e lui si sentì soddisfatto. Inspirò profondamente, come se potesse respirare l’aria fresca di quella mattina e
prendere la forza giusta per incominciare la giornata; poi girò lo
sguardo verso l’anta destra della finestra, dove la moglie aveva
opportunamente aperto l’imposta da fuori. Questa accortezza gli
permetteva di svegliarsi gradualmente con la luce del sole, evitandogli risvegli bruschi e inutili malumori. Scoprì così una bellissima
giornata, neanche una nuvola in cielo e il sole immerso in un azzurro
davvero chiaro. Era pieno inverno e sapeva che a un tempo talmente
limpido sarebbe corrisposta una temperatura altrettanto rigida; in
settimana era prevista neve e tutto procedeva già come annunciato.
Rincuorato, si sedette sul bordo del letto e trovò le pantofole esattamente dove le aveva lasciate la sera prima, tra loro parallele. Si
avviò verso il bagno e dette inizio alla sua domenica. Già davanti allo
specchio aveva deciso che era la mattina giusta per pulire la
macchina: sarebbe nevicato solo mercoledì e la macchina in quella
città non sarebbe rimasta pulita molto più a lungo. Così, quando
trovò la colazione già pronta sul tavolo, si sentì sollevato perché il
suo programma poteva proseguire senza intoppi e ritardi. Non
doveva neanche perdere tempo in chiacchiere e chiedere alla moglie
come fosse andata la riunione all’oratorio, la sera prima: lei l’aveva
tolto dall’imbarazzo andando a stendere i panni in giardino.
All’orario di apertura dell’autolavaggio si fece trovare pronto e fu
il primo della coda a entrare sotto i rulli. Mentre era dentro, sotto
l’attacco degli spruzzi d’acqua mista a sapone, guardava l’orologio
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Abaluth
Star
chiedendosi quanto ci avrebbero messo i tre ragazzi all’uscita a
pulirgli gli interni. Sapeva che non sarebbe stato tutto perfetto, che
avrebbe dovuto ultimare il lavoro una volta a casa. Aveva già detto
alla moglie di fargli trovare al suo ritorno tutto l’occorrente pronto
sul tavolo del giardino; l’aveva anche avvisata che sarebbe stato di
rientro in un’ora, ma adesso incominciava a credere di essere stato
troppo prudente: non voleva rischiare di rovinarsi una così bella giornata trovando il tavolo del cortile ancora completamente vuoto.
Quando dopo venti minuti la macchina fu lucidata, decise di fare
una piccola pausa alla caffetteria davanti all’autolavaggio, per
temporeggiare fino all’ora che aveva comunicato alla moglie. Si
sedette a uno dei tavoli vicini alla vetrina per godersi il tepore del
sole sulla pelle. Sorseggiando un cappuccino in tazza grande, con una
spruzzata di cacao sulla schiuma, guardava verso l’esterno affascinato dal cielo perfettamente terso. Sapeva che quella giornata si
sarebbe tramutata in una notte profondamente nera, costellata da
luminose stelle bianche.
Avrebbe rispolverato il suo vecchio telescopio e le sue vecchie
conoscenze di astronomia. Era da tanti anni che non lo usava, probabilmente da quando i bambini erano piccoli, e ora i “piccoli” avevano
già i loro piccoli. Decise che quello era proprio il giorno giusto per
riutilizzare quel telescopio. Gliel’aveva regalato suo suocero per il
loro primo anniversario di matrimonio; un pensiero arrivato inaspettato, lo ammetteva, ma probabilmente l’uomo sospettava già che non
gli sarebbe rimasto molto tempo da vivere e non voleva lasciare
intentata nessuna via. Lo sguardo muto e severo del suocero lo aveva
sempre messo in dubbio, nel suo ruolo di marito, pesandogli sulle
spalle più di qualsiasi parola di aperta opposizione. Quel regalo era
giunto come un’estrema riconciliazione, un patto implicito che la
figlia fosse affidata in buone mani. Non gli aveva dato nessun
biglietto di auguri, lo aveva accompagnato semplicemente raccontandogli la storia di come era nata Mimosa, di come lui e la moglie non
riuscissero ad avere figli e di come invece miracolosamente Rio de
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Abaluth
Star
Janeiro avesse portato loro una bambina. Avevano deciso così di
ringraziare quel luogo dandole il nome della stella che lo stato
portava sulla bandiera: Mimosa, per l’appunto. Il suocero aveva
finalmente terminato il racconto con il vero augurio: “Ora hai tutti i
mezzi per trovarla”.
Era l’otto marzo e pensò che fosse un regalo appropriato all’occasione, trovare la sua Mimosa in cielo e farle sapere che non si era mai
scordato la vera origine di quel nome. Così non perse altro tempo
seduto alla caffetteria e si incamminò verso casa. Lì, in giardino,
trovò tutti i prodotti di cui aveva bisogno per rifinire la pulizia della
macchina e si mise all’opera, dopo avere inserito il cd di Vivaldi nel
lettore sopra l’autoradio. Immerso in quei gesti automatici avanti e
indietro su vetri e cruscotto, pensò a come organizzare la serata senza
anticipare la sorpresa alla moglie con qualche frase di troppo. Liberato anche l’ultimo angolo dalla polvere, rimise tutti i prodotti e gli
stracci a posto con un piano ben preciso in mente, e gli diede il via
già durante il pranzo.
«Stamattina mi ha chiamato Alberto e mi ha chiesto se stasera gli
possiamo dare il telescopio di tuo padre: i bambini ne hanno bisogno
per la scuola… Lo puoi recuperare tu? Passano dopo cena.»
Non si ricordava bene dove fosse, se in cantina o in soffitta, e non
voleva insospettirla mettendo sottosopra tutta la casa. Inoltre, ammise
con se stesso, sarebbe sembrato più naturale chiedere a lei di prendere la scatola con il telescopio, piuttosto che farlo lui stesso.
Il pomeriggio passò piuttosto veloce. Si mise al tavolo dello
studio, spingendolo sotto la finestra per sfruttare il più possibile la
luce della giornata. Pescò dalla libreria i suoi volumi di astronomia e
si ingegnò a ripassare le costellazioni principali, per non fare brutta
figura in quell’occasione speciale. Gli sarebbero bastate quelle due
ore che Mimosa passava a fare il sonnellino pomeridiano per lavorare
indisturbato al suo piano.
Quando la moglie si svegliò e uscì per fare la spesa, lui ne appro52
Abaluth
Star
fittò per fare un bagno caldo e rigenerante così da affrontare al
meglio la serata e, una volta tornato in camera, scelse con cura i
vestiti da indossare per cena. Da quando era in pensione erano paradossalmente diminuite le occasioni speciali che dedicavano solo a
loro due, con tutto quel tempo che ormai avevano a loro piena disposizione.
Qualche tempo prima, Alberto gli aveva raccontato di come avesse
fatto una sorpresa alla moglie facendo preparare una magnifica cena
da un cuoco a domicilio: non sapendo lui cucinare e volendo evitarlo
alla festeggiata, gli era sembrata un’ottima alternativa al ristorante.
Così aveva pensato di riciclare l’idea del figlio, chiedendo però al
cuoco di preparare qualcosa che potesse portare a casa e scaldare da
solo senza il suo aiuto, per tenere l’atmosfera più intima. Ormai si era
fatta l’ora convenuta con il cuoco e si diresse al ristorante per ritirare
la cena, lasciando un biglietto a Mimosa per evitare che si mettesse a
cucinare e rovinare tutta la sorpresa: “Cambio di programma:
usciamo a mangiare con i ragazzi. Sono andato a comprare un libro
sulle stelle per i bambini. Intanto preparati”.
Parcheggiata la macchina nel cortile, entrò a casa con la speranza
che la moglie fosse pronta per la cena perché aveva già fame, con
quell’odore che gli era ormai entrato nel naso, e anche perché era
sempre più curioso di vedere l’espressione che Mimosa avrebbe fatto
davanti alla sua sorpresa. Non la incontrò però sulla sua strada verso
la cucina, così ne approfittò per mettere il cibo in caldo; poi con l’angosciosa sensazione che qualcosa stesse andando storto, si diresse
verso la camera da letto per vedere a che punto fosse, ma non la
trovò neanche lì. E la luce del bagno era spenta. Incominciò ad
agitarsi davvero e il suo sguardo si fece corrucciato. Era quello il
ringraziamento per tutta l’attenzione che aveva dedicato a organizzare la loro serata speciale? Tornò in salotto con un respiro sempre
più rumoroso e rancoroso; sapeva che non l’avrebbe trovata neanche
lì perché ci era appena passato per andare alla camera da letto, ma
sembrava quasi cercare conferma alla collera che stava montando
dentro di lui. Come colto da una folgorazione, pensò che potesse
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Abaluth
Star
essere scesa in cantina a recuperare il telescopio, così scese inesorabile per le scale, che in effetti avevano la luce accesa. Ma ormai non
gli interessava più essere sulla strada giusta per ricongiungersi a lei,
voleva solo trovarla per scaricarle addosso tutta la tensione che gli
aveva fatto crescere a fior di pelle, rovinando quella splendida serata.
Rafforzò i suoi intenti pensando che Mimosa avrebbe dovuto cercare
il telescopio prima, e non all’ultimo; avrebbe potuto sporcarsi con
tutta quella polvere, o fare tardi se non l’avesse trovato al primo
colpo, una decisione sicuramente azzardata di cui si sarebbe pentita.
Scese l’ultimo gradino come un macigno, portando ogni passo
sempre più pesante davanti a sé, verso gli armadi dove stivavano gli
oggetti che non usavano più. E li davanti la trovò.
Gli dava le spalle, ma la testa era rivolta verso di lui, come stupita.
Forse le era sfuggito il tempo là sotto e non si era resa conto di aver
fatto tardi. Poi la osservò meglio. Non era ancora vestita per la sera,
indossava la vestaglia che portava di solito in casa; e quella sua
faccia sbalordita era contornata da capelli ribelli che si arricciavano
senza senso e disordinati sopra la testa, infrangendo irrimediabilmente ogni illusione di perfezione.
Gli occhi in realtà non erano sbarrati per lo stupore; erano pieni di
terrore, e come premonitori videro il volto paonazzo del marito che
conteneva a malapena un’irritazione violenta. Le sembrò quasi di
sentire scivolare lungo quel volto una goccia di sudore al rallentatore,
e percepì la forza della sua caduta propagarsi lungo il braccio
nervoso, che infine si serrò in un pugno. Era arrivato il momento:
chiuse gli occhi in un lampo e confessò tutto d’un fiato: «Non sono
riuscita a trovarlo. L’avremo regalato a qualcuno o… buttato via…»
A quel punto le vide tutte. Vide la stella cucita sulla pantofola del
marito, perfettamente riflessa sulla sua gemella al bordo del letto, la
mattina; e vide quelle di quando ci era inciampata sopra un lunedì di
settembre. Vide la stella della forma dei biscotti che sfornava tutte le
settimane, per la colazione; e vide quelle di quando li aveva fatti
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Abaluth
Star
bruciare nel forno un venerdì di novembre. Vide la stella che brillava
sotto il riflesso del sole lungo tutta la carrozzeria dell’automobile,
perfettamente tirata a lucido in cortile; e vide quelle di quando si era
dimenticata di sostituire il prodotto finito con uno nuovo, un sabato
di maggio. Vide la stella di sapone che era in bagno sulla vasca, con
le sue sorelle di colore e profumo diverso; e vide quelle di quando
aveva comprato una saponetta dall’essenza sbagliata, un martedì di
febbraio. Vide la stella del portachiavi appeso alla porta della
cantina; e vide quelle di quando aveva perso le chiavi da qualche
parte un giovedì sera di agosto. Erano tutte lì davanti a sé e incominciarono a girare vorticosamente. Tutte, tranne quella del suo nome.
Poi ad un tratto tutto fu buio.
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Abaluth
Star
La vita è una cosa meravigliosa
Dora Carbone
Anche quella sera si sarebbe esibita in un teatro di quart’ordine, se
teatro si poteva chiamare una specie di cantina umida con un palco e
qualche sedia, situato in un paese con il nome osceno di Gnocca.
Priscilla sospirò tristemente appena vide quella lurida topaia.
Si era diplomata da cinque anni e di certo non si era immaginata il
suo futuro così. Aveva sempre sognato di essere ballerina del San
Carlo di Napoli, La Scala di Milano, La Fenice di Venezia, non di
certo di finire nel “Teatro di Winnie Pooh” di Gnocca o nel teatro
“Bolle di Sapone” di Pollena Trocchia.
Si era sempre impegnata al massimo: ore e ore di estenuanti esercizi, continui rimproveri da parte delle insegnanti che pretendevano
sempre il meglio, piedi distrutti e doloranti per stare perennemente
sulle punte, perdita di una vita sociale per il troppo tempo passato
nella scuola.
Si era diplomata, finalmente felice, convinta che la strada sarebbe
stata in discesa.
Si sbagliava.
La concorrenza era spietata e veniva surclassata da tutte ai vari
provini.
Certo era bravissima, aveva il ritmo nel sangue, ma rispetto alle
altre ballerine partiva svantaggiata.
Purtroppo Priscilla non era mai riuscita a seguire una dieta, amava
troppo il cibo per rinunciarvi.
Perciò mentre la ballerina media pesa quarantacinque chili lei ne
pesava giusto sessanta in più; è inutile che vi fate il calcolo a mente
ve lo dirò io: la cara Priscilla pesava appena appena centocinque chili.
Alla fine di ogni provino si sentiva ripetere sempre la solita frase:
«Signorina, lei sarà anche brava, ma per l’amor del cielo quale ballerino sarà in grado di alzarla?»
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Abaluth
Star
Quella frase ogni volta le spezzava il cuore, iniziò addirittura a
pensare che non si sarebbe esibita mai più, finché non fece l’audizione per la compagnia dei “Baldi giovani”.
Il direttore della compagnia un uomo affabile e sorridente le disse:
«È proprio la ballerina adatta a noi!»
Improvvisamente il suo cuore spezzato in piccoli frammenti si
ricompose per la gioia, finalmente qualcuno l’aveva accettata così
come era!
Capì subito perché cercavano una ballerina come lei. Il primo
ballerino della compagnia, il figlio del direttore, tale Ugo, era alto
due metri e cinque ed era culturista: una ballerina piccola e minuta
probabilmente si sarebbe spezzata in due tra le possenti braccia del
danzatore.
Appena Priscilla conobbe Ugo scattò la scintilla. Tra i due fu un
vero e proprio colpo di fulmine. Erano le due perfette metà che
combaciavano, l’anima gemella l’uno dell’altra.
Questa loro perfetta sintonia si notava anche quando ballavano
(anche se vedere un energumeno con i baffoni alzare una specie di
donna balena era quasi uno spettacolo da circo).
Priscilla legò molto anche con gli altri ballerini. Nacque, ad
esempio, una sincera amicizia con Clarissa, la ballerina dal braccio
monco. Per lei ormai non erano solo dei colleghi di lavoro, ma li
considerava una vera e propria famiglia, passavano insieme dei
momenti indimenticabili.
Però c’erano dei giorni, come quel pomeriggio prima di esibirsi al
fantastico “Teatro di Winnie Pooh”, in cui sospirava e immaginava
come sarebbe stata la sua vita da grande stella del teatro e non in una
sala mezzo vuota con qualche paesano annoiato che voleva darsi un
po’ di arie da intellettuale.
Ma in fin dei conti era anche felice così, con la sua seconda famiglia, le persone che le volevano bene, il suo grande amore Ugo. Non
avrebbe rinunciato mai a loro per nessun teatro del mondo.
Giunse la sera della prima, quella sera si sarebbero esibiti ne Lo
Schiaccianoci; da dietro le tende polverose e puzzolenti di naftalina
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Abaluth
Star
riuscì a intravedere gli spettatori. Come aveva ben previsto la sala era
piena di zotici tra cui c’era anche un unico cameraman, un ragazzino
di nemmeno quindici anni, che riprendeva tutto.
Lo spettacolo iniziò; prima di tutto furono accese le casse (mica vi
aspettavate che in un teatro del genere ci fosse un’orchestra?) e poi
aprirono il sipario.
Sul palcoscenico incombeva un albero di natale di cartapesta colorato con i pennarelli, mentre in scena una ballerina monca, una nana
e una sciancata iniziarono a fare delle strane mosse (probabilmente
ballavano). Per concludere, l’acustica era pessima e i loro passi quasi
coprivano il rumore della musica.
Arrivò il momento della battaglia tra il re dei topi, interpretato da
Barbara il transessuale, e il principe Schiaccianoci, interpretato da
Ugo a torso nudo per far ammirare il suo nuovo tatuaggio. Dovete
sapere, infatti, che la seconda passione di Ugo, dopo il culturismo,
erano i tatuaggi; si era appena tatuato sul petto una bellissima scritta,
“DON’T TOUCH MY FAMILY”, e voleva che tutti l’ammirassero.
Insomma sembrava andare tutto secondo le aspettative, era giunto
il momento in cui avrebbe ballato lei da sola sul palco.
Ma successe l’impensabile.
Arrivarono da dietro le quinte degli uomini bizzarri, mai visti
prima.
Erano stranissimi. Puzzavano come carogne, avevano vestiti sbrindellati e un colorito diafano e malaticcio, dalle loro bocche aperte
fuoriusciva bava, uno di loro aveva un’orbita vuota, a un altro uscivano
i visceri dalla pancia. E si avvicinavano barcollando verso di lei.
Priscilla capì subito chi erano: ballerini mandati da qualche altra
compagnia per testare la sua bravura e, per come erano truccati bene,
dovevano far parte di qualche compagnia veramente famosa.
Priscilla quasi piangeva. Finalmente, finalmente qualcuno l’aveva
notata, sarebbe diventata una stella della danza, e la sua famiglia con lei!
Dimenticandosi della coreografia, la ragazza si avvicinò a uno di
quegli strani ballerini e iniziò a volteggiargli intorno, saltando e
piroettando; il ballerino, stranamente, invece di ballare cercava di
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Abaluth
Star
buttarsi addosso a lei e di morderla (doveva essere un ballerino un
po’ maniaco).
Sentì degli urli dietro le quinte, ma non ci badò, probabilmente
facevano parte della nuova coreografia e, entusiasmata dal finalmente sguardo vigile degli spettatori, continuò a ballare con
maggiore intensità tra i danzatori (che risultarono essere tutti dei
maniaci).
Dopo poco sentì degli spari e da dietro le quinte uscirono degli
uomini travestiti da militari armati (“questa compagnia deve essere
veramente grandiosa!” pensò Priscilla). I nuovi arrivati spararono
alla testa dei ballerini che si accasciarono al suolo.
Priscilla intuì che era un finale a sorpresa e si inchinò alzando il
suo culone da ippopotamo. Gli spettatori applaudirono, lanciando
urla di gioia. Mai, mai in vita sua era stata tanto acclamata!
«Civili!» disse uno degli uomini travestito da militare. «Non
voglio allarmarvi...»
Gli spettatori erano tutto fuorché allarmati e applaudirono ancora
più forte.
Priscilla con le lacrime agli occhi disse: «Oh, il metateatro che
realismo! Che realismo!»
«Civili, non è uno spettacolo. C’è stato un attacco di zombie in
questo teatro, ma siamo riusciti a ucciderli tutti.»
Questa volta gli applausi superarono addirittura le voci dei militari.
«Lo spettacolo più bello che abbia mai visto!» urlò qualcuno tra il
pubblico.
«Stanno arrivando altri miei colleghi» disse il militare cercando di
superare il vociare, «vi preleveranno e vi terranno sotto osservazione.»
Priscilla era euforica, sorridente.
Lei e gli spettatori compresero che quello che era successo non era
uno scherzo solo quando dall’ingresso principale del teatro entrarono
altri militari e con la forza li trasportarono su un furgone.
La giovane ballerina scoppiò a piangere, allora era vero, non era
una finta rappresentazione teatrale e ora si trovava lì, in un furgone
con degli sconosciuti impauriti come lei.
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Abaluth
Star
Chissà come stavano gli altri della compagnia? Probabilmente
erano stati caricati su qualche altro camion e non li aveva notati.
La tennero per ore sotto osservazione, facendole numerosi esami,
rivolgendole ordini secchi e bruschi, e infine la chiusero in una
stanza.
Dopo ore che a lei parvero interminabili, nella stanza entrò un
militare che, dalla divisa, pareva di alto rango. «Signorina abbiamo
fatto tutte le analisi possibili e lei, ringraziando il cielo, non è stata
nemmeno graffiata da quelle creature. Non è stata infettata è totalmente sana.»
«Ma cosa è questa storia degli zombie, è uno scherzo, vero?» disse
la ragazza con foga.
«Signorina si calmi e le racconterò tutto dal principio» rispose
l’uomo. «Le sembrerà una vicenda assurda, ma purtroppo tutto
quello che le sto per raccontare è vero.»
L’uomo prese un attimo di pausa per riordinare le idee.
«Lei conosce gli animalisti? Gente ignorante che protesta per qualsiasi tipo di esperimento sugli animali; protestano anche se si inizia a
testare il palato dei topi, nutrendoli con parmigiano reggiano. Bene,
tra quegli idioti si è sviluppato un balordo gruppo di estremisti: gli
animalisti vegetalisti. Questa fazione si batte non solo per i diritti
degli animali, ma anche delle piante, degli alberi e della frutta. Sono
convinti di comprendere il linguaggio delle piante tramite telepatia e
ritengono che un singolo petalo strappato a un fiore equivalga a un
braccio tagliato a un uomo. Ritengono che animali e piante debbano
avere diritto di voto ed essere mandati a scuola.»
«Si però» lo interruppe Priscilla, «cosa c’entra questo con quello
che è accaduto al teatro?»
«Non mi interrompa e capirà. Accanto al teatro dove vi siete
esibiti, vi è un importante centro di ricerca, famoso per i suoi molteplici esperimenti di tipo botanico e di fisiologia vegetale. Tre animalisti vegetalisti sono riusciti a intrufolarsi di nascosto all’interno del
centro proprio il giorno del vostro spettacolo. Il loro intento era
quello di “rapire” il maggior numero di piante e portarle in centri di
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Abaluth
Star
riabilitazione psicologica floreale nati post traumi da esperimento.
Erano diretti verso l’enorme serra del centro e invece hanno trovato
una altra stanza su cui c’era scritto “ATTENZIONE ESPERIMENTO
TOP SECRET: Morti Viventi”. Purtroppo la M sulla porta era semicancellata e avevano letto “ATTENZIONE ESPERIMENTO TOP
SECRET: orti viventi”. I tre si erano subito infiammati. Chissà che
orrida angheria stavano subendo i loro piccoli amici verdi! Forse, lì
dentro, vi erano fiori senza petali che si muovevano con le batterie?
Forse qualche arbusto transgenico? Convinti che chissà quale terribile sperimentazione venisse fatta sui loro amati vegetali, hanno scassinato la porta e sono stati aggrediti da quattro morti viventi. Uno
degli animalisti vegetalisti è riuscito a scappare incolume, avvertendo
le autorità. I quattro morti viventi, invece, dopo aver divorato i due
contestatori, non trovando niente di interessante nel centro, attirati
dai rumori esterni dovuti allo spettacolo, sono entrati nell’ingresso
sul retro del teatro, che era semiaperto e... be’ credo che il resto della
storia la conosca.»
Priscilla era ancora sconvolta, zombie, animalisti vegetalisti, centri
di ricerca, militari, sembrava il set di un film di serie z. «Per fortuna»
disse, «si è risolto tutto per il meglio, no? Non c’è stata alcuna
epidemia?»
«Esattamente signorina. Tutti i contagiati sono stati uccisi» rispose
l’uomo. Aveva uno strana espressione sul viso. «Mi spiace immensamente.»
Priscilla lo guardò incuriosita. «Non capisco, per cosa?»
«Forse è meglio che lo sappia adesso piuttosto che tramite i giornali, lei è l’unica sopravvissuta della sua compagnia teatrale. I suoi
colleghi sono stati tutti divorati dagli zombie.»
La ragazza si sentì mancare il fiato e un dolore terribile le attanagliò il petto. Non era possibile, la sua famiglia, la sua grande famiglia, le uniche persone che le avevano voluto bene.
Uscì dalla stanza salutando appena l’uomo e tornò nel suo albergo
con un taxi. Era talmente addolorata che non riusciva a piangere. Mai
nella sua vita era stata così male, mai.
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Abaluth
Star
Non avrebbe più rivisto la sua dolce metà, il suo amato Ugo, i suoi
occhi, il suo sorriso, non avrebbe più sentito la sua meravigliosa
voce, non avrebbe più spettegolato con Clarissa, non avrebbe più
provato ore e ore con i suoi colleghi.
Ma per quanto stesse male, le lacrime non scendevano dai suoi
occhi; era come se non riuscisse a metabolizzare il dolore.
Che senso aveva continuare a vivere?
Rimase due giorni chiusa in camera, distesa sul letto, senza riuscire
né a mangiare né a dormire.
Il terzo giorno, ancora stremata e straziata, decise di riprendere in
qualche modo contatto con il mondo.
Accese il cellulare e poco dopo le giunse una telefonata.
Rimase esterrefatta.
«La signorina Priscilla Vanni?»
«Sì» rispose con voce rotta.
«Sono la segretaria dell’accademia del Teatro la Scala. Nei notiziari abbiamo notato la destrezza con cui ballava tra gli zombie... be’,
è stata fenomenale!»
«G-grazie» rispose Priscilla.
«Che coraggio, signorina! Che agilità! Ma bando alle ciance,
saremmo interessati a proporle un provino alla Scala, anche se io
credo che sia solo una formalità, una ballerina di fama mondiale
come lei passerà sicuramente subito l’audizione! Diventerà la stella
della scala!»
Un sorriso attraversò il viso di Priscilla. Una gioia mai sentita
prima la pervase. In quel preciso istante dimenticò la sua famiglia
adottiva e il suo grande amore per sempre.
La vita era veramente meravigliosa.
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