Rivista Accreditata AIDEA - Digital Magazine Maggioli

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Rivista
Accreditata
AIDEA
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Ambiti e missione della rivista Azienda Pubblica
Sono sempre più forti le esigenze di modernizzazione e di riforma delle amministrazioni
pubbliche e di tutti i soggetti che operano nell’interesse pubblico a seguito di stimoli derivanti
dai cambiamenti dei valori individuali e collettivi, dell’apertura della società e dei mercati,
della maggiore mobilità delle persone e dei beni, dell’innovazione tecnologica e delle forme
organizzative in cui si svolge l’attività sociale ed economica, dei media, ecc.
AZIENDA PUBBLICA si propone di contribuire a dare risposte a tali esigenze concentrando l’attenzione sulla migliore utilizzazione delle risorse economiche (dimensione
dell’efficienza), per dare risposte di alto livello qualitativo e quantitativo ai bisogni di singoli
cittadini, famiglie, imprese e altri corpi intermedi della società (dimensione dell’efficacia e
della funzionalità), della soddisfazione, mantenendo condizioni di equilibrio economico di
lungo periodo (dimensione dell’economicità). La Rivista intende farlo partendo dal profondo
convincimento che solo le persone sono in grado di promuovere e realizzare il cambiamento
sostanziale. I metodi, gli strumenti e le tecniche giuridiche, economiche, aziendali e manageriali esistono, sono anche molto affinati. Ma sono i valori, le conoscenze, le motivazioni,
i reali comportamenti delle persone che consentono un loro corretto uso con la finalità di
migliorare il benessere e la qualità di vita di comunità locali, nazionali, sovranazionali.
Occorre aumentare il numero delle persone per le quali esercitare una funzione e garantire i diritti significa acquisire la cultura del “servizio”, inteso sul piano dei valori e sul
piano dell’operatività e renderle maggioranza rispetto a quelle che ancora si richiamano
a modelli di amministrazione validi nel passato ma non più coerenti con i problemi posti
oggi dalla società o rispetto a quelle che difendono privilegi o interessi particolari. Una via
efficace per raggiungere questo obiettivo è quella di presentare ad amministratori di carica
politica, dirigenti, personale che opera in varie posizioni nel settore pubblico, risultati di
ricerche rigorose sul piano scientifico, rilevanti rispetto ai problemi quotidiani dei Lettori,
influenti in senso migliorativo sui processi decisionali e operativi.
Nella convinzione che non vi sia nulla di più pratico di una buona teoria, a condizione
che le teorie siano costruite sui fatti, Azienda Pubblica si caratterizza come una Rivista che
accoglie sia articoli di contenuto teorico che aiutino gli operatori a sistematizzare e a consolidare le proprie esperienze e competenze concrete, sia i risultati di ricerche empiriche
basate su rigorose metodologie quantitative e qualitative.
Una Rivista accademica capace di aprirsi e dialogare con decisori delle politiche,
manager e operatori del settore pubblico e dei settori privati che hanno fini di pubblico
interesse.
Tramite un rigoroso sistema di referaggio secondo gli standard internazionali, la Rivista
intende pubblicare contributi di alto valore scientifico che siano comprensibili da chi ogni
giorno deve far funzionare al meglio le istituzioni che garantiscono una società libera, in
cui siano rispettate le regole, tollerante nei confronti della multiculturalità e della molteplicità
di valori ed interessi, democratica in senso sostanziale.
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Azienda Pubblica
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Teoria ed esperienze di management
Rivista trimestrale
anno XXII
numero 4
ottobre • dicembre
2009
Sommario
Editoriale
Elio Borgonovi
Riforme, leggi e persone
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Saggi
Eugenio Anessi Pessina,
Mariafrancesca Sicilia,
Ileana Steccolini
Il progetto di riforma della contabilità pubblica:
quali implicazioni per il sistema
delle amministrazioni pubbliche?
585
Giovanni Valotti,
Nicola Bellé
Le riforme incompiute nel settore pubblico:
il disallineamento tra strategia e gestione
del personale nei Paesi Ocse. Un’agenda
di ricerca per il prossimo decennio
601
Alessandra Storlazzi
La gestione manageriale nelle amministrazioni
comunali
627
Esperienze innovative
Stefano Calciolari
Gestione della pubblica amministrazione basata
sui risultati: criticità, strumenti e prospettive
Mariannunziata Liguori
Dinamiche organizzative e cambiamento contabile:
un’analisi transnazionale 665
Cinzia Vallone
Il sistema di rendicontazione sociale nel settore
pubblico
645
685
Fonti di approfondimento
La pubblica amministrazione on line
709
Spoglio riviste
711
In libreria
713
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Editoriale
Riforme, leggi e persone
Elio Borgonovi
Il Presidente del Consiglio ha preannunciato e promesso che il 2010 sarà l’anno delle riforme
istituzionali, del sistema elettorale, della giustizia. Esse sono state comunque precedute nel
2009 da provvedimenti legislativi che configurano una riforma del sistema delle amministrazioni pubbliche, in particolare quelli riguardanti l’ottimizzazione della produttività del lavoro
pubblico e l'efficienza e la trasparenza delle pubbliche amministrazioni (riforma Brunetta), la
semplificazione legislativa e amministrativa (provvedimenti del Ministro Calderoli), l’introduzione
del federalismo (legge 42 che nel 2010 vedrà la predisposizione e la probabile approvazione
dei decreti delegati), il bilancio dello Stato e la legge di stabilità che modifica la legge 468 del
1978. L’analisi di questi provvedimenti richiede una premessa logica: le leggi, i decreti legge,
i decreti legislativi e altri provvedimenti normativi sono importanti perché modificano le regole,
ma le riforme possono dirsi realmente attuate solo se cambiano i comportamenti delle persone
chiamate ad applicare certe norme. In alcuni casi i cambiamenti sono automatici, come il prolungamento della validità delle carte di identità da 5 a 10 anni, per la cui applicazione basta
un timbro, ma spesso questo automatismo non esiste.
Partendo dall’analisi del decreto sulla produttività, l’efficienza, la trasparenza, la valutazione
del personale delle amministrazioni pubbliche, si possono fare le seguenti considerazioni. Dopo
gli interventi finalizzati a ridurre l’assenteismo adottati nel 2008 che, secondo il Ministro, hanno
portato a una drastica riduzione del fenomeno, ma secondo altri analisti avrebbero prodotto un
primo effetto molto positivo seguito poi da un “ritorno” del fenomeno sotto altre forme ha fatto
seguito il decreto dell’ottobre 2005, che contiene interessanti e positivi indirizzi. Innanzitutto la
grande attenzione posta sul tema della valutazione, con riguardo sia all’aspetto oggettivo che
a quello soggettivo. Con riferimento al primo viene esplicitato in modo dettagliato il ciclo delle
performance che ha inizio con la definizione degli obiettivi dell’amministrazione e si conclude
con la misurazione dei risultati effettivi, il confronto con gli obiettivi e la conseguente valutazione
sul grado di raggiungimento. Il decreto esplicita in modo dettagliato e puntuale i contenuti di
ogni fase, il che da un lato è positivo in quanto favorisce l’uniformità tra le varie amministrazioni,
dall’altro può far sorgere qualche perplessità. Il rischio, infatti, è quello di avere un’uniformità
formale con contenuti assai differenti. Sarà quindi compito dell’apposita Commissione centrale
“governare” il sistema in modo che il processo funzioni nel modo corretto. La Commissione
dovrà svolgere una funzione assai delicata che consiste nel dare indirizzi agli organismi di
valutazione di ogni amministrazione, nel favorire il trasferimento delle “migliori pratiche” e il
miglioramento complessivo del sistema. Va sottolineato che il compito della Commissione centrale non sarà agevole poiché il nodo cruciale non è quello dell’individuazione e applicazione
di metodi e tecniche di misurazione delle performance ma quello del rapporto tra politica e
amministrazione. Infatti, gli obiettivi devono essere definiti dagli organi politici mentre il loro
raggiungimento rientra nelle responsabilità dei dirigenti e, a cascata, di tutto il personale. Si
può facilmente prevedere che gli organismi politici tenderanno a definire obiettivi elevati per
motivi di consenso ed eserciteranno la loro influenza nella fase di rilevazione e valutazione dei
risultati per fare in modo che essi appaiano positivi. Qualsiasi sistema di misurazione consente
“margini di manovra” discrezionali sul piano tecnico che, anche senza cadere nella palese
manipolazione, possono essere utilizzati per dimostrare che gli obiettivi sono stati raggiunti e
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che vi è stato un miglioramento dell’efficacia degli interventi.
Viene così introdotto l’aspetto soggettivo che riguarda i Nuclei di valutazione. In effetti, il
decreto 150 fa sorgere qualche dubbio interpretativo poiché, dopo aver richiamato esplicitamente
le nuove funzioni del Nucleo di valutazione, negli articoli 12 e 14 usa le denominazione “organismo di valutazione”. Chi scrive ritiene che l’uso di una denominazione differente negli articoli
specifici sia dovuta alla volontà di sottolineare l’ampliamento delle funzioni e quindi intenda
dare risalto alla “discontinuità” rispetto al passato. Viene ribadito il principio dell’indipendenza
dell’organismo di valutazione e paradossalmente questo richiamo solleva una riflessione. Come
può essere indipendente un organismo i cui componenti sono nominati dall’organismo politico?
Ancora una volta il problema ritorna alla qualità delle persone che dovranno essere nominate.
Esse, oltre a una professionalità dimostrata dal Curriculum Vitae, dovranno essere dotati di valori
tali da renderli indipendenti da coloro che li hanno nominati. Si parla molto della necessità di
una cultura bipartisan in politica per attuare le riforme strutturali di cui ha bisogno il Paese: si
dovrebbe parlare anche della necessità di rafforzare una cultura della funzionalità delle amministrazioni pubbliche che sia bipartisan, ossia autonoma e non condizionata dalle “affinità
politiche” o dall’appartenenza alle diverse scuole di pensiero in campo manageriale e degli
studi aziendali e sulla gestione. Si sottolinea, in particolare, l’esigenza di elaborare, diffondere
e rafforzare una cultura dell’amministrazione pubblica che eviti i tre rischi principali:
a) quello di un “management e di una valutazione giuridica” che considera l’applicazione
formale delle norme sull’ottimizzazione, la produttività, l’efficacia, l’efficienza e l’economicità
condizione necessaria e sufficiente per conseguire il miglioramento;
b) quello del “management scientifico” o “tecnicismo del management e della valutazione”
secondo il quale la soluzione del problema sta nell’applicazione di tecniche sofisticate, supportate anche dalle moderne tecnologie;
c) quello del “management e della valutazione di importazione”, secondo cui nelle amministrazioni pubbliche è sufficiente applicare i sistemi importati dal privato, da amministrazioni pubbliche
di altri Paesi, dalle esperienze di altre amministrazioni italiane considerate all’avanguardia.
Anche nei settori privati è ormai accettato il principio che “copiare le soluzioni”, come è stato in
passato per il successo del Giappone e come è ancor oggi per i Paesi a basso costo del lavoro,
non è la soluzione per la competitività e il successo. Le imprese che si sono salvate, e anzi si sono
rafforzate nel periodo della crisi, sono state quelle innovative e creative sul piano dei prodotti e
servizi, dell’organizzazione, dei sistemi di valutazione dei risultati, del riconoscimento del merito e
della professionalità, della motivazione del personale. Allo stesso modo, le amministrazioni pubbliche che potranno trarre vantaggi dall’applicazione del decreto 150 saranno quelle capaci di far
tesoro delle esperienze di altri, imprese private o altre amministrazioni per “costruire soluzioni su
misura” per la propria realtà. Ad esempio, in amministrazioni nelle quali i dirigenti e il personale
hanno già forti competenze “verticali” cioè relative agli specifici settori di intervento, il sistema di
valutazione dovrà essere impostato in modo di dare maggiore peso agli obiettivi e ai risultati di
tipo “trasversale”, ossia che coinvolgono più settori e che richiedono il rafforzamento dei sistemi
di coordinamento e di collaborazione. Al contrario, in amministrazioni nelle quali sono deboli le
competenze relative ai singoli settori di intervento, maggiore peso dovrà essere attribuito a obiettivi
e a risultati specifici di ogni settore. In alcune amministrazioni sarà necessario finalizzare i sistemi
di valutazione alla razionalizzazione e al recupero di produttività ed efficienza della gestione
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corrente mentre in altre si dovrà dare maggiore peso a obiettivi di innovazione e di progettazione di nuove attività. In alcune il sistema di valutazione potrà essere usato per rompere logiche
di gestione “burocratica e gerarchica”, mentre in altre il sistema potrà essere utilizzato per dare
spazio e far progredire più velocemente persone dotate di “alto potenziale”.
Questi brevi richiami consentono di formulare alcune considerazioni che, si spera, potranno
essere utili per l’azione della Commissione centrale. Essa avrà un compito difficile perché dovrà
essere in grado di “gestire le differenze”. Più specificamente, essa è chiamata a dare forza ai
principi della riforma e, in particolare, al principio della valutazione ma dovrà evitare il rischio
di voler imporre uniformità e standardizzazione di metodi e di tecniche che contrastano con una
realtà che è caratterizzata dalle differenze. Qualora gli organismi di valutazione di ogni amministrazione e la Commissione centrale volessero applicare metodi, tecniche e processi non coerenti
con le specifiche realtà e senza tener conto dei rapporti di forza reali tra coloro che sono favorevoli
al cambiamento, coloro che sono esplicitamente contrari, coloro che sono favorevoli a parole e
contrari nei comportamenti reali, coloro che sono demotivati e quindi sostanzialmente indifferenti,
ci si potrebbe trovare di fronte a situazioni che il compianto Prof. Alfredo Guarini descriveva con
le seguenti parole: “La burocrazia è come una rigida parete mobile (concetto assai diverso da
flessibile) che si sposta quando vi sono pressioni ma ritorna al suo posto appena le pressioni cessano o diventano meno forti”. Rapportate all’attuale realtà, queste parole vanno interpretate nel
senso che nella fase iniziale potrebbero essere ottenuti risultati positivi con riguardo alle finalità
del decreto che però potrebbero essere vanificati in tempi successivi.
Al riguardo si richiama l’attenzione su alcuni aspetti che possono destare perplessità:
a) l’indicazione secondo cui gli organismi di valutazione sostituiscono gli organi di controllo
interno e svolgono anche funzioni di controllo strategico;
b) l’indicazione secondo cui le amministrazioni e, per esse gli organismi di valutazione,
devono predisporre piani dettagliati degli obiettivi e delle performance da sottoporre alla
Commissione centrale;
c) l’eccessivo dettaglio e, si permetta un giudizio di merito, troppo scolastico con cui si
definisce l’efficienza.
è realistico pensare che un organismo esterno possa sostituire il servizio di controllo interno?
Per definire gli obiettivi di valutazione in termini più sostanziali e significativi rispetto a quelli
del Peg (Piano esecutivo di gestione) e per raccogliere i dati per le misurazioni e le valutazioni
occorrono uffici e persone a ciò dedicate. Se si vuol dire che le valutazioni sono date dall’organismo indipendente e non da un servizio interno, l’indicazione può essere accettata. Ma occorre
essere chiari: per avere una valutazione efficace occorre rafforzare, non eliminare, i servizi di
controllo interno che raccolgono dati, li elaborano sulla base degli indirizzi dell’organismo di
valutazione. Sul secondo punto le perplessità nascono dalle considerazioni di quanto avviene
nei grandi e articolati “gruppi” di imprese. Agli Headquarters, ossia alle capogruppo, vengono
inviate da parte delle diverse sedi o consociate dei vari Paesi o che operano in vari settori. Si
ritengono più funzionali informazioni di sintesi, con un numero limitato di indici. Analogamente
si ritiene che alla Commissione centrale dovrebbero essere inviate solo informazioni essenziali
sulla realtà e sui livelli di qualità, efficacia, efficienza, economicità delle diverse amministrazioni
e sui processi di valutazione dei dirigenti e del personale. Il rischio per la Commissione è quello
di essere sommersa da montagne di carta o da montagne di file (quando si applicheranno le
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norme sulla digitalizzazione) difficili da interpretare o da confrontare. Si potranno anche definire
format omogenei per la comunicazione e si potranno anche effettuare confronti, ma se i dati
forniti non possono essere verificati (perché sono troppi) e non saranno omogenei, le analisi e
i confronti saranno poco significativi.
Sul dettaglio con cui è definito il concetto di efficienza, l’auspicio è che la Commissione
centrale e gli organismi di valutazione la interpretino facendo un esercizio di semplificazione.
Semplificazione che è esplicitamente richiamata nella delega al Ministro Calderoli (Ministero
per le riforme e la semplificazione amministrativa). Numerosi sono stati i provvedimenti che
hanno eliminato certificazioni, autorizzazioni, permessi o che hanno prolungato la validità di
documenti di vario genere. Questi interventi sono finalizzati a rendere più facili i rapporti dei
cittadini con le amministrazioni pubbliche e ad agevolare la costituzione di imprese e l’avvio
di attività produttive necessarie per sostenere e consolidare la ripresa economica e l’attrazione
di capitali dall’estero. Tra queste ultime si segnalano le semplificazioni delle procedure per il
rientro dei capitali (scudo fiscale), quelle per le assicurazioni alle esportazioni tramite la SACE
(società pubblica che assicura i crediti di imprese italiane esportatrici), il più rapido accesso
delle piccole e medie imprese al credito agevolato, le procedure per l’accesso ai finanziamenti
per la ricerca applicata (semplificazione che, in effetti, è più arretrata rispetto agli altri ambiti
sopra ricordati). Si ricorda che è stato preannunciato e programmato un ulteriore rilevante “salto
di qualità” nel processo di semplificazione che dovrebbe essere ottenuto con il progetto di “digitalizzazione” delle amministrazioni pubbliche che consentirà l’accesso da casa ai documenti
e di ottenere servizi a domicilio. Non vi è alcun dubbio che sul piano delle conoscenze e delle
tecnologie oggi le condizioni sono più favorevoli rispetto ai due precedenti piani di e-government
lanciati dal 2001, ma, affinché si passi dalla enunciazione e dalla emanazione di indirizzi
alla realizzazione, sono necessari la disponibilità di risorse per effettuare gli investimenti tecnologici richiesti e, soprattutto, l’aggiornamento professionale e la formazione manageriale del
personale che dovrà gestire l’amministrazione digitalizzata. A sostegno delle difficoltà sopra
ricordate, si segnalano i siti internet e i portali di amministrazioni pubbliche nei quali è difficile
trovare le informazioni necessarie e che spesso sono poco accessibili o non sono aggiornati.
Ciò nonostante indirizzi normativi sulla trasparenza delle amministrazioni pubbliche che si sono
susseguiti a partire dalla legge 241/1990 ad oggi.
Tra l’altro, oggi solo il 35-40% degli enti è dotato di siti e quindi occorre colmare anche il
gap relativo al rispetto dell’obbligo della trasparenza ribadito dal decreto 150.
I temi della produttività, funzionalità e digitalizzazione, sono strettamente collegati a quello
del federalismo introdotto con la legge 42 del 5 maggio 2009. Infatti, la suddetta normativa,
obbligatoria per le amministrazioni centrali, è facoltativa per le amministrazioni locali che
tenderanno ad accentuare ancor di più la propria autonomia quando il federalismo diventerà
operativo con l’approvazione dei decreti delegati. Rinviando a un successivo editoriale un più
approfondito esame del nuovo assetto istituzionale, si ritiene opportuno richiamare due contenuti
rilevanti del federalismo fiscale. Il primo riguarda il sistema di responsabilizzazione delle Regioni
e degli enti locali. Esso è definito dagli indirizzi contenuti nella legge secondo cui il “fabbisogno
finanziario” degli enti per le funzioni proprie e delegate dovrà essere calcolato “sulla base
di prestazioni standard e di costi standard”. Il fabbisogno, così determinato, sarà coperto da
tributi autonomi e da altre fonti proprie di Regioni ed enti locali e da trasferimenti statali che
dovranno diminuire progressivamente nel tempo e ai quali è attribuita prevalentemente la funzione perequativa. La finalità dichiarata è quella di porre tutti gli enti nelle stesse condizioni e
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di attivare processi di “emulazione” delle amministrazioni meno efficienti nei confronti di quelle
più efficienti. Emulazione che dovrebbe indurre gli organi politici ad assumere decisioni “di
governo” maggiormente conformi alle reali esigenze delle proprie comunità di riferimento e gli
“organi di amministrazione” a perseguire un più razionale uso delle risorse. Peraltro i concetti
di prestazioni e di costi standard non sono oggettivi, ma dipendono da diverse interpretazioni
che di essi vengono dati nelle teorie e nella pratica contabile.
Anche per l’applicazione di questi concetti è essenziale la qualità delle persone, sia di quelle
che faranno parte delle diverse Commissioni cui spetterà il compito di definire quale accezione di
prestazioni e costi standard accogliere, sia di quelle che nelle diverse amministrazioni avranno
il compito di misurare le prestazioni e di determinare i costi. Le prestazioni e i costi standard,
infatti, possono essere quelli della Regione o dell’ente locale per ogni tipologia (Comune, Provincia) più efficiente, oppure di un gruppo selezionato di tali enti (ad esempio media dei 4-5 più
efficienti), una determinata percentuale sopra la media nazionale (esempio 5% oppure 10%).
La percentuale di recupero che si intende stimolare può essere più elevata per gli enti meno
efficienti per i quali esiste, almeno sul piano teorico, maggiore spazio di miglioramento e via via
meno elevata per gli enti considerati più efficienti. Chi conosce la realtà delle amministrazioni
pubbliche sa bene che il concetto di costo standard non può essere applicato non essendovi
sistemi contabili di natura economico-patrimoniale e che, di conseguenza, si dovrà applicare il
concetto di spesa standard. Ritornando alla criticità delle persone, è facile prevedere che, se non
saranno adottate politiche e interventi per elevare le conoscenze, competenze, capacità, stimoli
e incentivi per i politici a “definire migliori indirizzi” e per i dirigenti e il personale a “trovare le
migliori soluzioni” amministrative, organizzative e gestionali per dare attuazione agli indirizzi,
il federalismo fiscale determinerà non un avvicinamento delle diverse realtà ma una progressiva
divaricazione che porrà problemi di sostenibilità sociale e politica.
Viene così introdotto il secondo nodo critico del federalismo, quello della sua natura “solidale”. Questo principio pone l’esigenza di definire il livello di “trasferimento di risorse” dagli
enti con più elevata capacità contributiva a quelli con minore capacità di raccogliere risorse
proprie tramite l’imposizione e pone anche il problema dell’accettabilità delle politiche di trasferimento da parte delle popolazioni che contribuiscono maggiormente al gettito fiscale. Se la
progressiva attuazione del federalismo non sarà accompagnata dalla diffusione nella società
e, quindi, nelle persone di forti valori di sussidiarietà e di solidarietà istituzionale, sarà difficile
per i partiti resistere alla tentazione di seguire spinte localistiche. Una più elevata produttività
ed efficienza amministrativa è condizione rilevante per attuare un federalismo nel quale siano
premiate le differenze positive (adattamento dell’azione amministrativa ai bisogni locali) e siano
progressivamente ridotte le differenze negative (della qualità delle scelte politiche e dell’efficienza
amministrativa). A loro volta, scelte istituzionali, finanziarie e politiche guidate dal principio di
federalismo “solidale” sono condizione essenziale per superare il divario tra Regioni ed enti più
sviluppati e quelli meno sviluppati, per cercare di superare, anche sul piano della funzionalità
delle amministrazioni pubbliche, lo storico divario tra Nord e Sud del Paese. La storica “questione
meridionale” e la più recente “questione settentrionale”, ossia di liberare le Regioni del Nord
ma in generale anche alcune realtà progredite del Centro-Sud dal freno determinato dalle realtà
meno progredite, devono essere affrontate congiuntamente e contestualmente.
L’analisi del “quadrifoglio” (benaugurante, secondo le credenze popolari) di riforme già
avviate, si completa con sintetici richiami del nuovo sistema di bilancio dello Stato. Della nuova
legge si possono apprezzare i principi guida, quali il coordinamento e l’armonizzazione delle
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rilevazioni tra i diversi livelli di governo e con l’Unione europea, la pianificazione e il controllo
della spesa, il governo unitario della finanza pubblica, l'aggregazione delle unità elementari
di bilancio e la riduzione del loro numero, il riferimento delle rilevazioni contabili alle missioni
e ai programmi degli enti, la riconferma e il rafforzamento dei vincoli di copertura della spesa
(ex comma 4 dell’art. 81 della Costituzione), la creazione di una banca dati dei bilanci delle
amministrazioni pubbliche (che dovrebbero consentire analisi comparative per “tipologie” non
solo riferite alla natura giuridica ma, ad esempio, alle dimensioni), l'enfasi sulla valutazione
delle performance.
Tre sono, tuttavia, gli aspetti di perplessità che emergono immediatamente. Il primo riguarda il previsto passaggio al sistema di cassa che, se non sarà accompagnato da misure
di forte rigore nell’assunzione di obblighi di spesa a monte, rischia di rendere più debole (e
non più forte) il rispetto della copertura della spesa. Questo sistema, se non applicato in modo
fisiologico, consente di scaricare sui governi e sulle generazioni future situazioni di elevata
rigidità della spesa. Il secondo riguarda i principi di coordinamento e armonizzazione. Essi
non dovranno essere interpretati come schemi rigidi di bilancio poiché ciò sarebbe in conflitto,
quando il sistema dovesse estendersi agli enti locali come previsto da un comma specifico della
legge, con le norme sul federalismo e sull’autonomia e anche con l’altro principio della legge
contabile, quello del riferimento a missioni e programmi che non possono essere identici e perfettamente sovrapponibili per enti di diverse classi e dimensioni. Il terzo riguarda la valutazione
delle performance che è solo parzialmente raccordata con le norme previste dal decreto 150
e che, comunque, appare maggiormente focalizzata su indicatori finanziari e su controlli di
tipo tradizionale. Infine, si ritiene opportuno evidenziare che la nuova normativa sulla legge di
stabilità e di bilancio dello Stato appare fortemente influenzata dalla finalità di programmazione
e di controllo della compatibilità macroeconomica di cassa (dei paganti) e meno attenta alla
funzione delle rilevazioni preventive, concomitanti e consuntive quale strumento di controllo di
gestione. Sarà opportuno che la Ragioneria generale dello Stato, la Corte dei conti promuovano con università, scuole di formazione e organismi tecnico-professionali intensi programmi
di formazione affinché, nell’applicazione della legge, siano salvaguardati i contenuti positivi e
siano “corretti con la flessibilità consentita dall’interpretazione della norma” i contenuti meno
positivi e che potrebbero ostacolare il processo di rinnovamento delle amministrazioni statali.
Peraltro, nella ricordata prospettiva di estensione di questa normativa alle Regioni e agli enti
locali, è auspicabile che anche il Coordinamento delle Regioni, l’Anci e la Lega dei Comuni,
l’Upi e gli altri organismi rappresentativi degli enti locali aumentino il numero e la qualità di
analoghe iniziative di formazione del personale, iniziando dai principi già ora applicabili quali
la determinazione dei costi per centro di responsabilità, l’introduzione di indicatori di risultati
economici, finanziari e patrimoniali, indicatori di qualità delle prestazioni correlabili ai costi.
Le sintetiche considerazioni svolte hanno lo scopo di ricordare, ammesso che ve ne sia
bisogno, che se sono in numero limitato le persone che parteciperanno all’elaborazione e
all’approvazione delle riforme, molto numerose saranno le persone chiamate ad applicarle.
Sarebbe illusorio, anzi, irresponsabile, pensare e sperare che esse siano in grado di applicarle
nel modo corretto ed efficace. Chi si affida prevalentemente alle norme per promuovere processi
di cambiamento non solo rischia di restare deluso, ma potrebbe contribuire a determinare cambiamenti non desiderati e peggiorativi. D’altra parte, chi si affida alle persone deve ricordare
che l’interiorizzazione del cambiamento è un processo difficile che va sostenuto con politiche
finalizzate, specie quando sono richiesti tempi brevi.
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La riforma della contabilità pubblica
Il progetto di riforma della contabilità pubblica:
quali implicazioni per il sistema
delle amministrazioni pubbliche?
Eugenio Anessi Pessina
Professore ordinario, Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e direttore del Centro Studi, ricerche
e Formazione sulle politiche, l'economia e il management in Sanità
Mariafrancesca Sicilia
Assegnista di ricerca, Università Bocconi
Ileana Steccolini
Professore associato, Università Bocconi e direttore dell’Area Public Management and Policy, SDA Bocconi, Milano
Sommario: 1. Introduzione. 2. I sistemi contabili delle aziende pubbliche in Italia: uno sguardo d’insieme. 3. Il d.d.l. C.
2555. 4. Introduzione di schemi e classificazioni omogenee. 5. L’adozione di principi contabili comuni. 6. L’eliminazione
degli sfasamenti temporali fra i processi di programmazione e rendicontazione delle diverse classi di aziende pubbliche.
7. L’allineamento della base contabile. 8. Il consolidamento dei bilanci. 9. Conclusioni.
L’articolo discute le implicazioni che il disegno di legge di riforma della contabilità e della finanza
pubblica (d.d.l. C. 2555) potrà avere sui sistemi contabili del complesso delle aziende pubbliche.
In particolare, si approfondiscono i seguenti aspetti: introduzione di modelli omogenei dei prospetti
contabili di sintesi, adozione di principi contabili comuni, eliminazione degli sfasamenti temporali
fra i processi di programmazione e rendicontazione delle diverse aziende del settore pubblico,
allineamento della base contabile delle aziende pubbliche, bilancio consolidato.
The article discusses the implications of the government accounting reform bill (d.d.l. C. 2555)
on the accounting systems of Italian public entities. The following issues are specifically analysed:
introduction of common formats and classifications for budgets and reports; adoption of common
accounting standards; elimination of time discrepancies in budgeting and reporting by different levels
of government; harmonisation of the bases of accounting; consolidated financial statements.
Rispetto al momento della stesura del presente articolo, il d.d.l. 2555 è stato approvato ed è divenuto legge (l. 196
del 31 dicembre 2009). Le considerazioni sviluppate nell’articolo restano comunque valide.
Il lavoro è frutto dell’opera congiunta degli autori; in particolare, E. Anessi Pessina ha redatto i §§ 1, 4, 5 e 6,
M. Sicilia ha redatto i §§ 2 e 3 e I. Steccolini i §§ 7, 8 e 9.
Parole chiave: riforme – contabilità pubblica – armonizzazione
Key words: riforms – public sector accounting – harmonization
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La riforma della contabilità pubblica
1. Introduzione
Negli ultimi venti anni lo Stato, gli altri istituti pubblici territoriali, gli enti
pubblici non economici, le imprese pubbliche e le aziende sanitarie sono
stati interessati da significative riforme di natura contabile. Di recente, il
disegno di legge di riforma della contabilità e della finanza pubblica,
approvato dal Senato il 24 giugno 2009 e attualmente in discussione alla
Camera (d.d.l. C. 2555), ha prefigurato ulteriori modifiche normative, con
implicazioni rilevanti per i sistemi contabili del complesso delle amministrazioni pubbliche.
L’articolo si propone di discutere tali implicazioni. Il § 2 descrive sinteticamente i sistemi contabili delle aziende pubbliche in Italia. Il § 3 si sofferma sui contenuti della legge delega che riguardano l’armonizzazione dei
sistemi contabili delle aziende pubbliche. I paragrafi successivi discutono
i punti critici dell’armonizzazione: l’introduzione di modelli omogenei dei
prospetti contabili di sintesi e le conseguenti scelte in merito alla classificazione delle voci di bilancio (§ 4); l’adozione di principi contabili comuni (§
5); l’eliminazione degli sfasamenti temporali fra i processi di programmazione e rendicontazione delle diverse aziende del settore pubblico (§ 6);
l’allineamento della base contabile delle aziende pubbliche (§ 7); il bilancio
consolidato (§ 8). Infine, nel § 9 si traggono alcune conclusioni.
2. I sistemi contabili delle aziende pubbliche in Italia: uno
sguardo d’insieme
L’analisi critica dell’attuale proposta di riforma non può prescindere da una
rapida presentazione delle più recenti riforme.
Il sistema contabile dello Stato è stato significativamente rinnovato
dalla l. 94/1997 e dal d.lgs. 279/1997. In osservanza del principio di
separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di
gestione, sancito dal d.lgs. 29/1993, è stata prevista la predisposizione
di due versioni del bilancio: il bilancio politico e il bilancio amministrativogestionale. Il bilancio a configurazione politico-strategica è redatto ai fini
dell’approvazione da parte del Parlamento. Esso esprime le funzioni di
indirizzo generale, di autorizzazione e di controllo e presenta una struttura
più aggregata: le voci di entrata e di spesa (1) sono infatti articolate per
unità previsionali di base (UPB), che rappresentano “l’insieme organico delle
risorse finanziarie affidate alla gestione di un unico centro di responsabilità
amministrativa”, cui fa capo un dirigente o un funzionario in grado di as1 Le spese, oltre ad essere ripartite in UPB, sono aggregate anche in funzioni obiettivo. L’art.
4 della legge 94/1997 afferma che le funzioni obiettivo dovrebbero essere identificate “con
riguardo all’esigenza di definire le politiche pubbliche di settore e di misurare il prodotto delle attività amministrative, ove possibile anche in termini di servizi finali ai cittadini”. A partire
dal 2000 le funzioni obiettivo per esigenze di coordinamento a livello europeo sono state ricondotte alla classificazione COFOG (Classification of the functions of Government).
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sumersi responsabilità. Il bilancio con funzione amministrativa e gestionale
è più analitico in quanto redatto per “capitoli” e rappresenta lo strumento
di programmazione operativa della gestione ai fini di un’analitica esplicitazione dell’attività dell’amministrazione attuata sotto la guida dell’esecutivo
e di misurazione, in sede di rendiconto, dei risultati effettivi. La riforma si è
altresì espressa sui processi di formazione del bilancio, censurando il metodo “incrementale” e promuovendo una valutazione ex-ante degli obiettivi
da raggiungere, delle funzioni da svolgere, degli strumenti e delle politiche
da utilizzare. Inoltre, al fine di consentire una valutazione dei risultati di
gestione raggiunti rispetto agli obiettivi assegnati, il legislatore ha previsto
di affiancare al sistema di contabilità finanziaria un sistema di contabilità
analitica per centri di costo. Più recentemente, in risposta agli stimoli del
Fondo monetario internazionale – Dipartimento affari fiscali (2007), il
Governo italiano ha introdotto una nuova classificazione del bilancio in
missioni e programmi di spesa (RGS, 2007).
Anche le Regioni, dopo l’approvazione del d.lgs. 76/2000, hanno
iniziato a produrre un bilancio politico per funzioni-obiettivo e UPB e un
bilancio amministrativo-gestionale per capitoli, sulla base di un processo di
programmazione che può avvalersi di una legge finanziaria regionale.
I sistemi contabili degli enti locali sono stati riformati dal d.lgs. 77/1995,
poi integrato nel Tuel. Rispetto alla precedente tradizione, il d.lgs. 77 ha
introdotto alcune significative innovazioni. A preventivo, spiccano l’obbligo di redazione del bilancio solo in termini di competenza finanziaria e
non più anche di cassa, nonché la distinzione (poi, come visto, estesa alle
altre classi di aziende pubbliche) tra il bilancio di previsione con natura
politica, oggetto di approvazione da parte del Consiglio, e il bilancio
gestionale (Piano esecutivo di gestione – Peg), con finalità di regolazione
dei rapporti tra l’organo politico esecutivo e i responsabili dei servizi e di
delega del potere di spesa. A consuntivo, particolare rilievo assume l’introduzione di un sistema parzialmente duale, con l’obbligo di redazione
non solo del conto del bilancio, ma anche del conto economico, del conto
del patrimonio e del prospetto di riconciliazione tra valori finanziari ed
economico-patrimoniali.
I sistemi contabili degli enti pubblici non economici sono stati regolamentati con il d.P.R. 97/2003. Il sistema delineato per questa tipologia di
aziende pubbliche è anch’esso duale, in quanto impone la compresenza
della contabilità finanziaria e della contabilità economico-patrimoniale.
A differenza degli enti locali, tra l’altro, anche il bilancio di previsione si
compone sia di un preventivo finanziario sia di un preventivo economico. Il
preventivo finanziario si distingue in «decisionale» e «gestionale», il primo
articolato in UPB, il secondo in capitoli. A consuntivo, oltre al conto del
bilancio, è prevista la redazione del conto economico, dello stato patrimoniale e della nota integrativa.
Le aziende sanitarie pubbliche hanno invece abbandonato la contabilità finanziaria per quella economico-patrimoniale (d.lgs. 502/1992),
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seppur solo dopo una lunga transizione e un periodo in cui la legge stessa
manteneva «in via provvisoria» la coesistenza dei due sistemi. A seguito
dell’enfasi data alle prerogative regionali in materia sanitaria, spetta alle
singole Regioni la definizione delle regole contabili, sebbene si specifichi
che tali regole devono essere «informate ai princìpi di cui al codice civile».
A preventivo vige l’obbligo di redigere un bilancio economico annuale e uno
pluriennale, a cui si affianca un budget gestionale. In fase di rendicontazione
viene predisposto un bilancio d’esercizio articolato in conto economico,
stato patrimoniale e nota integrativa.
Le imprese pubbliche, infine, hanno prevalentemente assunto forme giuridiche privatistiche, trasformandosi in società di capitali e quindi adottando
la contabilità economico-patrimoniale come disciplinata dal codice civile.
3. Il d.d.l. C. 2555
Nella versione attuale, il d.d.l. di riforma della contabilità e della finanza
pubblica si pone in sostanziale continuità rispetto alle riforme adottate negli
anni precedenti. La sua finalità principale è di adeguare il contesto normativo di governo della finanza pubblica al mutato assetto costituzionale dei
rapporti tra Stato ed enti territoriali e ai vincoli di bilancio derivanti dall’ordinamento comunitario, nonché di introdurre strumenti di pianificazione e
controllo della spesa finalizzati a contenerne l’espansione.
In particolare, i temi affrontati comprendono:
− l’armonizzazione dei sistemi contabili. Il d.d.l. delega il Governo a
emanare uno o più decreti legislativi per l’armonizzazione dei sistemi contabili delle amministrazioni pubbliche tramite l’adozione di un unico piano
dei conti integrato e di schemi di bilancio comuni, nonché l’istituzione del
Comitato per i principi contabili delle amministrazioni pubbliche;
− il ciclo e gli strumenti della programmazione. Il d.d.l. prevede che la
programmazione finanziaria dello Stato si articoli su un periodo almeno
triennale e si fondi sui seguenti strumenti: relazione sull’economia e la
finanza pubblica, decisione di finanza pubblica (sostitutiva del DPEF),
disegno di legge di stabilità (ex disegno di legge finanziaria), disegno di
legge di bilancio, provvedimenti collegati e aggiornamento del programma
di stabilità;
− il coordinamento della finanza pubblica, ovvero le modalità di coinvolgimento dei diversi livelli di governo nell’elaborazione degli obiettivi
programmatici;
− l’articolazione del bilancio. Il d.d.l. recepisce le innovazioni apportate
al bilancio nel corso degli ultimi due anni (per esempio, la nuova classificazione per missioni e programmi) e delega il Governo al completamento
della riforma;
− la definizione della base contabile. Il d.d.l. ribadisce la centralità
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della contabilità finanziaria; prevede per fini conoscitivi l’introduzione della
contabilità economico-patrimoniale; prospetta il graduale passaggio a un
sistema autorizzativo fondato sul solo principio di cassa;
− il monitoraggio e il controllo dei conti pubblici. Il d.d.l. prevede nuove
misure volte a rafforzare il controllo sulla spesa e sugli andamenti di finanza
pubblica, tra cui l’istituzione di una Commissione parlamentare per la trasparenza dei conti pubblici, l’attribuzione di nuove funzioni alla Ragioneria
generale dello Stato, il principio dell’accesso da parte delle Camere a tutte
le banche dati rilevanti per la finanza pubblica, l’istituzione della banca
dati unitaria per le amministrazioni pubbliche;
− l’adozione di un sistema per la valutazione delle performance. Il
d.d.l. introduce nuove disposizioni in materia di analisi e valutazione della
spesa; incoraggia la definizione e il monitoraggio di indicatori di performance per ciascuna amministrazione, finalizzati alla valutazione ex post
del conseguimento degli obiettivi; introduce una delega per la riforma del
sistema dei controlli;
− la tesoreria e la programmazione dei flussi di cassa. Il d.d.l. valorizza
l’utilizzo di strumenti di previsione dei flussi di cassa.
Il d.d.l. si focalizza su struttura, contenuti e processi del bilancio dello
Stato. Tuttavia, esso potrà avere significative implicazioni sui sistemi contabili e la finanza di tutte le aziende pubbliche, con particolare riferimento
alle problematiche riguardanti l’armonizzazione. Infatti, il d.d.l. delega il
Governo ad adottare, entro un anno dalla sua entrata in vigore, uno o più
decreti legislativi per l’armonizzazione dei sistemi contabili, degli schemi
di bilancio, dei termini di presentazione e approvazione dei bilanci delle
amministrazioni pubbliche in funzione delle complessive esigenze di programmazione, gestione e rendicontazione della finanza pubblica.
I decreti legislativi dovranno essere emanati nel rispetto di alcuni principi
e criteri direttivi, tra cui: (i) l’adozione di regole contabili uniformi e di un
comune piano dei conti integrato, al fine di consentire il consolidamento e
il monitoraggio in fase di previsione, gestione e rendicontazione dei conti
delle amministrazioni pubbliche; (ii) la definizione di una «tassonomia
delle procedure di trasformazione» dei dati contabili e di bilancio delle
amministrazioni pubbliche tenute al regime di contabilità civilistica; (iii)
l’adozione di comuni schemi di bilancio, articolati in missioni e programmi
e coerenti con la classificazione economica e funzionale individuata dagli
appositi regolamenti comunitari in materia di contabilità nazionale e relativi conti satellite, al fine di rendere più trasparenti e significative le voci di
bilancio dirette all’attuazione delle politiche pubbliche; (iv) l’adozione di
un sistema unico di codifica dei singoli provvedimenti di spesa correlati alle
voci di spesa riportate nei bilanci; (v) l’affiancamento al sistema di contabilità finanziaria, in via sperimentale e per fini conoscitivi, di un sistema e
di schemi di contabilità economico-patrimoniale che si ispirino a comuni
criteri di contabilizzazione; (vi) l’adozione di un bilancio consolidato delle
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amministrazioni pubbliche con le proprie aziende, società o altri organismi
controllati.
La ricerca dell’armonizzazione contabile riflette i processi in atto a
livello internazionale, che riguardano sia il mondo delle imprese sia quello
delle aziende pubbliche. Tali processi stanno investendo, infatti: (i) i sistemi
contabili delle imprese di paesi diversi (adozione dei principi contabili
internazionali, ma anche convergenza tra principi contabili internazionali
e statunitensi: cfr. per esempio Bullen e Crook, 2005); (ii) i sistemi contabili
delle imprese e delle amministrazioni pubbliche (principalmente tramite
l’adozione da parte di numerose amministrazioni pubbliche della contabilità economico-patrimoniale e dei principi contabili internazionali per il
settore pubblico); (iii) i sistemi contabili delle amministrazioni pubbliche di
Paesi diversi; (iv) i sistemi contabili delle amministrazioni pubbliche dello
stesso Paese.
Come evidenziato nel § 2, in Italia opera una pluralità di enti con
sistemi gestionali, amministrativi e contabili differenziati. Indubbiamente,
sorge quindi l’esigenza di creare le condizioni tecniche e operative per
rafforzare il dialogo tra tali enti. In particolare, emerge la necessità di un
linguaggio contabile condiviso anche in ottica di consolidamento dei conti
pubblici. D’altra parte, fino a dove si possa spingere tale condivisione è
questione da valutare con grande attenzione. Infatti, le differenze nei sistemi amministrativo-contabili riflettono spesso effettive differenze nei sistemi
di finanziamento, nella natura dell’attività svolta, nelle consuetudini, nella
rete di relazioni che fanno capo alle varie aziende pubbliche: in sintesi, nei
fabbisogni propri di ciascuna azienda o classe di aziende. Una completa
uniformazione dei sistemi contabili rischia di trascurare tali specificità e
di tradursi in una riduzione della trasparenza e dell’efficacia dei sistemi
contabili e dei documenti di bilancio. Alla luce della terminologia utilizzata
dal d.d.l., che parla di «armonizzazione», «regole contabili uniformi», «comune piano dei conti», occorre dunque una riflessione più approfondita su
cosa vada uniformato, cosa più modestamente armonizzato, cosa lasciato
all’autonomia delle singole aziende. A tal fine, i punti critici sono plurimi:
(i) l’introduzione di modelli omogenei dei prospetti contabili di sintesi e le
conseguenti scelte in merito alla classificazione delle voci di bilancio; (ii)
l’adozione di principi contabili comuni; (iii) l’eliminazione degli sfasamenti
temporali fra i processi di programmazione e rendicontazione delle diverse
aziende del settore pubblico; (iv) l’allineamento della base contabile delle
aziende pubbliche, indipendentemente dal loro livello istituzionale, anche in
ottica di consolidamento. Mentre i primi tre punti sono indicati direttamente
fra i principi di riferimento ai fini dell’armonizzazione, l’ultimo aspetto è
affrontato solo indirettamente dal d.d.l., che sul tema pare rimanere ancora
ambiguo. I paragrafi successivi si propongono di sviluppare alcune riflessioni
su ciascun tema.
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4. Introduzione di schemi e classificazioni omogenee
Nel d.d.l., l’armonizzazione contabile pare richiedere un comune piano
dei conti e comuni schemi di bilancio. In proposito, si deve rilevare che
il concetto di «comune» andrebbe inteso non come riferimento rigido ed
esaustivo, ma piuttosto come definizione di un modello «minimo» uguale e
obbligatorio per tutti, fatta salva la possibilità per ciascun ente di introdurre
liberamente ulteriori disaggregazioni e/o classificazioni parallele per tener
conto delle proprie specificità ed esigenze informative.
Più specificamente, per quanto riguarda i criteri di classificazione delle
voci, l’art. 2, comma 2, lettera c del d.d.l. prevede un’articolazione del
bilancio «per missioni e programmi». Questa nuova classificazione, peraltro
già introdotta nel bilancio dello Stato (cfr. § 2), riflette un importante sforzo
di aggregazione, nella prospettiva della semplificazione, del collegamento
con priorità, obiettivi e linee d’azione dell’ente, dell’accrescimento della
flessibilità di gestione. D’altra parte, essa pone almeno due problemi. Il
primo problema concerne i confronti temporali all’interno del medesimo
ente. Al cambiare dei programmi politici, cambierebbe anche l’articolazione del bilancio (per una testimonianza internazionale si veda Carlin,
2006). Seppur sicuramente influenzata dalle scelte politiche, invece, l’attività delle amministrazioni pubbliche è «stabilmente» classificabile in base
alle funzioni svolte dal settore pubblico (si veda per esempio la Cofog (2)).
Sarebbe quindi importante assicurare una maggiore stabilità nella forma di
classificazione ancorandola, più che ai programmi, alle funzioni. Il secondo
problema concerne i confronti tra enti diversi, dove l’eterogeneità di missioni
e programmi è ineludibile: a maggior ragione, l’ancoraggio alle funzioni
tutelerebbe la comparabilità.
Queste considerazioni, peraltro, perdono parte della loro rilevanza
laddove le missioni (i) siano costruite per trovare applicazione in tutte le
classi di amministrazioni pubbliche e, come peraltro già segnalato sul sito
della RGS,(3) (ii) siano pensate come stabili nel tempo («grandi finalità –
n. 34 Missioni –, che vengono perseguite indipendentemente dall’azione
politica contingente e hanno, dunque, un respiro di lungo periodo, ossia di
configurazione istituzionale permanente»).
Resta il fatto che i termini «missione» e soprattutto «programma» richiamano
le specificità di un determinato ente in un determinato momento, mentre il
2 La Cofog è una classificazione delle funzioni di governo, articolata su tre livelli gerarchici (rispettivamente denominati Divisioni, Gruppi e Classi), che si propone tra l’altro di consentire una valutazione omogenea delle attività svolte dalle Pubbliche Amministrazioni nei diversi Paesi ed è già utilizzata in sede di consolidamento dei conti pubblici italiani. In Italia,
la Cofog rappresenta inoltre la base per la «classificazione funzionale per funzioni obiettivo», che si articola in tre ulteriori livelli: gli elementi del quarto livello sono denominati Missioni Istituzionali, quelli del quinto e del sesto livello Servizi. Per ulteriori dettagli e approfondimenti si rimanda al sito:
http://unstats.un.org/unsd/cr/registry/regcst.asp?Cl=4.
3 Per ulteriori approfondimenti si rimanda al sito: http://www.rgs.mef.gov.it/VERSIONE-I/Bilancio-d/Le-Missioni.doc_cvt.asp.
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termine «funzione» dà più il senso dell’uniformità (Anthony, Young, 1992). In
conclusione, si potrebbe probabilmente prevedere una classificazione uniforme
per grandi «funzioni», stabili nello spazio e nel tempo, applicabili a tutte le
classi di amministrazioni pubbliche (eventualmente con valori nulli per alcune
funzioni in determinate classi di enti) e ancorate a riferimenti internazionali.
Si potrebbe poi lasciare ai singoli enti la specificazione delle funzioni in
programmi che rispecchino le priorità politiche dell’ente e del momento.
5. L’adozione di principi contabili comuni
In aggiunta a un sistema di classificazione comune, il d.d.l. sostiene la
necessità di regole contabili uniformi. Nel linguaggio contabile, tradizionalmente, le regole tecniche di rilevazione e rappresentazione delle singole
poste contabili sono costituite dai «principi contabili».
Attualmente, le diverse classi di aziende pubbliche italiane adottano
regole contabili diverse, definite in norme specifiche e integrate con documenti ad hoc (per esempio, i principi contabili redatti dall’Osservatorio sulla
finanza e la contabilità degli enti locali). Un tentativo di uniformazione delle
regole contabili è rinvenibile nel «Manuale dei principi e regole contabili
del sistema unico di contabilità economica delle pubbliche amministrazioni»
(d.m. 22 aprile 2004 e successive edizioni, cfr. RGS 2008), che però è più
orientato alle rilevazioni analitiche che a quelle di contabilità generale.
A fronte di questo panorama estremamente frammentato, il d.d.l. prevede
la costituzione di un Comitato per i principi contabili delle amministrazioni
pubbliche. La complessità della situazione richiede estrema cautela nel
definire sia la composizione del Comitato, sia le sue modalità di lavoro.
Infatti, sarà necessario evitare l’esclusione di alcuni portatori di interesse, già
evidenziatasi nei lavori di commissioni precedenti; occorrerà, al contrario,
dare la giusta rappresentanza alle diverse categorie di stakeholder. Ciò,
inoltre, dovrebbe valere non solo al momento della costituzione dell’organo,
ma anche successivamente, mediante apposite fasi di pubblicizzazione delle
bozze dei principi, di raccolta dei commenti, di esplicita sistematizzazione e
valutazione dei commenti stessi, prima di giungere alla statuizione definitiva.
Nel corso dei lavori, infine, il Comitato dovrà tenere in dovuta considerazione le specificità delle amministrazioni pubbliche rispetto alle imprese,
le peculiarità delle diverse tipologie di aziende pubbliche, le evoluzioni in
corso a livello internazionale. Da ciò scaturiranno alcune scelte critiche. In
particolare, il Comitato dovrà assumere una posizione rispetto alla base
contabile di riferimento (cfr. § 7). Dovrà inoltre chiarire come si pongano i
principi contabili da definire rispetto a quelli esistenti per le diverse classi
di amministrazioni pubbliche italiane, a quelli nazionali per le imprese, a
quelli internazionali per le imprese e per il settore pubblico.
A quest’ultimo riguardo, come è noto, per le imprese stanno assumendo
crescente rilevanza i Principi contabili internazionali (IAS/IFRS) elaborati
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dallo IASB (International Accounting Standards Board). Ciò soprattutto per
la decisione dell’Unione europea di imporre alle società quotate l’utilizzo
degli IAS/IFRS nella redazione del bilancio consolidato, nonché di stabilire
che i singoli Stati membri possano consentire o prescrivere alle società di
impiegare tali principi anche per la redazione dei loro conti annuali.
Quanto ai principi contabili internazionali per il settore pubblico, l’IPSASB
(International Public Sector Accounting Standards Board) ha emanato finora
più di venti Ipsas (International Public Sector Accounting Standard) relativi
alla contabilità economico-patrimoniale, oltre a uno standard specifico per
la contabilità a base finanziaria. Benché ancora fortemente ispirati agli IAS/
IFRS, in una logica di adattamento spesso marginale alla realtà pubblica
(Ellwood, 2003; Chan, 2004)(4), gli Ipsas rappresentano un primo tentativo
sistematico di accrescere la qualità e l’armonizzazione dei sistemi informativo contabili, del reporting e dell’auditing nel settore pubblico. Recentemente
l’IPSASB, in risposta alla critica di scarsa considerazione delle peculiarità del
settore pubblico, ha pubblicato la prima bozza di un framework concettuale
di riferimento specifico per tale settore (IPSASB, 2008). In termini prospettici,
un ulteriore problema da affrontare sarà quello di capire come realizzare
l’armonizzazione contabile senza perdere di vista le specificità delle diverse
tipologie di enti pubblici (Barton, 1999; Carnegie, West, 2003). Presumibilmente sarà necessario definire dei principi molto generali applicabili a
tutte le aziende pubbliche, per poi formulare regole più specifiche per classi
di enti, secondo tassonomie ancora da identificare.
Nel frattempo, un passaggio importante nella promozione degli Ipsas
è stata la loro adozione da parte della Commissione europea, la quale
ha così dato un’indicazione chiara nel senso dell’armonizzazione e della
trasparenza dell’informativa contabile, legittimando il ricorso agli Ipsas da
parte delle amministrazioni pubbliche di tutti i Paesi aderenti all’Unione.
6. L’eliminazione degli sfasamenti temporali fra i processi
di programmazione e rendicontazione delle diverse classi di
aziende pubbliche
La crescente attenzione verso l’armonizzazione pone in evidenza anche un
problema di tempistica nella presentazione e approvazione dei documenti
preventivi e consuntivi.
A preventivo, particolarmente critico è il sistematico slittamento dei termini
di approvazione dei bilanci degli enti locali, che tipicamente completano
il proprio iter quando è già trascorso almeno un quarto (se non un terzo)
4 Del resto, i rischi di un processo di definizione dei principi contabili che non poggi su un’adeguata riflessione circa le specificità delle aziende pubbliche erano già stati segnalati più di
venticinque anni fa da Mautz (1981, p. 60): «My major concern is that some authorized body
might commence the issuance of governmental accounting standards without giving adequate consideration to the important differences between business and governmental entities and
between the interests in each. Minimum progress would result».
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dell’anno cui si riferiscono. La necessità di «coordinamento della finanza
pubblica» nell’ambito del federalismo, tra l’altro, rischia di acuire la difficoltà
di fornire agli enti locali un quadro normativo di riferimento certo in tempi utili
ad assicurare l’approvazione dei preventivi prima che inizi l’esercizio.
A consuntivo, occorrerebbe invece valutare la possibilità di anticipare i
tempi della rendicontazione, anche in virtù delle opportunità concesse dalle
tecnologie informatiche, per offrire ai decisori una base più tempestiva su
cui avviare il nuovo ciclo di programmazione. A quest’ultimo riguardo, è
significativo che, nel d.d.l., il primo «strumento della programmazione» per
l’anno successivo (la Relazione sull’economia e la finanza pubblica) vada
presentato «alle Camere entro il 15 aprile di ogni anno»; che la relazione
al d.d.l. nella versione del Senato spieghi che tale Relazione «aggiorna le
previsioni (macroeconomiche e di finanza pubblica) per l’anno in corso alla
luce dei consuntivi e della manovra approvata nell’anno precedente»; che
tuttavia il Ministro dell’economia e delle finanze continui a dover presentare il rendiconto alle Camere solo «entro il mese di giugno». A maggior
ragione, pare anacronistico mantenere al 30/6 il termine di approvazione
dei bilanci degli enti locali.
7. L’allineamento della base contabile
Il d.d.l. non affronta in modo diretto l’armonizzazione della base contabile,
focalizzandosi solo sulla necessità di schemi di bilancio e principi contabili
uniformi. Indirettamente, però, contiene una serie di disposizioni in materia,
che possono influire anche sul processo di armonizzazione. Purtroppo, peraltro, nemmeno questa legge di riforma sembra assumere una posizione
chiara, lasciando immutato il panorama frammentario descritto nei paragrafi
precedenti.
In particolare, il d.d.l. prevede l’affiancamento alla contabilità finanziaria
«di un sistema e di schemi di contabilità economico-patrimoniale» per «fini
conoscitivi» (art. 2/2/d; art. 43/2/l). D’altra parte, però, giunge addirittura a
ipotizzare un sistema di sola cassa, almeno per fini autorizzativi (art. 43/2/h).
Il d.d.l. entra anche nel dettaglio di alcuni documenti di contabilità economica
che dovrebbero essere elaborati: il budget economico, che riporta «i costi
sostenuti […] distinti per programmi e per centri di costo» (art. 22/9/e); il
prospetto di riconciliazione, «che collega le risultanze economiche con quelle
della gestione finanziaria delle spese contenute nel conto del bilancio» (art.
37/5); il conto del patrimonio, che comprende «le attività e le passività finanziarie e patrimoniali con le variazioni derivanti dalla gestione del bilancio e
quelle verificatesi per qualsiasi altra causa; la dimostrazione dei vari punti
di concordanza tra la contabilità di bilancio e quella patrimoniale». Infine,
il d.d.l. riconosce che alcune aziende pubbliche sono «tenute al regime di
contabilità civilistica» (art. 2/2/b) e ne prevede la «riclassificazione [...] dei
dati contabili e di bilancio [...] mediante la definizione e la classificazione
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della tassonomia delle procedure di trasformazione e trasferimento dei dati,
dalla contabilità economica a quella finanziaria e viceversa».
Complessivamente, questo approccio sembra confermare un’«indecisione» del legislatore che si trascina ormai da quasi vent’anni. Come detto,
il panorama delle amministrazioni pubbliche presenta sistemi contabili
estremamente diversificati, che vanno dalla sola contabilità economica per
le imprese pubbliche e le aziende sanitarie alla sola contabilità finanziaria
per le Regioni. A ciò si aggiunge un’ulteriore complicazione, costituita dalla
presenza, in alcune realtà, di sistemi «duali» di contabilità finanziaria ed
economica (come per gli enti locali e gli enti pubblici non economici). Inoltre,
il d.lgs. 77/1995 ha riaperto il dibattito sull’opportunità, nell’ambito della
contabilità finanziaria, di predisporre il bilancio preventivo sia per cassa
che per competenza finanziaria, optando solo per la seconda. Il d.d.l.,
lungi dal prendere una posizione che semplifichi l’attuale situazione, pare
riconfermare una posizione di compromesso, che apparentemente ricerca i
benefici di entrambe le basi contabili (finanziaria ed economica), ma nella
pratica può rendere più complessa l’armonizzazione e più gravoso il carico
amministrativo degli enti, a fronte di vantaggi dubbi.
L’esperienza internazionale (Jaruga, Novak, 1995; Jones, Lüder, 1996;
Guthrie, 1998; Mauland, Mellemvik, 1999; Anthony, 2000; IFAC-PSC,
2000; OECD, 2002; Paulsson, 2006) e quella italiana (Steccolini, 2004;
Buccoliero et al., 2005; Nasi, Steccolini, 2008; Anessi Pessina, Steccolini,
2001, 2007a, 2007b) sembrano infatti indicare che la compresenza dei
documenti di contabilità finanziaria ed economico-patrimoniale non rappresenti una soluzione efficace, ma al contrario rifletta un compromesso
insoddisfacente. Più specificamente, quando i due sistemi contabili vengono
affiancati, quello di contabilità economico-patrimoniale, essendo meno conosciuto e meno integrato nei tradizionali processi decisionali, non viene
utilizzato, è spesso inattendibile, genera confusione e incremento dei carichi
di lavoro. D’altra parte la contabilità economico-patrimoniale, laddove abbia
sostituito la contabilità finanziaria e sia stata opportunamente adattata, ha
dimostrato una versatilità che ne consente un’utile applicazione anche al
contesto delle amministrazioni pubbliche.
In proposito, si deve anche osservare come permanga un’idea semplicistica della contabilità economico-patrimoniale come «contabilità d’impresa».
In realtà, nel confronto con la contabilità finanziaria, quella economicopatrimoniale presenta indubbi vantaggi sul piano conoscitivo, offrendo una
maggiore ricchezza di informazioni. Per farla attecchire è però necessario
che diventi il sistema utilizzato non solo per rendicontare la situazione
economica, patrimoniale e finanziaria dell’azienda pubblica, ma anche
per programmare, attribuire finanziamenti, autorizzare e responsabilizzare
sull’impiego delle risorse, collegare le risorse ai risultati da raggiungere.
Nel medio periodo, quindi, è possibile prefigurare una transizione
dell’intero sistema pubblico alla contabilità economico-patrimoniale. Tale transizione potrebbe tra l’altro risultare agevolata dal prospettato passaggio ad
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autorizzazioni di sola cassa, visto che la contabilità di cassa, a differenza di
quella per competenza finanziaria, è di fatto un sottosistema della contabilità
economico patrimoniale. La transizione potrà però avvenire solo nel rispetto di
tre fondamentali condizioni: la definizione di un quadro concettuale specifico
per le aziende pubbliche (peraltro già in corso, come detto, in sede IPSASB);
l’identificazione di modalità con cui replicare e/o sostituire la funzione autorizzativa della contabilità finanziaria (Anessi Pessina, 2007); un progetto
di sperimentazione graduale presso gli enti pubblici delle diverse classi per
verificare sul campo tutte le problematiche concettuali e operative.
8. Il consolidamento dei bilanci
Un’importante novità contenuta nel d.d.l. (art. 2/2/e) è l’«adozione di un
bilancio consolidato delle amministrazioni pubbliche con le proprie aziende,
società o altri organismi controllati, secondo uno schema tipo definito dal
Ministro dell’economia e delle finanze d’intesa con i Ministri interessati e
la Conferenza unificata [...]».
Questa accezione del concetto di consolidamento differisce da quella più
tradizionale di «consolidamento dei conti pubblici», comunque rafforzata
a seguito dell’adesione del nostro Paese all’Unione monetaria europea e
destinata a trarre forti benefici da una maggiore armonizzazione dei sistemi
contabili pubblici. Ciò cui il d.d.l. fa riferimento è un’accezione di carattere più aziendale, ossia la rappresentazione della situazione economica,
patrimoniale e finanziaria di un «aggregato stabile di aziende, pertinenti
a soggetti giuridici diversi, ma rette per un unitario soggetto economico»
(Beretta, 1990:1).
Il tema dei «gruppi pubblici» e dei relativi bilanci consolidati sta acquisendo sempre maggiore rilevanza anche nella letteratura italiana. Già
Zappa e Marcantonio (1954, p. 130), in verità, osservavano la diffusione
delle «aziende pubbliche statali» e specificamente delle «società statali per
azioni», segnalando l’opportunità che «nei bilanci venissero messi in particolare evidenza i complessi rapporti tra le aziende del gruppo economico
statale». Il tema ha successivamente acquisito ulteriore rilevanza con la
riforma delle autonomie locali operata dalla l. 142/1990 (Garlatti, 1994;
Valotti, 1994; Anselmi, 1995; 2001) e con la prassi di affidare ad aziende
controllate lo svolgimento di un’ampia gamma di attività.
I benefici di un bilancio consolidato sarebbero indubbiamente significativi. Esso infatti risponde a una duplice finalità: quella di governo del
gruppo pubblico e quella di comunicazione e accountability nei confronti
dell’esterno (Grossi, Steccolini, 2008). A quest’ultimo riguardo, è ragionevole supporre che per la collettività sia rilevante non tanto la performance
del singolo istituto pubblico territoriale, quanto la performance complessiva
dell’istituto territoriale e dell’insieme di aziende che vi fanno capo (Heald,
Georgiou, 1995; Mellor, 1996).
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Nello stesso tempo, è ancora una volta indispensabile assicurare alcune condizioni di fattibilità. Sul piano tecnico, vanno definiti dei principi
di consolidamento, a partire dai criteri per la definizione del perimetro di
consolidamento (tema critico contro cui si sono scontrati anche gli Ipsas).
Per gli enti locali, un principio contabile sul consolidamento è da circa due
anni in discussione presso l’Osservatorio per la finanza e la contabilità.
Sul piano pratico, occorre superare almeno le seguenti difficoltà (Grossi,
Steccolini, 2008): eterogeneità tra i sistemi contabili dell’ente pubblico
controllante e delle aziende controllate; differenze nei criteri di valutazione/principi contabili adottati dai vari soggetti da consolidare; gestione
dei rapporti tra capogruppo e controllate; necessità di sviluppare ulteriori
competenze di elaborazione, interpretazione, impiego del consolidato nella
realtà dell’ente pubblico.
Una prima condizione necessaria per la redazione dei bilanci consolidati
dovrebbe essere la presenza, nell’ente pubblico, di un sistema di contabilità economico-patrimoniale tenuta in modo sistematico. Si noti, peraltro,
come proprio la necessità di redazione di un bilancio consolidato possa
rappresentare un incentivo al ripensamento del ruolo, finora marginale,
della contabilità economica. In alternativa, si renderebbero necessari processi di traduzione dai dati finanziari a quelli a base economica, che però
possono rivelarsi macchinosi e non necessariamente efficaci nel produrre
dati affidabili.
Se si considerano i soggetti da consolidare, inoltre, è necessario rilevare l’esistenza di possibili differenze tra gli schemi di bilancio, i criteri di
valutazione, i principi contabili di riferimento. Ciò richiede uno sforzo di
«traduzione» dei linguaggi contabili delle singole aziende e di convergenza
verso il «linguaggio comune» costituito dal consolidato. è importante, però,
che la ricerca di uno schema concettuale comune non significhi accoglimento
acritico e predominio di un paradigma (quello «privatistico») su un altro
(quello pubblico).
Si deve poi rilevare che, se alcuni gruppi pubblici si caratterizzano per
relazioni frequenti e costruttive fra ente controllante e aziende partecipate/
erogatori dei servizi, i rapporti fra questi soggetti sono spesso contraddistinti
da un certo grado di diffidenza, da contatti sporadici e scarsa collaborazione. Non è possibile concepire un processo di consolidamento in assenza
di una profonda cooperazione e integrazione fra chi opera nell’ente pubblico e chi opera nei soggetti partecipati. In alcuni casi, peraltro, proprio
il consolidato può rappresentare l’occasione per attivare una concreta e
fattiva collaborazione.
Infine, il nodo forse più critico riguarda la sostanziale assenza, in molte
realtà pubbliche, delle competenze necessarie per avviare un processo
di implementazione (e impiego consapevole) del bilancio consolidato sia
perché esse si sono sviluppate tradizionalmente nel campo della contabilità
finanziaria sia perché il consolidato è uno strumento nuovo per il contesto
pubblico.
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9. Conclusioni
Il disegno di legge in discussione alla Camera (d.d.l. C. 2555) interviene
principalmente sul bilancio dello Stato, ma comporta implicazioni rilevanti
per i sistemi contabili di tutte le amministrazioni pubbliche.
Nel complesso, il testo offre una serie di spunti interessanti per il rinnovamento e l’armonizzazione dei sistemi contabili pubblici. A tali spunti
occorrerà però dare seguito lungo almeno due direttrici.
La prima direttrice consiste nel ricercare un equilibrio soddisfacente tra
esigenze legittime, ma contrastanti e quindi impossibili da perseguire appieno. In particolare, si dovrà formulare un orientamento più chiaro sulla base
contabile a cui tendere nel medio periodo. Si dovrà inoltre raggiungere un
compromesso soddisfacente tra le peculiarità delle singole aziende pubbliche e l’esigenza che il sistema contabile soddisfi i loro specifici fabbisogni
da un lato, la necessità di avere documenti e regole contabili omogenee
dall’altro.
La seconda direttrice consiste nel testare concretamente, ma su scala
limitata le soluzioni proposte per verificarne la fattibilità, affinarne le caratteristiche, valutarne le implicazioni ed eventualmente deciderne l’adozione
generalizzata. Sembra, quindi, opportuno attendersi che il legislatore
non agisca solo tramite innovazioni normative, ma autorizzi l’avvio di
sperimentazioni e progetti pilota che forniscano indicazioni in tal senso,
consentendo di superare la fase di impasse che stanno vivendo i sistemi
contabili pubblici.
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Gestione strategica del capitale umano
Le riforme incompiute nel settore pubblico: il disallineamento tra strategia
e gestione del personale nei Paesi Ocse.
Un’agenda di ricerca per il prossimo decennio
Giovanni Valotti
Professore ordinario, presso il Dipartimento di Analisi Istituzionale e Management Pubblico dell’Università Bocconi
Nicola Bellé
Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Analisi Istituzionale e Management Pubblico dell’Università Bocconi
Sommario: 1. Introduzione. 2. Lo stato dell’arte della letteratura sullo SHRM. 3. Il disallineamento tra strategia
e politiche del personale nelle organizzazioni pubbliche. 4. Un’agenda di ricerca per il prossimo decennio.
Il disallineamento tra strategia e gestione del capitale umano ha neutralizzato, o quantomeno depotenziato, la rivoluzione manageriale nel settore pubblico. Per ricomporre la frattura,
è necessario che lo human resource management (HRM) assurga a funzione strategica. In
quest’ottica, l’articolo traccia lo stato dell’arte in tema di strategic human resource management (SHRM) nel settore pubblico e propone un’agenda di ricerca per il prossimo decennio.
The disconnect between strategy and human capital management has hollowed out – or hindered,
at least – the managerial revolution in the public sector. Transforming human resource management
(HRM) into a strategic function is the only way to heal the fracture. In this perspective, we review
the literature on strategic human resource management (SHRM) in the public sector and propose a
research agenda for the next decade.
Parole chiave: strategic human resource management – politiche del personale
– capitale umano
Key words: strategic human resource management – human resource management
– human capital
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Gestione strategica del capitale umano
1. Introduzione
La riforma del settore pubblico è da decenni una priorità assoluta nelle agende
dei Paesi industrializzati. “Creating a government that works better, costs less,
and gets results” è diventato il mantra della rivoluzione neo-manageriale che,
negli ultimi trenta anni, ha investito organizzazioni governative e istituzioni
internazionali. Le riforme hanno ridefinito la missione delle burocrazie pubbliche. In molti casi, tuttavia, a tale discontinuità strategica non è seguito il
cambiamento gestionale annunciato. Da qui, un settore pubblico costellato
di organizzazioni in stallo, perennemente “a metà del guado”, vittime del
conflitto irrisolto tra strategie evolute e pratiche obsolete.
Secondo una parte prevalente della letteratura, il parziale fallimento delle
riforme neo-manageriali sarebbe da imputarsi a un’inadeguata implementazione di logiche e strumenti in sé potenzialmente efficaci (Ongaro, Valotti,
2008). Secondo altri, l’implementation gap è una spiegazione quantomeno
parziale (Perry, 2009). Profonde differenze istituzionali tra organizzazioni
pubbliche e private depotenzierebbero, nelle prime, strumenti manageriali
efficaci nelle seconde: “Institutional differences between the public and
private sectors may be the source of these problems and may be more
fundamental constraints on success” (Perry et al., 2009, p. 45).
Il cortocircuito tra strategia e politiche del personale è senza dubbio una
delle principali cause del parziale fallimento della rivoluzione neo-manageriale. Il disallineamento tra intenti strategici e gestione del capitale umano ha
paralizzato i tentativi di riforma in molte organizzazioni pubbliche (Ingraham,
Rubaii-Barrett, 2007). Per ricomporre la frattura, è necessario che lo human
resource management (HRM) assurga a funzione strategica. Questa esigenza emerge in modo netto in letteratura ed è costantemente confermata dalle
indicazioni dei professional (Bowen, Galang, Rajnandini, 2002).
L’evoluzione strategica delle politiche del personale è un fenomeno consolidato nelle organizzazioni evolute, pubbliche e private (Barney, Wright,
1998): “The role of the people management function in both the public
and private sector is changing, moving away from the traditional model of
personnel management to strategic HRM” (Teo, Rodwell, 2007, p. 267). La
transizione dalla mera amministrazione del personale alla gestione strategica
del capitale umano percorre due direttrici. Da un lato, i manager delle risorse
umane sono coinvolti nel processo di formulazione delle strategie. Dall’altro,
la gestione operativa del personale è decentrata ai manager di linea.
Comprendere le determinanti del disallineamento tra strategia e politiche del personale nelle organizzazioni pubbliche e proporre soluzioni per
rimuoverle sono sfide ormai ineludibili per gli studiosi di public management.
In quest’ottica, l’articolo traccia lo stato dell’arte in tema di strategic human
resource management (SHRM) nel settore pubblico e propone un’agenda
di ricerca per il prossimo decennio.
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2. Lo stato dell’arte della letteratura sullo SHRM
Boxall, Purcell e Wright (2007) suddividono gli studi sullo HRM in due filoni: il micro human resource management (MHRM) e lo SHRM. Il MHRM, a
sua volta, si articola in due sotto-aree: (i) la gestione di individui e piccoli
gruppi e (ii) l’organizzazione del lavoro. La prima sotto-area comprende le
attività relative al ciclo di gestione del personale: analisi del fabbisogno di
competenze, reclutamento, selezione, inquadramento, formazione, valutazione, retribuzione, carriera e uscita. L’organizzazione del lavoro include
i sistemi di employee voice e le relazioni sindacali.
Lo SHRM attiene, invece, all’elaborazione e implementazione delle
strategie complessive di gestione del capitale umano di un’organizzazione,
nonché alla valutazione d’impatto delle politiche del personale sulla performance. Secondo Dyer e Holder (1988), “To manage strategically means that
traditional HR objectives such as turnover or performance are superseded by
organization-wide goals designed to complement a specific business strategy”
(p. 1). Wright e McMahan (1992) propongono la seguente definizione di
SHRM: “the pattern of planned human resource deployments and activities
intended to enable an organization to achieve its goals” (p. 298). Ingraham e
Rubaii e Barrett (2007) indicano questo secondo filone quale priorità assoluta
nell’agenda degli studi di HRM per il prossimo decennio.
L’evoluzione della letteratura sullo HRM ha prodotto una progressiva divaricazione tra dimensione micro/operativa e dimensione strategica. Questa tendenza
si è tradotta, sul piano terminologico, nella differenziazione tra “amministrazione
del personale” e “gestione delle risorse umane”. Secondo Perry (1993), si tratta
di una distinzione “intended to differentiate between conceptions of human
resource management as functionally or administratively-oriented activities as
opposed to integrated or strategy-driven activities” (p. 59).
L’evoluzione strategica della gestione del personale è parte di un più
ampio processo di rinnovamento dei modelli organizzativi lungo traiettorie
ormai consolidate:
• diffusione del potere verso la periferia organizzativa, a unità autonome
responsabilizzate su risultati specifici (Barzelay, 1992; Osbome, Gaebler,
1992);
• sviluppo delle adocrazie (Peters, Waterman, 1982; Peters, 1987;
Reich, 1987);
• coordinamento attraverso meccanismi di mutuo aggiustamento
(Mintzberg, 1983);
• ricomposizione della divisione interna del lavoro attraverso l’integrazione verticale e orizzontale delle aree di responsabilità;
• maggiore autonomia manageriale e spazio per l’imprenditorialità;
• crescente consapevolezza e attenzione al costo della regolamentazione
organizzativa (Perry, 1993);
• appiattimento delle gerarchie per avvicinare l’utenza.
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Gestione strategica del capitale umano
L’approccio strategico alla gestione delle risorse umane ha origine negli
anni ’20 dalla convergenza di due filoni di ricerca finanziati da imprenditori
illuminati: gli studi di economia del lavoro e di relazioni industriali di John
Commons, da un lato, e la Scuola delle relazioni umane di Helton Mayo,
dall’altro (Kaufman, 2001). L’introduzione dell’espressione “risorse umane”
è in se stessa emblematica di un salto culturale: a fronte dell’evoluzione dei
modelli industriali e delle metodologie produttive, la forza lavoro diventa
una risorsa strategica non perfettamente fungibile.
Secondo Teo e Rodwell (2007), l’evoluzione strategica delle politiche
del personale nel settore pubblico è una condizione necessaria per implementare le linee guida delle riforme neo-manageriali: “(1) enhancing
management discretion in personnel management; (2) increasing the flexibility and responsiveness of PPM (public personnel management) systems;
(3) improving public sector performance; and (4) adopting private-sector
staffing techniques” (Hays, Kearney, 2001, p. 586).
La letteratura sullo SHRM si articola in otto filoni di ricerca (Le Grand,
2009; Lengnick, Hall et al., 2009): la prospettiva contingente; lo studio delle
politiche del personale come fonte di contributi strategici per la creazione
di vantaggio competitivo; lo studio della struttura e delle componenti dei
sistemi HRM; la prospettiva inter-organizzativa e internazionale; lo studio
degli aspetti di implementazione; le metodologie di misurazione degli outcome dei sistemi SHRM; l’approccio motivazionale; lo studio degli aspetti
metodologici connessi alla ricerca in tema di SHRM.
Come creare il fit tra strategia e HRM? La prospettiva contingente classica,
che ha dominato la fase embrionale degli studi sullo SHRM, fornisce una risposta
prescrittiva e unidirezionale: la strategia aziendale deve plasmare le politiche
del personale. Nel 1984, Miles e Snow distinguono quattro prototipi strategici
– i Difensori, gli Esploratori, gli Analisti e i Reattori – ai quali suggeriscono di
applicare quattro distinte tipologie di HRM. Secondo la stessa logica, Schuler
e Jackson (1987) identificano tre strategie organizzative – riduzione dei costi,
miglioramento della qualità e innovazione – e per ciascuna individuano (i) un
comportamento di ruolo ottimale da parte degli operatori e (ii) politiche del
personale strumentali a indurre il comportamento desiderato. Si tratta del primo
contributo ascrivibile al filone dello SHRM comportamentale.
Nel tempo, il filone contingente ha avuto un’evoluzione sistemica lungo
due direttrici: (i) lo studio della relazione bidirezionale tra strategia e HRM
e (ii) la valutazione della coerenza dinamica tra ambiente e politiche del
personale. Sul primo fronte, Lengnick-Hall e Lengnick-Hall (1988) identificano l’incoerenza tra strategia generale e strategia del personale quale
potenziale fonte di flessibilità: se un perfetto fit è desiderabile in situazioni
di stabilità, incoerenze temporanee sono necessarie per fronteggiare i momenti di transizione e turbolenza. Per primi evidenziano la bi-direzionalità
della relazione tra strategia e politiche del personale. Baird e Meshoulam
(1988) scindono i concetti di coerenza esterna – i.e., tra strategia generale
e politiche del personale – e coerenza interna – i.e., tra i diversi strumenti
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HRM; nello stesso articolo, pongono per primi il tema dell’evoluzione della
coerenza esterna lungo il ciclo di vita delle organizzazioni.
L’evoluzione sistemica degli studi SHRM lungo la seconda direttrice –
i.e., la valutazione della coerenza dinamica tra ambiente e politiche del
personale – si sviluppa a partire dagli anni ’90. Jackson, Schuler e Rivero
(1989) dimostrano empiricamente l’esistenza di una relazione tra contesto
organizzativo e politiche del personale: queste ultime non variano solo tra organizzazioni diverse, ma all’interno della medesima azienda esiste una molteplicità di sottosistemi HRM. Un articolo di Milliman, Von Glinow e Nathan
del 1991 applica la visione contingente alle organizzazioni internazionali,
proponendo quattro tipi di coerenza: (1) fit tra HRM e fase del ciclo di vita
organizzativo; (2) fit interno tra strumenti di gestione del personale; (3) fit tra
politiche del personale e multinazionalità/multiculturalità dei sotto-ambienti
nazionali; (4) fit tra politiche del personale dell’organizzazione madre e
delle organizzazioni figlie localizzate all’estero. Milliman, Von Glinow e
Nathan (1991) sviluppano inoltre il tema della flessibilità dello HRM, intesa
come capacità di adattamento tempestivo ai cambiamenti ambientali. Gli
stessi temi vengono in seguito sviluppati da Wright e Snell (1998).
Mesch e Perry (1995) applicano il framework contingente al settore
pubblico. Essi identificano due sistemi HRM prototipici in uso nelle amministrazioni pubbliche statunitensi – i.e., burocratico e strategico – e ne
valutano l’impatto sia sui comportamenti individuali, sia sugli outcome organizzativi. I due modelli sono simili, rispettivamente, ai sistemi di controllo
e di commitment definiti da Arthur (1994). Mesch e Perry non riscontrano
differenze significative tra modello burocratico e modello strategico in termini
di impatto su outcome individuali e organizzativi. Jackson e Schuler (1995)
isolano le componenti principali che qualificano gli ambienti organizzativi
e le classificano in variabili interne ed esterne. Le componenti interne includono la tecnologia, la struttura, la dimensione, la fase del ciclo di vita
e la strategia. Le variabili esterne comprendono il contesto legale, sociale
e politico, la struttura del mercato del lavoro e delle relazioni sindacali, le
caratteristiche del settore e la cultura nazionale.
Usando un campione di squadre della National Collegiate Athletic Association (NCAA), Wright, Smart e McMahan (1995) dimostrano l’esistenza
di una relazione significativa tra strategie degli allenatori, selezione dei
giocatori e risultati.
Delery (1998) mette in discussione i risultati di molti degli studi precedenti, evidenziandone i limiti metodologici, e propone una nuova agenda
di ricerca. Quasi dieci anni più tardi, Kepes e Delery (2007) propongono,
in risposta a Delery, quattro dimensioni di coerenza interna: (1) verticale,
ossia tra livelli strategici e operativi di ciascuna sotto-funzione di gestione
del personale; (2) tra le diverse sotto-funzioni della gestione del personale;
(3) tra le attività afferenti alla stessa sottofunzione; (4) tra i sotto-sistemi HRM
in uso nell’organizzazione per i diversi sottogruppi professionali.
Boxall (1998), in un’ottica resource-based, individua due fonti di vantag605
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gio competitivo connesse alle politiche del personale: l’accumulo di capitale
umano e il processo organizzativo. Secondo Boxall, queste due fonti di
vantaggio competitivo variano lungo il ciclo di vita settoriale.
Secondo Wright e Snell (1998), la strategia deve plasmare tre variabili:
gli strumenti HRM, le competenze e i comportamenti. Essi definiscono la
flessibilità come capacità di generare opzioni strategiche, nonché come
rapidità nella generazione di sistemi del personale per lo sfruttamento
della capacità potenziale. Diversamente da Lengnick-Hall e Lengnick-Hall
(1988), Wright e Snell (1998) affermano che coerenza e flessibilità sono
complementari e non ortogonali.
Cabrera e Bonache (1999) estendono la necessità di allineamento alla cultura organizzativa, la quale deve supportare la strategia deliberata. Essi indicano
due processi per la creazione di una forte cultura strategica: la progettazione di
strumenti HRM finalizzati a incentivare comportamenti allineati con la strategia
e la selezione di candidati che condividano i valori desiderati.
Ostroff e Bowen (2000) esplorano ulteriormente il ruolo della cultura
quale variabile interveniente nella relazione tra SHRM e performance.
De Pablos (2005) propone un’evoluzione dinamica del concetto di
contingenza: per creare un vantaggio competitivo sostenibile occorre che
coerenza (interna ed esterna) e flessibilità (sia in termini di risorse, sia in
termini di coordinamento) siano raggiunte simultaneamente affinché un’organizzazione sia capace di rinnovare se stessa e rispondere tempestivamente
agli stimoli ambientali.
Lepak, Marrone e Takeuchi (2004) creano un framework per esplorare
la relatività dei sistemi HRM tra organizzazioni.
Werbel e DeMarie (2005) importano il modello delle competenze
all’interno del framework contingente: il fit persona-ambiente si fonda su
competenze organizzative capaci di supportare la strategia complessiva e
di agire da collante tra allineamento orizzontale e verticale.
Richard, Murthi, e Ismail (2007) riscontrano l’esistenza di una relazione
a U tra diversità razziale e di genere, da un lato, e produttività, dall’altro;
tale relazione è più forte nei servizi rispetto ai settori manifatturieri e nelle
condizioni di stabilità rispetto a quelle di volatilità. Essi riscontrano una relazione positiva e lineare tra diversità razziale e performance organizzativa;
questo rapporto è più significativo in contesti con risorse più abbondanti.
Un secondo filone della letteratura SHRM si concentra sullo studio delle
politiche del personale come fonte di contributi strategici per la creazione
di vantaggio competitivo. A partire dai primi anni ’80, questo approccio
ha dominato, insieme alla scuola contingente, la ricerca in tema di HRM
strategico.
Tichy, Fombrun, e Devanna (1982) esplicitano per primi la necessità che il
dipartimento HR svolga un ruolo strategico e non meramente amministrativo.
Nella medesima ottica, Evans (1986) propone una balanced scorecard per
monitorare l’impatto strategico della gestione del personale.
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Wright e Snell applicano la teoria dei sistemi allo SHRM individuando
quali foci le competenze e i comportamenti. Inizia a delinearsi il filone
del capitale umano, che si consolida con gli studi di Wright e McMahan
(1992). I due autori sistematizzano un dibattito scientifico in precedenza
scomposto identificando sei possibili approcci teorici allo SHRM: la prospettiva comportamentale, i modelli cibernetici, la teoria dell’agenzia/costi di
transazione, la resource-based view, i modelli power/resource dependence
e le teorie istituzionali.
A partire dalla seconda metà degli anni ’90, la resource-based view
diventa il principale anello di congiunzione tra strategic management e
SHRM. Inizia a colmarsi un gap teorico identificato da Lengnick-Hall e
Lengnick-Hall (1988).
Lado e Wilson (1994) elaborano un’analisi solida del ruolo giocato dalle
risorse umane nella generazione di vantaggio/svantaggio competitivo.
Kamoche (1996) combina resource-based view e teoria dei costi di
transazione per analizzare le dinamiche di generazione e distribuzione di
rendite organizzative generate dall’interazione virtuosa tra competenze.
Taylor, Beechler e Napier (1996) combinano resource-based view e
resource-dependence theory per identificare tre possibili approcci che le
organizzazioni internazionali adottano per gestire i sistemi HRM delle
organizzazioni figlie: esportato, adattivo e integrativo. Nella prima fattispecie, i sistemi HRM delle organizzazioni figlie sono una replica di quelli
in uso nell’organizzazione madre. Nel modello adattivo, i sistemi HRM
delle organizzazioni figlie sono plasmati sull’ambiente che le circonda e
indipendenti da quelli in uso nell’organizzazione madre. Nel modello integrativo, dinamiche imitative consentono la diffusione di best practice tra le
organizzazioni del gruppo.
Barney e Wright (1998) analizzano il ruolo che il valore, la rarità,
l’inimitabilità, la non sostituibilità e l’organizzazione delle risorse umane
giocano nella generazione di vantaggio competitivo.
Matusik e Hill (1998), adottando un approccio knowledge-based, si
focalizzano sulle dinamiche di arricchimento e sottrazione di know-how ad
opera dei collaboratori temporanei.
Colbert (2004) innesta sulla resource-based view le teorie dei sistemi
complessi per analizzare l’interazione tra intenzioni, scelte e azioni del
personale.
Negli ultimi anni, le ricerche sul capitale umano e sul capitale sociale
hanno contribuito in misura rilevante allo studio delle risorse umane quale
fonte di contributi strategici per la creazione di vantaggio competitivo.
Tra i ricercatori che si sono concentrati sul ruolo del capitale umano nella
generazione di contributi strategici, Huselid, Jackson e Schuler (1997) si
focalizzano sul ruolo dei dipartimenti HR: le performance organizzative
sono determinate dalle capacità di progettazione e implementazione
dei sistemi HR da parte dei responsabili del personale più che dalla loro
capacità di gestirli. Green, Wu, Whitten e Medlin (2006) dimostrano che
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lo SHRM influenza positivamente sia la performance dei responsabili del
personale, sia la performance organizzativa. Nelle esperienze di successo,
i responsabili del personale svolgono un ruolo cruciale nell’assecondare e
dare impulso all’evoluzione strategica delle politiche del personale: “When
managed effectively, the HR department adds value by ensuring that it has
the characteristics of a strategic resource” (Teo, Rodwell, 2007, p. 267).
Il ruolo del capitale sociale nella generazione di contributi strategici è
attualmente una delle aree privilegiate degli studi HRM. Tra gli altri, Leana
e Van Buren (1999) analizzano il ruolo dello SHRM nella generazione di
capitale sociale organizzativo. Collins e Clark (2003) mostrano come i
network sociali di top manager incrementino le performance organizzative.
Evoluzioni recenti di questo filone di studio si focalizzano sul concetto di
capitale intellettuale, quale sintesi di capitale umano, sociale e organizzativo
(Youndt, Snell, 2004).
Un terzo filone della letteratura SHRM si focalizza su struttura e componenti del sistema HRM, che Schuler (1992) suddivide in filosofia, politiche,
programmi, pratiche e processi. La filosofia HRM attiene alla visione che
un’organizzazione ha delle proprie risorse umane e del ruolo che queste
devono svolgere nel perseguimento della sua missione. Le politiche HRM
sono le linee d’azione che guidano programmi e pratiche. I programmi sono
iniziative coordinate per avviare, disseminare e sostenere il cambiamento
strategico. Le pratiche HRM identificano le routine organizzative. Infine, i
processi HRM sono il mezzo per la formulazione e implementazione di tutte
le altre attività di gestione del personale.
Gli studi che analizzano struttura e componenti del sistema HRM in
ottica strategica si articolano in due sotto-aree di ricerca. La prima – che
trae origine dai lavori di Arthur (1994) sulle differenze tra sistemi control e
sistemi commitment – si concentra sulle pratiche di gestione del personale e
sui sistemi di lavoro altamente performanti. La seconda sotto-area si focalizza
sull’architettura dei sistemi HRM.
Un quarto filone include gli studi che espandono il concetto di SHRM oltre
i confini organizzativi ed esplorano la dimensione internazionale. Una prima
sotto-area di questo filone trae origine dalle ricerche di Schuler e MacMillan
(1984) sul ruolo che la funzione HR di un’organizzazione gioca nella generazione di vantaggio competitivo all’interno della catena del valore di cui è
parte. Una seconda sotto-area di questo quarto filone si concentra sugli effetti
dell’internazionalità e della multiculturalità sugli outcome del sistema HRM.
Un quinto filone di ricerca si concentra sulle dinamiche di implementazione delle strategie HRM. In particolare, un numero significativo di studi
analizza i fattori che possono generare un gap tra strategia HRM desiderata
e strategia realizzata. Tra questi, le ricerche di Kaplan e Norton (2004) sulle
mappe strategiche causali che collegano i comportamenti organizzativi e
le pratiche di gestione del personale alla strategia.
A partire dalla fine degli anni ’90, il tema della misurazione della performance dei sistemi HRM acquista un peso sempre più rilevante all’interno
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della letteratura SHRM. Tra gli altri, Way e Johnson (2005) misurano gli
outcome organizzativi quale prodotto dell’interazione tra i comportamenti
umani e le altre risorse utilizzate dall’organizzazione.
Una settima linea di ricerca si concentra sugli assunti motivazionali delle
strategie del personale. All’interno di questo filone, i contributi che afferiscono specificamente al settore pubblico si collocano lungo un continuum
tra due estremi teorici: i fautori dell’applicazione delle teorie dei rinforzi e
dell’aspettativa valenza anche in ambito pubblico, da un lato, e la scuola
della Public Service Motivation (PSM), all’estremo opposto. Secondo i primi,
i civil servant non sarebbero in alcun modo diversi rispetto ai lavoratori del
settore privato: esseri perfettamente razionali e sensibili esclusivamente a
motivatori di tipo estrinseco. Da qui, la necessità di adottare anche nelle
organizzazioni pubbliche sistemi HRM di tipo command & control, basati su
incentivi materiali e punizioni (Le Grand, 2009). All’estremo opposto, i teorici
della PSM sostengono che i civil servant, a differenza degli operatori privati,
sono esseri altruisti, motivati da driver prevalentemente di tipo intrinseco,
quali lo spirito di servizio alla comunità. In quest’ottica, i motivatori di tipo
estrinseco sarebbero non solo inefficaci nel settore pubblico, ma addirittura
dannosi, in quanto provocherebbero uno spiazzamento (crowding-out) dei
motivatori di tipo intrinseco (Perry et al., 2009).
Lo sviluppo dei sette filoni appena richiamati è stato sostenuto da una
linea di ricerca che si è concentrata sugli aspetti metodologici connessi allo
studio dello SHRM.
3. Il disallineamento tra strategia e politiche del personale nelle
organizzazioni pubbliche
Gli studi sulla strategia aziendale hanno conosciuto un significativo sviluppo
a partire dagli anni sessanta, con riferimento privilegiato all’impresa privata
e a fronte di un contesto di crescente competizione e instabilità ambientale
(Coda, 1988). Sia pure differenziati in termini di impostazione e contenuti,
emergono come tratti comuni degli stessi: il concentrarsi su questioni di
natura “strutturale” ovvero destinate a esercitare un’influenza determinante
sui percorsi di sviluppo e sull’economicità aziendale nel lungo periodo; il
considerare l’azienda nel suo insieme, ovvero secondo una prospettiva di
indagine sovraordinata rispetto alle singole funzioni e alle diverse problematiche e orientata a ricomporre in un quadro unitario e integrato le decisioni
aziendali; l’indagare l’azienda secondo la predominante prospettiva delle
sue interazioni dinamiche con l’ambiente, di volta in volta ricondotto a una
visione più definita di sistema competitivo (Porter, 1982 e 1987) o più ampia
di sistema degli interlocutori rilevanti (Normann, 1979; Coda, 1988).
La definizione della strategia aziendale è in ogni caso problema composito e articolabile, secondo l’impostazione proposta da Coda (1988), su
due diversi livelli: quello della configurazione dell’orientamento strategico
fondo, relativo all’insieme delle ipotesi e dei valori, spesso impliciti, che
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guidano l’evoluzione dell’azienda e ne determinano i fini e gli obiettivi
essenziali (potremmo dire, la stessa concezione), l’ambito di attività e la
generale filosofia gestionale e organizzativa; quello delle diverse strategie
attraverso cui questo orientamento si concretizza e relative all’azienda
nell’insieme o a singole componenti della stessa.
Su questo secondo piano di analisi è così possibile identificare, considerando l’azienda nel suo insieme, una strategia aziendale articolata
lungo le diverse dimensioni: della strategia di portafoglio, ovvero orientata
alla definizione dei campi di intervento (nelle imprese definiti come aree
strategiche di affari), della loro integrazione ed evoluzione dinamica nel
tempo; della strategia economico-finanziaria, relativa alle fondamentali
decisioni di investimento e indebitamento e tale da garantire la solidità e
la solvibilità aziendale nel medio-lungo termine; della strategia organizzativa, inerente le scelte di fondo in merito alla definizione del modello
e delle modalità di funzionamento aziendale; della strategia sociale,
rivolta a promuovere e garantire il consenso verso l’azione e le politiche
dell’azienda da parte dei principali interlocutori della stessa; della strategia competitiva, orientata a perseguire l’acquisizione e il mantenimento
di un vantaggio competitivo, facendo leva sulle competenze distintive in
possesso dell’azienda o che la stessa deve maturare.
Dal secondo punto di vista, quello dell’analisi più articolata dell’azienda
in componenti significative, si prospetta la definizione, sia pure ovviamente
integrata nel più generale disegno di evoluzione aziendale, di più specifiche
strategie funzionali (nelle principali aree dei processi amministrativi e di
produzione, della ricerca e sviluppo e delle relazioni con il mercato) oltre
che di particolari strategie per differenti ambiti di intervento (le cosiddette
aree strategiche di affari).
è sottesa a questa impostazione l’idea che esista una reazione biunivoca tra la definizione dei fini e degli obiettivi di fondo aziendali e la
messa a punto della strategia. Ciò contribuisce a fare del processo di
elaborazione strategica un momento quanto mai qualificato di governo
dell’azienda e delle sue trasformazioni, contrapponendosi a ipotesi più
restrittive (Ansoff, 1965) che in passato limitavano la funzione della strategia a garantire l’adattamento dinamico dell’azienda all’ambiente, nel
perseguimento di fini e obiettivi dati.
Così come è da ritenersi assodato, essendo ormai da considerare definitivamente superato il modello della pianificazione strategica razionale
e del connesso più generale paradigma dello “scientific management”,
il fatto che il processo reale di formazione della strategia non possa che
essere la naturale e continua combinazione di un disegno intenzionale,
formalmente definito e delineato (la cosiddetta “strategia deliberata”), e di
una naturale evoluzione dell’azienda, del suo processo di apprendimento e
delle sue reazioni a situazioni di crisi o al dispiegarsi di nuove opportunità
(la cosiddetta “strategia emergente”) (Mintzberg, 1985).
Non va, infine, dimenticato il fatto che sempre più il processo di formuAzienda Pubblica 4.2009
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lazione della strategia appare fortemente collegato e interconnesso con le
scelte e le politiche di relativa attuazione, così come con la messa a punto
di strumenti di verifica e controllo circa l’effettiva messa in atto e i risultati
prodotti. Ecco allora affermarsi una concezione integrata di “management
strategico”, che assume in sé tutte le fasi di messa a punto, definizione delle
condizioni e delle politiche di attuazione, nonché controllo della strategia e
che conferisce maggiore continuità e pervasività alle riflessioni e alle scelte
strategiche, superando definitivamente una concezione astratta e rigorosamente programmatoria delle stesse.
Se questi assunti appaiono ormai consolidati con riferimento alla realtà
delle imprese private, molto meno avanzata appare la riflessione con riguardo alle amministrazioni pubbliche.
Addirittura, a partire dagli anni novanta, l’evoluzione delle amministrazioni pubbliche nei diversi Paesi ha messo in luce, su questi temi, un evidente
paradosso. Ovvero, esigenze rilevanti di riposizionamento degli enti si sono
scontrate con una profonda immaturità sul fronte del pensiero strategico e delle
metodologie a supporto dello stesso. Per la prima volta attraverso lo sviluppo
del filone di ricerca del New Public Management, infatti, le amministrazioni
pubbliche si sono poste in modo strutturato il problema dell’elaborazione e
dell’attuazione di una strategia aziendale, così come sopra definita.
Determinanti, al riguardo, sono risultate le pressioni sulle amministrazioni
pubbliche determinate da un contesto in profonda e rapida evoluzione.
La crescente insoddisfazione dei cittadini e delle imprese sulla qualità dei
servizi e il livello di efficienza del settore pubblico, combinata con lo stato
di diffusa sofferenza della finanza pubblica, hanno posto alle amministrazioni un problema diffuso di recupero di credibilità e legittimazione. Ciò ha
indubbiamente favorito percorsi di riforma di sistema senza precedenti, in
grado di mettere contemporaneamente in discussione il “perimetro” dell’intervento pubblico rispetto all’azione del libero mercato, il modello di Stato
e le relazioni tra i diversi livelli di governo, la specifica configurazione dei
singoli settori (sanità, enti locali, istruzione, servizi pubblici, ecc.), il quadro
delle “regole del gioco” (monopoli e concorrenza, sistemi di finanziamento,
sistemi di controllo, caratteristiche giuridiche del pubblico impiego, ecc.),
non da ultimo, i gradi di autonomia nella definizione dell’assetto e delle
modalità di funzionamento dei singoli enti.
All’interno di questo nuovo scenario, si è assistito, almeno nelle migliori
esperienze, a un cambiamento profondo di strategia aziendale, tale da
mettere in discussione il ruolo e la natura stessa delle organizzazioni, ovvero
da modificarne significativamente l’orientamento strategico di fondo.
In molti casi, quindi, amministrazioni pubbliche nate come organizzazioni
di servizi si sono trasformate, attraverso il ridisegno del proprio portafoglio
di funzioni e attività, in aziende di governo e regolazione. Enti pubblici
tradizionalmente qualificabili come aziende monolitiche e poco permeabili
alle relazioni con altre organizzazioni, hanno dapprima sviluppato logiche
vicine a quelle dei gruppi di impresa attraverso la creazione di aziende
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controllate e collegate e in seguito dato origine a pervasive politiche di alleanza, sia all’interno del settore pubblico che con il settore privato, secondo
il nuovo paradigma della governance. Operazioni massicce di downsizing
hanno trasformato apparati lenti e spesso “elefantiaci” in organizzazioni più
snelle e dinamiche, configurando il passaggio da aziende “labor intensive”
ad aziende “knowledge and technology intensive”. Infine, il dispiegarsi di
forme di esposizione alla concorrenza, vera o simulata, hanno indotto spinte
verso un maggior orientamento all’utente e al mercato, in organizzazioni
tradizionalmente focalizzate sui processi amministrativi. Tutto questo ha
spesso trovato, per la prima volta, formalizzazione in appositi documenti
di indirizzo strutturati, ovvero piani strategici che hanno disegnato il futuro
e le traiettorie di sviluppo delle organizzazioni.
Con un limite di fondo: il collegamento tra questi, il modello organizzativo
e le politiche del personale.
Non che sul fronte del rinnovamento organizzativo non si sia fatto nulla,
al contrario. Sono stati ridotti gli organici e il numero dei dirigenti, snellite
le strutture e semplificati i processi amministrativi, potenziato e trasformato il
ruolo degli staff, ridisegnati i ruoli di direzione, introdotte forme di impiego
più flessibili, sperimentata una maggiore articolazione delle retribuzioni,
conferito maggiore spazio e autonomia alla contrattazione aziendale verso
quella nazionale, ecc.
Eppure, tutto questo non è stato sufficiente a cambiare, nel profondo e in
sintonia con i percorsi di riposizionamento strategico, la natura di queste organizzazioni, spesso prigioniere di modelli, culture e tradizioni consolidate.
Flessibilità, partecipazione e coinvolgimento, decentramento delle decisioni, orientamento all’innovazione, riconoscimento di meriti e capacità,
aggregazione temporanea e finalizzata di risorse e competenze, responsabilizzazione per processi, allargamento e arricchimento delle mansioni,
disegno di sentieri di carriera, sono spesso rimasti piani di intervento confinati alle buone intenzioni o a enunciazioni di principio, ma quanto mai
difficili da rendere operativi nei fatti.
Sembra quasi che i processi di riorganizzazione attivati si siano limitati al
tentativo di rendere più efficiente il modello burocratico consolidato, piuttosto
che avere la forza di proporre e attuare un nuovo modello, più coerente con
il ridisegno della mission e della strategia di sviluppo degli enti.
Il che, letto in altri termini, identifica un lack di strategia nelle amministrazioni pubbliche: alla ridefinizione del ruolo degli enti e del relativo portafoglio
di attività, alla scelta di nuove forme di gestione e allo sviluppo di logiche di
network, all’intervento sulla strategia economico-finanziaria, non sempre è
corrisposta un’azione altrettanto incisiva sulla formulazione e l’attuazione di
una strategia organizzativa e relativa alle politiche del personale.
Il conseguente debole o mancato accumulo di organizational capacities,
ovvero di competenze, metodologie e cultura manageriale, spiegano molto
del cosiddetto implementation gap (Ongaro, Valotti, 2008), ovvero la difficoltà
di tradurre le riforme in cambiamento, che sembra caratterizzare la maggior
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parte delle esperienze di trasformazione del settore pubblico e in particolare
la storia più recente delle amministrazioni pubbliche del nostro Paese.
Il caso del pubblico impiego in Italia è, da questo punto di vista, emblematico. Superate le ragioni storiche che vedevano nel pubblico ufficiale una figura
professionale meritevole di una disciplina speciale, con il d.lgs. 29/1993
si è avviato il processo di cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego,
finalizzato a equiparare sul piano formale e sostanziale la disciplina del lavoro
pubblico e del lavoro privato. L’attribuzione ai dirigenti pubblici dei poteri
del datore di lavoro, il passaggio dalla giustizia amministrativa alla giustizia
ordinaria per il contenzioso in materia di lavoro pubblico, la semplificazione
dei sistemi di inquadramento, l’introduzione di principi di meritocrazia, la
sperimentazione di nuove modalità di valutazione delle prestazioni e l’utilizzo
collegato di incentivi monetari, l’utilizzo di forme di impiego più flessibili, sono
solo alcuni esempi del percorso di riforma intrapreso.
Eppure, a distanza di oltre quindici anni dall’introduzione di queste
innovazioni, il pubblico impiego continua a essere ritenuto, da studiosi e
practitioner, eccessivamente rigido. Le organizzazioni pubbliche non sono
considerate luoghi di lavoro realmente meritocratici, né dall’opinione pubblica, né, e questo è forse anche più grave, da chi in queste amministrazioni
quotidianamente opera.
Molte delle innovazioni introdotte nel quadro ordinamentale sono state,
nei fatti, snaturate. Così, spesso, la quota di retribuzione accessoria disponibile per premiare i meritevoli si è tradotta in strumento per mantenere, in
misura indifferenziata, il potere di acquisto di salari e stipendi. Complessi
sistemi di valutazione delle prestazioni, nella ricerca di una presunta oggettività, sono sconfinati in meccanicismi dannosi per le organizzazioni e
per le persone. Il ridisegno del sistema delle responsabilità non ha avuto la
forza di cambiare, nella sostanza, i processi decisionali e la distribuzione
del potere all’interno delle organizzazioni. L’investimento sulla qualificazione della classe dirigente è solo in parte riuscita a trasformare i tradizionali
burocrati in manager (OCAP, 2007).
Si è proceduto, in sostanza, per adempimenti, con visioni parziali e
spesso riduttive, non in grado di dare il necessario respiro strategico alle
scelte in materia di personale.
Ma l’assenza di una People strategy condiziona fortemente la capacità
di attuare, nella sostanza, il disegno di riposizionamento strategico complessivo e di modernizzazione degli enti.
Delineare i principi cardine di rinnovamento delle politiche del personale,
dare il giusto respiro temporale alle scelte in materia, collegare i cambiamenti
nel ruolo e nel portafoglio di attività degli enti con le scelte di trasformazione
quali-quantitativa degli organici, integrare gli aspetti di programmazione
finanziaria con quelli di programmazione del personale, rappresentano solo
alcuni esempi delle “emergenze strategiche” da affrontare.
Lavorare, a fondo, sulle competenze, i ruoli e le professionalità, superare
una visione amministrativistica dei profili professionali e porre con decisione il
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tema delle nuove professioni: gli esperti di marketing dei servizi e dei territori,
i quality manager, i fund raiser, i project manager, gli esperti di finanza, di
regolazione dei mercati, piuttosto che di relazioni internazionali, non da
ultimi, gli esperti di organizzazione e di politiche del personale, per fare
solo qualche esempio. Introdurre metodologie di programmazione strategica
degli organici, capaci di andare oltre la logica contingente e di gestione dei
posti vacanti, valutare le alternative tra il ricorso al mercato del lavoro e lo
sviluppo delle professionalità interne, responsabilizzare i dirigenti sulla crescita
professionale, la produttività e la motivazione dei collaboratori.
Introdurre logiche davvero meritocratiche e non solo nei premi monetari,
ma in tutti gli ambiti di gestione del personale: dalla selezione, all’attribuzione degli incarichi, al ridisegno dei contenuti di lavoro, ai percorsi di
carriera, alla formazione e allo sviluppo professionale.
Operare, infine, sul riorientamento della cultura organizzativa, sulla
costruzione di un sistema di valori positivi e condiviso, sullo sviluppo del
senso di appartenenza e di identificazione negli enti, sulla diffusione di
relazioni collaborative tra i dipendenti, sulla partecipazione a un progetto
ambizioso di miglioramento.
Sono tutti questi fronti che una meglio definita People strategy dovrebbe
contribuire a mettere a fuoco e valorizzare, garantendo in questo modo una
mobilitazione dell’organizzazione e dei dipendenti per l’attuazione della
strategia generale dell’ente.
Al contrario, la situazione più frequente è di sostanziale scollegamento
tra il processo di elaborazione della strategia e le politiche del personale.
Queste non rappresentano, di regola, un capitolo qualificante dei piani
strategici degli enti, spesso addirittura non vengono proprio considerate.
Ma, in assenza di un collegamento e di una coerenza tra strategia e
politiche del personale, i disegni di rinnovamento perdono di credibilità, non
si fondano su condizioni realisticamente riscontrabili, non predispongono le
organizzazioni a generare nel tempo le condizioni necessarie a sostenere
i processi di sviluppo. Soprattutto, l’assenza o la debolezza di questo fondamentale link, indebolisce fortemente la capacità delle organizzazioni di
attuare le strategie, innalzando in misura consistente il rischio di fallimento
e, non da ultimo, rischiando di alimentare un clima interno di demotivazione
e sfiducia verso il cambiamento.
L’allineamento tra strategia e politiche del personale diviene, quindi, una
condizione imprescindibile per sostenere il processo di riforma manageriale
e di miglioramento della qualità dell’intervento pubblico. Approfondire
le necessarie e auspicabili relazioni tra questi due ambiti diviene conseguentemente un’area fondamentale di sviluppo della ricerca scientifica. Al
tempo stesso, il costruire e garantire nel tempo questo allineamento diventa
una priorità per chi, dall’interno delle organizzazioni pubbliche, intenda
realizzare progetti di cambiamento reali.
Negli ultimi trenta anni, il 93 percento dei governi Ocse ha adottato
sistemi di valutazione della performance dei propri dipendenti. L’80 percenAzienda Pubblica 4.2009
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to ha introdotto sistemi di retribuzione premiale collegati alla valutazione.
La stessa percentuale ha riformato il segmento della dirigenza pubblica.
Soltanto la metà dei Paesi Ocse, invece, ha creato organismi governativi
incaricati della gestione strategica del civil service (tabella 1).
Tabella 1 – Cronologia della diffusione di quattro interventi di riforma del personale nei governi
Ocse (*)
Australia
Valutazione
della performance
dei dipendenti
Incentivi monetari
collegati
alla performance
Riforma
della
dirigenza
Organismi
SHRM
1984
1999
1997
1984
Austria
Sì
No
No
No
Belgio
Sì
Sì
Sì
No
Canada
1979
Inizio anni ’80
1981
Inizio anni ’80
Corea
2006
1999
2006
1999
Danimarca
Fine anni ’80
1987
Fine anni ’80
No
Finlandia
Inizio anni ’90
1992
Inizio anni ’90
No
2002
2004
Inizio anni 2000
Inizio anni 2000
Germania
Inizio anni 2000
1997
No
Inizio anni 2000
Giappone
2007
2001
Fine anni 2000
Fine anni 2000
Grecia
No
No
No
No
Irlanda
Fine anni ’90
2002
Inizio anni 2000
No
Islanda
No
No
Sì
No
Italia
Sì
Sì
Sì
Sì
Lussemburgo
Sì
No
Sì
No
Messico
Inizio anni ’90
1994
Inizio anni ’90
Inizio anni ’90
N. Zelanda
Fine anni ’80
1988
1988
Fine anni ’80
Sì
Sì
Sì
No
Fine anni ’80
1989
Fine anni ’80
No
Inizio anni 2000
Inizio anni 2000
Inizio anni 2000
Inizio anni 2000
Francia
Norvegia
Paesi Bassi
Polonia
Portogallo
Regno Unito
Sì
No
1979
No
Fine anni ’80
1985
1996
Sì
Rep. Ceca
Inizio anni 2000
Inizio anni 2000
Inizio anni 2000
Inizio anni 2000
Slovacchia
Inizio anni 2000
Inizio anni 2000
Inizio anni 2000
Inizio anni 2000
Spagna
Inizio anni ’80
1984
No
No
Svezia
Fine anni ’80
1989
No
Fine anni ’80
Inizio anni 2000
2002
No
No
1979
1979
1979
1979
Sì
No
Sì
No
Ungheria
Inizio anni 2000
2002
Inizio anni 2000
No
Totale
28/30 (93.3%)
24/30 (80.0%)
24/30 (80.0%)
15/30 (50.0%)
Svizzera
Stati Uniti
Turchia
(*) La tabella non indica un momento specifico di adozione per i paesi in cui l’introduzione sia stata
asincrona per le diverse categorie di amministrazioni e/o livelli di governo.
Fonte: Lah, Perry (2008)
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Il ritardo nell’evoluzione in senso strategico delle politiche del personale
è il principale ostacolo al cambiamento anche nelle organizzazioni internazionali e sovranazionali. È emblematico, al riguardo, il caso della
Commissione europea: nel corso degli ultimi quindici anni, ripetuti tentativi
di riforma manageriale si sono arenati per l’incapacità di implementare
sistemi HRM evoluti (box1).
Box 1 – La riforma del personale della Commissione europea
Jacques Santer – Presidente della Commissione europea tra il 1995 e il 1999 – è il primo a indicare la
rotta del cambiamento amministrativo: “doing less but doing it better”. Dopo il naufragio della Commissione
Santer nel 1999, Neil Kinnock – Vice-Presidente con delega alle riforme tra il 1999 e il 2004 – raccoglie il
testimone e, nel 2003, vara un pacchetto di misure improntate alla accountability e finalizzate a incrementare
la coerenza tra:
- obiettivi delle Direzioni generali e obiettivi delle Unità;
- obiettivi delle Unità e obiettivi individuali;
- valutazioni individuali e premi.
La Riforma Kinnock, che si ispira dichiaratamente ai principi del New Public Management, incontra una forte
resistenza da parte dell’eurocrazia. Lo scetticismo nei confronti del tentativo di introdurre logiche e strumenti
gestionali di “mere management” è particolarmente accentuato tra i rappresentanti dei Paesi di tradizione
napoleonica. Questi vedono la riforma come tentativo esogeno di imporre valori anglosassoni e di ridimensionare l’autonomia dei funzionari, trasformandoli in deprived entrepreneurs (Bauer, 2008). Così un Head of Unit
commenta la riforma Kinnock:
“I don’t know if there was a political demand or pressure from public opinion. But some countries certainly
wanted to reduce the importance of the bureaucrats, who are often seen as a world of officials who don’t really
know what they are doing, who are part of a huge machine, who make huge amounts of money, and who do
not recognize how privileged they are” (Ban, 2008, p. 3).
La revisione del sistema di gestione del personale della Commissione è lo snodo cruciale della riforma
Kinnock. Due le aree di intervento: (i) i percorsi di carriera e (ii) il sistema di valutazione delle performance
individuali.
(i) La riforma dei percorsi di carriera
La riforma Kinnock introduce due modifiche sostanziali al precedente sistema di inquadramento e carriera:
1. sistema di carriera semi-lineare – Il sistema precedente, improntato su quello francese, prevedeva
quattro categorie di inquadramento: A (professional), B (assistenti), C (profili amministrativi e personale
di segreteria) e D (personale esecutivo e autisti). La riforma Kinnock riduce le categorie a due: AD
(amministratori) e AST (assistenti). Il personale è distribuito su 16 livelli. Gli AST entrano al livello 1 e
possono progredire fino al livello 10. Gli AD entrano al livello 5 e possono progredire fino al livello
16. È consentito il salto dalla categoria AST a quella AD dopo il superamento di una prova selettiva
interna. Ciascun livello ha una serie di step retributivi interni. Il passaggio da uno step al successivo è
automatico e basato esclusivamente sulla seniority. La riforma riduce a cinque gli step interni, che, per
alcuni livelli, in precedenza erano fino a 8.
2. Allungamento dei percorsi di carriera – La riforma Kinnock aumenta il numero dei livelli di inquadramento, allungando i percorsi di carriera. Questa innovazione è dettata da una duplice esigenza. Il primo
obiettivo, dichiarato dai riformatori, è impedire il raggiungimento precoce dell’apice della carriera e gli
effetti motivazionali negativi connessi al diffuso fenomeno del “topping-out too soon”. Il secondo obiettivo,
di natura finanziaria e mai formalmente dichiarato, è la riduzione dei salari di ingresso delle migliaia di
neo-assunti assorbiti dai nuovi stati membri dell’Unione. Solo a titolo di esempio, l’incremento del numero
di livelli riduce il salario di ingresso degli AD di quasi quattordici mila euro, da 61,632€ a 48,144€.
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(ii) La riforma del sistema di valutazione e incentivazione
Prima della riforma Kinnock, la valutazione delle performance individuali aveva una cadenza biennale
o addirittura quadriennale nel caso di richiesta di proroga (“reconduction”). Circa il trenta percento
del personale non riceveva alcuna valutazione dai propri superiori. La riforma introduce un sistema di
valutazione annuale. A inizio anno, ciascun Head of Unit incontra i propri dipendenti per comunicare
loro gli obiettivi, formalizzati in una Career Development Review (CDR). All’inizio dell’anno successivo,
lo Head of Unit assegna a ciascun collaboratore un numero di merit point variabile da 0 a 20, sulla
base di tre criteri: “performance, ability, and conduct”. Nella pratica, la distribuzione delle valutazioni è
tronca e avviene su un range di 6-7 punti. Sono le stesse linee guida ufficiali della DG Admin a stabilire
che “very few people should be given more than 17 points and that anyone receiving 10 points or less
would need to be placed on a formal program of remediation”. La dispersione delle valutazioni si contrae
progressivamente: a pochi anni dall’introduzione del nuovo sistema, circa il 90 percento delle valutazioni
si concentra tra 14 e 15.5. Ciascuna Direzione Generale ha un budget di merit point che viene suddiviso,
a cascata, tra gli Head of Unit. Ciò rende la valutazione un gioco a somma zero, budget-neutral. In
aggiunta ai merit point, ogni Director General assegna a ciascun dipendente della propria direzione un
numero di priority point variabile da 0 a 10. Due ulteriori priority point possono essere assegnati da un
promotion committee, comprendente rappresentanti del personale, per premiare servizi alle istituzioni
o dirimere ricorsi. Il sistema Kinnock non prevede bonus, ma collega la valutazione esclusivamente alle
promozioni. Secondo un meccanismo definito “sac à dos”, ciascun dipendente accumula i punti guadagnati
annualmente fino a raggiungere la soglia per la promozione. Nel sistema di valutazione inizialmente
introdotto dalla riforma Kinnock, le soglie non vengono comunicate ex-ante, ma determinate ex-post sulla
base dei posti disponibili. Secondo una prassi consolidata, nell’assegnazione dei priority point si tende
a premiare i dipendenti più vicini alla soglia e dunque l’anzianità. Nel 2009, vengono apportati alcuni
correttivi. Tranne che per i top manager, le soglie di promozione sono ora fissate in anticipo attraverso
una negoziazione annuale con la DG budget. Tutte le precedenti tipologie di punti sono fuse nei promotion
point, che variano da 0 a 12. Il processo congiunto di valutazione e promozione deve concludersi
entro l’estate, mentre prima durava oltre un anno. Le procedure di appello, in precedenza gestite da
comitati decentrati a livello di singola Direzione generale, sono ora centralizzate in un Joint Appraisal
and Promotion Committee. Vengono introdotti meccanismi di distribuzione forzata delle valutazioni. Sono
attualmente previste 5 fasce di merito. Non più dell’8% dei dipendenti può essere collocato nella fascia più
alta (1 A) e non più del 22% nella seconda fascia (1B). I dipendenti inseriti nella quarta fascia di merito
non ottengono alcun punto. L’inclusione nell’ultima fascia comporta misure disciplinari.
Fonte: Ban (2008)
Carolyn Ban (2008) così commenta la riforma del sistema HRM della Commissione europea: “In one way the system works, but to the detriment of
the overall goals of the reformers […] the result has been a classic case of
goal displacement” (p. 18).
4. Un’agenda di ricerca per il prossimo decennio
Il disallineamento tra strategia e politiche del personale ha neutralizzato,
o quantomeno depotenziato, le riforme manageriali nel settore pubblico.
Comprendere le determinanti di tale cortocircuito e proporre soluzioni per
rimuoverle sono oggi sfide ineludibili per gli studiosi di public management.
Questa indicazione emerge in modo netto dall’analisi della letteratura ed è
confermata dai practitioner.
Se per ricomporre la frattura tra strategia e politiche del personale è
necessario che lo HRM assurga a funzione strategica, allo stesso modo
gli studiosi sono chiamati a correggere la miopia che spesso, in passato,
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ha generato ricerca di corto respiro. In quest’ottica, proponiamo quattro
raccomandazioni che riteniamo prioritarie per definire l’agenda di ricerca
del prossimo decennio. Le prime due (A e B) sono relative a nuovi temi di
ricerca. Le altre due (C e D) sono indicazioni di carattere metodologico.
A. Investigare le differenze tra impiegati pubblici e operatori del settore
privato
La letteratura su questo tema è recente e non ancora consolidata. Lo studio
dei meccanismi di selezione/autoselezione della forza lavoro tra settore
pubblico e settore privato è un’area di studio giovane e focalizzata pressoché esclusivamente sul contesto statunitense. All’interno di questo filone, le
seguenti linee di ricerca meritano un investimento prioritario.
A.1. Differenze motivazionali tra dipendenti pubblici e operatori del settore privato – Qualsiasi politica del personale si fonda su assunti – impliciti
o esplicitati – circa la natura degli individui ai quali è diretta. Prendendo a
prestito una metafora utilizzata da Le Grand (2009), si può assumere che i
dipendenti di un’organizzazione siano dei Cavalieri intrinsecamente motivati
da altruismo e spirito di servizio. All’opposto, si può ipotizzare che gli stessi
siano dei Fanti, ossia esseri perfettamente razionali, individualisti e mossi
esclusivamente da motivatori di tipo estrinseco. Qual è il posizionamento
relativo di impiegati pubblici e operatori privati sul continuum tra questi due
estremi ideali? Gli studi PSM ci offrono alcune indicazioni preliminari, prevalentemente basate su dati relativi al contesto statunitense. Per rispondere in
modo più compiuto a questa domanda, è necessario un notevole investimento
in ricerche di natura quantitativa estese anche ad altri contesti nazionali e che
includano significativi elementi di comparazione internazionale.
A.2. Determinanti delle differenze tra impiegati pubblici e operatori del
settore privato – Se è vero, come sostenuto dai teorici della PSM, che esistono
significative differenze motivazionali tra operatori pubblici e privati, quali
ne sono le determinanti? Operatori pubblici e privati sono geneticamente
diversi oppure sono i sistemi HRM delle loro organizzazioni a renderli tali?
Si tratta di una domanda di ricerca strettamente connessa alla precedente
(A.1), ma che necessita di uno sforzo scientifico dedicato. Anche in questo
caso, è richiesto un forte investimento in studi quantitativi su dati riguardanti
contesti diversi da quello statunitense.
A.3. Evoluzione longitudinale delle differenze tra impiegati pubblici e
operatori del settore privato – Una linea di ricerca, in parte connessa alle
due precedenti (A.1 e A.2), dovrebbe investigare gli effetti delle riforme
neo-manageriali sulle differenze tra dipendenti pubblici e lavoratori del
settore privato. In particolare, si ravvisa l’opportunità di studi longitudinali
finalizzati a indagare il trend – di perpetuazione o attenuazione – del gap
intersettoriale.
A.4. Contenuti di lavoro e motivazione – Quanto del gap motivazionale
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tra operatori pubblici e privati dipende da differenze nei contenuti di lavoro?
La studio della relazione tra contenuti di lavoro e motivazione in ottica di
comparazione intersettoriale merita un investimento scientifico che, seppur
sfidante, potrebbe essere rapidamente compensato dal ritorno positivo in
termini di miglioramento delle pratiche di job design.
A.5. Employment branding della pubblica amministrazione – Ogni datore
di lavoro ha un employment brand. Rischiando un eccesso di semplificazione,
potremmo definirlo come l’attrattività per i dipendenti attuali e potenziali. Esiste
una letteratura consolidata sulla relazione tra capitale umano e vantaggio
competitivo. La comprensione dei meccanismi di accumulazione del capitale
umano, invece, è ancora parziale. A tal proposito, il tema dell’employment
branding merita senz’altro la priorità nell’agenda di ricerca del prossimo
decennio. Il successo duraturo di un’organizzazione si gioca in gran parte
sulla sua capacità di attrarre i talenti, trattenerli nel tempo e valorizzarne
a pieno il potenziale. Il governo consapevole di questo processo non può
prescindere dalla conoscenza dei fattori che attraggono i dipendenti attuali
e potenziali. La vasta letteratura sulla PSM ha dimostrato che la scelta di
lavorare nel settore pubblico è governata da motivazioni significativamente
differenti rispetto a quelle che spingono verso una carriera nel privato (Perry
et al., 2009). Ciò suggerisce la necessità di studi sull’employment branding
specificamente declinati alle organizzazioni pubbliche dei diversi contesti
nazionali. Quali fattori determinano le scelte professionali dei giovani talenti
del ventunesimo secolo? Quali strategie è opportuno attuare per attrarli verso
il settore pubblico? Si tratta di domande sfidanti che richiedono un’agenda
di ricerca ambiziosa, capace di integrare rigorosi studi quantitativi e metodologie qualitative. Comprendere le dinamiche di attrazione dei talenti è
d’altra parte un passaggio inevitabile per governarle in modo evoluto. Da
questo dipende la qualità del capitale umano della pubblica amministrazione
del futuro. Anche in questo caso, l’investimento scientifico, seppur notevole,
appare insignificante rispetto alle potenziali ricadute.
B. Investigare le differenze istituzionali tra organizzazioni pubbliche e
organizzazioni private
Si tratta di una linea di ricerca complementare e per certi versi prodromica
rispetto alla precedente. Secondo molti, la teoria dell’implementation gap
offre una spiegazione quantomeno parziale dei limiti delle riforme neomanageriali in ambito pubblico (Perry, 2009). Essa lascia irrisolte alcune
questioni cruciali. Perché le medesime patologie HRM ricorrono nelle organizzazioni pubbliche – di ogni genere e livello istituzionale – con una
frequenza molto più elevata rispetto al settore privato? Profonde differenze
istituzionali tra organizzazioni pubbliche e private potrebbero depotenziare, nelle prime, logiche e strumenti efficaci nelle seconde (Ongaro, Bellé,
2010). Appare opportuno indagare le differenze istituzionali intersettoriali
rispetto alle dimensioni seguenti:
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B.1. Ruolo della proprietà – A differenza degli stakeholder delle organizzazioni pubbliche, gli shareholder delle imprese hanno diritto all’utile
residuo (Frumkin, Galaskiewicz, 2004). Per questo, i secondi hanno un
più forte incentivo a monitorare la performance. La relazione tra assetto
proprietario e performance delle politiche del personale è un’area di studio
sotto-investigata, soprattutto in ottica di comparazione intersettoriale.
B.2. Ruolo del management – Se si eccettua la letteratura sulla corporate
governance applicata al settore pubblico, che peraltro soffre di seri limiti
metodologici, il ruolo del management pubblico quale raccordo tra strategia
e politiche del personale è, ad oggi, un’area di studio poco presidiata.
B.3. Esposizione alla concorrenza – Molti Paesi hanno tentato di riformare le proprie burocrazie introducendo nel settore pubblico meccanismi
di mercato o quasi-mercato. Esiste un’ampia letteratura sugli effetti benefici
dell’esposizione alla concorrenza, reale o simulata. A partire dagli studi di
Hirschman, lo studio di meccanismi di public service delivery di tipo bottomup – i.e., choice e voice – è stata un’area di forte investimento scientifico.
Tuttavia, resta ancora del tutto inesplorata la relazione tra modelli di public
service delivery e performance delle politiche del personale.
B.4. Vincoli di carattere normativo e regolamentare – Il gap di regolamentazione tra settore pubblico e settore privato è un’ulteriore variabile
della quale è necessario indagare gli effetti sulla performance delle politiche
del personale.
C. Metodi quantitativi
Lo studio delle politiche del personale in ambito pubblico soffre di una
congenita fragilità metodologica. La letteratura di public management, in
particolare quella di tradizione europea, è fortemente sbilanciata verso
la ricerca di tipo qualitativo. Questo limite è ancora più evidente nel caso
degli studi sullo HRM nel settore pubblico. Per compiere il salto di qualità
necessario per conseguire una piena legittimazione scientifica, è prioritario
investire in ricerca quantitativa evoluta. Questa è la rotta obbligata che
anche la comunità accademica italiana dovrà seguire per non restare ai
margini del dibattito scientifico internazionale.
D. Approccio comparativo
La letteratura sullo HRM nel settore pubblico è oggi prevalentemente di matrice statunitense. Sia la comunità accademica, sia i practitioner esprimono
un forte bisogno di internazionalizzazione della ricerca. In particolare,
riteniamo prioritario investire in studi quantitativi rigorosi condotti su dati
europei. Questi costituiscono una condizione preliminare per lo sviluppo di
analisi comparative internazionali. Parallelamente alla comparazione internazionale, occorre potenziare l’area di ricerca HRM dedicata al confronto
pubblico-privato. Quest’ultimo è un filone poco presidiato dalla letteratura
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internazionale e del tutto trascurato dalla comunità accademica italiana.
La nostra agenda di ricerca non pretende in alcun modo di essere esaustiva, ma pone l’attenzione su alcune delle lacune attualmente non presidiate
dagli otto filoni di studio presentati nel secondo paragrafo. L’intento primario
della proposta è stimolare il dibattito, in particolare all’interno delle comunità
nazionali degli accademici e dei practitioner. Alcuni dei temi che proponiamo potranno presumibilmente essere investigati nell’ambito degli approcci
esistenti, in particolare di quelli più vitali e attualmente in fase evolutiva.
Tuttavia, auspichiamo lo sviluppo di un filone di studi originale dedicato alla
relazione tra People strategy e natura istituzionale delle organizzazioni.
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City management
La gestione manageriale nelle amministrazioni comunali
Alessandra Storlazzi
Professore associato di “Economia e Gestione delle Imprese” presso l’Università degli Studi di Salerno, Facoltà di
Economia, Dipartimento di Studi e Ricerche Aziendali
Sommario: 1. Introduzione. 2. La base teorica di riferimento. 3. La ricerca condotta. 4. I risultati della ricerca. 5. Implicazioni emerse.
Assumendo come base di analisi le classiche attività manageriali: programmazione, organizzazione e controllo il contributo propone una verifica empirica del contenuto dell’attività manageriale posta in essere nei Comuni dai segretari generali con incarico di direzione generale
e dai direttori generali esterni. Attraverso il ricorso all’indagine empirica si cerca di comprendere se l’azione manageriale svolta nei Comuni dai direttori generali esterni assume contenuti
diversi da quella posta in essere dai segretari generali con incarico di direzione generale.
Starting out from analysis of the traditional management activities: planning, organizing and control,
this study is an empirical evaluation of the substance of the management activity carried out in town
halls by municipal executives with general management functions and external city managers. An
empirical study was used to try to ascertain whether management activities carried out in town halls
by external city managers was of the same nature as that carried out by municipal executives with
general management functions.
L’articolo è una elaborazione del paper presentato al III Workshop Nazionale di Azienda Pubblica Governare
e programmare: l’azienda pubblica tra innovazione e sviluppo al servizio del cittadino e del Paese, Università di
Salerno - Università degli Studi del Sannio, giugno 2008.
L’autore ringrazia il dottore Carlo Mochi Sismondi e la dr.ssa Francesca Meloccaro che, grazie alla loro organizzazione e al network di Forum PA, hanno reso possibile la raccolta dei dati.
L’autore inoltre ringrazia il dottore Felice Addeo, ricercatore in Metodologia e Tecnica della Ricerca Sociale presso l’Università degli Studi di Salerno, per aver contribuito all’elaborazione dei dati.
Parole chiave: management – amministrazioni comunali – city manager
Key words: management – municipalities – city manager
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City management
1. Introduzione
Il concetto generale di amministrazione si caratterizza in modo differente
se riferito al settore privato o al settore pubblico.
In particolare chi opera nel settore pubblico agisce all’interno di un
sistema di vincoli-opportunità. I vincoli sono generalmente dettati da ragioni di “ordine superiore” quali ad esempio i tetti massimi di spesa. Le
opportunità sono riconducibili all’esercizio di un potere sovraordinato. Ciò
porta a ritenere che, ai fini della valutazione dell’azione di amministrazione
pubblica, i criteri generali di economicità, efficacia ed efficienza debbano
essere integrati con le dimensioni della legalità ed equità (Borgonovi et al.,
2008, p. 26).
Se economicità, efficacia, efficienza, legalità ed equità sono le dimensioni
rispetto alle quali deve essere guidata l’amministrazione pubblica, diventa
cruciale interrogarsi sul sistema di governo più appropriato per le amministrazioni pubbliche. Il tema è generale anche se nell’ambito del contributo sarà
trattato facendo specifico riferimento al governo degli enti locali comunali.
Tradizionalmente gli organismi pubblici sono stati governati avendo come
prevalente, o addirittura esclusivo, elemento di riferimento la tutela della legalità e dell’equità. Il governo delle istituzioni sanitarie era assicurato dai medici,
il governo dei musei o dei siti archeologici era di esclusiva competenza di
tecnici delle sovraintendenze, il governo delle università era affidato ai professori e quello dei Comuni era di esclusiva competenza dei segretari comunali.
Tutto ciò è mutato. Il governo degli organismi pubblici, esercitato nel rispetto
della legalità ed equità, non può prescindere dalla ricerca di condizioni di
efficienza, economicità ed efficacia. La verifica stessa dei principi di legalità
ed equità si collega alla capacità di massimizzare il raggiungimento dei
risultati prodotti dall’azione amministrativa. In condizioni di scarsità di risorse
“fare di più con meno” diventa un’esigenza fondamentale nel governo del
settore pubblico. Il rispetto dell’equità e della legalità deve essere garantito
non trascurando l’impiego razionale ed efficiente delle risorse. Efficacia,
efficienza, equità e legalità sono fortemente interdipendenti. (1)
I problemi da affrontare divengono: come fare per garantire il perseguimento delle dimensioni di efficienza ed efficacia. Chi e come può garantirne
il rispetto e quali soluzioni si propongono per una governance efficace ed
efficiente delle strutture pubbliche.
1 La specificità dell’operare è riconducibile in primo luogo al fatto che i manager pubblici producono public values ossia non market values in aggiunta ai market values. In secondo luogo,
il contesto in cui i public values sono prodotti è diverso da quello che fronteggiano i manager
di imprese private: esso contiene una gamma di attori molto più ampia rispetto a quelli (clienti e contribuenti) presenti nei modelli managerialisti, e non si tratta di amorfi stakeholder ma
di qualcosa di molto più complesso. In terzo luogo, i manager pubblici utilizzano una risorsa
aggiuntiva, oltre il denaro, per portare a termine i propri compiti: il public power, ossia la legittima autorità dello Stato. Infine, nel processo di produzione pubblica vi è la possibilità di
utilizzare una gamma più ampia di capacità produttive, non solo quelle disponibili all’interno
dell’organizzazione ma anche quelle esterne (Adinolfi, 2005, pp. 25-26).
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Una delle soluzioni individuate è stata quella di ricorrere alla nomina
esterna di manager ovvero a manager non inquadrati nel ruolo dei pubblici
dipendenti. Ai medici sono stati affiancati direttori generali selezionati in
base a precisi requisiti professionali certificati dall’appartenenza a idonei albi
professionali. I più importanti musei o siti archeologici hanno fatto ricorso a
figure manageriali con il preciso compito di creare valore grazie alla diffusione della fruizione. Qualche università ha ritenuto che il rettore e il direttore
amministrativo dovessero essere affiancati da un manager e nei Comuni si è
fatto ricorso alla nomina dei direttori generali cosiddetti city manager. In molti
casi nel governo degli organismi pubblici si è cioè cercato di affiancare a
soggetti istituzionalmente garanti dell’equità e della legalità, manager capaci
di garantire il rispetto dell’economicità, efficienza ed efficacia. Si è cioè cercato di introdurre la logica aziendale nella gestione pubblica sia nominando
manager ritenuti capaci di trasmettere la diffusione dei principi aziendali
che richiedendo a rettori, medici, segretari comunali e sovraintendenti, e in
generale a tutti i responsabili di organismi pubblici, di preoccuparsi non solo
del rispetto della legalità e dell’equità ma anche dell’efficienza ed efficacia
nell’impiego delle risorse e nei risultati conseguiti. Certamente poi si è verificato che, nel sensibilizzare l’orientamento gestionale al perseguimento di
obiettivi più propriamente aziendali, i medici devono farsi carico di processi
di controllo della gestione e monitoraggio delle risorse impiegate, i sovraintendenti devono cercare di massimizzare la fruizione delle opere pubbliche,
i professori devono preoccuparsi dei prodotti della ricerca e della didattica
e i segretari comunali dei risultati dell’azione di governo locale.
Sia attraverso l’apporto di risorse professionali esterne (nomina di cosiddetti manager) che attraverso il coinvolgimento di tutti gli attori, si è cercato
di diffondere la logica aziendale nel governo degli organismi pubblici.
Ciò che si osserva è che, in alcuni casi, anche a prescindere dalla
nomina di figure professionali manageriali, alcuni organismi pubblici sono
comunque governati nel rispetto dei principi aziendali dell’efficienza, efficacia ed economicità. In altri casi, malgrado la logica aziendale sembri
imprescindibile, continuano a esistere organismi pubblici in cui le dimensioni di governo rimangono quasi esclusivamente focalizzate sul rispetto
dell’equità e della legalità.
Ci si domanda pertanto se è necessario procedere all’individuazione di
cosiddetti manager esterni e se la nomina di manager esterni sia correlata
al conseguimento di dimensioni aziendali di governo quali economicità,
efficacia ed efficienza. L’interrogativo, contestualizzato all’esperienza
maturata nei Comuni, si traduce nell’analisi e nel confronto fra il processo
di management adottato dai segretari comunali con funzione di direzione
generale e quello adottato dai direttori generali esterni. L’analisi, condotta
attraverso il ricorso a un’indagine empirica, cerca di comprendere se l’azione
manageriale svolta nei Comuni dai direttori generali esterni assume contenuti diversi da quella posta in essere dai segretari generali con incarico di
direzione generale.
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2. La base teorica di riferimento
Durante gli anni ’70 e ’80, con riferimento all’operare nel settore pubblico,
il termine management ha progressivamente sostituito il termine amministrazione. Quest’ultimo tuttavia, in alcuni casi e in alcuni Paesi come la
Francia, la Germania e i Paesi nordici, ha continuato a essere utilizzato con
maggiore frequenza del termine management che era considerato come
eccessivamente innovativo (Pollitt et al., 2000).
Volendo condividere una definizione di management pubblico esso si può
definire come “la combinazione dell’orientamento normativo dei tradizionali
studi di amministrazione pubblica con l’orientamento strumentale del general
management” (Perry et al., 1983, p. X). Una tale definizione sembra potersi
collegare all’idea, sostenuta a proposito dei city manager, che questi ultimi
operano negli interstizi di logiche amministrative, politiche e manageriali e
assumono un carattere prototipale (Nalbandian, 1991, p. 108).
L’associazione del termine management a un ambito dell’operare pubblico implica il sottolineare l’importanza della flessibilità, della misurazione
delle prestazioni e del raggiungimento dei risultati, tipicamente oggetto di
attenzione dell’azione di general management (Pollitt et al., 2000), senza
poterne evidentemente negare specificità che attengono alle implicazioni
politiche e amministrative dell’esercizio della funzione manageriale in
ambito pubblico.
Come è generalmente riconosciuto il management si riferisce sia al processo di gestione che a coloro che lo svolgono. Come tutti i processi non può
prescindere dalle persone che lo realizzano e nella letteratura, non raramente,
l’interpretazione di cosa i manager fanno è stata condotta attraverso l’analisi
empirica dei ruoli manageriali assunti (Dargie, 1998). Applicando la nota
analisi di Mintzberg sulla natura del lavoro manageriale al contesto del
manager pubblico locale (Mintzberg, 1973), emerge che solo alcuni ruoli
quali quello di portavoce, negoziatore, supervisore, divulgatore, allocatore
di risorse e garante dell’ordine pubblico sembrano potersi collegare a quelli
svolti dai manager pubblici (Dargie, 1998). Studi successivi (Nalbandian,
1999) evidenziano che i cambiamenti in atto fanno emergere nuovi ruoli
manageriali nel governo locale e in particolare si evidenzia l’emergere di ruoli
capaci di “costruire la comunità” come soluzione alla crescente distanza tra
cittadini e istituzioni governative. Altri studi, di matrice anglosassone, si sono
concentrati sull’influenza del processo di riforma e sulla valorizzazione del
ruolo dei city manager connesso all’introduzione della riforma del “reinventing
government” (Kearney et al., 2000).
In generale tuttavia l’idea che l’analisi del ruolo possa servire a descrivere
cosa fa effettivamente il manager non può essere condivisa. C’è da ritenere
che per migliorare lo sviluppo manageriale sia fondamentale indagare sul
contenuto dell’attività manageriale (Dargie, 1998).
Nell’indagare sul contenuto dell’attività manageriale nel settore pubblico
non si può non tener conto della principale specificità del management pubAzienda Pubblica 4.2009
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blico che è costituita dalla relazione politici/dirigenti che rappresentano gli
attori principali delle scelte e azioni. Il ruolo dei politici è quello di definire i
bisogni da soddisfare (orientamento strategico di fondo) e quello dei manager pubblici è quello di implementare e realizzare le scelte politiche. Alcuni
problemi gestionali sono da attribuirsi a una mancata o scarsa coordinazione
e interdipendenza fra politici e dirigenti, che si traduce in una separazione
fra scelta degli obiettivi e scelta degli interventi idonei a realizzarli (Borgonovi, 1984, p. 45). Per governare il processo direzionale in modo efficace
ed efficiente occorre che ci sia una stretta relazione fra la strategia definita
dai politici e le azioni manageriali. I dirigenti non solo devono sapere raggiungere gli obiettivi analizzando i problemi ma devono, ex ante in fase di
pianificazione, sottoporre ai politici i giusti elementi di analisi e valutazione. Il
dirigente non solo è un esecutore di progetti, ma è un facilitatore dei processi,
propositore di domande, progettista di risposte con più soluzioni gestionali,
effettivo traduttore di indirizzi politico-strategici in obiettivi gestionali. Il dirigente deve riuscire a comprendere quali dati, quantitativi o qualitativi, siano
utili al fine di prendere decisioni in modo consapevole e deve consentire di
delineare le diverse strade percorribili per il raggiungimento degli obiettivi
(Bertola, 2006, pp. 50-51). Il nuovo ruolo assunto dagli enti locali e la presentazione, da parte dei sindaci, di un programma di governo che miri a
rispondere alle nuove dinamiche sociali e a valorizzare i territori, richiede che
venga costantemente esercitata un’azione riconducibile alle fasi del processo
direzionale di pianificazione, organizzazione e controllo rendendo diffuse
le informazioni, consapevoli i processi decisionali e chiare le relazioni fra
azioni e obiettivi di breve e lungo periodo.
Affinché il management possa realizzare gli obiettivi fissati dai politici
occorre che gli stessi siano raggiungibili e che le risorse siano disponibili. In
sostanza appare centrale il processo di pianificazione inteso come fissazione
di obiettivi, organizzazione delle risorse e controllo dei risultati. Il senso di
partecipazione condivisa rafforza l’importanza di un processo coordinato
di pianificazione, organizzazione e controllo e rende più probabile il raggiungimento di performance efficienti ed efficaci.
Volendo soffermarci pertanto sulle funzioni e sul contenuto dell’attività
sembra possibile richiamare il contenuto dell’attività manageriale riconducibile
alla scuola classica (Gulick, 1937) secondo cui le attività manageriali sono:
Planning – Organizing, Staffing, Directing, Co-ordinating, Reporting, Budgeting
(POSDCORB). Tali attività sono collegate alle funzioni manageriali di base ovvero: pianificazione, organizzazione, coordinamento e controllo. Con riferimento
agli enti locali l’indagine sul contenuto dell’attività manageriale sembra cioè
potersi ricondurre alle funzioni classiche svolte dal management.
Alcune ricerche condotte sul management degli enti locali supportano tale
chiave interpretativa evidenziando che le attività manageriali possono essere
ricondotte a tre funzioni principali: management activities, policy activities,
political activities (Newell et al., 1995; French, 2005). Le attività che più impegnano i city manager sono le management activities e le policy activities. Le
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management activities riguardano prevalentemente la gestione del personale,
la direzione generale e la predisposizione del budget. Le policy activities
riguardano il supporto fornito ai politici per l’elaborazione delle politiche
pubbliche e per la scelta, fra differenti opzioni, per la loro implementazione.
Le political activities, che riguardano le attività che comportano la gestione
delle relazioni con soggetti esterni all’ente, sono quelle che occupano in modo
residuale i city manager (Newell et al., 1995; French, 2005). Le management
activities e le policy activities, sono riconducibili alle classiche funzioni di
general management ovvero ai processi di pianificazione, organizzazione,
coordinamento e controllo. Esse rimangono ancor oggi le attività critiche che
un manager, sia pubblico che privato, deve presidiare. Il management non
può che essere considerato un processo complesso nel quale sono simultaneamente assunte decisioni rispetto agli obiettivi da raggiungere, all’impiego delle
risorse, alla conduzione degli uomini, alla verifica delle prestazioni (Sciarelli,
2004). I processi di programmazione delle azioni, organizzazione e controllo dei risultati, sia di breve che di lungo periodo, costituiscono l’essenza di
ogni azione manageriale che si proponga di essere efficiente ed efficace. Il
passaggio da contesti semplici e da chiare relazioni di causa-effetto a contesti
complessi o addirittura caotici, influenza evidentemente il ruolo e l’azione
manageriale. In contesti complessi e caotici il manager deve cercare di incoraggiare la diversità e cercare di prevenire le emergenze (Snowden et al.,
2007). L’azione e i processi decisionali devono essere condotti rapidamente
attraverso l’esercizio di processi di comando e di controllo che possano essere
condivisi e l’attivazione di efficaci flussi di comunicazione. La complessità del
contesto impone che il processo di direzione manageriale sia esercitato con
estrema tempestività e attraverso un coinvolgimento partecipativo e costante
di tutti gli attori organizzativi, ma ciò non muta e non incide sul contenuto e
l’essenza dell’azione manageriale.
3. La ricerca condotta
Con riferimento agli enti locali in Italia la cosiddetta legge “Bassanini ter”
(l. 127/1997), ha istituito la posizione del direttore generale dell’ente locale
per le amministrazioni comunali con popolazione superiore a 15.000 abitanti
e per le amministrazioni provinciali. L’obiettivo è stato di facilitare l’implementazione di processi manageriali efficienti ed efficaci. (2)
2 In particolare, l’art. 108 del d.lgs. 267/2000 (ex art. 6 della legge 127/1997) stabilisce che
il sindaco nei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti e il presidente della Provincia, previa deliberazione della Giunta comunale o provinciale, possono nominare un direttore generale, al di fuori della dotazione organica e con contratto a tempo determinato, e secondo criteri stabiliti dal regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi, che provvede ad
attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente, secondo le direttive
impartite dal sindaco o dal presidente della Provincia, e che sovrintende alla gestione dell’ente,
perseguendo livelli ottimali di efficacia ed efficienza. Compete in particolare al direttore generale la predisposizione del piano dettagliato di obiettivi, nonché la proposta di piano esecutivo di
gestione. A tali fini, al direttore generale rispondono, nell’esercizio delle funzioni loro assegnate, i dirigenti dell’ente, ad eccezione del segretario del Comune e della Provincia.
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Ne è conseguito, almeno negli enti che hanno nominato un direttore
generale esterno, un ridimensionamento della figura del segretario comunale
che era stato tradizionalmente il vero capo delle amministrazioni. La legge
istituiva del direttore generale prevede comunque la possibilità di attribuire
la funzione di direzione generale al segretario comunale. Ne nascono
quindi due situazioni:
1. Direttore generale “puro”: in questo caso il sindaco attribuisce il ruolo
di direttore generale a un soggetto indipendente e in generale (non sempre)
esterno all’ente. Il segretario generale permane nel ruolo e nella sua funzione
di controllo ex ante ed ex post della legittimità dei provvedimenti. I compiti del
segretario comunale in tal caso divengono esclusivamente quelli di fornire idonea assistenza alla giunta e al consiglio comunale per la stipula dei contratti,
delle transazioni e delle scritture private; di svolgere completa istruttoria delle
proposte di delibera; di relazionare su richiesta degli assessori e del sindaco
su ogni argomento prima e durante la giunta; di rendere i pareri sulle proposte
di delibera da sottoporre all’esame del consiglio comunale e della giunta in
assenza di responsabili di settore; di certificare la presenza dei consiglieri e
degli assessori alle riunioni delle rispettive assemblee; di assicurare l’accesso
dei consiglieri agli atti posti all’ordine del giorno dal consiglio;
2. Segretario-direttore: in questo caso la funzione di direzione generale
viene attribuita (in genere con un incremento della retribuzione) al segretario
generale in carica che, mantenendo anche il suo precedente ruolo, si trova
a essere figura unica di vertice.
Le competenze attribuite a chi esercita la funzione di direzione generale negli enti
locali consistono da un punto di vista normativo: 1) nell’attuare gli indirizzi e gli
obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente, secondo le direttive impartite
dal Sindaco, 2) nel sovrintendere alla gestione dell’ente, perseguendo livelli
ottimali di efficacia ed efficienza, 3) nel predisporre il piano dettagliato degli
obiettivi, nonché la proposta di piano esecutivo di gestione. Anche la legge
cioè nel richiamare i compiti e il contenuto dell’azione manageriale si riferisce
ai classici processi di pianificazione, organizzazione e controllo.
Il ruolo manageriale si ricollega a un insieme di attività specifiche e tali da
non poter essere né confuse né assimilate alle attività connesse alla funzione di
verifica e di tutela della legalità. Il riconoscimento di funzioni direzionali porta ad
assegnare anche al segretario comunale un ruolo “programmatorio strategico”
nel cui ambito si esplica la funzione di collaborazione con gli organi di governo,
un ruolo “organizzativo” e un ruolo di “monitoraggio” del raggiungimento degli
obiettivi dell’ente (direttiva Agenzia albo segretari comunali 5/2006). (3)
3 Una proposta del Codice delle autonomie locali, prevede che in ogni ente locale vi sia un
solo vertice dell’apparato burocratico, per cui la prospettiva che sembra aprirsi per i direttori generali potrebbe essere quella, tutta da discutere viste le resistenze della categoria dei segretari comunali, di consentire loro la iscrizione in un albo unico dei segretari e dei direttori di nomina esterna.
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Nel corso degli anni i direttori generali esterni si sono scontrati con i
segretari. Lo scontro con i segretari è avvenuto a causa della duplicazione
del vertice burocratico che, a volte, li ha visti in contrapposizione all’interno di una stessa amministrazione con ruoli e responsabilità formalmente
separati, ma inevitabilmente fortemente collegati.
Per comprendere come effettivamente operano e quali attività svolgono,
si è condotta un’indagine empirica sul contenuto dell’attività dei segretari
comunali con incarico di direzione generale e dei direttori generali esterni.
(4) Nel periodo gennaio-marzo 2008 si è somministrato un questionario
ai segretari con incarico di direzione e ai direttori generali operanti nei
Comuni italiani con popolazione superiore a 15.000 abitanti. (5) Si è
inteso verificare se il contenuto dell’attività manageriale posta in essere
dai direttori generali esterni e dai segretari con incarico di direzione è lo
stesso o se il fatto di appartenere a categorie con carriere e ruoli in parte
differenti influenza il contenuto dell’azione manageriale. Si è cercato di
comprendere se le due figure manageriali oggetto di indagine assumono
orientamenti manageriali comuni o se, viceversa, esistono elementi di differenziazione sul piano dell’implementazione di processi di coordinamento
e impulso manageriale.
Le risposte pervenute sono state 99 così suddivise:
• 39 risposte date da direttori generali esterni;
• 60 risposte date da segretari generali con incarico di direttore
generale.
I due gruppi di soggetti si sono assunti come variabili indipendenti e si è sottoposto a verifica empirica il contenuto dell’azione di governo posta in essere
da ciascuno dei due gruppi professionali. Si è chiesto ai segretari comunali
con incarico di direzione generale e ai direttori generali esterni di esprimersi
in merito all’attività manageriale svolta nell’ambito dei processi manageriali
classici di pianificazione; organizzazione e controllo di gestione.
L’attuale normativa degli enti locali lascia spazio affinché ogni ente
costruisca un proprio originale sistema di programmazione, gestione e
controllo. Pertanto, assumendo come base di analisi le classiche attività
manageriali: pianificazione, organizzazione e controllo si è sottoposto
a verifica empirica il contenuto dell’attività manageriale posta in essere
nei Comuni dai segretari generali con incarico di direzione generale e
dai direttori generali esterni. Attraverso il ricorso all’indagine empirica
4 Da un punto di vista metodologico la fase di somministrazione dei questionari è stata preceduta da una fase di pre-test condotta attraverso interviste personali volte a definire nel dettaglio le domande da includere nel questionario, successivamente i questionari sono stati inviati per posta elettronica con la collaborazione di Forum PA che ha consentito la compilazione on line.
5 La popolazione di riferimento è costituita da 143 Comuni che hanno istituito la posizione
di direttore generale e da 262 Comuni che hanno attribuito la funzione di direttore generale
al segretario generale (fonte: Forum PA, 2007).
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si è cercato di comprendere se l’azione manageriale svolta nei Comuni
dai direttori generali esterni assume contenuti diversi da quella posta in
essere dai segretari generali con incarico di direzione generale. In altri
termini si è cercato di comprendere se la nomina di un manager esterno
consente una maggiore focalizzazione sul processo direzionale di governo
dell’ente locale e il raggiungimento di livelli più elevati di efficienza e di
efficacia di quanto non accade se la direzione generale viene affidata al
segretario generale.
Si è quindi analizzato se e in che modo le due figure manageriali:
• collaborano alla formulazione dei processi di pianificazione;
• intervengono nell’adottare le scelte organizzative e partecipano
all’adozione di strutture e logiche organizzative;
• sottopongono a monitoraggio le scelte adottate;
• adottano sistemi di analisi dei risultati come supporto per l’assunzione
di successive scelte gestionali.
Dopo aver indagato sul contenuto dell’azione manageriale si è chiesto ai
due gruppi di dichiarare la percezione del proprio ruolo sulla base della
convinzione che un diverso impegno manageriale possa dipendere anche
dal fatto che la modalità di assunzione per pubblico concorso e i compiti
attribuiti per legge al segretario comunale, ne influenzano l’effettivo comportamento anche qualora esso assuma l’incarico di direttore generale.
4. I risultati della ricerca
L’analisi dei dati raccolti è stata svolta considerando congiuntamente le
risposte date dai due gruppi oggetto di indagine ovvero ricorrendo alla
tecnica dell’analisi bivariata.
Per ciascuna delle risposte date si sono costruite delle tabelle a doppia
entrata che riportano le percentuali di risposta in ciascuna delle due categorie e nel totale dei rispondenti e si sono confrontate le modalità di risposta
dei due gruppi per verificare l’ipotesi di ricerca assunta. Le risposte fornite
ai quesiti posti si sono sottoposte al test dell’ipotesi nulla per verificare la
significatività/non significatività di eventuali differenze nelle risposte ricevute
dai due gruppi. (6) Non sempre le differenze nelle risposte sono state assunte
come significative alla luce dell’applicazione del test dell’ipotesi nulla, ma
la non eccessiva numerosità dei casi analizzati non può portare a escludere
che, anche laddove il test dell’ipotesi nulla non consenta di considerare
significative le differenze, esse assumano valore.
Dall’analisi delle risposte raccolte emerge che il contenuto dell’attività
6 Fra i diversi test che consentono di verificare le connessioni fra le variabili osservate si è
scelto il test Chi Quadrato di Pearson. Il valore del test si considera significativo quando risulta inferiore a 0,05.
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manageriale posta in essere dai due gruppi di soggetti presenta differenze
a volte significative e a volte meno rilevanti (tabelle 1, 2, 3, 4 e 5).
Considerando le policy activities, ovvero la partecipazione al processo
di pianificazione, dall’indagine emerge che i due gruppi si comportano
in modo differente (cfr. tabella 1). I direttori generali esterni collaborano
sempre alla definizione degli indirizzi di politica pubblica. Più in dettaglio
emerge che nel 55,3% dei casi i direttori generali dichiarano che collaborano all’elaborazione degli indirizzi di politica pubblica, nel 44,7%
invece dichiarano di collaborare in parte all’elaborazione degli indirizzi
di politica pubblica. Il processo di pianificazione si può cioè ritenere condiviso. I direttori generali esterni non si pongono quali semplici esecutori
di scelte politiche e la logica della strategia concordata è pienamente
presente nei Comuni che hanno optato per la nomina di un direttore
generale esterno. I segretari generali con funzione di direzione generale
invece nel 12,5% dei casi non collaborano affatto alla definizione degli
indirizzi di politica pubblica e, nel 60,7% dei casi, collaborano solo in
parte. Solo nel 26,8% dichiarano di collaborare all’elaborazione degli
indirizzi di politica pubblica.
Tabella 1– La partecipazione al processo di pianificazione
Collabora all’elaborazione
degli indirizzi
di politica pubblica?
Direttori
generali
esterni
Segretari generali
con funzione
di direzione generale
TOTALE
Sì
55,3%
26,8%
38,3%
in parte
44,7%
60,7%
54,3%
12,5%
7,4%
100,0%
100,0%
affatto
totale
100,0%
Chi quadrato = 0,05
Il risultato dell’analisi è particolarmente critico sul piano dell’effettivo coinvolgimento manageriale perché evidentemente il fatto di non partecipare
alla pianificazione si può riflettere anche sul governo delle fasi successive
dell’organizzazione e del controllo. È probabile che chi non partecipa ai
processi di pianificazione manifesti delle difficoltà nel sentirsi pienamente
responsabile di processi di organizzazione e monitoraggio.
Per quanto riguarda le management activities con riferimento ai processi
organizzativi si è chiesto ai due gruppi se essi definiscono e progettano la
struttura organizzativa (cfr. tabella 2). Nell’81,6% dei casi i direttori generali esterni rispondono che hanno decisamente contribuito a progettare
la struttura organizzativa del Comune che dirigono, nel 18,4% dichiarano
che hanno contribuito “solo in parte”. I segretari generali con funzione di
direzione generale nel 75% dei casi hanno decisamente contribuito a progettare la struttura organizzativa del Comune che dirigono e nel 25% dei
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casi hanno contribuito “solo in parte”. Anche in questo caso si evidenziano
alcune differenze. Il direttore generale esterno partecipa maggiormente ai
processi di definizione organizzativa.
Tabella 2 – Il coinvolgimento organizzativo
Ha contribuito a progettare
la struttura
organizzativa del Comune che dirige?
Direttori
generali
esterni
Segretari generali
con funzione
di direzione generale
TOTALE
Sì
81,6%
75,0%
77,7%
Solo in parte
18,4%
25,0%
22,3%
100,0%
100,0%
100,0%
totale
Chi quadrato = 0,452 (Valore non significativo)
Per quanto riguarda l’attività manageriale di controllo di gestione essa
riguarda le scelte che i due gruppi assumono nella definizione dei processi
di controllo di gestione (cfr. tabella 3). Nel 79,5% dei casi i direttori generali
esterni rispondono che partecipano attivamente alla definizione del sistema
di controllo di gestione, nel 10,3% dei casi partecipano solo in parte e nel
10,3% non partecipano affatto. I segretari generali con funzione di direzione
generale invece nel 66,1% dei casi partecipano attivamente alla definizione
del sistema di controllo di gestione, nel 23,2% dei casi partecipano solo
in parte alla definizione del sistema di controllo di gestione e nel 10,7%
dei casi non partecipano affatto. Anche per quanto riguarda la fase del
controllo si evidenziano significative differenze. Mentre nella quasi totalità
dei casi il direttore generale esterno partecipa attivamente alla definizione
del sistema di controllo di gestione, il segretario comunale con funzione di
direzione generale si colloca in posizione intermedia fra il sentirsi decisamente partecipe e il sentirsi partecipe solo in parte.
Tabella 3 – Il coinvolgimento nel processo di controllo di gestione
Partecipa attivamente
alla definizione
del sistema
di controllo?
Direttori
generali esterni
Sì
Solo in parte
No
totale
79,5%
10,3%
10,3%
100,0%
Segretari generali
con funzione
di direzione
generale
66,1%
23,2%
10,7%
100,0%
TOTALE
71,6%
17,9%
10,5%
100,0%
Chi quadrato = 0,254 (Valore non significativo)
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Considerando infine in che modo i due gruppi di soggetti partecipano
alla definizione del sistema di controllo emerge che i direttori generali esterni
nel 44,7% dei casi intervengono suggerendo gli elementi da sottoporre
a controllo, nel 23,7% dei casi assumono nuove decisioni sulla base dei
riscontri del controllo di gestione, nel 28,9% individuano indicatori qualitativi e quantitativi da inserire fra i fattori di controllo e solo nel 2,6% dei
casi si limitano a richiedere periodicamente il referto. I segretari generali
con funzione di direzione generale nel 23,2% dei casi suggeriscono gli
elementi da sottoporre a controllo, nel 23,2% dei casi assumono nuove
decisioni sulla base dei riscontri del controllo di gestione, nel 39,3% dei
casi individuano indicatori qualitativi e quantitativi da inserire fra i fattori
di controllo e nel 14,3% dei casi si limitano a richiedere periodicamente il
referto del controllo di gestione (cfr. tabella 4).
Tabella 4 – Il governo del processo di controllo
In che modo partecipa alla definizione
del sistema di controllo?
Direttori
generali
esterni
Segretari generali
con funzione
di direzione
generale
TOTALE
Suggerendo gli elementi da sottoporre a controllo
44,7%
23,2%
31,9%
Assumendo nuove decisioni sulla base
dei riscontri del controllo di gestione
23,7%
23,2%
23,4%
28,9%
39,3%
35,1%
2,6%
14,3%
9,6%
100,0%
100,0%
100,0%
Individuando indicatori qualitativi e quantitativi
Richiedendo periodicamente il referto
totale
Chi quadrato = 0,04
Rispetto a ciascuna delle tre fasi del ciclo direzionale i due gruppi
analizzati manifestano con evidenza un diverso impegno, un diverso
coinvolgimento e una diversa partecipazione. Sembra potersi osservare
che i segretari generali con funzione di direzione generale sono meno
coinvolti nel governo dei processi manageriali rispetto ai direttori generali esterni.
A un diverso atteggiamento e coinvolgimento nei confronti dei processi
propriamente manageriali corrisponde un differente modo di intendere il
proprio ruolo all’interno delle amministrazioni locali. In particolare si sono
poste alcune domande collegate alla percezione del proprio ruolo all’interno
dell’organizzazione e anche da questa analisi emergono alcune differenze
significative. I segretari con funzione di direzione generale si identificano
prevalentemente con un decisore che contribuisce a elaborare e gestire
azioni, i direttori generali esterni si identificano prevalentemente con un
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decisore che contribuisce a elaborare e gestire azioni e con un manager
che attua le direttive del sindaco e della giunta (cfr. tabella 5).
Tabella 5 – La percezione del ruolo
Nel definire la sua attività con chi si
identifica prevalentemente?
Direttori generali
esterni
Manager che attua le direttive del sindaco
e della giunta
Funzionario che applica in modo imparziale
le leggi
Decisore che contribuisce a elaborare
e gestire azioni
Tecnico che fornisce un contributo
specialistico all’at
Segretari generali
con funzione
di direzione generale
42,1%
50,0%
21,4%
29,8%
16,1%
9,6%
62,5%
57,4%
7,9%
totale
100,0%
TOTALE
3,2%
100,0%
100,0%
Chi quadrato = 0,02
La percezione del proprio ruolo sembra suggerire qualche osservazione
con riferimento all’interpretazione dei risultati emersi dall’analisi del contenuto delle attività manageriali. I direttori generali esterni effettivamente
presidiano in modo più attivo e incidono maggiormente sulle scelte di
pianificazione, organizzazione e controllo perché probabilmente percepiscono diversamente il proprio ruolo. Sentono di dover contribuire a
definire gli obiettivi e di dover impegnarsi per fare in modo che gli obiettivi
siano raggiunti. Il modello di performance management, e quindi la focalizzazione sul raggiungimento di standard di risultato, sembra essere più
facilmente realizzato nelle amministrazioni locali governate da un manager
esterno. I direttori generali esterni hanno in sostanza una percezione del
proprio ruolo molto più coerente con un modello manageriale di quanto
non accada se si analizza l’approccio dei segretari generali con funzione
di direzione generale.
5. Implicazioni emerse
L’implicazione emersa dalla ricerca è che i direttori generali esterni presidiano maggiormente i processi manageriali di quanto non facciano i
segretari generali con funzione di direzione generale. Ciò probabilmente è
correlato a un modo diverso di intendere il proprio ruolo che non è neutrale
rispetto ad azioni e comportamenti concreti. Se un professionista viene
nominato dall’esterno e viene chiamato manager è consapevole che deve
contribuire alla programmazione, sia pure in modo sinergico e coordinato
con i politici, deve organizzare e deve controllare l’implementazione delle
scelte. I segretari generali anche se nominati direttori generali, sono con639
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centrati almeno in parte, su funzioni e compiti ben definiti di tutela della
legalità. Il diverso atteggiamento nei confronti delle funzioni e dei compiti
intrinsecamente manageriali è probabilmente collegato a un modo diverso
di intendere il proprio ruolo e al fatto che mentre i compiti assegnati al segretario comunale hanno una fonte certa, ovvero rispondono a un preciso
dettato normativo, l’azione di governo manageriale non ha un contenuto
ben definito. I segretari generali hanno superato un concorso pubblico e
la funzione manageriale è un’opzione nel senso che può o meno essere
loro affidata. È pur vero che anche a prescindere dal fatto che formalmente vengano loro affidati ruoli manageriali essi, soprattutto se non è stato
nominato un direttore generale esterno, sono spesso chiamati a svolgere
un ruolo e delle attività propriamente manageriali, ma il loro impegno nei
Comuni ha un carattere e un contenuto più ampio di quello esclusivamente
manageriale. Ciò probabilmente rappresenta un elemento che condiziona
il contenuto della loro attività e rende il loro impegno meno focalizzato su
processi e attività propriamente manageriali. Una tale interpretazione è
coerente con l’assunto più generale, peraltro ampiamente condiviso, che la
storia, la cultura e le regole esercitano una profonda influenza nel determinare assetto, caratteristiche e logiche di funzionamento del settore pubblico
e dunque le condizioni dell’operare dei singoli istituti pubblici (Borgonovi,
Ongaro, 2000, p. X). In Italia peraltro le riforme in parte ispirate a filoni
di pensiero di matrice anglosassone come il New Public Management, si
scontrano con la persistenza di un retaggio napoleonico che influenza lo
sviluppo delle pubbliche amministrazioni anche attraverso l’operare dei
dipendenti pubblici (Borgonovi, Ongaro, 2000, p. XII).
L’assegnazione di funzioni di direzione generale a un segretario comunale a volte viene percepita come l’assegnazione di funzioni già svolte
cui non corrisponde un preciso o diverso impegno. I segretari comunali,
forse a volte pur senza dichiararlo apertamente, si domandano cosa
significa svolgere il ruolo di direttore generale. Talvolta si interrogano sui
contenuti dell’azione manageriale svolta dal direttore generale esterno
ritenendosi detentori di funzioni e compiti sovraordinati perché legittimati
dalla normativa.
Il problema vero è che forse si dovrebbe discutere un po’ di più di cosa
significhi governo manageriale delle amministrazioni pubbliche e di cosa
i manager pubblici, al di là degli obblighi normativi, debbano fare per
favorire l’affermarsi di percorsi di aziendalizzazione evoluta e per favorire
il raggiungimento di obiettivi di efficienza ed efficacia oltre agli obiettivi
di legalità ed equità.
Anche se è innegabile che le competenze e le capacità dei dirigenti
pubblici non siano neutrali rispetto al raggiungimento di condizioni di efficienza ed efficacia da parte delle stesse amministrazioni pubbliche, non
sono state formulate teorie e analisi focalizzate sul contenuto dell’azione e
dei processi manageriali. In genere sono state utilizzate variabili di approssimazione (indicatori di performance) che, nel giudicare lo stato di salute
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di un’amministrazione pubblica, rappresentassero contemporaneamente
anche una misura indiretta della capacità propria dei soggetti posti alla
guida. (7) Da quando il New Public Management ha focalizzato l’attenzione
sull’orientamento al risultato, si è sviluppato un dibattito scientifico riguardante il performance management nella pubblica amministrazione inteso
appunto come amministrazione basata sull’analisi e valutazione dei risultati
(Calciolari et al., 2008). Il performance management responsabilizza i
soggetti sia in termini di azioni e comportamenti che in termini di risultati
dell’azione svolta e si basa su una specificazione ed esplicitazione degli
obiettivi dell’organizzazione.
Nel dibattito sul performance management la responsabilità manageriale
nel settore pubblico, al pari di quanto accade in quello privato, non implica
soltanto il dovere di agire e il poter essere chiamati a rispondere per la
violazione dei doveri d’ufficio, ma si declina con competenza e capacità
professionale, sanzionata dalla valutazione dei risultati e dalle relative
conseguenze sul mantenimento dell’incarico. La competenza e la responsabilità manageriale richiamano il saper fare e il come fare nell’ambito dei
processi organizzativi. Il performance management sottolinea l’importanza
della discrezionalità manageriale e dell’autonomia nel saper fare e nel
come fare e propone un controllo sui processi a fronte e un aumento della
responsabilità sui risultati. (8) Il saper fare e il come fare non possono che
collegarsi ai processi che si considerano tradizionalmente e inevitabilmente
connessi all’esercizio dell’azione manageriale.
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7 Una recente ricerca (Forum PA, 2007) ha sottoposto a verifica la tesi che esista una correlazione tra avere la figura del direttore generale ed essere una “buona amministrazione” andando a guardare la presenza o meno di questa figura tra le amministrazioni prime o ultime
della classe, nelle varie classifiche che soggetti diversi hanno presentato nel corso degli anni.
I risultati emersi dalla indagine sono che: esiste un significativo rapporto tra essere in testa alle
classifiche e avere attivato la figura del direttore generale “puro”. Viceversa, come controprova, esiste una significativa ed anche maggiore correlazione tra essere fanalini di coda delle
classifiche e non avere la figura del direttore generale. Ovviamente però i dati non precisano
la direzione di questa correlazione: ossia se sono gli enti migliori a scegliere il DG o, viceversa, è la presenza del DG che fa migliore l’ente. Inoltre la posizione nelle varie classifiche non
può che essere il risultato di scelte manageriali adottate negli anni precedenti per cui la correlazione si sarebbe dovuta compiere considerando la presenza o meno del direttore generale
nei 3-5 anni precedenti a quelli relativi alla posizione dei Comuni nelle varie classifiche.
8 Sulla problematicità dell’applicazione del performance management si rimanda a Calciolari et al. (2008).
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Esperienze innovative
Misurare le performance
Gestione della pubblica amministrazione basata sui risultati:
criticità, strumenti e prospettive
Stefano Calciolari
Ricercatore CERGAS, Università Bocconi, Assistant professor, Università della Svizzera Italiana
Sommario: 1. Introduzione. 2. Inquadramento teorico. 3. Aspetti critici del performance management nel settore pubblico.
4. Evoluzione della rendicontazione: risposte e limiti. 5. Discussione. 6. Conclusioni.
In questo momento storico, letteratura e dibattito politico sostengono con forza la priorità di
promuovere una gestione della pubblica amministrazione orientata ai risultati attraverso sistemi
di performance measurement, ossia sistemi di misurazione dei risultati. Tuttavia, considerando le
esperienze maturate su tali sistemi in altri Paesi non emergono indicazioni univoche. Dalla letteratura in materia emergono tre fondamentali criticità distintive riguardanti l’utilizzo di tali sistemi nel
settore pubblico (rispetto a quello privato, dove tradizionalmente sono più diffusi). Sono analizzati
nell’articolo quattro importanti sistemi di misurazione delle performance adottati nelle amministrazioni
pubbliche rispetto al contributo da loro offerto ad affrontare le tre criticità evidenziate. Dall’analisi
emergono interessanti indicazioni per promuovere la diffusione di questi sistemi coerentemente con
le specificità della pubblica amministrazione.
The recent literature and the current political debate strongly promote a results-oriented Public
Administration through the introduction of performance measurement systems. However,
experiences in other countries that are oriented towards performance measurement systems do not
converge, thus suggesting specific problems in the public sector. The literature review reveals three
fundamental critical aspects associated with the introduction of such systems in the public sector
(compared to the private sector, where they are more diffused). Therefore, four among the main
performance measurement systems adopted by Public Administrations are analyzed according
to their contribution to face the three analyzed critical aspects. Results of the analysis suggest
interesting guidelines to foster performance management systems coherent with specificities of
the Public Administration.
L’articolo è una elaborazione del paper presentato al III Workshop Nazionale di Azienda Pubblica Governare
e programmare: l’azienda pubblica tra innovazione e sviluppo al servizio del cittadino e del Paese, Università di
Salerno - Università degli Studi del Sannio, giugno 2008.
Parole chiave: performance management – performance measurement – controllo
Key words: performance management – performance measurement – control
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1. Introduzione
In uno degli ultimi rapporti sull’opinione pubblica nell’Unione europea, il 36%
dei cittadini associa il concetto di “Pubblica amministrazione” a qualcosa
di negativo; percentuale che sale al 44% per i cittadini italiani. Tuttavia, a
entrambi i livelli, l’opinione è positiva riguardo al concetto di “Welfare State”
per una larga maggioranza: 59% per i cittadini europei, 64% per gli italiani
(Commissione Europea, 2007; European Commission, 2007). Ovviamente
queste percezioni variano nel tempo, ma sembra che vi sia un certo rapporto
conflittuale tra riconosciuto bisogno di pubblico e soddisfazione/fiducia verso
la sua capacità di rispondere. In merito, gli autori del libro Why people don’t
trust government evidenziano quali principali ragioni del declino di fiducia
nelle istituzioni pubbliche l’inefficienza, lo spreco di risorse e le spese sostenute
per cose inutili (Nye et al., 1997, p. 1, 55). Benché l’analisi riguardi gli Stati
Uniti, i risultati sono indicativi di un aspetto importante per comprendere i fattori
su cui si basa l’equilibrio del ruolo legittimo della pubblica amministrazione:
l’utilizzo efficiente ed efficace delle risorse.
La produttività della pubblica amministrazione è sempre più al centro
dell’attuale dibattito politico, per le sue implicazioni organizzative, sociali,
culturali e morali. Ciò che nel settore privato è affidato al gioco delle forze di
mercato (anche se, come purtroppo i recenti sviluppi dell’economia testimoniano, con esiti non sempre edificanti), nel settore pubblico sembra un nodo
critico per il quale si rendono spesso necessari interventi politico-istituzionali. Se
prima dell’attuale crisi i detrattori di un modello di “Stato minimo” vantavano,
più o meno implicitamente, l’assunto che il soggetto privato fosse superiore
a quello pubblico nella gestione delle risorse, ora questa posizione appare
molto debole e rende ancora più importante la questione iniziale.
Non è un caso che nell’ultimo decennio siano state promosse le cosiddette
spending review, ovvero analisi sistematiche della spesa pubblica seguite
dall’emanazione di raccomandazioni in merito a come “spendere meglio”
le risorse pubbliche. Un esempio emblematico, per il suo pionierismo e
la sua trasparenza, è il caso inglese di cui si parla in seguito. In Italia la
spending review (richiesta del Ministro dell’economia e delle finanze della
XVI legislatura) si è ad ora attuata come missione tecnica di economisti del
Dipartimento per Affari fiscali del Fondo monetario internazionale, che nel
periodo marzo-aprile 2007 ha prodotto un documento (1) con raccomandazioni circa la riclassificazione del bilancio e l’integrazione di spending
reviews nell’ambito del processo di bilancio.
Corollario rispetto a quanto detto è il fatto che la Pubblica amministrazione è chiamata a rispondere dell’uso delle risorse. Tuttavia, l’attuazione
di questo principio deve affrontare la complessità dei sistemi necessari a
rendere le organizzazioni pubbliche responsabili rispetto a molteplici di1 “Budget System Reforms” (www.rgs.mef.gov.it/VERSIONE-I/Finanza-Pu/L-avvio-de/index.
asp; consultato nel marzo 2008).
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mensioni (Borgonovi, 2002, pp. 32-41), tra cui quella dell’efficienza. Infatti,
la letteratura nordamericana – tutt’altro che refrattaria a sostenere riforme
a favore dell’efficienza della pubblica amministrazione – avverte esplicitamente che il sistema democratico non è concepito per essere efficiente
nel produrre azioni, ma piuttosto garante di valori attraverso il confronto
dialettico degli interessi (Nye e altri, 1997, p. 5; Thompson, 2006).
Soprattutto con l’affermarsi del movimento denominato New Public
Management (De Bruijn, 2002; Holzer, Yang, 2004; Hood, 1991; Pollitt,
Bouckaert, 2004), si è diffusa la convinzione che la responsabilizzazione
della Pubblica amministrazione necessiti l’implementazione di sistemi in grado di legare la gestione ai risultati (o performance) piuttosto che al rispetto
di regole formali. Il risultato atteso è il cosiddetto performance management,
ovvero una gestione in cui la “performance” rappresenta l’elemento su cui
i soggetti coinvolti sono chiamati a essere responsabili. Il fondamento della
responsabilizzazione è costituito dalla condivisione del principio secondo
cui l’operato di un soggetto è giudicato da un altro soggetto sulla base di
informazioni e dati indicativi della performance.
Tuttavia, se da un lato il concetto di performance sembra ben interpretare
le esigenze di risposta a problemi strutturali del settore pubblico, dall’altro è
importante considerare le implicazioni che la traduzione pratica di questo
sistema comporta nel settore pubblico.
In tal senso, questo contributo, dopo un breve inquadramento teorico sul
performance management e le sue criticità – basato sulla letteratura di public
management e public administration (che fin dagli anni ’90 si è dimostrata
molto interessata al tema) – discute limiti e punti di forza di alcuni rilevanti
strumenti di misurazione delle performance diffusi nel settore pubblico. I successivi due paragrafi, dunque, sintetizzano concetti, implicazioni e difficoltà
di applicazione del performance management nel settore pubblico. Il quarto
paragrafo presenta quattro rilevanti strumenti di performance management
nel contesto pubblico e il quinto paragrafo cerca di evidenziare il ruolo
di tali strumenti nel superare le suddette criticità. Il contributo termina con
alcune considerazioni conclusive orientate a stimolare il dibattito scientifico
sul performance management nella pubblica amministrazione.
2. Inquadramento teorico
Il performance management è una particolare configurazione del sistema
di accountability, ovvero di quel sistema che presidia: (a) il rendere conto
a un soggetto (accountee) di azioni o comportamenti di un altro soggetto
(accountor); e (b) la conseguente gestione della responsabilità di tali azioni e
comportamenti (Romzek, Dubnick, 1987; Sinclair, 1995; Steccolini, 2003).
Gli elementi essenziali di un sistema di accountability sono: (i) la presenza di
una relazione tra due o più soggetti, in base alla quale alcuni (accountor-s)
hanno delega a operare e altri (accountee-s) a valutarne l’operato; (ii) la
definizione di attese (ossia obiettivi) sulla cui base vengono emessi dei giu647
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dizi attraverso un’attività di valutazione; (iii) il trasferimento d’informazioni
di “rendicontazione” tra questi soggetti (Steccolini, 2004).
In questo senso, anche la burocrazia è un sistema di accountability, in cui
un soggetto – gerarchicamente superiore – verifica l’esecuzione di attività da
parte di un altro soggetto in conformità a procedure predefinite e ordini impartiti. Nel performance management, invece, l’accento è posto sull’efficienza e
sull’orientamento al risultato quali elementi principe di valutazione, contrapposti
al semplice rispetto formale di norme/procedure (Borgonovi, 2002).
L’ampiezza del dibattito rende difficile formalizzare definizioni soddisfacenti sul piano teorico e operativo. In proposito, Rogers (1999) esplicita
un’accezione ampia di performance management che identifica due aspettichiave: (a) il processo tramite cui il concetto di performance è definito e
condiviso, i criteri di performance sono stabiliti e, sulla base di tali criteri,
sono espressi giudizi su chi è valutato; (b) il processo che conduce un’organizzazione pubblica al raggiungimento di una determinata performance (o
risultato). L’Audit Commission del Regno Unito focalizza l’attenzione su due
aspetti tecnici rispettivamente strumentali ai precedenti (Audit Commission,
1995a; 1995b) (2): (i) il percorso di declinazione della strategia in specifici
obiettivi di risultato e la loro conseguente traduzione in indicatori o target;
(ii) la realizzazione di un sistema di misurazione che supporti validamente
l’applicazione di un modello di incentivi e sanzioni in grado di motivare
unità organizzative e individui verso il raggiungimento di performance
predefinite (Kim, 2005; Swiss, 2005).
Su tali basi è possibile fondare efficacemente l’apprendimento organizzativo sulla “valutazione”, ovvero il sistema di tracciamento delle performance
– ai diversi livelli in cui si manifestano i giudizi – finalizzato a stimolare gli
interventi necessari al loro miglioramento.
Tuttavia, si ravvisano alcuni fondamentali aspetti critici. Innanzitutto, per
motivi storici e istituzionali, nella pubblica amministrazione la gestione è
process-oriented piuttosto che results-oriented (Borgonovi, 2002; Halachmi,
1982; Halachmi, 1992). Le due logiche di gestione presentano aspetti di
conflittualità (Thompson, 2006, p. 496; Wholey, 1983, p. 5). In effetti, la
logica process-oriented – coerente con il modello organizzativo burocratico
– si basa sul principio della conformità a regole predefinite e dal cui rispetto
dovrebbero discendere i risultati attesi, mentre la logica results-oriented non
assume i risultati conseguenti al rispetto di regole predefinite. Perciò, gli
assetti giuridico-istituzionali delle amministrazioni pubbliche, tipicamente
ispirati al principio della conformità, non sono immediatamente conciliabili
con un orientamento ai risultati.
In secondo luogo, i principi guida della “misurazione” sono applicabili
in modo relativamente semplice rispetto agli output, ma non altrettanto rispetto agli outcome – per i quali i problemi di misurazione risultano notevoli.
2 La definizione ricalca sostanzialmente quella dell’OECD (1995).
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Questo, ovviamente, ha implicazioni problematiche in sede di valutazione;
anche se quanto più le misure sono rappresentative di outcome, tanto più
risulta che siano poi effettivamente utilizzate a fini decisionali (Ammons,
Rivenbark, 2008). In effetti, l’OECD sostiene che il principale obiettivo del
performance measurement dovrebbe essere quello di offrire ai processi
decisionali evidenze sugli outcome per la collettività per promuoverne il
continuo miglioramento (OECD, 1994, p. 13).
Infine, ma non ultimo in ordine d’importanza, già Nutley e Osborne (1994)
avevano classificato il performance management come manifestazione particolare dei modelli decisionali razionali. Tali modelli hanno trovato largo impiego
nell’ambito della valutazione dei programmi pubblici, ma presentano limiti
tecnici rispetto ad alcuni ambiti applicativi e in assenza di alcune condizioni
di base. Questo, come si vedrà meglio in seguito, può rendere discutibile
l’attendibilità d’indicatori di performance apparentemente oggettivi.
Il paragrafo successivo approfondisce, con particolare riferimento al
contesto pubblico, le tre fondamentali criticità appena introdotte. L’analisi
si avvale del supporto di esperienze concrete e degli studi (anche empirici) – ormai abbondanti in letteratura – sui limiti e i benefici dell’approccio
gestionale basato sulle performance.
3. Aspetti critici del performance management nel settore
pubblico
Il primo aspetto critico del performance management riguarda un suo fondamentale presupposto che, nel momento in cui andava elaborandosi la
“retorica” a suo favore negli anni ’80 e ’90, si è rivelato molto in sintonia
con i principi del New Public Management: l’incremento della discrezionalità
dei manager pubblici attraverso un rilassamento dei controlli sui processi
(Thompson, 2006). In effetti, dal punto di vista logico, l’autonomia è condizione per un’effettiva responsabilizzazione sui risultati. Tuttavia, la concezione
storica del merit system (che, a livello globale, ancora oggi caratterizza le
amministrazioni pubbliche in netta prevalenza rispetto allo spoils system) è
basata sul principio fondamentale di minimizzazione della pressione politica sulla burocrazia pubblica (Ingraham, 2006; Woodard, 2005). Questo
principio, anche se in parte ridimensionato dalle recenti riforme, (3) trova
storicamente nella codificazione della procedura e nel controllo formale del
processo elementi di contrasto all’ingerenza della politica.
In letteratura, una soluzione teorica al dilemma consiste nel costruire un
sistema di valutazione oggettivo, non influenzabile dunque dalla politica
poiché basato su evidenze indiscutibili (Swiss, 2005, p. 595). In questo
3 Come esempi si riportano: per gli Stati Uniti, il Civil Service Reform Act del 1978 e il Government Performance and Results Act del 1993, che hanno introdotto numerose misure di flessibilità
del rapporto d’impiego; per l’Italia, la l. 145/2002 prevede la nomina politica per i direttori generali dei Comuni e ha ampliato quella dei dirigenti ministeriali apicali, mentre il d.lgs. 93/1993
e la l. 165/2001 affermano e aumentano l’autonomia gestionale per gli amministratori.
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modo, l’imparzialità dell’azione amministrativa non sarebbe più garantita
dalla mera conformità alla norma, ma dall’oggettività/imparzialità di un
sistema di valutazione basato su indicatori di risultato evidenti. Tuttavia,
questa presunta oggettività è difficilmente attuabile.
Un fenomeno noto in letteratura e che chiarisce più tecnicamente i limiti
di tale posizione è quello che Bevan e Hood (2006) chiamano “effetto
sineddoche”: ossia, l’indicatore di performance riporta a un osservatore
esterno (rispetto al/ai process owner/s) una visione parziale dei risultati
effettivi poiché gli indicatori tendono ad appiattire la valutazione su poche
essenziali dimensioni d’analisi (De Bruijn, 2002, pp. 3, 24-5). Questo è
tanto più problematico quanto più un’organizzazione è orientata a valori
intangibili (es. qualità, trasparenza, equità) e dove, quindi, il processo
assume una dimensione rilevante nella valutazione. In particolare, ciò che
il performance measurement non riesce a cogliere – e magari costituisce
vincolo procedurale – non può che essere affidato al controllo sui processi,
che – se di tipo ex ante – riduce l’autonomia e tende a minare la legittimità
di un sistema che giudica in base a risultati. Il suddetto effetto spiega l’eventualità di indicatori in contrasto con altri nella rappresentazione di uno stesso
fenomeno. Un esempio in tal senso è offerto da Moynihan (2006), che mette
in evidenza il livello di soggettività caratterizzante le misure adottate dal
Program Assessment Rating Tool nel definire i risultati dei programmi valutati
dall’Office of Management and Budget (OMB) degli Stati Uniti.
Il secondo aspetto critico è legato al fatto che le amministrazioni pubbliche diversamente dalle imprese, sono chiamate per missione istituzionale
a soddisfare bisogni (outcome) come fine immediato e non come finalità
mediata (Borgonovi, 1993; Del Vecchio, 2001). Questo tende a spostare
sensibilmente il concetto di risultato da una nozione di attività o prodotto
(output) realizzato a favore dei beneficiari, a una in termini d’impatto finale
(outcome) sui beneficiari. Tuttavia, il concetto di performance si presta più
facilmente alla misurazione quando si tratta di output (es. l’erogazione di una
prestazione sanitaria), piuttosto che quando riguarda outcome (es. il miglioramento dello stato di salute). La nozione di outcome, infatti, include due aspetti
problematici: (a) il possibile effetto di disturbo generato da fattori ambientali
esterni, che possono non essere direttamente controllabili da chi è preposto
a soddisfare il bisogno – ad esempio, le competenze di una popolazione
di neolaureati dipendono senz’altro dall’educazione formale acquisita, ma
anche dalle esperienze professionalizzanti, dalla rete di contatti personali,
e così via; (b) la reazione soggettiva di soddisfazione del cittadino rispetto
alla risposta al suo bisogno (a sua volta influenzata anche dai fattori di cui
al punto precedente).
Il primo aspetto, particolarmente rilevante in molti degli ambiti in cui
opera la pubblica amministrazione, è legato al fenomeno definito di “coproduzione” (De Bruijn, 2002, p. 3; Kelly, 2005, p. 80). Tale fenomeno
identifica quelle situazioni in cui esiste una corresponsabilità tra beneficiario
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e pubblica amministrazione che rende difficile stabilire un solo soggetto
come responsabile dell’outcome. In questi casi, si pone un problema di
legittimazione del sistema d’incentivi basato su indicatori di performance
(Swiss, 2005), poiché tali indicatori basano la loro efficacia incentivante
sulla netta distinzione di responsabilità.
Riguardo al secondo punto, ovvero il ruolo di fattori soggettivi nella realizzazione dell’outcome, Yang e Holzer (2006) sostengono che il livello effettivo
di performance non influenza la fiducia/soddisfazione verso le istituzioni
pubbliche tanto quanto il divario tra performance e aspettative dei cittadini.
Questa evidenza conferma la necessità di una concezione della performance
fondata sul concetto di outcome (4) piuttosto che di output. (5)
Il terzo e ultimo (ma non per questo meno importante) aspetto critico è
legato al fatto che, come già accennato, il performance management può
essere considerato un esempio di modello decisionale razionale (Nutley
e Osborne, 1994). Questa caratteristica è di per sé auspicabile, ma non
garantisce che le informazioni prodotte dal sistema di misurazione siano
rappresentative dei fenomeni reali. In effetti, la mera applicazione di rigidi modelli di valutazione dei risultati, specialmente in contesti a elevata
complessità, può replicare lo scostamento tra atti e fatti tipico del modello
burocratico (Borgonovi, 2002).
Tralasciando, infatti, il già menzionato effetto sineddoche, un fattore decisivo per la validità degli indicatori di performance è il livello di attendibilità
degli stessi dati su cui è basata la misurazione. Tale attendibilità è però
vulnerabile ai “comportamenti strategici” degli attori coinvolti nell’alimentazione del sistema di misurazione che produce gli indicatori di performance
(Bain et al., 1987; Brown e altri, 1994; De Bruijn, 2002).
Un esempio emblematico è rappresentato dal sistema centralizzato di
performance management introdotto nel Regno Unito nel 1998. Il sistema
basato su oltre 300 indicatori e target, validi per tutti i dipartimenti governativi centrali e collegati ad allocazioni di budget. Nel settore sanitario
pubblico, questo sistema è stato declinato in una classifica a punteggi (star
ratings) delle strutture sanitarie, sulla cui base i manager pubblici potevano
essere rimossi dall’incarico. Nello spazio di un quinquennio tale sistema ha
prodotto miglioramenti quali: riduzione di oltre il 99% delle liste d’attesa
superiori a 12 mesi per interventi chirurgici (U.K. Her Majesty’s Treasury/
Cabinet Office, 2004: 8), riduzione di oltre il 15% dei furti (U.K. Her Majesty’s Treasury/Cabinet Office, 2004, p. 9). Tuttavia, Hood (2006), riporta
4 Si vedano Del Vecchio (2001, p. 78) e Mussari (2001) per un’efficace delineazione dei diversi profili di performance.
5 È da notare che questo problema interessa anche il settore privato (Oliver, 1980; Oliver,
1997; Tse, Wilton, 1988). Qui, però, da un lato si fa ampio utilizzo di strumenti d’influenza
psicologica sui consumatori (Jones, Thompson, 1997), dall’altro, le condizioni di scelta sono
quelle tipiche di mercato, dove il prezzo pagato rappresenta una buona proxy della reazione soggettiva di soddisfazione.
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evidenze di gravi comportamenti strategici distorsivi dell’attendibilità delle
misurazioni: ad esempio, i casi di pazienti inglesi lasciati attendere in ambulanza e fatti accedere al pronto soccorso solo quando vi era confidenza
di riuscire a servirli entro le quattro ore fissate come target sono stati così
frequenti da generare scostamenti del 30% tra le performance ufficiali e i
tempi di attesa rilevati in indagini indipendenti (U.K. Commission for Health
Improvement, 2004; U.K. Healthcare Commission, 2005).
La questione dell’attendibilità dei dati è ancor più delicata dove il livello di
sofisticazione tecnica dell’attività o le eccessive risorse necessarie per soluzioni
alternative, richiedono ai “valutati” un rilevante contributo nel fornire dati o
anche solo nell’indicare ai “valutatori” quali dati sono più utili per costruire
valide misure di performance (Hood, 2006, p. 517; Pollitt, 2006, pp. 31-2).
Questa relazione tra valutati e valutatori rende evidente l’importante ruolo
della condivisione del sistema di valutazione nel determinarne la sua capacità
di rappresentare la realtà e, conseguentemente, la sua legittimazione.
4. Evoluzione della rendicontazione: risposte e limiti
I sistemi informativi pubblici sono evoluti nella direzione di misurare e
rendicontare le performance anche in riposta alle criticità sin qui evidenziate. L’evoluzione è andata nel senso di affiancare alle tradizionali misure
economico-finanziarie anche quelle di efficienza ed efficacia: dalla qualità e
quantità dei servizi erogati alla soddisfazione dei cittadini (Steccolini, 2004).
I diversi approcci e metodi adottati sono accomunati dalla multidimensionalità
del sistema di misurazione. Questo perché la pubblica amministrazione è
tenuta a rispondere a una pluralità di stakeholder: verso la politica in quanto legittima e autorevole interprete dei bisogni pubblici, verso i cittadini in
quanto contribuenti interessati all’uso efficiente delle risorse pubbliche, verso
le imprese private in quanto soggetti legittimamente interessati a procedure
di aggiudicazione imparziali nel confronto, verso i cittadini in quanto utenti/
clienti dei servizi pubblici destinati a soddisfare i loro bisogni, ecc. Inoltre, la
Pubblica amministrazione può essere accountable di cose diverse (es. efficienza per i contribuenti, outcome per gli utenti/clienti) rispetto ai diversi soggetti
e secondo un ordine di priorità che in letteratura sembra discendere dalle
posizioni di valore dichiarate o incorporate nelle definizioni dei concetti (es.
performance, merit) e nella prassi delle istituzioni, dal contenuto professionale
e dal peso nel bilancio delle singole materie/attività (Pollitt, 2006).
Di seguito si riportano quattro tra i più rilevanti sistemi di misurazione
della performance, analizzandone punti di forza e limiti con riferimento alle
criticità evidenziate nei paragrafi precedenti.
Triple Bottom Line
L’approccio della Triple Bottom Line (TBL) nasce nel settore privato e si propone di valutare le performance attraverso una rendicontazione inclusiva
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delle dimensioni economica, ambientale e sociale (Elkington, 1997). L’ottica è multi-stakeholder e mira a promuovere uno sviluppo ecologicamente
sostenibile promuovendo processi di produzione/erogazione che non compromettano la situazione delle generazioni future.
In ambito pubblico si trovano significativi esempi di applicazione in Australia, a livello di enti locali e agenzie pubbliche.(6) Il sistema prevede da un
lato l’identificazione degli stakeholder e delle loro modalità di coinvolgimento, dall’altro la definizione di indicatori di performance nelle tre dimensioni
accennate (es. forme d’energia consumate, utilizzo di acqua e terra, rifiuti e
inquinanti prodotti nei processi gestionali, sicurezza nell’ambiente di lavoro,
equità di opportunità tra sessi, rispetto dei diritti umani, ecc.). La filosofia di
fondo consiste nell’affiancare alle misure dei tradizionali documenti contabili
anche altre metriche sull’uso di input appartenenti al patrimonio collettivo e
sulle esternalità generate dai processi di erogazione e produzione.
Tali misure possono poi essere confrontate con standard predefiniti
oppure lasciate al giudizio degli stakeholder. La diffusione e conseguente
trasparenza sull’informazione prodotta rappresenta, infatti, un fattore critico
di successo per l’efficacia di tale forma di rendicontazione, che prevede
anche il ricorso a indagini campionarie sulla soddisfazione del personale e
dei cittadini. In questo senso, il tentativo di apprezzare l’outcome è basato
sul coinvolgimento degli stakeholder interni ed esterni; diversamente da altre
forme di rendicontazione basate sulla definizione di standard di processo
(come, ad esempio, i modelli (7) appartenenti all’iniziativa AccountAbility
lanciata dall’Institute of Social and Ethical Accountability nel 1996) a garanzia della sostenibilità delle attività gestionali.
In Italia questo sistema di misurazione della performance ha trovato in
parte realizzazione nei bilanci ambientali e sociali degli enti locali.
Balanced Scorecard
Un altro approccio che ha trovato larga diffusione in Stati Uniti, Canada,
Regno Unito e Nuova Zelanda è quello della Balanced Scorecard (BSC).
Anch’esso nasce nel settore privato e l’idea fondamentale ricalca quella
dell’approccio TBL, proponendo un’estensione delle dimensioni di misurazione
su cui basare una valutazione delle performance. In particolare, s’identificano
quattro prospettive d’analisi, che nel settore pubblico sono: la prospettiva del
cittadino, quella dei processi di lavoro, quella di crescita e apprendimento
del personale e, infine, la (tradizionale) prospettiva economico-finanziaria
(Holmes et al., 2006; Kaplan, 2000; Kaplan, Norton, 1996).
L’elemento distintivo della BSC è che all’interno di ogni prospettiva devono essere definiti obiettivi (cosa fare), metriche (come misurare), target
6 Per maggiori informazioni si veda il sito: www.deh.gov.au/tblreport (consultato nel marzo 2008).
7 AA1000, AA1000AS, AA1000SES; per approfondimenti si veda il sito: www.accountability21.net (consultato nel febbraio 2008).
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(quali aspettative) e iniziative (come fare). Le iniziative rappresentano i
programmi o le politiche da attivare per conseguire gli obiettivi. Perciò il
sistema si propone come strumento di raccordo tra definizione della strategia,
programmazione e valutazione.
I punti di forza sono la multidimensionalità verso cui la BSC orienta la
valutazione delle performance, il collegamento tra livello strategico (obiettivi)
e livello operativo (iniziative e azioni), la sintesi informativa e lo stimolo
alla ricerca di connessioni causali tra le diverse prospettive. L’individuazione di tali connessioni consente di adottare un approccio ragionevolmente
olistico all’analisi del successo della gestione. Quest’ultimo aspetto, però,
rappresenta anche il punto di debolezza della BSC, giacché non di rado si
dimostra arduo individuare tra le prospettive valide relazioni che consentano
di coordinare strategicamente le diverse iniziative (Holmes et al., 2006;
McAdam, Walker, 2003; Steccolini, 2004).
Un aspetto interessante è che da un’indagine campionaria condotta sui
direttori amministrativi di 132 enti locali statunitensi e 52 canadesi emerge che
le sole metriche economico-finanziarie sono ritenute in genere non adeguate
per valutare le performance. Tuttavia, le altre metriche (relative alla soddisfazione degli utenti, innovazione e cambiamento, ecc.) non sono ritenute
sufficientemente affidabili da utilizzare come base per incentivare il personale
in termini retributivi – nonostante siano giudicate utili a fini decisionali (Chan,
2004). Questo mette in evidenza quanto sia importante il ruolo giocato dalla
cultura delle performance in un contesto in cui si introduce un sistema di performance management come la BSC (Holmes et al., 2006). In effetti, il successo
dell’implementazione della BSC nell’agenzia di servizio ai clienti della città
di Dunedin (Nuova Zelanda) sembra essere legato soprattutto alla cultura di
misurazione e incentivazione e agli efficaci sistemi informativi preesistenti
(Greatbanks, Tapp, 2007). Anche McAdam e Walker (2003) enfatizzano che
l’efficacia della BSC introdotta nei servizi gestione rifiuti di 4 città del Regno
Unito è legata principalmente alla caratteristica di tangibilità del servizio,
alla maturità del sistema informativo aziendale e alla cura prestata, durante
il processo di implementazione, alla definizione delle relazioni causali tra
prospettive e, all’interno di ogni prospettiva, tra obiettivi e iniziative.
Service Efforts and Accomplishments Reporting
Il Governmental Accounting Standard Board (GASB) ha la funzione di definire e migliorare gli standard di rendicontazione pubblica negli Stati Uniti. Nel
1994 ha emesso il Concept Statement N. 2, che ha lanciato nelle amministrazioni pubbliche la metodologia di rendicontazione con rilevanza esterna
denominata Service Efforts and Accomplishments Reporting (SEA). Secondo
quest’approccio, la reportistica deve indicare chiaramente: indicatori di
output e outcome (service accomplishments), indicatori di efficienza che
correlino le azioni poste in essere (efforts) con i risultati (accomplishments),
e informazioni esplicative per promuovere comprensibilità e comparabilità
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delle informazioni da parte dei soggetti esterni.
L’aspetto qualificante di quest’approccio è che un ente di standardizzazione si è pronunciato in termini di contenuti della rendicontazione
pubblica, fornendo principi di redazione in merito a obiettivi, contenuti e
comunicazione del reporting a rilevanza esterna. La metodologia è stata
formalizzata dopo alcuni anni di ricerche, ma dispone attualmente di una
ricca offerta informativa anche in termini di casi. (8) Un esempio concreto è il
Citywide Performance Reporting della città di New York, (9) che offre accesso
a più di 500 indicatori di performance classificati nelle aree dello sviluppo
economico, educazione, infrastrutture, servizi sociali, sicurezza pubblica,
ecc. Ogni area mostra l’andamento storico degli indicatori di riferimento
e offre accesso alle informazioni di dettaglio per ciascuno di essi. Inoltre,
il sistema consente di gestire un’interazione on-line con gli stakeholder (es.
survey, e-mail, ecc.) promuovendone la partecipazione.
Il fondamentale punto di debolezza di quest’approccio è che la definizione degli indicatori di performance è affidata, al pari degli obiettivi,
all’autonomia decisionale della politica. Questo, ovviamente, depotenzia il
carattere informativo della rendicontazione. Inoltre, è importante rilevare che
l’efficacia dei sistemi di performance management è sensibile all’ambiguità
degli obiettivi da cui gli indicatori di performance discendono. Più precisamente, si registra una correlazione negativa tra ambiguità degli obiettivi
e livelli di performance organizzativa (Han Chun, Rainey, 2005). Ora,
poiché nella pubblica amministrazione è la politica a definire gli obiettivi,
questi tendono a essere ambigui per via dell’orientamento alla gestione del
consenso del sistema politico (Borgonovi, 2002; Wildavsky, 1979). Perciò,
se indicatori e obiettivi sono entrambi ricondotti alla politica, il contesto non
presenta le migliori condizioni per rendere efficace un sistema di misurazione
delle performance di questo tipo.
Spending Review
Nel Regno Unito si è affermato a livello di Amministrazione centrale l’approccio della Spending Review. (10) L’esperienza, sponsorizzata dal Governo Blair,
iniziò nel 1997 e prevede un’iniziale analisi della spesa pubblica, da parte
di un organo tecnico, rispetto agli obiettivi e al trend storico. Da tale analisi
scaturisce la definizione di piani triennali (public service agreement) che
stabiliscono limiti di spesa e livelli di miglioramento nell’uso e delle risorse in
settori definiti come prioritari. La funzione di contenimento della spesa è dunque affiancata da una ridefinizione delle priorità, che può allocare maggiori
risorse in quegli ambiti d’intervento pubblico (es. sanità, educazione, ecc.) per
cui si ritengono prioritari miglioramenti in termini di performance. L’approccio
8 Per approfondimenti si veda il sito: www.seagov.org (consultato nel marzo 2008).
9 Si veda: www.nyc.gov/html/ops/cpr/html/home/home.shtml (consultato nel febbraio
2008).
10 Si veda: www.hm-treasury.gov.uk/spending_review/ (consultato nel marzo 2008).
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si è poi evoluto nella Comprehensive Spending Review (CSR) che, da un lato,
mira a impostare un’analisi della spesa il più possibile indipendente dal suo
trend storico – ricalcando in parte le orme dello storico zero based budgeting
– e, dall’altro, pone maggiore enfasi sulla definizione di indicatori di performance (130 per il periodo 2003-2005) e sul loro monitoraggio da parte di
audit inspection units. Inoltre, il sistema prevede che nell’anno successivo al
triennio programmato sia possibile per ogni Dipartimento spendere quanto
risparmiato rispetto alla programmazione (End-Year Flexibility), premiando
così con l’autonomia il virtuosismo nella gestione delle risorse.
Da un lato l’approccio è di carattere trasversale, di medio periodo e basato
sul binomio razionale analisi/decisione, dall’altro esso è governato centralmente
dal Ministero del tesoro, che ne risulta depositario politico. Dunque, la distanza
tra il livello in cui si attua l’analisi e quello dove si manifesta l’outcome dell’azione
pubblica accentua i problemi di misurazione precedentemente descritti. Difatti,
prevale tra gli indicatori di efficienza l’equivalenza “input=output”, che si traduce nell’assimilare i miglioramenti di efficienza ai soli risparmi di risorse. A
questo problema si cerca di rimediare promuovendo lo sviluppo di metodologie
avanzate di misurazione (es. la Atkinson Review, commissionata dall’UK Office for National Statistics, ha prodotto nel 2005 un report in tal senso), la cui
implementazione è però in genere tutt’altro che esente da difficoltà.
Un tentativo interessante di affrontare il problema è la Comprehensive
Performance Assessment (CPA), che riduce le distanze tra dove avviene la
valutazione e dove si manifestano i risultati. Lanciata nel 2002, l’iniziativa
è finalizzata a misurare le performance degli enti locali inglesi. Le due
dimensioni di valutazione considerate sono: qualità del servizio (quality of
service) e potenzialità di miglioramento (prospects for improvement), misurate
su due scale ordinali (Game, 2006). Mentre la prima dimensione riguarda
la misurazione degli effettivi risultati raggiunti dall’ente in sette categorie
di servizi, la seconda cerca di ricostruire le probabilità di miglioramento
delle performance attraverso l’analisi del trend dei risultati e dei processi
aziendali.(11) L’esperienza, pur nei limiti evidenziati dalla letteratura, rende
evidente l’importanza dell’analisi qualitativa dei processi nella valutazione
e della scelta di accreditare maggiore fiducia agli enti più performanti, in
termini di maggiore discrezionalità di spesa e minori controlli da parte del
governo nazionale (Game, 2006, pp. 467-8).
5. Discussione
I sistemi di rendicontazione descritti rappresentano importanti risposte delle
amministrazioni pubbliche alle sempre crescenti aspettative della società
civile nei loro confronti. La molteplicità degli approcci è indicativa dei progressivi miglioramenti delle metodologie e delle tecniche di valutazione,
11 Per accedere alla reportistica ed alla metodologia si veda: www.audit-commission.gov.
uk/cpa/index.asp (consultato nel febbraio 2008).
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ma anche della complessità dei problemi alla base della misurazione dei
risultati. Riprendendo gli aspetti critici associati all’introduzione di sistemi di
performance management, questi sono riconducibili a tre principali categorie: (a) il conflitto tra logica per processi e logica di risultato, (b) le difficoltà
di misurazione degli outcome, e (c) il divario tra razionalità del sistema e la
sua reale capacità di rappresentare tramite misure i fenomeni reali.
Il primo aspetto critico discende sia dalla cultura tradizionalmente legalistica (e perciò orientata alle procedure) delle amministrazioni pubbliche
– perciò non naturalmente ricettiva riguardo l’uso di misure di risultato – sia
dal sistema di regole istituzionali che possono trovarsi in contrasto con le
logiche di autonomia/discrezionalità che i nuovi sistemi sottendono. Una
risposta efficace a tale aspetto non può che dipendere anche da riforme
amministrative e/o istituzionali coerenti con le nuove sfide della pubblica
amministrazione. Tuttavia, la capacità del management pubblico di sfruttare
appieno tutti gli spazi di autonomia esistenti può essere promossa con incentivi (es. maggiore discrezionalità/flessibilità di spesa, premi alle persone)
collegati a indicatori sia di risultato sia di processo di bilancio (Newcomer, 2007, p. 323). In questo senso, il CPA implementato negli enti locali
inglesi è un esempio interessante che cerca di coniugare l’attenzione alla
dimensione di risultato con quella degli equilibri istituzionali, legati anche
ai meccanismi di generazione del consenso. L’approccio graduale, inteso a
favorire l’apprendimento piuttosto che a sanzionare il fallimento, promuove
la collaborazione tra accountor e accountee piuttosto che la competizione,
di per sé foriera di comportamenti strategici che tendono a distorcere la
natura stessa della valutazione nel lungo periodo.
Il secondo aspetto, legato alle oggettive difficoltà di misurazione degli
outcome, mina la condivisione tra accountee e accountor (es. cittadini e
politici, politici e manager pubblici) di una comune definizione di risultato,
sulla cui base poter costruire indicatori e metriche di performance utilizzabili
come legittimi strumenti di responsabilizzazione (Kelly, 2005). In questo
senso, due importanti linee guida per la realizzazione di efficaci sistemi di
performance management nel settore pubblico sono: (a) ricercare metriche
che tengano conto in modo accettabile delle relazioni causali sottostanti il
conseguimento dei risultati; (b) includere indicatori di performance rappresentativi della dimensione soggettiva caratterizzante l’outcome.
Riguardo al primo punto, gli scienziati sociali sostengono la necessità
di costruire misure di performance basati su modelli logici (program logic
models) in grado di evidenziare – per quanto possibile – i collegamenti
teorici tra input e outcome, con particolare riferimento ai fattori esterni non
controllabili e contestuali influenzanti i risultati rilevati (McLaughlin, 1999;
Newcomer, 2007). In tal senso, l’approccio della BSC prevede un’impostazione in cui si definiscono inizialmente relazioni tra iniziative (input) e target/
obiettivi (output/outcome). è comunque importante che l’analisi quantitativa
sia corredata da una qualitativa in grado di esplicitare le condizioni manageriali e contestuali che nei diversi casi si sono dimostrate importanti per il
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raggiungimento delle performance rilevate (Triantafillou, 2007).
Con riferimento alla preferibilità d’indicatori di performance che tengano
conto di aspetti soggettivi, si fa riferimento alla recente tendenza di considerare
gli input diretti dei cittadini, fino a basare su di essi parte della valutazione (Van
Ryzin, Immerwahr, 2007).(12) Le due alternative percorribili in tal senso sono
il coinvolgimento dei cittadini nella definizione degli indicatori o la raccolta
delle loro preferenze tramite sondaggi. Gli approcci BSC, TBL e SEA presentano tutti aperture – più o meno marcate – verso tali opzioni di misurazione.
È però importante ricordare, come già accennato, che il grado di soggettività
nelle misure così introdotto, se da un lato contribuisce a integrare il sistema
informativo, dall’altro aumenta l’opinabilità delle informazioni prodotte e la
conseguente validità. La disciplina del marketing da tempo si occupa della
relazione tra metriche oggettive (company performance o profit) e soggettive
(market orientation o customer satisfaction), che nei numerosi studi empirici
non si dimostrano sempre positivamente associate (Dawes, 1999). Tuttavia, le
misure soggettive aiutano sia a controllare il problema dell’incongruenza tra
obiettivi del management e obiettivi degli stakeholder sia a integrare dimensioni di valutazione altrimenti sfuggenti (Kren, Tyson, 2009; Shingler et al.,
2008). Il giusto equilibrio è forse più legato al percorso d’apprendimento su
sperimentazioni concrete che non a una specifica impostazione tecnica.
L’ultimo aspetto, riguarda l’effettiva capacità del sistema di misurazione
di rappresentare i fenomeni reali per poterli così opportunamente valutare.
Le difficoltà sono legate a due aspetti: (a) il fatto che il sistema informativo
spesso è gestito da persone che sono poi valutate sulla base d’informazioni
da loro stesse prodotte; (b) l’esigenza operativa di “gestire la misurazione”,
attività che – come tutte le altre – necessita di adeguate risorse per essere
efficacemente portata a termine.
Quanto al primo punto, la cultura della valutazione su cui può contare
il sistema e lo stile d’implementazione sono i capisaldi per minimizzare le
distorsioni derivanti da comportamenti strategici. È importante considerare
che la letteratura e la ricerca empirica riportano tre “percorsi” (pathways)
attraverso cui la misurazione dei risultati può condurre al miglioramento delle
performance (Bevan, Hamblin, 2009): (i) secondo cui il change pathway, la
semplice comunicazione delle misurazioni al responsabile stimola questi al
miglioramento per via della conoscenza dello scopo del miglioramento; (ii) il
selection pathway in base al quale i responsabili di un risultato sono stimolati
al cambiamento dal rischio di reazioni selettive da parte dei consumatori
verso i fornitori; (iii) il reputation pathway che identifica nella comparazione
pubblica dei risultati uno strumento per minacciare il credito professionale/
personale dei loro responsabili, che sono così stimolati ad adoprarsi per il
12 Alcune iniziative di rilievo in tal senso sono: la National Center for public productivity’s citizen-driven government performance initiative, il progetto Iowa’s citizen-initiated performance
assessment, il fondo per il City of New York’s citizen-based assessment of the effectiveness of
city government services, il Canada’s common measurement tool, l’Eurobarometro della Commissione europea, ecc.
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Misurare le performance
loro miglioramento. I tre canali sono legati ad aspetti ambientali (es. mercato)
e professionali/personali (es. leadership, senso di responsabilità sociale),
molto contestuali e interdipendenti, che richiedono approcci differenziati in
sede d’implementazione. Riguardo al secondo punto, ossia la sostenibilità di
un sistema di performance management, il suo disegno e la sua implementazione devono prevedere un’allocazione di risorse sufficienti a consentire di
rappresentare obiettivamente la realtà. Questo sia in termini di costi necessari
a contenere il grado di dipendenza delle fonti di dati rispetto ai soggetti
valutati (es. gli organi indipendenti di valutazione), sia in termini d’impegno
politico volto a garantire che il sistema di incentivi/sanzioni sia effettivamente
applicabile secondo la normativa (Ingraham, 2006, p. 491).
La tabella 1 sintetizza gli aspetti critici evidenziati, i rischi specifici che
da essi derivano, le linee guida che dall’analisi della letteratura emergono
come indicazioni metodologiche e le esperienze che rappresentano esempi di implementazione di tali linee guida o gli ambiti di intervento volti a
mitigare i relativi rischi.
Tabella 1 – Criticità del performance management e ruolo degli strumenti di rendicontazione nella
Pubblica amministrazione
Fattore
critico
Attrito tra
contesto
istituzionale
e semplicità
degli indicatori
di risultato
Limiti
di misurazione
degli outcome
Rischio
di inattendibile
rappresentazione
della realtà
oggetto
di misurazione
Rischi/distorsioni
Strumento
Effetto sineddoche
CPA
Contrasto tra strumenti di valutazione e normativa/procedure
(riforme
istituzionali)
Valutazione focalizzata
su elementi fuori
dal controllo dell’accountor
Dimensione soggettiva
dell’outcome non considerata
Comportamenti strategici
dell’accountor distorsivi
delle misurazioni
Incapacità dell’accountor
di misurare in modo attendibile
i risultati
BSC
BSC, TBL, SEA
CSR
(cultura e stile di
implementazione)
(metodo di
implementazione)
SEA, TBL
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Direzione dell’innovazione
Affiancamento del performance
measurement con sistemi
di rendicontazione complementari
focalizzati sui processi
Adattamento di norme ed istituzioni alle logiche del performance
management
Adozione di indicatori basati
su modelli esplicativi delle relazioni
causali tra fattori controllabili
ed effetti (outcome)
Inclusione di indicatori che valutano
percezioni e priorità dei cittadini
Adozione di fonti informative indipendenti come base di misurazione
Creazione di consenso attorno
a obiettivi e processo di valutazione
Garanzia delle risorse necessarie
per una rendicontazione affidabile
e significativa
Promozione della comunicazione
dei risultati della valutazione (per favorire la “cultura della valutazione”)
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Misurare le performance
6. Conclusioni
La responsabilità di rispondere a una pluralità di stakeholder (contribuenti,
utenti/clienti, ecc.) rispetto a molteplici dimensioni (efficienza, efficacia,
equità, ecc.), conferisce al concetto di “risultato” l’intrinseco attributo di
multidimensionalità. Di conseguenza, ciò rende problematico affidare
a qualsivoglia sistema di rigida impostazione razionalista il compito di
orientare la gestione ai risultati nella pubblica amministrazione. In effetti,
l’assottigliamento delle dimensioni di responsabilizzazione della gestione
che talvolta si registra nelle riforme istituzionali pubbliche, sembra essere
associato a gravi crisi e scandali che spingono la politica a porre drastici
vincoli all’azione amministrativa tramite sistemi di performance management
(Pollitt, 2006). Dunque, la legittimazione di un approccio radicale in tal
senso sembra legata a circostanze eccezionali e non auspicabili.
I sistemi di misurazione delle performance analizzati appaiono tendenzialmente orientati ad ampliare lo spettro delle dimensioni di valutazione
o approfondirne il potere conoscitivo oltre il livello dell’output. Il successo
di tali strumenti dipende senz’altro dall’efficacia della loro impostazione
tecnica, ma anche dalle dipendenze di percorso legate alla lunga istituzionalizzazione dei tradizionali sistemi di accountability più orientati al rispetto
della procedura. La cultura organizzativa legata al loro lungo primato
tende, infatti, a generare attriti rispetto all’implementazione di sistemi che
puntano ai risultati.
Ogni caso rilevante d’implementazione di sistemi di misurazione delle
performance è testimonianza di passi fondamentali mossi verso un orientamento che ha e sempre più avrà influenza nel contesto pubblico. Tali
esperienze, infatti, tendono a spostare il tema della valutazione da un livello
ex post (quando il dado è ormai tratto e sono inattuabili forme d’incentivo
rispetto agli obiettivi) a un livello ex ante (che consente margini di manovra
in termini di correttivi e/o incentivi). Questo cambiamento di prospettiva
implica uno sforzo di pre-definizione di aspettative condivise sulla cui base
sarà poi legittimamente possibile effettuare una valutazione. A prescindere
dal valore incentivante della valutazione, la sola comunicazione dei suoi
risultati, ove possibile in forma pubblica, rappresenta di per sé un passo
avanti verso una partecipazione più attiva della comunità al funzionamento
delle istituzioni pubbliche (Coe, Brunet, 2006, p. 92), quale importante
contributo a diffondere quella cultura dei risultati che interessi precostituiti
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Esperienze innovative
Il cambiamento dei sistemi contabili
Dinamiche organizzative e cambiamento contabile:
un’analisi transnazionale
Mariannunziata Liguori
Lecturer in Management Accounting, Queen’s University Belfast, Assistant Professor SDA Bocconi – Area Public
Management and Policy
Sommario: 1. Introduzione. 2. Il cambiamento nei sistemi contabili: teorie e variabili di riferimento. 3. Metodologia. 4. I
cambiamenti contabili e di programmazione e controllo in Italia e Canada. 5. Il cambiamento contabile visto dall’interno:
i casi di Snow e Wind Town. 6. Variabili emergenti. 7. Conclusioni.
La letteratura ha variamente studiato perché e in che modo il cambiamento nei sistemi contabili e
di programmazione e controllo evolva in momenti e in contesti differenti. Questo articolo intende
contribuire a una migliore comprensione delle dinamiche organizzative che influenzano i diversi
risultati del cambiamento, anche a fronte di pressioni esterne simili. A questi fini, si prendono in
considerazione alcuni casi di Comuni Italiani e Canadesi, analizzati attraverso le lenti concettuali
dell’archetype theory. I risultati mostrano come il cambiamento radicale nei sistemi contabili e di
programmazione e controllo sia segnalato dal passaggio a un livello di soddisfazione maggiore
nei confronti del nuovo archetipo, commitment di tipo riformatore o competitivo, alte competenze
tecniche, potere disperso e leadership di trasformazione. Alcune variabili personali e contingenti
emergenti dai casi sono, infine, discusse.
Why and how accounting evolves through time and within specific organizational settings has been
addressed by an important body of literature. This paper contributes to get a better understanding
of the role of intra-organizational dynamics in affecting different outcomes of change, even under
similar external pressures. To these aims, it investigates accounting change in Italian and Canadian
Municipalities through the conceptual lenses of archetype theory. Results show that radical accounting
change is signaled by the shift to a higher level of satisfaction with the new archetype, reformative or competitive commitment, high technical capabilities, dispersed power and transformational
leadership. Some emerging personal and contingent variables are finally discussed.
Parole chiave: cambiamento contabile – archetipi – variabili organizzative
Key words: accounting change – archetypes – organizational variabiles
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Esperienze innovative
Il cambiamento dei sistemi contabili
1. Introduzione
Il processo di managerializzazione che ha avuto luogo negli ultimi anni
ha visto l’introduzione nelle pubbliche amministrazioni di nuove pratiche
e strumenti riguardanti soprattutto i sistemi contabili e di programmazione
e controllo (Pollit, Bouckeart, 2000; Olson et al., 1998; Steccolini, 2004).
L’obiettivo dei nuovi strumenti di auditing, performance measurement e
contabilità economico-patrimoniale è stato quello di passare da un modello
tradizionale e burocratico di pubblica amministrazione, focalizzato sulla
correttezza formale e il rispetto dei limiti di spesa (Weber, 1992; Borgonovi, 2005), a uno manageriale, più simile ai modelli di gestione delle
imprese private. Questo processo di modernizzazione ha avuto luogo in
tutto il mondo con risultati diversi. Il presente lavoro si concentra sull’analisi
di alcuni casi di Comuni italiani e canadesi. A fronte dell’introduzione di
strumenti simili, infatti, i processi di cambiamento a livello organizzativo
possono avere spesso risultati contrastanti. Questo articolo si pone l’obiettivo di esplorare le variabili organizzative che contribuiscono a spiegare i
diversi risultati raggiunti nei processi di cambiamento nei sistemi contabili.
In particolare, vengono esaminati i casi di due settori in due Comuni, uno
italiano e uno canadese (un totale di quattro casi).
2. Il cambiamento nei sistemi contabili: teorie e variabili di
riferimento
Il cambiamento nei sistemi contabili e di programmazione e controllo è
stato indagato dalla letteratura internazionale attraverso diversi approcci.
Le variabili determinanti il cambiamento sono state spesso individuate tra
quelle contingenti (Libby, Waterhouse, 1996; Baines, Langfield-Smith,
2003), collegate a fattori di tipo sociale, come le relazioni di potere
(Oaks et al., 1998; Townley et al., 2003; Abernethy, Vagnoni, 2004),
o alla definizione di nuove routine a regole interne (Burns, 2000; Burns,
Scapens, 2000; Nor-Aziah, Scapens, 2007). Il limite principale di tali
teorie è quello di assumere che organizzazioni sottoposte a stimoli esterni
simili rispondano al cambiamento nello stesso modo o secondo gli stessi
processi di istituzionalizzazione e creazione di routine interne (Greenwood, Hinings, 2006).
In risposta a questo limite, alcuni autori hanno proposto un modello
più strutturato e completo per spiegare il cambiamento a livello organizzativo, attraverso l’identificazione di archetipi (Hinings, Greenwood,
1988; Greenwood, Hinings, 1993, 1996; Greenwood, Suddaby, 2006).
Secondo l’archetype theory, in particolare, i fattori organizzativi possono generare inconsistenze durante un processo di cambiamento, tanto
da influenzarne il risultato finale. Tali autori propongono, pertanto, un
modello che tenga conto dei diversi interessi presenti all’interno delle
organizzazioni, tali per cui esse difficilmente rispondono nello stesso
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Il cambiamento dei sistemi contabili
modo anche se sollecitate dagli stessi stimoli esterni (Greenwood, Hinings,
1993; Han, 1994; Kossek et al., 1994; Beck, Walgenbach, 2005).
Questo modello permette di tenere in considerazione la complessità
aziendale, le relazioni di potere e le resistenze al cambiamento già
individuate dalle altre teorie.
Un archetipo è definito come l’insieme delle strutture e dei sistemi che
riflettono un determinato schema interpretativo, ossia le idee e i valori
sottostanti agli stessi (Greenwood, Hinings, 1993, 1996). Il cambiamento
può quindi avvenire a diversi livelli: esso è incrementale quando si osserva
solo l’introduzione di nuove strutture, senza l’assorbimento delle idee a esse
collegate; il cambiamento è radicale quando nuove strutture e sistemi sono
accompagnati dalle relative idee e valori.
Per comprendere come il cambiamento avvenga è poi necessario
considerare le dinamiche interne. Il modello proposto identifica quattro
fattori principali: il livello di soddisfazione con il nuovo archetipo, il
commitment verso le nuove idee, le relazioni di potere e le capacità
tecniche e di leadership (Hinings, Greenwood, 1988). In particolare, il
commitment è definito come: (i) status quo, laddove all’interno dell’organizzazione prevalga l’attaccamento ai valori e alle idee proposti
dal vecchio archetipo; (ii) indifferente, se i diversi gruppi dell’organizzazione non si mostrano né a favore né contro il nuovo archetipo; (iii)
concorrente, nel caso in cui alcuni gruppi supportino le idee proposte
dal nuovo archetipo in contrapposizione a gruppi che sostengono il
vecchio; (iv) riformatore, nel caso in cui la maggioranza concordi nel
preferire le nuove idee.
Il potere può essere investigato sotto diverse prospettive, guardando
alla semplice posizione gerarchica ricoperta da un attore o considerando anche la sua influenza sui processi decisionali, l’allocazione delle
risorse, il controllo di nuovi contenuti e della loro diffusione all’interno
dell’organizzazione (Pfeffer, Salancick, 1978, Luke, 1974, Foucault,
1979, Hardy, 1996).
Infine, le capacità di leadership sono definite sulla base del grado di
interazione con gli altri attori dell’organizzazione nel portare avanti il processo di cambiamento e dai mezzi mossi per farlo. La leadership, pertanto,
sarà sostanziale laddove ci si proponga come sponsor del cambiamento
e si contribuisca a definirne i contenuti e le idée; simbolica, se basata
principalmente sulla propria posizione formale (Pfeffer, 1992; Romanelli,
Tushman, 1983; Schein, 1986; Hinings, Greenwood, 1988; Nadler,
Tushman, 1989). Similmente, un leader può utilizzare prevalentemente lo
scambio di risorse e quindi essere focalizzato sulla “transazione”, oppure
privilegiare il coinvolgimento e il commitment come mezzi per raggiungere
il cambiamento (leadership di “trasformazione”, Burns, 1978, Tichy, Ulrich,
1984; Kanter 1984).
Il cambiamento nei sistemi contabili e di controllo può essere interpretato
come il risultato di queste dinamiche.
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Il cambiamento dei sistemi contabili
3. Metodologia
L’obiettivo del presente lavoro è quello di indagare i fattori organizzativi
che contribuiscono al raggiungimento di un cambiamento radicale nei
sistemi contabili e di programmazione e controllo. A tal fine sono stati
condotti quattro casi (Pettigrew, 1990; Huber, Van de Ven, 1995; Patton,
2002), ricostruendo i cambiamenti e le connesse dinamiche organizzative
dal 1995 (anno di riforma a livello legislativo in entrambi i Paesi in esame)
al 2008.
I casi sono stati selezionati in tre fasi al fine di aumentare la validità
interna dello studio (Patton, 2002; Flick, 2002). Inizialmente sono stati scelti
settori che consentissero di massimizzare le differenze nel tipo di cambiamento ottenuto (incrementale vs. radicale). In seguito, i settori oggetto di analisi
(Servizi sociali e Opere pubbliche) sono stati ulteriormente selezionati allo
scopo di diversificare le attività svolte. A tal fine si è utilizzata la classificazione proposta da Brown e Potoski (2003) relativamente alla misurabilità
degli output dei servizi erogati. I Servizi sociali, in particolare, rappresentano
quelli meno misurabili, le Opere pubbliche quelle maggiormente misurabili.
L’ufficio Ragioneria, in considerazione del suo ruolo di staff, è stato utilizzato
come controllo per “validare” in modo incrociato i dati raccolti nei diversi
settori di line. Infine, i due Comuni, uno italiano e uno canadese, sono stati
selezionati per dimensione. Sono stati così identificati i due Comuni oggetto
di studio, qui richiamati come Snow Town (in Canada) e Wind Town (in
Italia), entrambi di circa 700 mila abitanti.
La raccolta dei dati è stata effettuata attraverso interviste semi-strutturate
con i dirigenti dei settori prescelti. Le interviste sono state registrate e trascritte interamente. Sono state poi codificate al fine di evidenziare sia i fattori
inizialmente proposti dal modello sia possibili altre variabili emergenti. In
particolare, il cambiamento archetipico richiesto nei sistemi contabili e di
programmazione e controllo qui considerato è quello che vede un passaggio
dall’archetipo burocratico tradizionale a quello manageriale, così come
sottolineato dalle riforme poste in atto nei due Paesi esaminati (cfr. § 4).
4. I cambiamenti contabili e di programmazione e controllo in
Italia e Canada
Il settore pubblico italiano è stato storicamente caratterizzato da un modello
burocratico, dove l’ottemperanza a leggi e procedure rappresentava per
definizione la miglior misura dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa (Behn, 1998; Borgonovi, 2005). I sistemi contabili e di controllo, di
conseguenza, erano contraddistinti da una logica gerarchica e da un focus
prevalente sulle risorse finanziarie e sui limiti di spesa, coerentemente con
la funzione autorizzativa della contabilità finanziaria (Borgonovi, 2005).
Nel 1995 il d.lgs. 77 ha segnato per gli enti locali il primo grande passo
verso una gestione più manageriale degli stessi attraverso l’introduzione
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Il cambiamento dei sistemi contabili
dei prospetti di contabilità economico-patrimoniale a consuntivo e del Peg
(Piano esecutivo di gestione). Il d.lgs. 286/1999 ha poi ripreso i nuovi
principi per la definizione dei sistemi di controllo interni agli enti, ovvero il
controllo strategico, il controllo di gestione, il controllo di regolarità formale
e la valutazione del personale. Tutti questi strumenti sono stati finalizzati a
introdurre negli enti locali la cultura della misurazione dei risultati secondo
criteri di maggiore accountability, passando dal focus sugli input a quello
sugli output e outcome (Pollit and Bouckeart, 2000).
Un processo di managerializzazione simile è avvenuto anche in Canada.
Ai fini del presente lavoro, ci si concentra, in particolare, su una Provincia
canadese riconosciuta come uno dei precursori della riforma. Nel 1995, infatti, la Provincia sotto esame ha previsto tramite atto legislativo, il Municipal
Government Act, una maggiore autonomia per i propri Comuni. I loro poteri
sono stati così equiparati a quelli delle persone fisiche, delegando nuove
funzioni e prevedendo l’obbligo di introdurre un business plan triennale per
la gestione aziendale degli stessi attraverso l’identificazione di obiettivi,
indicatori e misurazione di costi ed efficienza. Parallelamente si è introdotta
ufficialmente la figura del city manager, equivalente al direttore generale, con
chiari poteri organizzativi e di controllo dell’attività amministrativa. L’intera
riforma ha avuto il fine di aumentare l’accountability comunale. A questo
scopo, accanto alla già presente contabilità economico-patrimoniale (sistema
modificato), si prevede entro il 2010 l’introduzione di budget operativi e
patrimoniali redatti secondo la logica di “full accrual” delle imprese.
5. Il cambiamento contabile visto dall’interno: i casi di Snow
e Wind Town
I quattro casi analizzati evidenziano due processi di cambiamento radicale,
dove l’introduzione formale di nuovi strumenti contabili è stata effettivamente seguita da un cambiamento nelle idee e nei correlati valori, e due di
cambiamento incrementale. Sia in Snow Town sia in Wind Town, radicale
è stato il cambiamento nei Servizi sociali, mentre molto più lento e faticoso
sembra quello nelle Opere pubbliche. I cambiamenti introdotti dal 1995 al
2008 nei quattro settori sono evidenziati nelle tabelle 1-4.
In Snow Town il processo di cambiamento è iniziato, secondo quanto
previsto dalla legge, con l’introduzione del business plan triennale. La decentralizzazione delle responsabilità contabili e di controllo è avvenuta, invece,
solo nel 2007. Parallelamente ai nuovi strumenti contabili, nuovi sistemi
informativi e informatici sono stati introdotti, nello specifico Sap nel 1996
e Class nel 1995, quest’ultimo con il fine di permettere ai Servizi Sociali di
programmare e controllare i servizi offerti, l’affluenza e la soddisfazione
dell’utenza (tabella 1). I Servizi sociali di Snow Town redigevano già prima
dell’introduzione ufficiale un loro business plan corredato di indicatori di
performance. Durante l’intero periodo in analisi, il settore ha continuato
a introdurre e rifinire i sistemi soprattutto di programmazione e controllo,
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Il cambiamento dei sistemi contabili
tanto da assumere nel 2002 un nuovo dirigente espressamente preposto
alla revisione e al perfezionamento dei sistemi di misurazione interna. Alla
fine del periodo 1995-2002 è quindi possibile ravvisare un cambiamento
radicale all’interno del settore. L’utilità dei nuovi strumenti a parere degli
intervistati, infatti, ha iniziato a essere effettivamente riconosciuta. I nuovi
sistemi erano compresi e utilizzati giornalmente, le informazioni raccolte
discusse tra i diversi livelli di responsabilità. Questo ha aiutato a superare
la precedente mentalità a canne d’organo presente nel settore:
Tabella 1 – Cambiamenti e dinamiche organizzative nel settore dei Servizi sociali di Snow Town
1995-1998
2003-2006
2007-2008
Nuova spinta verso
un sistema di indicatori
non finanziari
(assunzione
di un dirigente apposito
nel 2002)
Fusione
del settore
“Servizi
alla
comunità”
e del settore
“Emergenza”
Decentralizzazione della funzione
finanziaria
Integrazione
di Sap
con il sistema
di indicatori non
finanziari
Stop al business
plan aziendale,
il settore va
avanti comunque
Insoddisfazione verso il
nuovo archetipo
Insoddisfazione verso
il nuovo archetipo
Soddisfazione
verso il nuovo
archetipo
Insoddisfazione
verso il nuovo
archetipo
(per i metodi di
implementazione)
Competitivo (top
management riformatore
vs. altri indifferenti)
Concentrato
nel consiglio,
nel top management e
nel settore IT (potere sui
concetti, la conoscenza
e le informazioni)
Resistenza legata
all’età, alla perdita
di controllo sulle proprie
attività o all’aumento
di responsabilità
Competitivo (top
management riformatore
vs. altri indifferenti)
Concentrato
nel consiglio, nel top
management e nel
settore IT (potere sui
concetti, la conoscenza
e le informazioni)
Resistenza legata
all’età, alla perdita
di controllo sulle proprie attività o all’aumento di responsabilità
Riformatore
Riformatore
Disperso
(potere
sui concetti,
la conoscenza
e le
informazioni)
Disperso (potere
sui concetti,
la conoscenza
e le informazioni)
Competenze
Alte e disperse
Alte e concentrate
nei leader emergenti
Alte e concentrate nei
leader
Alte e concentrate nei leader
Leadership
Di trasformazione
e simbolica
nel dirigente capo
Di trasformazione e
sostanziale nel settore IT
Di trasformazione
e simbolica
Di trasformazione
e simbolica
Di trasformazione e sostanziale
nei dirigenti
Cambiamenti
Soddisfazione
degli interessi
Commitment
Distribuzione
del potere
Business plan
e performance measure
preesistenti
Primo business plan
aziendale
Introduzione di Sap
Introduzione di Class
Progetto Town 97:
riorganizzazione
aziendale e creazione
dei servizi strategici
Integrazione di Class
con gli altri sistemi di
controllo di settore
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Il cambiamento dei sistemi contabili
“Sicuramente la consapevolezza è cresciuta. Gli indicatori di performance
sono stati davvero usati per valutare quali aree di intervento migliorare…
in precedenza quando volevamo dei numeri dovevamo fare affidamento sui
singoli. Poi abbiamo avuto anche SAP che ci permetteva di recuperare i dati
in modo efficiente ed efficace!” (manager A)
All’inizio del processo di cambiamento tutti i dirigenti hanno ricordato una
diffusa insoddisfazione con le nuove idee manageriali, soprattutto a fronte di
resistenze culturali ai crescenti controlli (“L’insoddisfazione iniziale era soprattutto legata all’aumento dei carichi di lavoro…”, manager B, tabella 1). Le
cose iniziarono a cambiare con i primi risultati visibili, tali da far crescere sia
la soddisfazione che il commitment verso i nuovi strumenti. L’iniziale spinta del
top management si è alla fine del secondo periodo (1999-2002) infusa nella
volontà di cambiare collettiva. Questo ha portato anche a una dispersione
maggiore del potere e delle competenze tecniche, nonostante la loro concentrazione soprattutto nel top management sia cresciuta nel tempo:
“Si è riflettuto poco su chi aveva il potere e le risorse per rendere reale il
cambiamento. Lo si è interpretato spesso come top down, ma poi quelli che
hanno l’autorità finale di approvare i progetti, non sono i veri agenti del
cambiamento!” (manager A)
La leadership che ha spinto verso il cambiamento effettivo, infine, è stata di
trasformazione e simbolica. Tutti i dirigenti, infatti, hanno cercato di coinvolgere le persone all’interno del settore facendo leva sulla loro posizione
formale e sull’obbligatorietà del cambiamento.
Nel settore delle Opere pubbliche agli strumenti di programmazione di
ente sono stati affiancati nel 1995 i documenti di settore relativi all’introduzione di logiche di project management, con il fine di rendere più coerenti
procedure e rendicontazioni tra le diverse attività svolte. L’introduzione di
queste pratiche ha riguardato, se pure lentamente, tutti gli uffici del settore
andando dalle strade (1995) alle infrastrutture abitative (2007). L’intero
processo di cambiamento è stato guidato da idee e valori professionali con
i quali il settore ha filtrato l’adozione dei nuovi strumenti:
“Gli indicatori di performance, sono una lotta… se saremo in grado di identificare delle misure reali e utili, magari li adotteremo, altrimenti non volgiamo
misurare niente!… Il cambiamento non ha influenzato molto la nostra gestione
delle attività, non è stato qualcosa di veramente nuovo... Ora stiamo lavorando
sul full accrual per il capital budget. Difficile, vedremo…” (manager C)
“Siamo una burocrazia e come tale siamo caratterizzati da tediosi processi
di aggiustamento incrementale…” (manager D)
Essendo altamente insoddisfatti del nuovo archetipo manageriale, gli ingegneri
presenti nel settore sono stati in grado di bloccare da subito l’adozione dei nuovi
strumenti, visti come inutili ai fini delle loro attività più tecniche. Di conseguenza, mentre le conoscenze e le capacità tecniche sono rimaste alte e disperse
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Il cambiamento dei sistemi contabili
all’interno del settore per tutto il periodo in esame, molto meno si è deciso di
investire nella creazione di competenze manageriali e nella comprensione dei
nuovi strumenti contabili e di rendicontazione. I cambiamenti stessi sono stati
introdotti prevalentemente attraverso una leadership di transazione simbolica,
dove il top management era l’unico con le risorse e l’autorità necessarie per la
creazione e lo scambio di consenso. A partire dal secondo periodo in analisi,
questi stessi “leader” hanno iniziato a coinvolgere maggiormente anche gli
altri livelli gestionali e operativi di settore con il fine di prendere delle decisioni più condivise e diffondere una migliore conoscenza sui nuovi strumenti (è
così iniziata quella che gli intervistati hanno definito una “open-door policy”,
tabella 3). Tale cambiamento nel tipo di leadership è stato accompagnato da
una parziale modifica del grado di commitment del settore che è lentamente
passato da status quo a riformatore.
Tabella 2 – Cambiamenti e dinamiche organizzative nel settore delle Opere pubbliche di Snow Town
1995-1998
Cambiamenti
Soddisfazione degli
interessi
Commitment
Primo business plan
aziendale
Introduzione di Sap
Primo Masterplan
dei trasporti
Introduzione del project
management
per il servizio Strade
Progetto Town 97: riorganizzazione aziendale
e creazione dei servizi
strategici
Insoddisfazione verso
il nuovo archetipo
Status quo
Distribuzione
del potere
Concentrato ai livelli più
bassi che hanno anche
il potere di opporre
resistenza (potere sulla
conoscenza tecnica)
Competenze
Alte e disperse su fattori
tecnici
Basse e disperse su
fattori manageriali
Leadership
Di transazione e simbolica
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Certificazione Is
per il servizio
Fognature
Introduzione
di un sistema
di analisi
dei costi
e di performance
measures
per il servizio
Fognature
Soddisfazione
verso il nuovo
archetipo
Status quo
Concentrato
ai livelli più
bassi che
hanno anche
il potere di
opporre resistenza (potere
sulla conoscenza tecnica)
Alte e disperse
su fattori
tecnici
Basse e disperse su fattori
manageriali
Di trasformazione e
simbolica
Insoddisfazione
verso il nuovo
archetipo
Competitivo
2007-2008
Decentralizzazione
della funzione finanziaria
Integrazione di Sap con
il sistema di indicatori
non finanziari
Introduzione del software
Pacman per la gestione
dei progetti
Riorganizzazione delle
responsabilità di settore
Introduzione del Project
management per il servizio Pianificazione
Parziale insoddisfazione
verso il nuovo archetipo
Riformatore
Concentrato
ai livelli più
bassi che hanno
anche il potere
di opporre resistenza (potere
sulla conoscenza
tecnica)
Concentrato ai livelli più
bassi che hanno anche
il potere di opporre
resistenza (potere sulla
conoscenza tecnica)
Alte e disperse
su fattori tecnici
Basse e disperse
su fattori manageriali
Alte e disperse su fattori
tecnici
Basse e disperse su fattori
manageriali
Di trasformazione e simbolica
Di trasformazione e
simbolica
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Il cambiamento dei sistemi contabili
Tabella 3 – Cambiamenti e dinamiche organizzative nel settore dei Servizi sociali di Wind Town
1995-1998
1999-2002
2003-2006
2007-2008
Cambiamenti
Tentativi precedenti di introdurre
performance
measures
finanziarie e non
Introduzione
di un sistema
integrato di contabilità economicopatrimoniale
Introduzione
del Peg
per obiettivi
Introduzione
di un sistema
di valutazione
del personale
basato sui risultati
(pay per
performance)
Introduzione
di un sistema
di controllo
di gestione
aziendale e creazione del servizio Controllo
di gestione
Decentralizzazione
del controllo
di gestione
e della tenuta
della contabilità
finanziaria
Decentramento
territoriale
delle funzioni
contabili
Primo Piano strategico
del Sindaco
Introduzione di un sistema
di contabilità analitica a costi
standard
Schede sociali (monitoraggio
domanda espressa, quantità,
bisogni espressi, risorse finanziarie, ecc.)
Introduzione di ispezioni,
controlli di qualità, indagini
di customer satisfaction
Introduzione del software
Webdistretti (intranet
dei Servizi sociali)
Introduzione di un cruscotto
di governo aziendale: report
semestrali (costi diretti
e indiretti per area e servizio,
monitoraggio della domanda,
efficienza ed efficacia)
Schede tecniche
(informazioni
dettagliate
sugli utenti, i
bisogni, le azioni
prese e l’evoluzione dei casi
nel tempo)
Introduzione
di un sistema
di accreditamento e relativi
indicatori
Decentralizzazione del sistema
di contabilità
economico patrimoniale
Nuovo Piano
strategico
per obiettivi e investimenti annuali
Soddisfazione degli
interessi
Soddisfazione
verso il nuovo
archetipo
Soddisfazione
verso il nuovo
archetipo
Parziale soddisfazione verso
il nuovo archetipo
Parziale
soddisfazione
verso il nuovo
archetipo
Riformatore
Competitivo (riformatore nei
confronti dei sistemi contabili
di settore vs. status quo verso
quelli centrali)
Competitivo (riformatore
nei confronti
dei sistemi contabili di settore vs.
status quo verso
l’accreditamento)
Commitment
Riformatore
Distribuzione
del potere
Concentrato
nei politici
e nella Ragioneria
Concentrato
nel servizio
Controllo
di Gestione
e nel Direttore
generale
Disperso a livello di settore
(le persone emergono
sulla base delle conoscenze
effettive)
Disperso a livello
di settore (le
persone emergono sulla base
delle conoscenze
effettive)
Nessuno è in grado di fermare il
cambiamento (vd.
accreditamento)
Competenze
Moderate
e disperse
Moderate
e disperse
Alte e disperse
Alte e disperse
Leadership
Trasformativi
e simbolica
Trasformativi
e simbolica
Trasformativi e sostantiva
(sulla base di conoscenze
tecniche)
Trasformativi
e sostantiva
(sulla base
di conoscenze
tecniche)
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Il cambiamento dei sistemi contabili
Dal 1995 Wind Town ha seguito attentamente le previsioni legislative introducendo il Peg e gli altri sistemi di controllo. Il Comune ha poi deciso di utilizzare
le previsioni del decreto 77 come occasione per introdurre un vero e proprio
sistema integrato di contabilità basato su principi economico-patrimoniali.
Nel 2000 il settore Servizi sociali ha iniziato a decentralizzare il monitoraggio e la tenuta delle scritture contabili a livello territoriale. Il periodo
2003-2006 è stato quello caratterizzato dal maggior cambiamento con
l’introduzione delle schede sociali e tecniche, a seguito delle quali è possibile
identificare un cambiamento radicale:
“Queste schede sono lo specchio delle nostre attività, ci consentono di leggere i bisogni e sono collegate ai nostri sistemi contabili e di misurazione.
Sono finalizzate a passare da una mera analisi quantitativa dei servizi a
una lettura dei problemi reali dei cittadini. Per i servizi sociali non è semplice
individuare degli obiettivi chiari!” (manager A)
“Noi abbiamo sviluppato spontaneamente i nostri strumenti: le schede
sociali sono utili per capire l’andamento delle spese, dei bisogni, della
domanda…” (manager E)
Il cambiamento in questo settore è stato accompagnato fin da subito da
una generale soddisfazione e interesse verso le nuove idee manageriali,
viste come un modo per migliorare la qualità e le modalità di erogazione
dei servizi. All’aumento della partecipazione, anche la concentrazione di
potere è diminuita passando da organi politici e uffici centrali a operatori
diretti dei servizi, dotati delle conoscenze tecniche necessarie per legittimarsi, specialmente nell’ultimo periodo (tabella 3). Similmente, la leadership
esercitata a livello di settore è passata da simbolica e di trasformazione a
sostanziale, soprattutto per i livelli più bassi:
“Ogni area ha lavorato in gruppi, che comprendevano anche gli operatori
diretti, esperti di disabilità e anziani, ecc. Così abbiamo sviluppato un quadro di tutti i bisogni dei nostri utenti. Abbiamo disegnato i nostri strumenti
di monitoraggio tenendo conto delle idee di tutti. Il cambiamento è nato dai
nostri operatori” (manager A)
Anche nel settore delle Opere pubbliche sono stati diversi i tentativi di introdurre strumenti contabili e di controllo supplementari in aggiunta a quelli
richiesti dalla normativa. Il settore ha cercato di collegare il proprio strumento
di programmazione strategica principale, il Piano triennale, con le schede
di Peg (nel 2001/2002, cfr. tabella 4). La sperimentazione, tuttavia, fu
abbandonata dopo il primo anno, a causa delle difficoltà nel bilanciare e
collegare effettivamente i programmi politici con gli obiettivi più gestionali.
Il processo di cambiamento durante l’intero periodo in esame è stato caratterizzato a detta degli stessi attori da un frequente conflitto, legato anche
alle diverse idee, di stampo ingegneristico, alla guida del settore, che poco
si contemperavano con la visione manageriale delle attività:
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Di transazione e simbolica
Competenze
Di transazione e simbolica
Alte e disperse su fattori tecnici
Basse e disperse su fattori
manageriali
Alte e disperse su fattori tecnici
Basse e disperse su fattori
manageriali
Leadership
Concentrate al di fuori del settore
(politici e Direttore generale)
Resistenze da parte dei dirigenti per
ragioni tecniche
Competitivo (direttore di settore status
quo vs. personale operativo che
propone un collegamento tra Piano
triennale e Peg)
Insoddisfazione verso il nuovo archetipo
Distribuzione
del potere
Indifferente
Insoddisfazione verso
il nuovo archetipo
Concentrate al di fuori
del settore (politici
e Ragioneria)
Resistenze da parte dei dirigenti per ragioni tecniche
Commitment
Soddisfazione degli
interessi
Cambiamenti
1999-2002
Introduzione di un sistema di controllo
di gestione aziendale e creazione
del servizio Controllo di gestione
Decentralizzazione del controllo
di gestione e della tenuta della
contabilità finanziaria
Introduzione del Piano triennale e
del Piano annuale degli investimenti
Collegamento del Piano triennale
con il Peg
Introduzione del software GULP
(monitoraggio dell’avanzamento
dei lavori, tempi e fasi)
1995-1998
Tentativi precedenti di introdurre performance measures
sulla base di leggi di settore
Introduzione di un sistema integrato di contabilità economicopatrimoniale
Introduzione del Peg
per obiettivi
Introduzione di un sistema
di valutazione del personale
basato sui risultati
(pay per performance)
Alte e disperse
su fattori tecnici
Basse e disperse su
fattori manageriali
Alte e disperse su fattori
tecnici
Basse e disperse su fattori
manageriali
Di transazione e
simbolica
Concentrate
al di fuori
del settore
(politici e Direttore
generale)
Resistenze da parte
dei dirigenti
per ragioni tecniche
Concentrate nel Direttore
generale
e il top management
Resistenze da parte degli altri
dirigenti per ragioni tecniche
Di transazione e simbolica
Status quo
Insoddisfazione verso
il nuovo archetipo
Introduzione
delle Schede di progetto (reporting
di avanzamento finanziario delle opere)
Decentralizzazione
del sistema
di contabilità economico patrimoniale
Nuovo Piano strategico per obiettivi
e investimenti annuali
2007-2008
Status quo
Insoddisfazione verso il nuovo
archetipo
Primo Piano strategico
del Sindaco
Stop al collegamento tra Piano
triennale e Peg
Introduzione di un cruscotto
di governo aziendale: report
semestrali (costi diretti
e indiretti per area e servizio,
monitoraggio della domanda,
efficienza ed efficacia)
2003-2006
Tabella 4 – Cambiamenti e dinamiche organizzative nel settore delle Opere Pubbliche di Wind Town
Esperienze innovative
Il cambiamento dei sistemi contabili
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Esperienze innovative
Il cambiamento dei sistemi contabili
“Non ci siamo mai abituati al Peg. Le cose seguono una traiettoria più
politica che tecnica...” (manager F)
In questo settore la bassa comprensione dei nuovi strumenti, quali il Peg, e
delle idée collegate, ha portato una generale insoddisfazione e indifferenza
al cambiamento:
“Non sono bravo per niente con i nuovi strumenti contabili, non li capisco,
non ci posso fare niente!” (manager F)
Ciò che ha maggiormente frenato il cambiamento appare la distribuzione
interna del potere, totalmente concentrato al di fuori del settore, nelle persone del ragioniere, del DG e dei politici. Il loro potere è stato esercitato
prevalentemente in modo simbolico (facendo leva su principi gerarchici) e
di transazione, in termini di scambio di risorse e con uno scarso coinvolgimento dei livelli inferiori:
“Cerchiamo sempre un maggior coinvolgimento, ma il cambiamento parte
sempre dall’alto e noi non possiamo inventare obiettivi diversi” (manager G)
Complessivamente, i casi analizzati evidenziano come i processi di
cambiamento radicale (i due casi dei Servizi sociali) nei due Paesi siano
stati caratterizzati da una sostanziale soddisfazione con le nuove idee
proposte. Questo ha facilitato il cambiamento in sé e il raggiungimento
di un maggior grado di commitment da parte di manager e operatori. Il
commitment, in particolare, sembra favorire il cambiamento sia quando è
chiaramente riformatore sia quando è competitivo. L’accordo con le nuove
idee, infatti, non necessariamente deve coinvolgere tutti i gruppi presenti
nel settore. Per portare avanti il cambiamento può essere sufficiente anche
un solo gruppo, soprattutto se dotato del potere e delle competenze necessarie. Appare rilevante una configurazione di potere disperso, soprattutto
quando legato alla conoscenza dei nuovi strumenti manageriali. Aldilà
della propria posizione formale e del potere derivante dal controllo sulle
risorse, infatti, nei casi analizzati si è dimostrato particolarmente importante il controllo sulle nuove idee per guidare il cambiamento. A tal fine,
inoltre, sono richieste competenze specifiche e ad alto livello, nonostante
il grado di concentrazione delle stesse sembri non influire direttamente
sul tipo di cambiamento in sé (in Wind Town sono maggiormente disperse
rispetto a Snow Town, cfr. tabelle 1 e 3). Pur guardando allo stesso settore e allo stesso tipo di cambiamento finale raggiunto, il caso canadese
e quello italiano si differenziano, invece, per la tipologia di leadership
che ha facilitato il cambiamento. Mentre in Italia prevale una leadership
di trasformazione e sostanziale, in grado di coinvolgere i collaboratori
nel cambiamento sulla base di valori condivisi, in Canada prevale una
leadership di tipo simbolico, dove il cambiamento e la condivisione vengono portati avanti prevalentemente facendo leva sulla propria posizione
formale e sulla legittimazione che da essa deriva:
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Il cambiamento dei sistemi contabili
“Ricordo che incontrai il direttore di settore “questi sono gli indicatori che
utilizzeremo”. E lei rimase sorpresa perché non aveva visto niente di ciò
in precedenza perché i prospetti si erano fermati ai livelli più bassi. Allora
decise che era ora di iniziare a diffonderli” (Servizi sociali di Snow Town,
manager G)
“Recentemente abbiamo assunto un nuovo responsabile IT che ha particolarmente a cuore la comunicazione e l’interpretazione dei dati. Sono tutti
coinvolti nelle decisioni…” (manager A, Servizi sociali di Wind Town)
Tali differenze potrebbero avere una duplice matrice. Da un lato, una diversa cultura e propensione al cambiamento, sia a livello organizzativo che
di Paese, potrebbero influenzare i meccanismi e le variabili in gioco. La
cultura burocratica che ha sempre caratterizzato il settore pubblico italiano,
può aver portato, ad esempio, alla necessità di identificare chiaramente
dei leader in grado di coinvolgere e convincere realmente le persone al
fine di portarle ad abbracciare completamente i nuovi sistemi. In Canada,
al contrario, una possibile maggiore sensibilità alla distanza dall’autorità
(Hofstede, 1980) potrebbe rendere più efficace una leadership simbolica.
Dall’altro lato, un ruolo importante potrebbe giocare anche il modo in cui
i processi di riforma stessi sono stati condotti a livello di Paese. In Italia,
ad esempio, le leggi rappresentano il punto di partenza di molte riforme
contabili, mentre in Canada, paese di common law, molte riforme, come
quelle relative ai principi contabili, tendono a essere introdotte autonomamente dagli enti, senza previsioni normative esplicite. In questo secondo
caso si potrebbe rendere necessaria, quindi, l’identificazione di qualcuno
legittimato almeno formalmente a introdurre il cambiamento, non essendo
espressamente obbligatorio.
Guardando ai due casi di cambiamento incrementale nelle Opere
pubbliche, i due Paesi sono abbastanza allineati. Il cambiamento pieno
non viene raggiunto (fermandosi così solo all’introduzione dei nuovi strumenti contabili senza il ricambio dei relativi schemi interpretativi) quando
persiste una situazione di insoddisfazione verso le nuove idee, con un
commitment instabile e oscillante tra indifferente e status quo, un potere
concentrato soprattutto al di fuori dei settori (presso la Ragioneria e il
controllo di gestione) e una leadership di trasformazione. I casi sono poi
caratterizzati da competenze tecniche molto alte collegate a conoscenze
ingegneristiche, che spesso contrastano e si contrappongono apertamente
alle nuove idee manageriali proposte. Le idee e la cultura professionale
esistenti, quindi, limitano il cambiamento mantenendo le competenze
manageriali basse o concentrate in poche persone all’interno del settore
(tipicamente i contabili e i controller decentrati). In questo caso, dunque,
la cultura presente a livello di settore sembra giocare un ruolo rilevante
nel raggiungimento o meno di un cambiamento radicale.
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6. Variabili emergenti
Durante la conduzione dello studio gli intervistati hanno spesso evidenziato
e fatto emergere alcune variabili importanti per il raggiungimento del cambiamento radicale, che il modello dell’archetipo non considera: il grado
di comunicazione interna, le caratteristiche personali, la partecipazione
effettiva al cambiamento e il tipo di attività svolta.
Indipendentemente dal settore considerato e dal Paese di riferimento, tutti
gli intervistati hanno sottolineato l’importanza di un’attiva comunicazione,
continua e strutturata, per promuovere il cambiamento. La comunicazione,
infatti, sembra il mezzo più efficace per diffondere le nuove idee e coinvolgere le persone ed è stata spesso associata a un’efficace leadership di
trasformazione finalizzata ad aumentare la partecipazione. Entrambi i casi
di cambiamento radicale presentano un alto livello di comunicazione:
“Non avevamo comunicato molto bene col nostro staff in passato. Nel
nostro business plan abbiamo quindi inserito l’obiettivo di migliorare la
comunicazione, ci sono molti progetti: creare un sito comune, newsletter…”
(manager G, Servizi Sociali di Snow Town)
“Abbiamo organizzato un sacco di incontri tra i nostri dirigenti e la
Ragioneria per aiutare la diffusione del cambiamento e lavorare insieme
con quelli coinvolti più direttamente: i contabili!” (manager H, Servizi sociali
di Wind Town)
Alta comunicazione, tuttavia, è presente anche nelle Opere pubbliche di
Snow Town:
“C’è un sacco di comunicazione, informazioni che vanno avanti e indietro…” (manager C)
Questo fattore, pertanto, appare necessario per il cambiamento, ma non
sufficiente a garantirne l’efficacia a livello di schemi interpretativi.
Anche le caratteristiche personali giocano un ruolo importante nel cambiamento. In particolare, gli intervistati hanno evidenziato l’apertura individuale al cambiamento e l’età. Alcune persone, infatti, sono naturalmente
aperte al cambiamento e ciò rende il processo più semplice:
“Molte persone erano semplicemente reattive in negativo, mentre la pianificazione e il performance measurement sono lungimiranti. Molti non
riuscivano a far fronte alle attività quotidiane, figuriamoci!” (manager I,
Servizi sociali di Snow Town)
“Anche le caratteristiche personali sono importanti: alcuni dei nostri erano
veramente dentro al cambiamento ed erano capaci di ricavare qualsiasi
dato di cui ci fosse bisogno!” (manager A, Servizi sociali di Wind Town)
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Il cambiamento dei sistemi contabili
L’età è stata riconosciuta, invece, come fattore di ostacolo:
“Alcuni erano proprio resistenti al cambiamento, soprattutto per motivi
demografici. Molti avevano più di 50 anni e di certo non erano cresciuti
avendo un PC sul tavolo…” (manager I, Servizi sociali di Snow Town)
Il terzo fattore rilevante è quello della partecipazione effettiva, soprattutto
da parte dei livelli gerarchici più bassi. Nella maggior parte dei casi
il cambiamento è stato iniziato con un processo top down. Ciò che ha
fatto poi la differenza è stata la partecipazione collettiva al cambiamento
stesso. Un leader che cerca di coinvolgere non è sufficiente a garantire il
cambiamento. Deve essere presente anche una risposta attiva da parte
dell’organizzazione. Come nel caso della comunicazione, questo fattore è
necessario, ma non sufficiente, per il raggiungimento di un cambiamento
radicale. Un’alta partecipazione, infatti, è presente in entrambi i settori dei
Servizi sociali (manager I di Snow Town: “Ci sono state sicuramente alcune
idee che venivano dall’alto, ma il servizio strategico interno e gli operatori
che lavorano realmente sui servizi sono quelli a fare davvero ricerca e a
ragionare su cosa misurare”; manager A di Wind Town: “La partecipazione
è cresciuta nel tempo ed è ancora in aumento. Ma è naturale… serve tempo!”), ma anche nelle Opere pubbliche di Wind Town (manager A: “Per il
monitoraggio delle attività organizziamo sempre incontri su ogni progetto
e tutti partecipano”).
Infine, una variabile contingente importante sembra essere il tipo di
attività svolta dal settore di riferimento. I Servizi sociali, in particolare, sono
riconosciuti come caratterizzati da un’alta consapevolezza relativa alla
necessità di misurare i risultati e il livello di qualità dei propri servizi:
“Il nostro fine è di fornire un servizio diretto alla gente. Siamo diversi dai
trasporti e dalle infrastrutture” (manager A, Servizi sociali di Snow Town)
Allo stesso tempo, tuttavia, essi rappresentano i servizi dove misurare è più
difficile, in quanto si tratta di prestazioni dirette a utenti che non sempre
possono esprimere le proprie esigenze e valutare correttamente l’erogazione
delle stesse.
Le Opere pubbliche sono state riconosciute come caratterizzate da tre
necessità relative: (i) al controllo delle risorse e dei flussi finanziari, (ii) alla
considerazione di problematiche di crescita e di pianificazione territoriale
integrata, (iii) al fronteggiare prospettive professionali spesso divergenti da
quelle manageriali in senso stretto. Mentre il primo punto può essere fatto
rientrare nei processi di cambiamento manageriale (vedi l’introduzione di
piani strategici e business plan), gli altri due appaiono tendenzialmente in
contrasto con le nuove logiche e possono, pertanto, arrivare a bloccare il
processo di cambiamento:
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Il cambiamento dei sistemi contabili
“Siamo guidati più da un paradigma ambientale che da uno amministrativo/
manageriale…” (manager L, Opere pubbliche di Snow Town)
Ciò è vero nonostante gli intervistati riconoscano che le Opere pubbliche sono caratterizzate da un alto grado di misurabilità dei risultati e si
presterebbero bene, pertanto, a una gestione e un controllo secondo le
nuove logiche e strumenti:
“Sotto certi aspetti misurare le opere pubbliche è più facile: possiamo
produrre report dettagliati sull’avanzamento dei lavori, gli obiettivi… i dati
sono oggettivi. Ma in quel caso, certo, sarebbe più difficile trovare poi degli
alibi…” (manager M, Opere pubbliche di Wind Town).
7. Conclusioni
Questo lavoro ha esplorato le variabili organizzative che contribuiscono
al raggiungimento del cambiamento nei sistemi contabili attraverso le lenti
dell’archetype theory.
I processi di cambiamento radicale, in particolare, sembrano trovare le
basi in una sostanziale soddisfazione con le nuove idee, un commitment da
parte dei manager e degli operatori, un potere disperso, delle competenze
specifiche e ad alto livello e una leadership di tipo trasformativo. Conoscenze
troppo tecniche e specialistiche, come quelle presenti nel settore delle Opere pubbliche, tuttavia, possono avere l’effetto di bloccare il cambiamento,
qualora esse si pongano in una posizione di conflitto rispetto alle tecniche
manageriali. Gli interessi divergenti finiscono, in quel caso, per permettere
solo un cambiamento formale a livello di strumenti e non a livello di cultura.
Gli intervistati hanno evidenziato anche l’importanza di alcune variabili
(comunicazione, apertura al cambiamento, età, partecipazione e tipo di
attività) che occorre considerare in un processo di cambiamento e che vanno a integrare il modello dell’archetipo. Tali risultati rafforzano la letteratura
esistente sui processi di cambiamento, laddove la comunicazione viene vista
come strumento per diminuire l’incertezza e aumentare la condivisione del
cambiamento (Wanberg, Banas, 2000; 1995; Mayer et al., 2005; Lovelace
et al., 2001, Putnam, Boys, 2006; Chawla, Kelloway, 2004). Allo stesso
tempo, il coinvolgimento di tutti i livelli organizzativi appare importante
(Cornell, Herman, 1989; Fiorelli, Margolis, 1993; Wanberg, Banas, 2000;
Chawla, Kelloway, 2004).
Il presente lavoro, adottando un modello poco utilizzato in passato, contribuisce a spiegare in modo più approfondito i cambiamenti nei sistemi contabili
e di programmazione e controllo a livello organizzativo, anche a fronte di
pressioni esterne simili e riforme comuni (Preston et al., 1992; Etherington,
Richardson, 1994). Si superano, in tal modo, alcuni dei limiti delle teorie
richiamate in precedenza. A livello manageriale e di policy, lo studio evidenzia come nei processi di cambiamento contabile sia importante concentrarsi,
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Il cambiamento dei sistemi contabili
in particolare, sulla comunicazione al fine di aumentare la soddisfazione e
l’apertura nei confronti delle nuove idee e dei nuovi sistemi. Coinvolgimento
e dispersione del potere, in particolare, si devono accompagnare a un investimento nella formazione delle competenze manageriali necessarie. Questo
studio apre la strada a ulteriori indagini finalizzate a comprendere come le
variabili qui discusse si relazionino e interagiscano effettivamente tra di loro
per portare al raggiungimento di un cambiamento radicale di successo.
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Esperienze innovative
Il bilancio sociale
Il sistema di rendicontazione sociale nel settore pubblico
Cinzia Vallone
Dottore di ricerca in Economia e Strategia aziendale, Facoltà di Economia, Università degli Studi di Milano Bicocca
Sommario: 1. Origini della rendicontazione sociale nel settore pubblico. 2. Le differenti forme di rendicontazione sociale.
3. Il bilancio sociale: caratteristiche e finalità. 4. Standard e linee guida per la rendicontazione sociale nelle aziende
pubbliche. 5. Il bilancio sociale secondo la Direttiva del Ministro della Funzione pubblica. 6. Il bilancio sociale secondo
il modello GBS. 7. Quali differenze tra pubblico e privato?
Nel processo di rinnovamento e modernizzazione che coinvolge l’azienda pubblica si riscontra
una maggiore attenzione verso strumenti di comunicazione quale il bilancio sociale. Ci si chiede,
pertanto, quali siano il ruolo e le caratteristiche peculiari di un bilancio sociale per il settore pubblico e quali siano gli obiettivi che spingono l’azienda pubblica alla sua elaborazione. A tal fine
si individueranno le origini del fenomeno e la sua evoluzione mediante la disamina delle differenti
forme di rendicontazione sociale. Infine si indagherà sulle differenze concettuali dell’elaborazione
del bilancio sociale tra settore pubblico e privato.
Into the renewal and modernization process of the public firms, the attention towards communication instruments, like the social report, is increased. The article analyses the role and the specific
characteristics about social report in the public sector, and the reasons who drive the public firms to
adopt it. Therefore the article identifies origins, evolution and different forms of social accounting,
and explores the gap between public and private sector into the social report implementation.
Parole chiave: rendicontazione sociale – bilancio sociale – valore aggiunto
Key words: social accountability – value added – corporate social report
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Esperienze innovative
Il bilancio sociale
1. Origini della rendicontazione sociale nel settore pubblico
Per poter cogliere appieno l’importanza della rendicontazione sociale e le
sue finalità è necessario affrontare il passaggio storico che sta alla radice
del suo percorso culturale e concettuale e che spiega la sua diffusione nelle
aziende pubbliche. (1)
In Italia bisogna aspettare gli anni Novanta per avvertire l’esigenza della
rendicontazione sociale nel settore pubblico, e ciò è avvenuto lentamente
a causa della concomitanza di alcuni fatti storici.
Un primo fatto è legato al consenso verso l’attività regolatrice dello Stato
che ha cominciato a erodersi negli anni ‘80, quando la spesa pubblica discrezionale e le politiche sociali universalistiche e generose sono state considerate
in parte responsabili dell’aumento della disoccupazione e della crescita dei
tassi di inflazione. Le politiche tipiche dello Stato interventista, gestore diretto,
hanno esibito prove ineludibili di insuccesso, provocando un generale convincimento che ha espresso enfasi verso i modelli concorrenziali.
A ciò si è aggiunto, negli anni ’90, il fenomeno delle privatizzazioni e la
caduta di credibilità legata ai fatti di tangentopoli che ha spinto le aziende
pubbliche a interrogarsi sul loro ruolo. La perdita di legittimità ha indotto le
aziende pubbliche a un processo di modernizzazione, tuttora in atto, che
comunicasse maggiore trasparenza ed efficienza e che “rilegittimasse” il
loro operato nei confronti dell’opinione pubblica (Hinna, 2004).
In quegli anni, è emersa l’esigenza di comunicare alla collettività i risultati
raggiunti in modo trasparente e immediato, al fine di accrescere il consenso
dell’opinione pubblica. Il bisogno di “rendere conto” ai cittadini seguendo le
logiche di Corporate social responsibility, (2) tipiche delle aziende private, ha
consentito una riflessione sul ruolo stesso delle aziende pubbliche nella società; e ha fatto sorgere la necessità di riaffermare la funzione sociale dell’ente
pubblico quale attore di tutela e salvaguardia del bene comune. (3)
In tal senso, nel 1994, sono state le Ferrovie dello Stato a pubblicare il
1 Per il termine ‘azienda pubblica’ si veda: Anselmi (1993, p. 817); Zappa, Marcantonio (1954);
Amaduzzi (1965); Cassandro (1966); Giannessi (1961, p. 1035); Onida (1971); Bruni (1968);
Zangrandi (1994); Rebora (1988); Mulazzani (1996); Mussari (1994); Marchi (1997); Ferraris
Franceschi (1995); Mele, Popoli (1994).
2 Il termine: “Corporate Social Responsibility” (CSR), tradotto in italiano come “Responsabilità Sociale di Impresa”, (RSI), è definito nel libro verde della Commissione delle Comunità europee come “l’integrazione volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali
ed ecologiche nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate.
Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici, ma anche andare al di là, investendo “di più” nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate” (Libro verde, Com 2001).
3 La nozione di “bene comune” nasce nel pensiero politico di Platone e Aristotele con l’espressione “tò koinòn agathòn” tradotta in latino con “bonum comune”, sviluppatasi in seguito nell’ambito della dottrina sociale della Chiesa, che la definisce come: “l’insieme di quelle condizioni
sociali che consentono e favoriscono nei singoli membri, nelle famiglie e nelle associazioni, il
conseguimento più spedito e più pieno della loro perfezione”, Concilio Vaticano II. Il concetto di bene comune si applica a qualunque società e pertanto anche alle aziende, quali istituti
economici e sociali. Nella dottrina economico aziendale tale termine appare già negli scritti
di Onida negli anni Settanta; si veda a tal proposito Onida (1971, p. 88).
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primo bilancio sociale, nel settore pubblico. Sono seguiti poi alcuni Comuni
come quello di Bologna che ha realizzato il suo primo bilancio sociale nel
1996, quindi i Comuni di Rovigo, Terni e Trieste. Inoltre, a partire dal 1997
sono stati presentati i primi bilanci ambientali di alcune importanti società
attive nel settore delle raffinerie e il bilancio sociale dell’Agip Petroli.
Tuttavia occorre considerare che i primi esempi di rendicontazione sociale tra le organizzazioni pubbliche hanno origine più antica e sono da
rintracciarsi nelle “relazioni morali” redatte nei primi anni del Novecento,
nelle quali si riportano sia i conti e sia la descrizione dei fatti che comprovassero coerenza e legittimità morale.
Il bilancio sociale è diventato, oggi, uno strumento per consolidare e
legittimare la funzione delle aziende pubbliche nella società, per esplicitare
la pianificazione e la progettualità delle politiche pubbliche, per trasmettere
alla collettività i livelli di benessere raggiunti e il valore prodotto per i cittadini
(Programma Cantieri, 2004; Saita 1993).
2. Le differenti forme di rendicontazione sociale
Tra gli aspetti che hanno fatto emergere l’esigenza di una rendicontazione
sociale che affiancasse quella di tipo economico-finanziaria, vi è l’attenzione
dell’opinione pubblica verso temi quali: la tutela dell’ambiente, l’etica, lo
sviluppo sostenibile, le condizioni sociali dei lavoratori, ecc., i quali hanno
avviato in una prima fase all’elaborazione di modelli di rendicontazione
legati a esigenze specifiche o di settore.
Infatti, oggi è possibile visionare modelli di rendicontazione sociale, i
quali hanno finalità, forme e procedure differenti, (4) ma che spesso vengono
erroneamente confusi con il bilancio sociale e sono chiamati:
- bilancio di mandato;
- bilancio ambientale;
- bilancio di sostenibilità;
- bilancio partecipativo;
- bilancio di genere.
Il bilancio di mandato è un documento che espone e consente di verificare il
grado di attuazione del “programma di mandato” dell’ente pubblico. L’elemento caratterizzante è proprio il periodo quinquennale (5) di riferimento che
coincide con il “mandato” durante il quale l’organo di governo amministra l’ente pubblico. Tale documento dovrebbe rendere conto ai cittadini dell’operato
dell’amministrazione uscente, in termini di modalità e priorità di realizzazione
4 Per un maggiore approfondimento: Propersi (2006), p. 268; Farneti, Pozzoli, Nardo
(2005).
5 Non si esclude la possibilità di redigere un bilancio di mandato annuale, si veda Farneti,
Pozzoli, Nardo (2005).
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dei progetti contenuti nel programma presentato in campagna elettorale.
Il bilancio di mandato si diffonde dalla seconda metà degli anni novanta,
in seguito all’art. 73 del d.lgs. 77/1995, confluito nell’art. 230, comma 6
del Tuel, (6) che introduce la facoltà per l’ente locale di adottare nuove forme
di rendicontazione patrimoniale per tutte le attività e le passività interne ed
esterne relative al periodo di mandato. Nonostante tale riferimento legislativo
non vi sono principi di riferimento per la sua realizzazione, pertanto risulta
un documento volontario e discrezionale.
Se si prendono in considerazione alcuni bilanci di mandato (7) emergono
aspetti contenutistici comuni:
- riferimenti al territorio;
- gli interventi realizzati;
- la rendicontazione economico finanziaria;
- una relazione esplicativa.
Tra le finalità del bilancio di mandato vi è la programmazione di interventi
volti allo:
- sviluppo economico e attività produttive, quali la promozione dei prodotti tipici locali, favorire le massime opportunità di lavoro, riqualificare il
trasporto, ecc.;
- difesa e tutela del territorio, ambiente e infrastrutture, che si traduce
nella lotta all’inquinamento, nel valorizzare l’ambiente, nella gestione dei
rifiuti, ecc.;
- servizi alla persona e alla comunità, quali la gestione dei servizi scolastici, la promozione e il coordinamento di interventi sociali sul proprio
territorio, ecc.
Per la parte relativa ai dati contabili, il bilancio di mandato illustra le
“entrate” suddivise per titoli e categorie e le “uscite finanziarie per aree di
intervento”, distinte in spese correnti e in c/capitale, per funzioni e servizi.
L’obiettivo finale è quello di redigere, mediante l’ausilio di documenti programmatici, un bilancio di mandato a consuntivo che illustri gli interventi
realizzati i quali rappresenteranno un punto d’arrivo e nello stesso tempo
una base di partenza per un futuro progetto amministrativo.
Il Bilancio ambientale,(8) invece, illustra e rendiconta gli interventi sull’ambiente, analizzando dati sull’inquinamento acustico, atmosferico, ecc. Per ogni
6 L’art. 230, comma 6 del d.lgs. 267/00 stabilisce che il regolamento di contabilità può prevedere la compilazione di un conto consolidato patrimoniale per tutte le attività e passività
interne e esterne. Può anche prevedere conti patrimoniali di inizio e fine mandato degli amministratori.
7 Si veda il bilancio di mandato 2000-2005 della Regione Veneto, bilancio di mandato 20012006 del Comune di Rimini; bilancio di mandato 2001-2005 di Torino.
8 Per un maggior approfondimento si veda Cisi (2003).
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Il bilancio sociale
aspetto analizzato vengono riportate le strategie ambientali, le operazioni
necessarie per realizzarle, i risultati raggiunti e le risorse utilizzate. I dati
contabili possono variare a seconda dell’ente, dei servizi ambientali gestiti
e del sistema contabile adottato. (9) è naturale che il ruolo dell’azienda pubblica, oltre a quello della gestione di problematiche relative all’ambiente, è
quello legato alla sensibilizzazione della collettività verso la prevenzione dei
danni e la protezione dell’ambiente. E ciò è reso possibile mediante mezzi
informativi e strumenti di monitoraggio.
Il bilancio di sostenibilità pone l’accento sulla concomitanza tra lo sviluppo economico e la tutela dell’ambiente, al fine di individuare un processo di
crescita economica che garantisca lo stesso livello di qualità della vita e le
stesse opportunità alle future generazioni. La sostenibilità poggia quindi sul
bilanciamento di tre dimensioni: la dimensione economico finanziaria, quella
etico-sociale e la dimensione ambientale. Si perviene quindi a un’analisi
della performance dell’ente verificando le interdipendenze degli effetti che
ciascun aspetto ha sull’altro. (10)
Il bilancio partecipativo (11) è il risultato del processo di riforma e rinnovamento delle aziende pubbliche che hanno accolto la richiesta di trasparenza dell’azione pubblica e il bisogno di maggior coinvolgimento della
comunità nella vita politica, al fine di porre il cittadino al centro della vita
dell’azienda pubblica. Il Tuel (12) prevede particolari forme di democrazia
partecipativa e quella più diffusa è la convocazione di assemblee popolari. La partecipazione della collettività si traduce nella esplicita richiesta
al cittadino, residente nelle circoscrizioni, di esprimersi sugli interventi che
ritiene prioritari, scegliendo all’interno di un gruppo di progetti. Le modalità
di partecipazione alle fasi di pianificazione e progettazione possono essere
molto varie come, ad esempio, le riunioni di quartiere, l’invio di questionari,
i siti internet con forum ecc. (13)
Infine il bilancio di genere viene adottato da quelle aziende pubbliche che
prediligono distinguere gli interventi focalizzandoli sulle differenti esigenze tra
uomini e donne, ma anche degli anziani e dei giovani, al fine di promuovere
l’uguaglianza della destinazione delle risorse. Il principio sottostante è che
gli effetti delle politiche economiche hanno riflessi diversi per gruppi specifici
(uomini, donne, giovani, anziani, ecc.) e che quindi è utile avere una visione
della allocazione delle risorse, per valutare correttamente le politiche.
9 Si veda il bilancio ambientale del Comune di Ferrara redatto nel 2003.
10 Ne sono un esempio il Bilancio di sostenibilità della Provincia di Modena redatto nel 2004
e quello della Provincia di Roma del 2002.
11 Il bilancio partecipativo ha origine in Brasile, a Porto Alegre nel 1988; ci sono stati casi
in Nuova Zelanda e negli Stati Uniti. Si veda Propersi (2006); Farneti, Pozzoli, Nardo, (2005),
p. 51.
12 D.lgs. 267/2000 dall’articolo 6 al 10. In particolare il comma 1 dell’art. 8 stabilisce che
i Comuni, anche su base di quartiere o di frazione, valorizzano le libere forme associative e
promuovono organismi di partecipazione popolare all’amministrazione locale. I rapporti di
tali forme associative sono disciplinati dallo statuto.
13 Ne sono un esempio i bilanci partecipativi della Provincia di Roma e del Comune di
Napoli.
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Il concetto di bilancio di genere si rinviene a partire dagli studi economici degli anni Novanta (14) ed è stato, in seguito, recepito e sviluppato
dall’Onu (15) e dall’Ue. (16)
Redigere il bilancio di genere significa quindi diminuire le disuguaglianze
tra individui di genere diverso, prendendo coscienza delle svariate esigenze,
impiegare in modo efficiente le risorse disponibili e verificare l’impatto degli
interventi effettuati. (17)
3. Il bilancio sociale: caratteristiche e finalità
Il bilancio sociale è uno strumento di rendicontazione volontario con il quale l’azienda pubblica rende conto delle scelte, delle attività, dei risultati e
dell’impiego di risorse in un dato periodo, al fine di consentire ai cittadini
e ai diversi interlocutori di conoscere e formulare un proprio giudizio su
come l’amministrazione interpreta e realizza la sua missione istituzionale e
sul valore sociale generato.
Il bilancio sociale, rispetto ai documenti di rendicontazione sociale appena illustrati, consente una valutazione generale dell’operato dell’azienda
pubblica, ponendosi come naturale complemento al sistema informativo
contabile tradizionale.
Il bilancio sociale è un documento pubblico rivolto ai portatori di interesse
(stakeholder) (18) che sono direttamente o indirettamente coinvolti dall’attività
svolta dall’organizzazione, sia essa pubblica o privata.
Esso è un documento autonomo che contiene informazioni quantitative
e qualitative sull’attività svolta e sui progetti da realizzare.
Il bilancio sociale deve essere redatto periodicamente; di norma alla fine
di ogni esercizio, in modo da consentire confronti sui risultati raggiunti. Si
tratta, quindi, di un documento consuntivo nel quale sono anche indicate le
linee programmatiche per il futuro. (19)
Infine è un documento volontario poiché non vi è alcun obbligo di legge;
14 L’idea del bilancio di genere (gender budget) è da attribuire a Ronda Sharp un’economista femminista dell’Università di Adelaide in Australia, facente parte del Research Centre for
Gender Studies; Sharp; Broomhill (1990).
15 Si veda il Bejing Platform for Action elaborata in occasione della Quarta Conferenza Mondiale sulle Donne delle Nazioni Unite che ebbe luogo a Pechino nel 1995.
16 Si veda la Proposta di risoluzione del Parlamento europeo sul Gender Budgeting – la costruzione dei bilanci pubblici secondo la prospettiva di genere (2002/2198(INI)), 16 giugno 2003.
17 Si veda il bilancio di genere della Provincia di Ferrara del 2006.
18 Il termine “portatore di interesse” è stato introdotto nella dottrina economico aziendale negli anni Settanta da Carlo Masini (1978) e il termine “stakeholder” nasce con le recenti teorie
di management di matrice anglosassone. Letteralmente “stake” vuol dire “interesse” e “holder” vuol dire “possessore”, da cui “portatore di interesse”. Tali termini sono sovrapponibili,
come evidenziano taluni autori, si veda per tutti Borgonovi (2007b). Tuttavia in letteratura vi
sono definizioni di stakeholder che evidenziano aspetti particolari. Vi sono approcci che distinguono gli stakeholder in base all’influenza sull’organizzazione, oppure in interni ed esterni, oppure in primari e secondari. Si veda Molteni (2004); Rusconi (2006); Orlandini (2008).
Per il fine del presente lavoro ci interessa una definizione di stakeholder che consideri tutti i
soggetti coinvolti o interessati all’operato delle aziende pubbliche.
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è lasciato all’autonoma valutazione dell’azienda pubblica promuovere un
nuovo processo di comunicazione non auto-referenziale. (20)
4. Standard e linee guida per la rendicontazione sociale nelle
aziende pubbliche
Dalla fine degli anni ’90 si è riscontrata una maggiore attenzione e sensibilità da parte degli accademici e delle categorie professionali verso il tema
della rendicontazione sociale; sono stati molti i contributi volti a definire i
principi di redazione, i modelli e i contenuti del bilancio sociale. In alcuni
casi concentrandosi su aspetti più generici individuando le linee guida o i
principi generali di redazione del bilancio sociale; in altri casi focalizzandosi
su tematiche più specifiche oppure elaborando il bilancio sociale di una
particolare categoria di azienda (es. azienda privata, azienda pubblica,
Regioni, Università, ecc.).
Gli standard o le linee guida sono i principi generali che indicano gli
elementi contenutistici del bilancio sociale (standard di contenuto), oppure
sono le informazioni che consentono di predisporre dei modelli, che dettano le procedure di redazione del bilancio sociale (standard di processo).
Ancora oggi non vi è un modello unico per tutte le aziende, e proprio per
la caratteristica di volontarietà del documento, non è richiesta alcuna uniformità nell’articolazione del Bilancio sociale. è evidente l’auspicio che, con
la maggiore diffusione, si possano elaborare modelli di rendicontazione
sociale con la stessa struttura, al fine d’essere più agevolmente comparati,
nel tempo e tra le differenti realtà aziendali.
I contributi più rilevanti fino ad ora, sulla rendicontazione sociale nelle
aziende pubbliche sono quattro:
- le linee guida per la redazione del bilancio di sostenibilità del Global
Reporting Initiative (GRI);
- i principi di rendicontazione sociale nel settore pubblico del Gruppo
di studio sul Bilancio sociale (GBS);
- il sistema di rendicontazione Services efforts and accomplishment reporting (SEA), elaborato dal Governmental Account Standard Board (GASB);
- le linee guida per l’elaborazione del bilancio sociale nelle amministrazioni pubbliche elaborate dal Formez per conto del Ministero della
funzione pubblica.
La Global Reporting Initiative (GRI), promossa da Ceres (Coalition for Environmentally Responsibility Economies), in collaborazione con Unep (United
19 Tratto dallo standard di Base: “Principi di redazione del Bilancio Sociale”, GBS, elaborato nel 2001, sito internet: www.Gruppobilanciosociale.org.
20 La caratteristica della volontarietà non è esplicitamente dichiarata ma si desume sia dal
Manuale elaborato dal Dipartimento della Funzione pubblica, nell’ambito del programma
Cantieri, che dai lavori del GBS.
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Nations Environment Programme) ha presentato nel 1997 un modello che
fornisce le linee guida per la redazione di un bilancio di sostenibilità e nel
2002 ne ha elaborato la seconda versione.
Le GRI Sustainability Reporting Lines sono dedicate alle amministrazioni
pubbliche nazionali e alle organizzazioni di qualsiasi dimensione, settore
o Paese e prendono in considerazione le tre dimensioni della sostenibilità
(triple bottom line). Si tratta, rispettivamente della:
• dimensione economica (ad esempio, retribuzioni e benefici, spese per
la fornitura, donazioni, vendite nette, interessi e dividendi erogati, tasse
pagate, finanziamenti ricevuti);
• dimensione ambientale (ad esempio, gli impatti di processi, beni e
servizi su aria, acqua, suolo, biodiversità e salute umana);
• dimensione sociale (includendo, ad esempio, l’aspetto del lavoro
minorile, salute e sicurezza sul lavoro, formazione e addestramento, livelli
occupazionali, diritti dei lavoratori, pari opportunità, diritti umani e delle
popolazioni indigene).
Per ogni dimensione della sostenibilità le GRI Guidelines individuano categorie, aspetti e indicatori di performance, con un approccio multi stakeholder,
pertanto possono definirsi come standard di contenuto. (21)
Molto importante è il contributo del Gruppo di studio sul Bilancio sociale
(GBS) sorto ufficialmente nel 1998. Nel 2001 ha presentato il suo primo
documento, che costituisce lo standard di base, relativo ai “Principi di
redazione del bilancio sociale”. Il documento illustra principi e indicazioni
procedurali generali, al fine di non vincolare la procedura di redazione,
nella prospettiva di coinvolgere nuovi attori. Sotto questa logica è stato,
in seguito, proposto uno standard di base per la rendicontazione sociale
nel settore pubblico e sino ad oggi sono stati pubblicati alcuni significativi
documenti di ricerca, tra cui quello per la redazione del bilancio sociale
nelle università. (22)
Il GBS nel definire i principi di redazione del Bilancio sociale si concentra
in particolar modo sulla struttura e sul contenuto del documento anziché sul
processo di redazione. (23) Gli elementi caratterizzanti, come si vedrà in
seguito, sono il calcolo del Valore aggiunto e l’accento posto all’individuazione dei portatori di interesse.
Il modello del GASB (ente di regolazione delle pratiche contabili delle
amministrazioni pubbliche centrali e locali statunitensi) è rivolto alle amministra-
21 Www.globalreporting.org.
22 Si veda anche il documento di ricerca relativo alla “Rendicontazione sociale per le Regioni”, www.gruppobilanciosociale.org.
23 Vermiglio (2007), p. 386, osserva che “se si ritiene che lo standard di processo indichi
la procedura da seguire per la redazione del rendiconto, allora non si può fare a meno di
osservare che la distinzione fra standard di processo e standard di contenuto è sfumata, impercettibile”.
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zioni pubbliche nazionali e locali e si fonda su quattro aspetti essenziali:
- l’acquisizione e l’utilizzo delle risorse (efficienza);
- il livello dei servizi prodotti (output);
- gli impatti sul benessere locale (outcome);
- le relazioni esistenti tra risorse, output e outcome.
Viene molto enfatizzato il processo di comunicazione e diffusione dei report
calibrati sulle esigenze informative delle diverse classi di stakeholder.
È evidente che il tema della responsabilità sociale è di grande interesse,
lo mostra la Comunicazione europea del 2002 (Com. 2002, 347 def.) che
incentiva le imprese ad adeguarsi alle indicazioni del Libro Verde (2001), le
quali sostengono l’impegno a elaborare prassi volontarie di responsabilità
sociale. Dello stesso avviso è il Governo italiano che dedica una sezione
del Libro Bianco (2001) sul mercato del lavoro, al tema della responsabilità
sociale delle imprese, condividendo l’impegno verso la tutela dei lavoratori
e l’investimento nel capitale umano.
A tal proposito nel 2004, il Dipartimento della Funzione pubblica,
nell’ambito del programma Cantieri, ha realizzato il manuale “Rendere
conto ai cittadini; il bilancio sociale nelle amministrazioni pubbliche”.
Tale manuale non predispone un modello con regole precise, ma intende
fornire una metodologia di riferimento alla rendicontazione sociale in
ambito pubblico, che infatti ha consentito nel corso del 2005 una prima
sperimentazione del bilancio sociale in un centinaio di aziende pubbliche.
In seguito il Formez (24) ha elaborato, per conto del Dipartimento della
Funzione pubblica, nell’ambito del Progetto Governance, le linee guida
per la redazione del bilancio sociale nelle aziende pubbliche, rafforzando
il processo di promozione della rendicontazione sociale. Il documento del
Formez, parte integrante della Direttiva del Ministro della funzione pubblica,
indica la struttura, i contenuti e la forma del bilancio sociale; inoltre, dedica
la terza parte all’illustrazione del processo di realizzazione del bilancio
sociale, ponendo enfasi sul coinvolgimento della struttura interna, sull’integrazione con il processo di programmazione e controllo e sull’attività di
comunicazione e partecipazione della collettività.
5. Il bilancio sociale secondo la Direttiva del Ministro della
funzione pubblica
Lo scopo della direttiva è promuovere e diffondere un orientamento volto
a rendere accessibile e valutabile l’operato delle aziende pubbliche agli
interlocutori, siano essi singoli cittadini, famiglie, imprese, associazioni, ecc.
La direttiva definisce il bilancio sociale come “il documento da realizzare
24 Il Formez è un centro di formazione e studi e risponde al Dipartimento della Funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
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con cadenza periodica, nel quale l’amministrazione riferisce, a beneficio di
tutti i suoi interlocutori privati e pubblici, le scelte operate, le attività svolte
e i servizi resi, dando conto delle risorse a tal fine utilizzate, descrivendo i
suoi processi decisionali e operativi”. (25)
La finalità del bilancio sociale nelle aziende pubbliche è quella di
contribuire a migliorare la dimensione contabile, quella comunicativa e
in particolar modo quella della responsabilità politica, poiché consente,
vista la trasparenza della comunicazione, di valutare le scelte politiche e
la capacità di governo.
Come si può notare il bilancio sociale per le aziende pubbliche diventa
un mezzo per comunicare l’attività prioritariamente ed effettivamente svolta,
e non l’attività residuale come nel caso delle aziende private e ciò rende
ancora più significativa l’attività di rendicontazione. Inoltre, proprio gli interventi effettuati e i risultati ottenuti, se rispecchiano le attese dei cittadini,
dovrebbero alimentare il rapporto fiduciario tra eletto ed elettore; ciò a
significare la necessità di un dialogo costante tra istituzione e comunità.
Il bilancio sociale secondo la Direttiva si articola in tre parti:
1) finalità e caratteristiche;
2) contenuti e struttura;
3) processo di realizzazione.
La prima parte richiama i presupposti per l’adozione del bilancio sociale
da parte delle aziende pubbliche e descrive le peculiarità della rendicontazione in ambito pubblico, ciò che è interessante analizzare, in questa
sede, è il contenuto del bilancio sociale che, come si chiarisce in seguito,
si differenzia dal modello del GBS.
Contenuti e struttura del bilancio sociale
Secondo la Direttiva del Ministero, il bilancio sociale deve contenere, oltre
a una premessa iniziale e una nota metodologica sul processo di rendicontazione:
1) i valori di riferimento, visione e programma dell’amministrazione, in cui
essa esplicita la propria identità mediante i valori di riferimento, la missione
e la visione che orienta le sue scelte e chiarisce gli interventi prioritari;
2) le politiche e i servizi resi; in questa seconda parte l’amministrazione
rende conto del proprio operato, esplicitando le aree di intervento coerenti
con il programma e per ciascuna deve rendicontare:
• gli obiettivi perseguiti;
• le azioni intraprese;
25 Direttiva del Ministro della funzione pubblica sulla rendicontazione sociale nelle amministrazioni pubbliche, p. 3.
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• le risorse impiegate;
• i risultati raggiunti;
• gli impegni e le azioni previste per il futuro;
3) le risorse disponibili e utilizzate; il bilancio sociale deve contenere
il rendiconto delle risorse di cui l’amministrazione ha potuto disporre per
realizzare i propri progetti e per erogare i propri servizi; in particolare
deve fornire informazioni relative a entrate e a spese della gestione e le
variazioni sul patrimonio, ecc.
Processo di realizzazione del bilancio sociale
Secondo la Direttiva è l’elemento più qualificante, il quale definisce il livello
di qualità del bilancio sociale. Esso si articola in quattro fasi:
1) la definizione del sistema di rendicontazione;
2) la rilevazione delle informazioni;
3) la redazione e l’approvazione del documento;
4) la comunicazione.
La prima fase del processo di rendicontazione è molto complessa e
riguarda l’analisi dei documenti da cui trarre tutte le informazioni che
evidenziano le specificità dell’azienda che si sta considerando. A tal
proposito si procede con l’analisi dei documenti istituzionali da cui trarre
le informazioni relative all’assetto, agli indirizzi generali, ai programmi
dell’azienda pubblica; inoltre si analizzano i documenti contabili al fine
di collegare le risorse economico-finanziarie agli interventi programmati
o realizzati; infine si prendono in esame i documenti interni che possono
rappresentare i risultati della gestione, oppure altri documenti di rendicontazione sociale, in precedenza realizzati, o documenti e indagini che
aiutino a comprendere il contesto sociale ed economico in cui l’azienda
pubblica opera.
Le informazioni acquisite con l’analisi dei documenti sono poi utilizzate
per il confronto e la riflessione da parte degli operatori al fine di cogliere
la coerenza tra i valori e la missione dell’azienda pubblica con le aree
di intervento. Tra gli elementi necessari alla rendicontazione, la Direttiva
sottolinea l’importanza di rappresentare:
• gli obiettivi perseguiti, in termini di cambiamenti quantificabili e misurabili attesi rispetto alla situazione di partenza;
• le azioni intraprese, in termini di piani, progetti, servizi e interventi
normativi, anche se relative a iniziative pluriennali non ancora concluse,
esplicitando indicatori di processo (attività, tempi, stato di avanzamento);
• le risorse impiegate, in termini di volumi di fattori produttivi impiegati,
finanziari (entrate e spese) ed economici (proventi e costi);
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• i risultati raggiunti;
• gli impegni e le azioni previste per il futuro, in termini di ulteriori cambiamenti programmati sulla base dei risultati raggiunti. (26)
Proprio sui risultati raggiunti, il Formez suggerisce alle aziende pubbliche di rappresentare gli indicatori di efficienza ed efficacia che misurano il
grado di raggiungimento degli obiettivi programmati, unitamente ai giudizi
formulati direttamente dai destinatari degli interventi.
La fase successiva riguarda la rilevazione delle informazioni che dipende dal sistema operativo e informativo dell’azienda pubblica che si sta
considerando. Le informazioni possono derivare da strutture interne all’amministrazione oppure essere fornite da soggetti esterni e possono essere
espresse sia in termini quantitativi che qualitativi. L’aspetto fondamentale di
tali informazioni, come suggerisce la Direttiva, è che abbiano un carattere
comunicativo, ossia siano concepite in funzione del destinatario, quindi in
linguaggio semplice e scorrevole.
Dopo l’approvazione del bilancio sociale, l’ultima fase è finalizzata
all’attività di comunicazione del bilancio sociale al fine di promuove un
dialogo costante con i portatori di interesse. A tal proposito il Formez
propone di elaborare un piano di comunicazione che definisca i differenti
interlocutori, le azioni e gli strumenti di comunicazione da adottare e le
modalità di valutazione dei risultati della comunicazione. Questa fase per
l’azienda pubblica acquisisce un significato diverso rispetto all’azienda
privata. Per l’azienda pubblica le attese e i bisogni dei portatori di interesse
rappresentano la sua stessa missione, e questa non può essere raggiunta
e realizzata in modo isolato e occasionale, ossia senza rapportarsi con
i reali bisogni della collettività, ma necessita di un confronto costante
in grado di far emergere le aspettative della comunità. Non solo, ma
sbagliare interventi oppure non soddisfare un certo tipo di bisogno significherebbe perdere una parte più o meno significativa dell’elettorato. Ciò
a significare che la relazione “attese-risultati” non rispecchia un’attività
residuale che coglie il gradimento dei portatori di interesse, ma può costituire un processo informativo che, se implementato nella procedura di
rendicontazione, può far emergere le condizioni economico sociali di un
territorio e consentire l’individuazione di azioni mirate al miglioramento
e al benessere della collettività.
26 Tratto dall’allegato: “Bilancio sociale: linee guida per le amministrazioni pubbliche”, della direttiva del Ministro della funzione pubblica sulla rendicontazione sociale nelle amministrazioni pubbliche, del 17 febbraio 2006, p. 8.
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6. Il bilancio sociale secondo il modello GBS
Lo standard di base per la rendicontazione sociale nel settore pubblico
elaborato dal GBS è strutturato in tre parti fondamentali:
1) l’identità aziendale;
2) la riclassificazione dei dati contabili e calcolo del valore aggiunto;
3) la relazione sociale.
Secondo il modello GBS, il bilancio sociale per le aziende pubbliche ha
l’obiettivo di favorire un nuovo processo di dialogo e di comunicazione
non autoreferenziale con gli interlocutori sociali, esponendo gli obiettivi
di miglioramento e di innovazione che l’azienda pubblica si impegna a
perseguire; inoltre ha l’obiettivo di fornire agli organi di governo elementi
chiari per la definizione delle strategie e contribuire allo sviluppo della
responsabilità sociale. (27)
L’identità aziendale
L’identità aziendale è una parte molto complessa di informazioni che sono
strettamente collegate ai valori di fondo e alla ragione d’essere dell’azienda.
Tali informazioni, secondo il GBS, possono essere esplicitate definendo:
a) lo scenario e il contesto di riferimento, il sistema di governance e
l’assetto organizzativo;
b) i principi e i valori che ispirano la missione, gli obiettivi e i comportamenti;
c) le strategie e le politiche.
Lo scenario e il contesto di riferimento sono i dati o le rilevazioni che consentono di avere un quadro informativo esaustivo del territorio nel quale
l’azienda opera e di tutte le sue attività;
Per sistema di governance si intendono le informazioni riguardanti la
composizione degli organi di vertice con riferimento alla natura del mandato, alle esperienze, alle professionalità e agli emolumenti riconosciuti ai
soggetti che ne fanno parte. Inoltre sono necessarie le informazioni relative
al sistema organizzativo aziendale, con la descrizione delle singole aree di
intervento, dei compiti, delle responsabilità e delle risorse utilizzate.
I principi e i valori che ispirano la missione, gli obiettivi e i comportamenti
possono essere espressi dalla legge, dai regolamenti, dagli statuti, oppure possono risultare dai codici etici e di comportamento, dalle carte dei servizi, ecc.
I valori e i principi ispirano la missione che è la ragione d’essere dell’azienda.
27 Il bilancio sociale viene considerato come un mezzo per rivedere e riorganizzare la governance interna. Si veda Bartocci (2007).
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La missione, in seguito, viene tradotta in strategie che consentono di
guidare il processo decisionale del management verso il successo, misurato
dalla creazione e dall’accrescimento del valore; viene inoltre tradotta in
politiche, progetti e programmi operativi. La definizione di questi aspetti
può essere effettuata per aree di intervento oppure per classi di portatori
di interesse.
La riclassificazione dei dati contabili e calcolo del valore aggiunto
Uno degli elementi distintivi del modello GBS è proprio il calcolo del valore
aggiunto, che misura la ricchezza prodotta dall’azienda durante l’esercizio,
con riferimento ai portatori di interesse (stakeholder) che partecipano alla
sua distribuzione. Nelle aziende pubbliche tale parametro acquisisce un
significato controverso sia dal lato della realizzazione del calcolo stesso e
sia, una volta verificata la possibilità di calcolo, dal lato dell’utilità e della
rilevanza delle informazioni che si ottengono. Vi sono, di fatto, pareri contrastanti sia nel mondo accademico (28) che tra gli addetti ai lavori. (29) Infatti,
il documento di ricerca n. 7 del GBS sul bilancio sociale nelle Università
non tratta il tema del VA, poiché è emersa la difficoltà, in assenza di scambi
di mercato, a procedere alla misurazione del valore espressivo dell’utilità
dei beni e dei servizi prodotti nelle Università pubbliche; inoltre perché il
sistema contabile adottato non sempre impone la rilevazione dell’aspetto
economico della gestione.
Secondo autorevole dottrina “la mancanza di uso degli elementi di
misurazione, il “valore della produzione”, impedisce la determinazione
contabile del valore aggiunto” nelle aziende pubbliche. Infatti, il valore
della produzione delle entità pubbliche, che non operano tramite il mercato,
è calcolato al costo dei fattori produttivi con la duplice conseguenza che
il valore della produzione e il valore dei consumi del settore pubblico si
equivalgono (Borgonovi, 2007a).
Inoltre, è utile ricordare che il calcolo del valore aggiunto può apparire
28 Tra chi sostiene la possibilità e l’utilità del calcolo del valore aggiunto nel settore pubblico, si veda Gabrovec, Mei (2007), la quale sottolinea che il calcolo del valore aggiunto è tipico del settore pubblico. Si veda anche Vermiglio (2007), il quale evidenzia che “il valore aggiunto nelle aziende pubbliche non ha e non può avere lo stesso valore e lo stesso significato che ha nelle imprese, meno che mai gli si può attribuire la capacità di esprimere il livello
di soddisfazione della comunità. […] il che non vuol dire che non possa essere calcolato, né
che sia privo di significato” e precisa che “il Valore Aggiunto rappresenta una riclassificazione del conto economico rivolta a mettere in evidenza l’efficienza aziendale”.
Tra chi ritiene l’impossibilità e la non significatività del calcolo del valore aggiunto, si veda
per tutti Borgonovi (2007a).
29 Cfr. Jannelli, Cerri, Virginillo (2007), i quali sostengono l’impossibilità di costruire i prospetti di riclassificazione contabile previsti dallo standard GBS a causa dell’assenza di una
contabilità analitica che ripartisce le voci di costo, di un sistema di reportistica “bottom up”
e dalla complessità della metodologia di quantificazione dei benefici per la collettività. Cfr.
anche Aa.Aa. (2007), p. 202, i quali sostengono che l’attività della Procura della Repubblica non genera veri e propri ricavi a cui contrapporre i costi; va da sé che non si può parlare di valore aggiunto, ma di impatto che il Servizio Giustizia ha sulla Tesoreria dello Stato in
termini di benefici finanziari.
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significativo e applicabile nelle imprese a proprietà pubblica che operano
in settori completamente liberalizzati in competizione con aziende private;
nelle imprese miste.
Attualmente, mediante una prima verifica che misura il livello di adozione
del Bilancio sociale da parte delle aziende pubbliche, è emerso che da un
campione di 25 enti locali solo un Comune di piccole-medie dimensioni
effettua il prospetto di determinazione e di riparto del valore aggiunto
(Zuccardi Merli, Bonollo, 2007).
Tuttavia si ritiene precoce dedurre l’inapplicabilità del calcolo del valore
aggiunto (VA) nelle aziende pubbliche, poiché è da considerare la ritardata
adozione della contabilità economico-finanziaria (30) su cui esso si basa.
Infatti, il calcolo del valore aggiunto rappresenta un legame con la contabilità economico-patrimoniale e consente di valutare l’efficienza raggiunta
nell’impiego delle risorse.
Per il calcolo del VA è necessario riclassificare i dati del conto economico
in modo da evidenziare la produzione e la sua successiva distribuzione
agli stakeholder di riferimento. Il valore aggiunto può avere una dimensione
al netto o al lordo degli ammortamenti. La dimensione al lordo accomuna
alla nuova ricchezza prodotta i flussi di graduale reintegrazione dei costi
dei fattori produttivi durevoli. Se si accoglie tale dimensione, gli ammortamenti vanno attribuiti – in sede di distribuzione – alla remunerazione
dell’azienda.
Il valore aggiunto può essere rappresentato in distinti prospetti:
• il prospetto di determinazione del valore aggiunto globale, individuato
dalla contrapposizione dei componenti economici positivi e negativi della
gestione di esercizio;
• il prospetto di riparto del valore aggiunto per aree di intervento, individuato dalla contrapposizione dei componenti economici positivi e negativi
della gestione di esercizio relativi alle diverse aree di intervento;
• il prospetto di riparto del valore aggiunto globale, sommatoria delle
remunerazioni percepite dagli stakeholder di riferimento;
• il prospetto informativo sul patrimonio e su altri beni e impegni, individuato dalla contrapposizione ed evoluzione degli impieghi trasferiti alle
generazioni future; (31)
• il prospetto delle entrate e delle uscite per aree di intervento, ricomprende in modo sintetico le entrate e le uscite riportate nella contabilità
finanziaria.
30 Si veda Zuccardi Merli (2005), la quale evidenza che nonostante i ripetuti interventi legislativi che propongono l’introduzione di un sistema informativo-contabile che tenga conto
dell’aspetto economico e non solo di quello finanziario, gli Enti locali continuano ad operare
avvalendosi dei sistemi informativi contabili tradizionali.
31 Per un approfondimento del prospetto sul patrimonio si veda l’Introduzione di Gabrovic
Mei (2007, p. 30).
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Inoltre il VA può riflettere varie configurazioni secondo il livello di aggregazione dei componenti reddituali:
a) Valore Aggiunto Caratteristico (V.A.C.);
b) Valore Aggiunto Ordinario (V.A.O.);
c) Valore Aggiunto Globale (V.A.G.).
La configurazione prescelta è quella del Valore Aggiunto Globale (tabella 1),
che può essere considerato sia al netto che al lordo degli ammortamenti.
Tabella 1 – Prospetto di determinazione del valore aggiunto gobale
VALORE AGGIUNTO GLOBALE
n.
ESERCIZI
n. 1 n. 2
A) Valore della produzione
1. Entrate da trasferimenti (correnti e/o in conto capitale depurati dei proventi)
per la produzione delle prestazioni e/o servizi
2. Entrate proprie da tributi
3. Ricavi/Proventi delle vendite e prestazioni - rettifiche di ricavo/proventi
4. Entrate proprie per la produzione delle prestazioni e/o servizi
5. Variazione delle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione, semilavorati e finiti (merci)
6. Variazione dei lavori in corso su ordinazione
7. Altri ricavi/proventi
8. Altre entrate/contributi di pertinenza
9. Ricavi/Proventi per produzioni atipiche
B) Costi intermedi della produzione
10. Consumi di materie prime,
11. Consumi di materie sussidiarie
12. Consumi di materie di consumo
13. Costi di acquisto di merci
14. Costi per servizi
15. Costi per godimento di beni di terzi
16. Accantonamenti per rischi
17. Altri accantonamenti
18. Oneri diversi di gestione
VALORE AGGIUNTO CARATTERISTICO
C) COMPONENTI ACCESSORI E STRAORDINARI
19. +/- Saldo gestione accessoria:
Ricavi/Proventi accessori
- Costi accessori
20. +/- Saldo componenti straordinari:
Ricavi/Proventi straordinari
- Costi straordinari
VALORE AGGIUNTO GLOBALE LORDO
- Ammortamenti della gestione per gruppi omogenei di beni
VALORE AGGIUNTO GLOBALE NETTO
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Il bilancio sociale
Prospetto di riparto del Valore Aggiunto Globale
Il prospetto di riparto del VA (tabella 2) globale riporta la descrizione delle
categorie di stakeholder e le remunerazioni percepite dagli stessi e si compone delle seguenti parti:
a) remunerazione delle risorse umane, ossia remunerazione del personale che intrattiene con l’azienda rapporti di lavoro e collaborazioni
continuative;
b) remunerazione dell’azienda pubblica, che rappresenta il beneficio
economico acquisito dalla stessa, in termini diretti, per effetto delle attività
di natura non istituzionale svolta;
c) remunerazione del capitale di credito, ossia dei fornitori di capitali di
funzionamento o di finanziamento, di breve o lungo termine;
d) valore non ripartibile destinato alla conservazione e all’incremento
del patrimonio, inteso come riserve e altri accantonamenti destinati alla
conservazione e all’incremento del patrimonio.
Tabella 2 – Prospetto di riparto del valore aggiunto globale
PROSPETTO DI RIPARTO DEL VALORE AGGIUNTO GLOBALE
n.
ESERCIZI
n. 1 n. 2
A) Remunerazione delle risorse umane
1.
2.
3.
4.
Organi di governo
Personale non dipendente
Personale dipendente
Altri
B) Remunerazione della Pubblica Amministrazione
5. Imposte dirette/Imposte indirette
6. Sovvenzioni in conto esercizio
C) Remunerazione del capitale di credito
7. Oneri per capitali a breve termine
8. Oneri per capitali a medio e lungo termine
D) Valore non ripartibile destinato alla conservazione e all’incremento
del patrimonio
9. Riserve
10.Altri accantonamenti
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La relazione sociale
L’ultima parte di cui si compone il modello G.B.S. è la relazione sociale che
contiene la descrizione qualitativa e quantitativa dei risultati che l’azienda
pubblica ha raggiunto nel perseguimento della propria missione, al fine di
consentire alle diverse categorie di stakeholder di prenderne conoscenza e
valutarne gli impatti generati sul territorio e sul benessere della collettività.
La relazione sociale rappresenta quindi il documento che esplicita i
progetti realizzati per ciascuna categoria di stakeholder in modo chiaro
ed esaustivo per consentire una immediata valutazione dei risultati. Ciò si
traduce in un maggior coinvolgimento e senso di appartenenza dei portatori
di interesse alle politiche dell’azienda pubblica.
La relazione sociale diventa, pertanto, uno strumento annuale utile all’organo di governo per interrogarsi sugli obiettivi futuri e verificare i punti di forza
e di debolezza dell’ente stesso, al fine di pianificare nuovi interventi.
Gli elementi essenziali che il GBS ritiene debbano risultare nella relazione sociale sono:
1) le aree di intervento per categoria di stakeholder. Nella relazione
sociale si richiede di identificare i portatori di interesse principali rispetto
ai quali sono rivolte le attività e gli interventi; inoltre si illustrano le attività
coerenti con la missione e la strategia;
2) le risorse impiegate. Si individuano le risorse impiegate sia in termini
di risorse finanziarie (spese/entrate finanziarie), sia nella dimensione economica (costi e ricavi) e sia nella dimensione reale (risorse umane e risorse
strumentali, es. dotazioni informatiche, ecc.);
3) i risultati raggiunti. In questa sezione si descrivono i risultati ottenuti
nel perseguimento della missione aziendale e il grado di raggiungimento
degli obiettivi prefissati sia in termini qualitativi che quantitativi, in relazione
alla categoria degli stakeholder o alle aree di intervento;
4) il giudizio degli stakeholder. Per rendere ancora più significativa la
rendicontazione sociale è spesso richiesto alle aziende un maggiore grado
di coinvolgimento degli interlocutori nel processo di valutazione dei risultati. A tal fine alcune aziende richiedono ai propri stakeholder, mediante
sondaggi, di esprimere le loro aspettative, di valutare i risultati ottenuti e di
proporre elementi di miglioramento;
5) le dichiarazioni di miglioramento dell’azienda. In questa sezione
l’azienda esplicita obiettivi di miglioramento delle proprie performance
collegandosi ai giudizi espressi dai portatori di interesse.
7. Quali differenze tra pubblico e privato?
Il termine “bilancio d’esercizio” inteso come documento che evidenzia il patrimonio e il risultato di esercizio richiama immediatamente una differenza,
sotto il profilo tecnico, tra settore pubblico e privato: mentre nelle aziende
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private esso rappresenta l’andamento economico finanziario della gestione,
indicando l’utile o la perdita, nelle aziende pubbliche il bilancio (32) mostra un
avanzo o un disavanzo ed è il risultato della contabilità finanziaria, seppur in
corso di modifica, la quale fornisce informazioni sull’equilibrio tra ricchezza
disponibile e ricchezza impiegata. A maggior ragione il bilancio sociale
assume significati differenti anche sotto il profilo culturale e concettuale, tra
settore pubblico e privato.
Posto che, il bilancio sociale è un documento di rendicontazione sociale
che integra le informazioni del bilancio d’esercizio al fine di comunicare
in linguaggio semplice e immediato l’assunzione di comportamenti etici e
socialmente utili nell’ambito della propria attività di produzione o erogazione
di beni e servizi, non si può non cogliere un’essenziale differenza concettuale nelle finalità del bilancio sociale a seconda che esso sia adottato nel
settore pubblico o nel settore privato.
Per le aziende private, il bilancio sociale è uno strumento di comunicazione orientato agli stakeholder, con la precisa finalità di accreditarsi
come aziende socialmente responsabili agli occhi dell’opinione pubblica, su temi di interesse generale, come la diminuzione o l’assenza di
immissioni di elementi inquinanti, la tutela dei diritti dei lavoratori, le pari
opportunità, ecc.
Secondo taluni, il perseguimento delle finalità sociali sopra indicate
favorirebbe altresì l’immagine dell’azienda sul mercato, sicché la finalità
etico-sociale sarebbe strumentale a incrementare il profitto. (33) È pur vero
che “l’economicità nell’amministrazione” delle aziende private, come
afferma Onida (1961), “risponde a criteri di socialità in quanto favorisce
la diffusione del benessere economico”. Inoltre osserva che il benessere
economico comune è condizione fondamentale del bene comune, ma essi
non coincidono. “Non ogni accrescimento di benessere economico comune
è conforme al bene comune […] ad es. quando annichilisce la personalità
dell’uomo e ne sopprime le libertà individuali”.
Quindi, seppur nell’economicità dell’attività privata si riscontri un aspetto sociale legato all’accrescimento del benessere economico comune, è
nell’azione dell’uomo o meglio nel modo di condurre l’attività economica
che si può rinvenire un atteggiamento socialmente “irresponsabile” ed è
proprio a questo aspetto che si riferisce la Commissione delle comunità
europee quando, nel libro Verde, definisce la responsabilità sociale delle
aziende private come “l’integrazione volontaria, da parte delle imprese,
delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle loro operazioni commerciali
e nei loro rapporti con le parti interessate”. Ciò a significare che l’azienda
privata effettua una precisa scelta etica (Lazzini, 2005; Paletta, 2007;
32 In questo caso per bilancio del settore pubblico intendiamo il bilancio consuntivo.
33 Sul tema Hinna (2004) scrive che una gestione socialmente responsabile per le strutture
profit oriented serve a garantire sia i finanziatori orientati al finanziamento etico e sia i consumatori orientati al consumo consapevole che l’azienda in questione merita la massima considerazione.
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Coda, 2002), rivolta a dedicare maggiore attenzione agli impatti sociali e
ambientali attuali e futuri della propria attività, che perseguirà congiuntamente alla produzione di ricchezza.
Per l’azienda pubblica la rendicontazione sociale non può rappresentare
un’ “opzione etica”. Per le aziende pubbliche, il bilancio non può che essere
sociale per definizione, perché origina dall’uso di risorse comuni destinate
a generare benefici per la società (Vermiglio, 2000). Le aziende pubbliche
non hanno necessità di dimostrare quanto siano socialmente responsabili nei
confronti del contesto economico e sociale in cui operano; piuttosto hanno
la finalità di “rilegittimarsi” e riaffermare prima di tutto la propria natura di
attori sociali e di istituzioni finalizzate alla salvaguardia e alla tutela degli
interessi comuni. (34)
Inoltre, anche se il fine delle aziende, siano esse pubbliche o private,
è unico e rappresenta il conseguimento dell’equilibrio economico a valere
nel tempo, (35) il successo di un’azienda pubblica non viene commisurato
con indicatori di performance come nella realtà privata, ma con il valore
pubblico (36) in termini di benessere generato e diffuso nella collettività.
Infatti in una ricerca svolta su undici enti locali (Guarini, 2002) è emerso
che l’interpretazione peculiare del concetto di “valore generato” richiama
la quantità e la qualità dei bisogni soddisfatti, ma non solo, richiama anche
l’effetto redistributivo delle risorse economico-finanziarie”.
In tal senso, nell’azienda pubblica il perseguimento dell’equilibrio economico finanziario rappresenta piuttosto un vincolo, ossia una condizione
necessaria al perseguimento delle finalità istituzionali. Pertanto si deduce,
da quanto appena precisato, che la rendicontazione sociale ha natura residuale per le aziende private, mentre per il settore pubblico, dar conto della
propria attività sociale, degli obiettivi, dei progetti in corso e dei benefici
sulla collettività, non può che avere natura originaria.
Infine, un’ultima differenza riguarda il rapporto con i portatori di interesse. Mentre per le aziende private l’individuazione delle categorie di
portatori di interesse, o meglio, scegliere la classe di stakeholder come
target al quale indirizzare alcuni interventi mirati per acquisire consenso
può divenire un fattore strategico di successo, per l’azienda pubblica gli
34 Sulla stessa linea Marcuccio, Steccolini, Valotti (2004); inoltre sottolineano che: l’azienda
pubblica può, al di là dell’espletamento delle proprie funzioni istituzionali, adottare un comportamento più o meno ispirato ai principi della responsabilità sociale o della sostenibilità (ad
esempio, l’uso di carta riciclata, le politiche per le pari opportunità, ecc.).
35 Giannessi (1961) sottolinea che: “Ciò che differenzia le aziende di produzione da quelle di erogazione non è il fine. Questo non perché non si possa ritenere che il fine delle aziende in generale sia il soddisfacimento dei bisogni umani (perché è questa una finalità propria
dell’attività economica svolta dall’uomo nella sua forma più semplice e non è un carattere
essenziale dell’azienda) ma perché per qualsiasi azienda il fine non può che essere quello
dell’equilibrio economico a valere nel tempo”.
36 Borgonovi (2003) sottolinea che “Le aziende pubbliche producono valore nella misura in cui rispondono in modo adeguato a tali bisogni e producono maggiori o minori valori
quanto più o meno elevato è il livello quali-quantitativo dei bisogni soddisfatti. Il valore che
le aziende pubbliche producono è il valore per le comunità di riferimento e può essere definito come valore pubblico.
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stakeholder sono individuabili in tutti coloro che essa stessa rappresenta
sul territorio in cui opera ed è legittimata a operare. (37)
In altre parole, l’azienda privata effettua una scelta precisa, individuando
l’intervento a favore della comunità, rispondendo a quella che Carroll (1979,
p. 500) chiama “Responsabilità discrezionale”. L’autore, infatti, riconosce
che l’azienda privata possiede quattro tipi di responsabilità sociale: “economica, legale, etica e discrezionale”. La prima riguarda la creazione del
valore, inteso come generazione del profitto per gli azionisti; la seconda
evidenzia le responsabilità giuridiche, dettate dalla normativa vigente; la
terza è legata ai valori sociali, come l’agire con equità, imparzialità e giustizia; infine la responsabilità discrezionale riguarda gli investimenti a favore
di un gruppo sociale effettuati dai manager liberamente per assecondare
fini filantropici (Chirieleison, 2004). In seguito Carroll chiarisce che tali responsabilità vanno intese in senso gerarchico di importanza, ribadendo che
la prima responsabilità di un’azienda privata è proprio quella economica,
come affermava Friedman negli anni Settanta. (38)
Come si può dedurre da quanto appena espresso la piramide delle responsabilità viene ribaltata nelle aziende pubbliche. Per queste ultime non
si può parlare di responsabilità discrezionale, poiché è nella loro stessa
natura pubblica che si rinviene il fine istituzionale di tipo sociale, ossia il
perseguimento e la tutela del bene comune.
Nello stesso tempo possiamo sostenere che il bilancio sociale assolve
a una funzione comune, quella di “gestire il consenso” (Hinna, 2004), ma
non solo, il bilancio sociale ha la funzione di colmare il vuoto informativo
del bilancio di esercizio per tutti i tipi di azienda.
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37 Borgonovi (2007b), riconosce che “È funzione dell’istituzione pubblica soddisfare i bisogni e le attese dei propri cittadini secondo modalità influenzate dalla storia, dalla cultura, da
valori individuali o collettivi nella duplice prospettiva: a) dei bisogni comuni indistinti; b) dei
bisogni dei singoli. […] Le istituzioni pubbliche devono essere in grado di adottare politiche
idonee ad equilibrare benefici e costi tra diverse generazioni”.
38 “Vi è una sola responsabilità sociale dell’impresa: aumentare i suoi profitti […]. Il vero dovere sociale dell’impresa è ottenere i più elevati profitti producendo così ricchezza e lavoro
per tutti nel modo più efficiente possibile”, Friedman (1962).
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Esperienze innovative
Il bilancio sociale
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Ricerca n. 7, Milano: Giuffrè.
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Hinna L. (2004), Il bilancio sociale nelle amministrazioni pubbliche, Milano:
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Marcuccio M., Steccolini I., Valotti G. (2004), “La rendicontazione sociale
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Masini C. (1978), Lavoro e risparmio, Torino: Utet.
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Agostini.
Dipartimento della Funzione pubblica (2004), Programma CANTIERI. Rendere
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Esperienze innovative
Il bilancio sociale
conto ai cittadini, Manuale, Roma: Edizioni scientifiche Italiane.
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Rebora G. (1988), “Pubblica Amministrazione”, Azienda Pubblica, 1.
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Zappa G., Marcantonio A. (1954), Ragioneria applicata alle aziende
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le amministrazioni pubbliche: un’analisi empirica sul bilancio sociale”,
in P. Ricci (a cura di), Lo standard G.B.S. per la rendicontazione sociale
nella Pubblica Amministrazione, Milano: Franco Angeli, p. 141.
Zuccardi Merli M. (2005), “Il sistema informativo contabile per l’ente locale:
verso una prospettiva di integrazione”, in L. Anselmi (a cura di), Principi e
metodologie Economico aziendali per gli Enti Locali, Milano: Giuffrè.
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Fonti di approfondimento
La p.a. on line
La P.A. on line
A cura di Maria Cucciniello
Misurazione, Meritocrazia, e Trasparenza: sono le parole chiave ribadite più volte dal Ministro
Brunetta riguardo il ruolo della Pubblica amministrazione. Sono anche le parole d’ordine del
nuovo piano quadriennale di “e-Gov 2012”.
Il piano risponde, in modo concreto, a bisogni altrettanto reali: occorre ripensare e
semplificare le regole, ridurre gli oneri amministrativi, snellire i processi interni, velocizzare
i tempi di erogazione dei servizi, minimizzare i costi di funzionamento. Ma non basta. La
poliedricità dei bisogni del cittadino, impone un ripensamento della struttura delle relazioni
tra i soggetti coinvolti nel soddisfacimento degli stessi e stimola l’interdipendenza all’interno
dell’organizzazione e tra organizzazioni e altri soggetti, privati e non profit, che rivestono,
seppur con forme diverse, un ruolo sempre più rilevante nella produzione e d erogazione di
servizi pubblici.
Il piano prevede un impegno finanziario di legislatura di 1380 milioni di euro, 80 progetti
raccolti su 4 ambiti di intervento prioritari, per un totale di 27 obiettivi da realizzarsi entro
2012.
In particolare, gli obiettivi del Piano sono divisi in 4 macroaree: obiettivi settoriali, obiettivi
territoriali, obiettivi di sistema, obiettivi internazionali. La tabella riportata in coda, esplicita nel
dettaglio gli ambiti di riferimento, l’ammontare dei fondi stanziati e la provenienza dei fondi
stessi.
Tuttavia, la vera novità del Piano consiste in quello che lo stesso Ministro ha definito in
sede di presentazione, “metodo di lavoro”. Verifica e valutazione: sono queste le attività sui
cui puntare. Non basta fissare obiettivi, occorre controllare, monitorare, quanto realmente
fatto “quotidianamente, quindicinalmente, mensilmente”. In questa operazione, il Ministro
ha chiesto supporto soprattutto alla stampa e ai mezzi di comunicazione, perché si facciano
garanti del “nuovo patto” stretto con i cittadini, con il settore privato e non profit nonché con
le altre istituzioni.
A quest’appello rispondiamo anche noi, offrendo lo spazio della rubrica “La P.A. on-line” per
analizzare, commentare e condividere le esperienze, nel tentativo di promuovere e stimolare
ulteriore innovazione.
In quest’ottica la rubrica “La P.A. on-line”, si propone di presentare trimestralmente uno o più
progetti realizzati o in corso di realizzazione da tutte le istituzioni operanti nel settore pubblico a
livello statale, regionale e locale, e rientrante in una delle macroaree o inquadrabile all’interno
degli obiettivi previsti dal piano.
La rubrica ospiterà alcuni contributi selezionati tra quelli inviati dagli enti, che potranno
candidarsi e proporre la propria esperienza di innovazione alla luce della riforma.
I contributi potranno essere inviati alla Dott.ssa Maria Cucciniello, all’indirizzo [email protected]
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PROVENIENZA FONDI
(in milioni di Euro)
AMMONTARE FONDI
(milioni di Euro)
AMBITO DI
RIFERIMENTO
• 687 da reperire da:
− CMSI (Comintato
dei Ministri per la
Società
dell’informazione)
• 214 già disponibili
900
• Università
• Regioni
• Amministrazioni
Centrali dello Stato
− ELISA
− PON
− POR
− FAS
310 da reperire da:
310
• Capoluoghi
Obiettivi territoriali
Obiettivi settoriali,
99 da reperire da:
− FAS/Infrastrutture
7 già disponibili
106
• Progetti di miglioramento
dell’accessibilità dei servizi
• Progetti di riduzione
del digital divide
• Sistema pubblico di connettività
per lo sviluppo di infrastrutture:
Obiettivi di sistema
37 da reperire da:
− Cooperazione per lo Sviluppo
27 già disponibili
64
• Raccordo con UE e OCSE
• Governance di Internet
• e-governance per lo sviluppo
Obiettivi internazionali
La p.a. on line
Fonti di approfondimento
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Fonti di approfondimento
Spoglio riviste
Spoglio riviste
Journal of Public Administration
Research and Theory
Moynihan D.P., “The Network Governance
of Crisis Response: Case Studies of Incident
Command Systems”, vol. 19, n. 4, ottobre
2009, pp. 895-915.
Nonprofit and Voluntary
Sector Quarterly
Tschirhart M., Reed K.K., Freeman S.J.,
Anker A.L., “Who Serves?: Predicting
Placement of Management Graduates
on Nonprofit, Government, and Business
Boards”, vol. 38, n. 4, dicembre 2009,
pp. 1076-1085.
Public Administration
Rhys A., Boyne G.A., Law J., Walker R.M.,
“Strategy, structure and process in the
public sector: a test of the miles and snow
model”, vol. 87, n. 4, dicembre 2009,
pp. 732-749.
Morten E., Trondal J., “ National Agencies
In The European Administrative Space:
Government Driven, Commission Driven
Or Networked?”, vol. 87, n. 4, dicembre
2009, pp. 779-790.
Public Administration Review
Wu X., He J., “Paradigm Shift in Public Administration: Implications for Teaching in
Professional Training Programs”, vol. 69,
n. s1, pp. S21-S28.
Zhang M., “Crossing the River by Touching
Stones: A Comparative Study of Administrative Reforms in China and the United
States”, vol. 69, n. s1, pp. S82-S87.
Review of Public Personnel
Administration
Feeney M.K., DeHart-Davis L., “Bureaucracy
and Public Employee Behavior: A Case
of Local Government,” vol. 29, n. 4, pp.
311-326.
West J.P., Berman E.M., “Job Satisfaction
of Public Managers in Special Districts”,
vol. 29, n. 4, pp. 327-353.
The American Review of Public
Administration
Clerkin R.M., Paynter S.R., Taylor J.K., “Public
Service Motivation in Undergraduate Giving
and: Volunteering Decisions,” vol. 39, n. 6,
pp. 675-698.
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Fonti di approfondimento
In libreria
In libreria
Alberto Martini,
Marco Sisti
(a cura di)
Valutare il successo
delle politiche
pubbliche
Bologna: il Mulino,
2009
pp. 320, € 28,00
isbn: 978-88-1512762-4
Mimmo Carrieri,
Vincenzo Nastasi
(a cura di)
Spazio e ruolo
delle Autonomie
nella riforma della
contrattazione
Bologna: il Mulino,
2009
pp. 384, € 27,00
isbn: 978-88-1513289-5
Indice del volume: Prefazione. Introduzione. Parte prima:
I concetti generali. 1. Politica pubblica, implementazione
ed effetti. Parte seconda: valutare l’implementazione delle
politiche. 2. Quando valutare l’implementazione. 3. Teoria
del cambiamento e modello logico. 4. Tre obiettivi conoscitivi per l’analisi di implementazione. 5. Tecniche per raccogliere informazioni sull’implementazione di una politica.
Parte terza: valutare gli effetti delle politiche. 6. Effetti delle
politiche e logica controfattuale. 7. Il modello dei risultati potenziali. 8. Il metodo sperimentale. 9. La logica dei
metodi non sperimentali e il metodo differenza-nelle-differenze. 10. Gli utilizzi dell’analisi di regressione. 11. L’abbinamento statistico. 12. La discontinuità attorno a una
soglia. 13. L’utilizzo delle variabili strumentali. 14. L’analisi delle serie storiche interrotte. 15. La rilevazione degli
effetti percepiti dai beneficiari. 16. Quando valutare gli
effetti di una politica pubblica. Riferimenti bibliografici.
Indice del volume: Presentazione, di Massimo Massella Ducci Teri. Il decentramento ridisegnato, di Mimmo Carrieri. La
contrattazione collettiva nel lavoro pubblico tra efficacia e
autonomia, di Vincenzo Nastasi. Parte Prima: Analisi e proposte. 1.1. Regole del conflitto e conflitto sulle regole. L’accordo
separato sulla revisione del modello contrattuale, di Lauralba
Bellardi. 1.2. La politica dei “due passi”, di Carlo Dell’Aringa. 1.3. Innovare nella concretezza. Il ruolo delle Autonomie,
di Gaudenzio Garavini. 1.4. Problemi giuridico-istituzionali
della riforma del contratto collettivo. A proposito della “riforma Brunetta”, di Lorenzo Zoppoli. 1.5. Un modello unico per
pubblico e privato? Retorica, realtà e necessarie cautele, di
Lorenzo Bordogna. 1.6. Il futuro della contrattazione pubblica, di Paolo Matteini. 1.7. Alcune considerazioni sul modello
contrattuale nella sanità. Le necessità emergenti, di Renzo Alessi. 1.8. La contrattazione collettiva in sanità. Spunti per una
riforma del sistema in chiave regionalista, di Samuel Dal Gesso e Lorena Ferrari. 1.9. Il finanziamento della contrattazione
collettiva nel comparto Sanità, di Lorenzo Broccoli. Parte Seconda: Interventi. 2.1. Verso un decentramento controllato, di
Vasco Errani. 2.2. Coinvolgere le Autonomie per superare le
contraddizioni, di Leonardo Domenici. 2.3. La contrattazione
collettiva nel pubblico impiego tra continuità ed esigenze di riforma: l’esperienza delle autonomie locali, di Orazio Ciliberti.
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Fonti di approfondimento
In libreria
Carlo Scarpa,
Paolo Bianchi,
Bernardo Bortolotti
e Laura Pellizola
(a cura di)
Indice del volume: 1. Introduzione. 2. Dalla legge Giolitti alle
privatizzazioni: le alterne fortune delle imprese pubbliche locali. 3. Le imprese pubbliche locali come strumento di politica
economica. 4. Uno sguardo ai dati. 5. Modelli di capitalismo
municipale: una mappa con luci e ombre. 6. La presenza nei
settori produttivi tra performance e tentazioni assistenziali.
Comuni S.p.A.
Il capitalismo
municipale
in Italia
Bologna: il Mulino, 2009
pp. 176, € 15
isbn: 978-88-15-13351-9
Giuseppe Negro,
Simona Ozzello
Le soluzioni snelle
per la P.A.
Come tradurre il nuovo
modello organizzativo
“lean governement” in
soluzioni concrete ed
efficaci
Indice del volume: 1. Principi della gestione dei servizi
(service management). 2. I principi dell’organizzazione
snella (lean management). 3. Una nuova idea di valore.
4. Ripensare il sistema di erogazione dei servizi in logica snella. 5. Le soluzioni snelle. Appendice – Il percorso
organizzativo dalla qualità totale al lean governement.
Rimini: Maggioli,
2010
pp. 168, € 22
isbn: 8838754012
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Fonti di approfondimento
Fabio Berti,
Andrea Valzania
(a cura di)
Le nuove frontiere
dell’integrazione
Gli immigrati stranieri
in Toscana
Milano: Franco Angeli,
2010
pp. 240, € 21,00
isbn 13:
9788856816334
Renato Ruffini
L’evoluzione dei
sistemi di controllo
nella pubblica
amministrazione
Linee operative per
lo sviluppo dell’audit
e della gestione
delle performance
nelle pubbliche
amministrazioni
Milano: Franco Angeli,
2010
pp. 176, € 21,00
isbn 13:
9788856814613
In libreria
Indice del volume: Presentazione, di Gianni Salvadori. Prefazione, di Vincenzo Cesareo. Nota per il lettore. Parte I. Il
quadro di riferimento. 1.1. Verso un nuovo concetto di integrazione. La difficile misura di un processo complesso, di
Fabio Berti. 1.2. Caratteri e numeri dell’universo immigrato,
di Alessio Menonna. 1.3. La ricerca sull’immigrazione in Toscana e le politiche regionali per l’integrazione, di Andrea
Valzania. 1.4. Nota metodologica, di Alessio Menonna.
Parte II. Le dimensioni dell’integrazione. 2.1. Progetto migratorio e percorsi di integrazione, di Fabio Berti. 2.2. Gli aspetti
economici dell’integrazione, di Andrea Valzania. 2.3. Condizione giuridica e integrazione, di Andrea Valzania.
2.4. L’integrazione socio-culturale, di Fabio Berti. 2.5. Identità, immigrazione, integrazione, di Fabio Berti. 2.6. Rete
dei servizi e processi di integrazione, di Andrea Valzania.
2.7. Un bilancio complessivo: elementi di sintesi e di confronto, di Alessio Menonna. 2.8. Nessuna conclusione, solo
prospettive, di Fabio Berti, Andrea Valzania. Riferimenti
bibliografici. Appendice statistica, di Livia Elisa Ortensi.
Indice del volume: Presentazione. Capitolo 1. Le forme di controllo nelle pubbliche amministrazioni: caratteristiche, limiti e linee
evolutive. 1.1. Il sistema del controllo nelle pubbliche amministrazioni. 1.2. I limiti dei sistemi dei controlli nelle pubbliche
amministrazioni. 1.3. Possibili linee evolutive del sistema dei
controlli. Capitolo 2. L’audit nel sistema di controllo interno
nella pubblica amministrazione. 2.1. L’audit nel settore pubblico. 2.2. Un’esperienza di costruzione di un sistema di audit
nelle pubbliche amministrazioni: impostazione metodologica. Capitolo 3. I sistemi di gestione delle performance nelle pubbliche amministrazioni. 3.1. La misurazione dei risultati nella
PA: aspetti generali e di processo. 3.2. Sistemi di misurazione e sviluppo di sistemi di gestione. 3.4. Le caratteristiche
del sistema di indicatori e la sua costruzione. Bibliografia.
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Note per gli autori
Azienda Pubblica: note per gli autori
Condizioni essenziali per la considerazione dei manoscritti, l’ammissione al
referaggio e la pubblicazione
La pubblicazione di contributi su Azienda Pubblica avviene sulla base della seguente procedura:
1) i contributi, della lunghezza indicativa di 40.000 battute, devono essere inviati alla Segreteria in
formato word completo di tabelle, figure, note, bibliografia e rispondenti alle norme redazionali. È
richiesta l’indicazione di un autore di riferimento, al quale saranno trasmesse tutte le comunicazioni
successive.
2) I contributi sono sottoposti al vaglio del Comitato di redazione che, accertatane la conformità
con lo scopo della rivista e i requisiti richiesti, li invia, assieme alla scheda di referaggio (vedi
allegato), in forma anonima a due dei referee ufficiali della Rivista e contestualmente richiede
l’impegno da parte degli Autori stessi a non proporre il contributo per altre pubblicazioni per
la durata di tutto il processo di valutazione.
3) Le osservazioni dei referee vengono inviate in forma anonima agli Autori con la richiesta
delle revisioni indicate.
4) La nuova stesura, con lettera degli Autori ai referee in cui si precisino l’entità e le ragioni delle
modifiche operate, viene valutata dal Direttore (Editor) Scientifico e, in caso di dubbi residui,
sottoposta agli stessi referee iniziali per un giudizio definitivo (o eventuale richiesta di ulteriore
modifica).
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Non saranno considerati ed ammessi al referaggio i contributi che non rispettano le seguenti
condizioni:
– i manoscritti sottoposti ad Azienda Pubblica non devono essere già stati pubblicati o essere stati
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bibliografici precisati di seguito.
Gli autori sono invitati a rispettare le richieste relative alla forma e allo stile per minimizzare ritardi
e necessità di revisione. Inoltre, deve essere evitato ogni riferimento che possa consentire un loro
riconoscimento diretto o indiretto ed assicurare così un corretto processo di referaggio.
Invio dei contributi
I contributi devono essere presentati alla rivista presso:
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di appartenenza, 4) l’indicazione dell’autore che curerà la corrispondenza e il suo indirizzo
completo, 5) eventuali ringraziamenti.
La seconda pagina: deve contenere 1) il titolo, 2) l’abstract in italiano, in inglese e francese
(massimo 10 righe), 3) le parole chiave in italiano, inglese e francese (fino ad un massimo di
tre) e 4) il Sommario.
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Note per gli autori
Nella terza pagina: dopo la ripetizione del titolo, dovrebbe iniziare l’articolo.
La struttura del testo si articola in: Titolo del testo, Titoli numerati di Paragrafi (es. 1. Introduzione).
Non è prevista un’articolazione in sottoparagrafi (es. 1.1, 1.2, ecc.).
Sono invece ammessi “sottotitoli” in corsivo non numerati.
Si richiede il sommario iniziale.
Lunghezza: il contributo si intende di circa 40.000 caratteri (conteggio parole di word).
I contributi che si discostano in maniera significativa da questi standard non saranno ammessi
al referaggio.
Note: le note si intendono a pié di pagina e devono essere identificate da un numero cardinale.
Il numero delle note e la lunghezza di ciascuna nota devono essere ridotti al minimo indispensabile in modo da favorire la snellezza del testo.
Si consiglia di non inserire nelle note citazioni o riferimenti bibliografici.
È responsabilità dell’autore adeguare l’assetto delle note agli standard della rivista.
Tabelle e figure: figure e tabelle devono essere numerate e avere didascalia, vanno richiamate
nel testo e riportate in file separato.
Si ricorda che la rivista è in bianco e nero. Non saranno accettate figure a colori.
Riferimenti bibliografici: i riferimenti bibliografici devono limitarsi a quelli espressamente citati
nel testo.
In particolare, la rivista utilizza, per le citazioni nel testo, il sistema autore-data.
La citazione nel testo prevede la seguente forma: (Rossi, 1997: pp. 345-347).
Per contributi con più di due autori, si usi la forma (Rossi et al. 1997: pp. 345-347).
Per citazioni multiple dello stesso autore e nello stesso anno, far seguire a, b, c, ecc. all’anno.
Nei riferimenti bibliografici, in coerenza con il sistema autore-data, i riferimenti devono essere
riportati a fine testo nella seguente forma:
Monografie
Brunetti G. (1979), Il controllo di gestione in condizioni ambientali perturbate, Milano: Franco Angeli.
Pubblicazioni con più autori
Bruns W.J., Kaplan R.S. (a cura di) (1987), Accounting and Management: Field Study Perspectives, Boston,
MA: Harvard Business School Press.
Saggi in pubblicazioni
Kaplan R.S. (1985), “Accounting lag: the obsolescence of cost accounting systems”, in K. Clark, C. Lorenze
(a cura di), Technology and Productivity: the Uneasy Alliance, Boston, MA: Harvard Business School Press,
pp. 195-226.
Articoli in riviste
Meneguzzo M., Della Piana B. (2002) “Knowledge management e p.a. Conciliare l’inconcilibaile?”, Azienda
pubblica, 4-5, pp. 489-512.
Rapporti/Atti
OECD (1999), Principle of corporate Governance, Paris: OECD.
Non pubblicati
Zito A. (1994), “Epistemic communities in European policy-making”, Ph.D. dissertation, Department of
Political Science, University of Pittsburgh.
Stile e forma: si richiede uno stile lineare e scorrevole e il testo inviato deve essere già stato
sottoposto al controllo ortografico.
È raccomandato l’utilizzo della forma impersonale.
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Si ringraziano per la preziosa collaborazione svolta negli anni 2008 e 2009 i Referee che hanno
valutato gli articoli e supportato gli autori nella stesura dei lavori proposti e pubblicati sulla rivista
Azienda Pubblica:
Paola Adinolfi, Fabio Amatucci, Eugenio Anessi Pessina, Luca Anselmi, Alberto Asquer, Nicola
Bellé, Maria Bergamin Barbato, Elisa Bonollo, Marino Braganti, Carmine Bianchi, Elio Borgonovi, Luca
Brusati, Manuela Brusoni, Armando Buccellato, Laura Caccia, Stefano Calciolari, Maura Campra,
Eugenio Caperchione, Dario Cavenago, Lino Cinquini, Amelia Compagni, Daniela Cristofoli, Maria
Cucciniello, Corrado Cuccurullo, Antonella Cugini, Paolo Crugnola, Giovanni Danesi, Luca Del Bene,
Mario Del Vecchio, Marco Elefanti, Giovanni Fattore, Cristina Galgani, Davide Galli, Giuseppina
Gandini, Simone Gerzeli, Lucia Giovanelli, Michele Giovannini, Katia Giusepponi, Giovanni Gorla,
Giuseppe Grossi, Enrico Guarini, Mariannunziata Liquori, Alessandro Lombrano, Giuseppe Marcon,
Manila Marcuccio, Renato Mele, Valentina Mele, Paola Miolo Vitali, Riccardo Mussari, Greta Nasi,
Antonio Nisio, Eugenio Ongaro, Aldo Pavan, Niccolò Persiani, Silvia Pilonato, Stefano Pozzoli,
Daniela Preite, Luigi Puddu, Gianfranco Rebora, Paolo Ricci, Pasquale Ruggiero, Massimo Sargiacomo,
Mariafrancesca Sicilia, Gianluca Spina, Ileana Steccolini, Rosanna Tarricone, Emanuele Vendramini,
Stefano Villa, Elena Zuffada.
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Comitato scientifico
Paola Adinolfi, Eugenio Anessi Pessina, Luca Anselmi, Michael Barzelay, Maria Bergamin Barbato, Umberto
Bertini, Massimo Bianchi, Francesco Boccia, Elio Borgonovi, Gert Bouckaert, Armando Buccellato, Roberto
Cafferata, Ferdinando Canaletti, Eugenio Caperchione, Dario Cavenago, Jim Chan, Vittorio Coda, Giovanni
Costa, Lidia D’Alessio, Luca Del Bene, Mario Del Vecchio, Fabio Donato, Peter Eichorn, Bill Eimicke, Marco
Elefanti, Giuseppe Farneti, Giovanni Fattore, Gennaro Ferrara, Giorgio Fiorentini, Giuseppina Gandini,
Andrea Garlatti, Lucia Giovanelli, Katia Giusepponi, Gaetano Golinelli, Giuseppe Grossi, James Guthrie,
Luciano Hinna, Francesco Longo, Lawrence R. Jones, Nancy Kane, Walter Kickert, Giuseppe Marcon, Ludovico Marinò, Antonio Matacena, Mario Mazzoleni, Renato Mele, Marco Meneguzzo, Les Metcalfe, Paola
Miolo Vitali, Marcella Mulazzani, Riccardo Mussari, Roberto Negri, Paola Orlandini, Fabrizio Panozzo,
Aldo Pavan, Niccolò Persiani, Fabrizio Pezzani, Francesco Poddighe, Cristopher Pollit, Stefano Pozzoli,
Luigi Puddu, Gianfranco Rebora, Cristoph Reichard, Angelo Riccaboni, Paolo Ricci, Paolo Rondo Brovetto, Renato Ruffini, Luigi Saccà, Massimo Saita, Kuno Schedler, Barbara Sibilio, Ileana Steccolini, Jeffrey
D. Straussman, Emidia Vagnoni, Giovanni Valotti, Francesco Vermiglio, Alfred Vernis, Stefano Zambon,
Antonello Zangrandi, Mara Zuccardi Merli, Elena Zuffada
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