Elaborato di Isabella Spanò ‘COMPARED TO WHAT? THE UCLA COMPARATIVE LABOR LAW PROJECT AND THE FUTURE OF COMPARATIVE LABOR LAW’ DI HARRY W. ARTHURS L’interessante breve saggio di Arthurs si propone di definire l’ambito e le finalità proprie del diritto comparato del lavoro (d’ora innanzi, “DCL”). Di seguito è una sintesi dello scritto. Le prime ricerche di DCL risalgono al secondo dopoguerra e si devono agli studiosi partecipanti all’”UCLA [University of California - Los Angeles] Comparative Labor Law Project” 1965-1978. In realtà, si rammentano analisi di DCL già alla fine del 19° secolo; ed in proposito, meritevole di memoria per il diritto del lavoro è l’insigne comparatista statunitense John R. Commons (1862–1945), che influenzò in misura notevole gli studi successivi. Ma la vera sistematizzazione del DCL si ebbe appunto con l’UCLA Project, il cui ideatore fu Benjamin Aaron, a sua volta ispirato dall’opera dello studioso britannico Otto Kahn Freund. Il Project prevedeva lo scambio d’informazioni, mediante appositi rapporti sulla situazione del proprio paese, tra giuristi del lavoro di sei diversi stati – Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Svezia. In realtà, già nella fase iniziale del Project, nonostante la buona volontà espressa in tre mesi di continuo dialogo, ci si rese conto che le differenze culturali e ideologiche erano tali da impedire il consolidarsi di una piattaforma comune e da compromettere sostanzialmente il futuro buon esito del Project. Una delle conclusioni da trarre da quell’esperienza è che i comparatisti hanno la responsabilità di contestualizzare le informazioni che ricevono, e di farlo in modo comprensibile ai lettori dei loro scritti, che si trovano per la prima volta ad affrontare quei dati contesti. Aaron fu profeta nel sottolineare la necessità di un’apertura del diritto alle scienze sociali, nell’ottica di una rifondazione del diritto comparato, sebbene sia poi rimasto in un approccio troppo condizionato da pregiudizi teoretici. Egli infatti presupponeva che vi fossero fattori sociali unici determinanti per il diritto interno di un paese. Tale presupposto, peraltro, non comportò che gli studi condotti durante il Project non rimanessero descrittivi e pragmatici piuttosto che analitici, tralasciando di approfondire gli aspetti sociologici. Inoltre, per rispetto delle diverse posizioni politico-ideologiche dei sei membri del gruppo di ricerca, gli studi dovettero essere portati avanti secondo uno spirito di neutralità: fatto che forse limitò la portata dell’analisi sociale. I componenti del gruppo avevano comunque in comune una visione del diritto del lavoro come atto a promuovere la giustizia nei luoghi di lavoro: “missione” che sarebbe stata facilitata dalla conoscenza della dimensione comparata ed internazionale. Ma le crisi dell’economia politica, delle istituzioni e della teoria giiuridica, causando troppa variabilità e diversità tra i sistemi, minarono alla base la possibilità di un confronto produttivo e causarono in seguito la cessazione del Project. Gli studiosi del Project esaminarono un periodo che, sconfinando dagli anni dell’immediato secondo dopoguerra, aveva visto importanti sconvolgimenti nel mondo del lavoro (cambiamenti tecnologici, ristrutturazioni industriali, ampliamento del terziario, espansione del lavoro altamente qualificato, incremento della presenza femminile): il paradigma sottostante a molta della legislazione del lavoro in essere cominciava perciò ad apparire superato, ed anche la consolidata visione della giustizia sociale entrava in crisi. Si può affermare, guardando ai fenomeni crescenti di recessione, disoccupazione, inflazione, che a metà degli anni Settanta finì l’”epoca d’oro” delle relazioni industriali. Gli accennati cambiamenti epocali misero in discussione il ruolo degli stati nazionali nelle relazioni industriali. L’internazionalizzazione dei mercati e le nuove strategie di produzione, distribuzione e management, supportate dai nuovi mezzi di comunicazione a tutti i livelli, fecero sì che il potere passasse dagli stati e dai lavoratori ai datori di lavoro; nello stesso tempo, la capacità di contrasto di questi fenomeni da parte dei lavoratori andò scemando, a causa del venir meno della solidarietà tra loro, a sua volta dovuta al distacco dalla coscienza di classe e alle crescenti differenze in termini generazionali, razziali, etnici, d’istruzione, e via dicendo. La differenza di ricchezza e potere si manifestava non solo tra lavoratori e datori, ma anche tra i lavoratori medesimi, secondo le differenze di paese, di settore economico d’appartenenza, di classe anagrafica. La stessa categoria unitaria “lavoro” assume un quid d’anacronistico di fronte a tali e tante disparità di vario ordine. C’è quindi da chiedersi se sia possibile un più equo sistema di diritto del lavoro in presenza di simili sfavorevoli condizioni. Sarebbero necessari organismi transnazionali capaci di porre regole effettive, giustificazioni ideologiche/filosofiche alla protezione sociale dei lavoratori da parte dei governi, un potente movimento di lavoratori; e gravi crisi politiche o economiche come “una guerra o una depressione” – che nessuno si augura - atte ad operare forti cambiamenti “nelle percezioni e nei valori”. Ma niente di ciò sussiste. Come procedere a una comparazione se i sistemi da mettere a confronto risultano ormai erosi e al loro posto sono sorte nuove realtà e si svolgono nuovi processi? La risposta è che il DCL deve trovare nuovi oggetti di studio, al di fuori degli ambiti tradizionali. È vero che fondamentali elementi del diritto del lavoro sono sempre esistiti all’esterno del sistema giuridico statale; ma ora, a differenza che in passato, questi prevalgono su quelli interni, e sembra che tale proporzione resterà immutata nel tempo. Gli stati non hanno più la capacità di regolare i propri mercati interni del lavoro, poiché questa è stata compromessa dal progetto neo-liberistico di “restringimento” dello stato, progetto che ha avuto spesso successo grazie a manovre subdole di nomina di giudici che non condividono le scelte legislative in materia di lavoro, o di riduzione del numero, della retribuzione, della motivazione e della presenza degli incaricati “sul campo” alla ricerca ed al contenimento delle violazioni. Inoltre, anche le legislazioni del lavoro nazionali sono predisposte sempre più non all’interno dei ministeri del lavoro, ma in altri ministeri ed agenzie. Il diritto del lavoro non-statuale è dunque in crescita, e di questo dovrebbero interessarsi i giuristi - tra i quali quelli che si occupano di DCL. Ad esempio, gli studiosi di DCL potrebbero chiedersi come si sono trasformati gli antichi sistemi giuridici dopo l’impatto con questi mutamenti epocali. I comparatisti dovranno allora confrontare i codici di condotta elaborati dalle multinazionali come facevano con i diritti interni degli stati? In realtà, questi codici corrispondono all’interesse dell’impresa e mirano a favorire la condiscendenza verso l’impresa stessa, rafforzandone il potere “con le buone maniere”, e perciò sembrerebbe senza senso che il DCL se ne occupasse. Ma volendo studiare ciò che accade in realtà e non ciò che è tradizionalmente legale o favorevole ai lavoratori, la cosa non appare più inutile o peregrina. Il Global Compact lanciato nel 2000 dall’ONU si propone di suscitare l’impegno delle multinazionali a rispettare i diritti fondamentali dei lavoratori. Allo stesso modo, il progetto Ratcheting Labor Standards (RLS) mira ad incrementare le buone prassi dei datori di lavoro anche mediante “sanzioni da parte del mercato”. Altri progetti prefigurano forme di controllo della produzione per mezzo di informazioni dettagliate sui luoghi di provenienza delle merci e sulle condizioni di lavoro, o dell’”etichettatura sociale” dei prodotti, o, ancora, dell’esclusione dalle commesse pubbliche dei produttori di beni risultati al di sotto di determinati standard sotto il profilo del lavoro. Tutti questi piani e progetti dovrebbero migliorare le condizioni di lavoro, e sicuramente aiuteranno i giuristi nell’assunzione della nuova prospettiva di considerare il “diritto senza stato”. Compito, dunque, di chi si occuperà d’ora in poi di DCL sarà la ricerca e l’analisi delle differenze tra vecchi e nuovi regimi e tra sistemi di diritto del lavoro statali e non statali a scopo operativo-pragmatico – il che dovrebbe far nascere anche una nuova sintassi, una nuova grammatica e un nuovo vocabolario del comparativismo. Al di là dei fattori esogeni, ve ne sono anche di endogeni, afferenti la teoria legale e sociolegale, atti a modificare la prospettiva degli studisoi di DCL. Si tratta delle norme interne non statali, proprie di altre discipline, che alcuni studiosi hanno cominciato a mappare opportunamente: usi e consuetudini commerciali, procedure arbitrali e di conciliazione, accordi e contratti collettivi, manuali operativi, sanzioni informali, e così via. D’altronde, il diritto “ufficiale” non ha portato – spesso – ai risultati sperati, come nel caso delle legislazioni antidiscriminatorie e di quelle sugli standard di lavoro, delle convenzioni internazionali sui diritti fondamentali, delle dichiarazioni sull’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. La comparazione giuridica, così come anche l’approccio interdisciplinare, costituisce un esercizio di umiltà, in quanto porta a superare il “legocentrismo”; superamento, peraltro, non fine a se stesso, ma con un preciso obiettivo: quello di delineare le forze che modellano in concreto il diritto del lavoro. Tali forze non sono tanto le tradizioni giuridiche o la storia e la sociologia delle imprese e dei sindacati, quanto tutte quelle che, al contrario, destabilizzano le tradizioni, gli ordinamenti giuridici, le società stesse. E l’effetto da prendere in considerazione non è solo quello sul diritto del lavoro nazionale, perché quest’ultimo è inestricabilmente unito a, ed interdipendente da, ulteriori campi ed oggetti di studio. Il DCL ha ora davanti, in sostanza, una complessa sfida “a due facce”: considerare regimi giuridici sia statali che non statali, i primi plasmati dai secondi piuttosto che il contrario: ciò potrà comportare che l’analisi di DCL prenda le mosse da considerazioni politicoculturali-antropologiche prima che giuridiche. L’ottica “legocentrica”, invece, fa sì che si consideri il diritto come un qualunque bene pubblico, con una sua autonomia e predominanza su altri settori e discipline. Il nuovo approccio risentirà di una certa vischiosità applicativa, poichè il distacco dall’ottica precedente non sarà facile. Ma, a conferma della necessità di tale nuovo approccio, va aggiunto che sul piano delle regolamentazioni internazionali, appare ancora meno produttiva che in ambito nazionale la comparazione tra norme analoghe, in quanto a quel livello i testi, quando esistenti, sono spesso frammentari, vaghi e privi di forza cogente. In sostanza, il DCL va concepito come parte di un’analisi più generale sull’impatto sui vari sistemi dell’economia politica e della “governance” globale e regionale, attuata da enti come WTO, NAFTA, Unione Europea, e da movimenti di opinione pubblica, come, ad esempio, quelli che promuovono boicottaggi a favore dei lavoratori del Sud del mondo. Inoltre, il DCL dovrà occuparsi anche della comparazione interaziendale e intraziendale, stante la presenza di molti pseudo-ordinamenti giuridici interni alle imprese stesse, a carattere sia paralegislativo che paragiurisdizionale: si dovrà quindi indagare in modo approfondito il rapporto di tali “ordinamenti” con il contesto sociale e culturale esterno ed interno. Il DCL da porre in essere si prospetta quindi come parte dell’analisi di innumerevoli implicazioni politiche, economiche, sociali, culturali e psicologiche delle relazioni di lavoro. Nessun dubbio che tale nuovo DCL sia in ogni caso vero e proprio “diritto”, in quanto concerne la legalità; che riguardi senz’altro il “lavoro”, perchè tratta delle relazioni tra chi lavora e chi del lavoro si avvale; che infine sia “comparato”, dal momento che si basa sul porsi domande in merito alle alternative statali e non statali in termini di valori, percezioni, azioni e intese. Tutto ciò premesso, risulta impossibile essere giuristi del lavoro senza essere comparatisti; ed anzi bisognerebbe diventare “giuristi del lavoro senza frontiere” alla maniera dei “medici senza frontiere”: abili quindi a fornire soluzioni in situazioni di sconvolgimento e di conflitto, affrontando – come ogni buon giurista fa - il diritto nel suo proprio contesto...che però al presente è il contesto globale. Senza frontiere tutto diviene “contesto”, e in questo quadro il diritto scompare come tale: Aaron mostrava perciò, in fondo, di avere delle buone ragioni nella scelta di affrontare primariamente norme e istituzioni del diritto del lavoro nazionale piuttosto che il contesto, perchè per lui e per gli studiosi suoi colleghi il concetto di “contesto” era troppo vago, complesso e intrinsecamente legato alla storia, alla cultura e alla politica. Il destino del DCL sarà dunque determinato dalla capacità o meno, sul piano intellettuale, d’individuare un nuovo quadro di riferimento, di convogliare risorse, di reclutare talenti, onde svilupparlo, come sopra esposto, in tutta la necessaria ampiezza, profondità e complessità. A commento del saggio testé riassunto, voglio osservare che la migliore comprensione dei fenomeni esterni ai singoli diritti del lavoro nazionali - ottenuta mediante la corretta applicazione del DCL come dall’autore auspicata -, e soprettutto dei fenomeni strettamente connessi alla globalizzazione, può aiutare gli stati a trovare gli strumenti per recuperare in parte la sovranità perduta. A parere di chi scrive, infatti, è quantomeno preoccupante lasciare ambiti come quello del lavoro – ma non solo – in balia di forze esogene sulle quali sia minima la possibilità d’esercizio di un controllo. Troverei necessario che si pervenisse ad un nuovo equilibrio che comunque contemplasse i governi nazionali come interlocutori autorevoli sullo scenario mondiale – il che non appare così scontato, considerando gli attuali trend.