trimestrale dell’associazione Diabolus in Musica transatlantico numero 1 _ Estate 2008 • CHIARA GUIDI • LEONARDO ZUNICA • SANDRO CAPPELLETTO • PRAVDA gennaio 1936 • MARIA YUDINA • GIOVANNA VENTURINI • MAURO BIGONZETTI intervista • MICOL FERRETTI • ANGIE DAVID • ROLAND BARTHES • FABIO ZANNONI • ENRICO ALBERINI • trimestrale dell’associazione Diabolus in Musica transatlantico numero 1 _ Estate 2008 editoriale Ecco il numero_1 di transatlantico. Non è un numero qualsiasi. E’ l’inizio di un’avventura editoriale, e anche di un gioco. Abbiamo incluso in questo numero contributi importantissimi, come quello di Roland Barthes, i cui scritti sulla musica sono tanto rari quanto illuminanti. Abbiamo voluto dedicare tre pagine a Dmitrii Shostakovich, la cui personalità e la cui musica rientrano in un progetto curato da Sandro Cappelletto, in collaborazione con Diabolus in Musica e il Kiev Summer Music Festival. La pagina in cirillico è per il nostro pubblico “orientale”, che ci guarda, ci ascolta curioso. Rimaniamo a Est. Un noto pianista polacco, durante le lezioni, aveva l’abitudine di far guardare ai suoi allievi alcuni film interpretati dai grandi attori inglesi. Come dire che la musica è anche gesto, calcolato e corporeo, anche se in molti casi il testo che illustra quel gesto, quella didascalia che viene elaborata nell’atto compositivo ed esecutivo, restano celati a chi ascolta. Frustrazione ed incanto della musica. Non solo musica, quindi, in questo numero. Una scelta che rivela le inclinazioni di transatlantico. In occasione del Festival del Teatro di Mantova, abbiamo colto l’occasione per confrontarci con due fra i maggiori interpreti del teatro e della danza contemporanea italiana: Chiara Guidi, della compagnia Societas Raffaello Sanzio, e Mauro Bigonzetti di Aterballetto. Vogliamo rivolgere un particolare ringraziamento alla casa editrice ISBN, con la quale speriamo possa iniziare, anzi, è già iniziata, una fruttuosa collaborazione. MALAVASI DEMOS SCALE-PORTE-SERRAMENTI Buona traversata. la redazione di transatlantico PRODUZIONE E VENDITA SERRAMENTI IN PVC redazione Leonardo Zunica Giovanna Venturini Micol Ferretti s o m m a r i o PORTO MANTOVANO (MN) grafica Paola Pradella hanno collaborato Chiara Guidi Sandro Cappelletto Mauro Bigonzetti Fabio Zannoni Enrico Alberini si ringraziano Giulio Einaudi Editore ISBN edizioni Antonio Galuzzi Roberto Piccinini stampa FDA Eurostampa di Borgosatollo BS in copertina senza titolo, di Patrizia Giudici 12 anni, Firenze collezione INDIRE info [email protected] Associazione Culturale Diabolus in Musica Via Eremo, 37/A 46010 Curtatone MN www.diabolusinmusica.org www.eterotopie.it www.myspace.com/eterotopie Stampato in 4.000 copie in attesa di registrazione presso il Tribunale di Mantova transatlantico2 Editoriale pag. 2 Vedere la voce di Chiara Guidi pag. 3 Udire l’inudibile di Leonardo Zunica pag. 4 Un artista del popolo? di Sandro Cappelletto / Caos anzichè musica da Pravda, gennaio 1936 pag. 6 Dmitrii Dmtriyevich Shostakovich di Maria Yudina pag. 8 L’iPOD di Angie David pag. 10 Musica practica di Roland Barthes pag. 11 Frammenti di un discorso intorno alla danza di Giovanna Venturini pag. 12 Intervista a Mauro Bigonzetti di Giovanna Venturini pag. 14 Abbecedario dell’illusione di Micol Ferretti pag. 15 Illazioni notturne di Fabio Zannoni pag. 16 Mantova non è un paese per vecchi... di Enrico Alberini pag. 19 AUTOTRASPORTI GECCHELE geom. OLINDO SCAVI - GHIAIA - MAGAZZINO una produzione Diabolus in Musica per il Festival del Teatro “Arlecchino d’oro” in collaborazione con sponsor tecnici vedere la voce di Chiara Guidi Chiara Guidi è tra le fondatrici della Societas Raffaello Sanzio e ideatrice del progetto Stoa. Solitamente si parte dal testo per indagare l’essenza della voce, ma se si sospende l’uso della parola, l’essenza della voce è il suono. Io parto dal presupposto che occorra riconoscere una voce prima dell’avvento delle parole. Consideriamo la voce di un anziano, di un bambino; o la voce malata di un uomo che con il passare dei giorni si restringe nell’angustia. Sono voci che portano con sé una fisicità: si fanno ascoltare, si vedono. Non è quello che dicono ciò che suscita l’emozione, ma quello che non dicono. La commozione è provocata senza messaggi di commozione. La voce, da sola, ha l’incarico di rivelare ogni parola, senza emettere alcuna parola. Oppure ha l’incarico di mantenere intatta l’anima nascosta di ogni parola mentre la dice. La trachea, il fiato, fanno transitare affetti e affezioni che nascono dalla fisicità e si assestano nella fisicità. Tutto ciò che è udibile ha una storia fatta di spostamenti, cadute, rimbalzi, pause, allungamenti. E’ possibile quindi affermare che la voce contiene un mondo narrabile a cominciare dalla fisicità di cui è costituita. La mia ricerca parte di qui: saper vedere la propria voce e saper sempre dove si trova. Al pari di un corpo esteso e solido, la si plasma e la si muove. L’attore e il cantante devono ogni giorno andare a caccia di voci, così da conoscerle, riprodurle e collocarle. Ogni propulsione vocale richiede un controllo puntiforme del carattere e poi un indirizzo spaziale. Non è possibile pensare la voce priva dagli effetti che essa stessa produce nel luogo in cui si trova, così come non è possibile emettere un suono strumentale indipendentemente dalle relazioni che crea con gli altri suoni, e il riverbero dell’ambiente. Il controllo “molecolare” dell’emissione vocale è questo saper vedere e figurarsi la voce come una forma che prende corpo in un quadro. E’ questa una pratica artigianale che ho definito: “Tecnica molecolare della voce”. Essa prepara a individuare e a cogliere l’unità più piccola: il minimo segno, il minimo suono, non già per un compendio dettagliato dei casi, ma per entrare in intimità con la voce a incominciare dalla sua genesi, anzi dall’aria appena smossa che la prepara. Il primo madrigale, è appena narrabile. E’ sempre questa condizione iniziale della voce che ci pone in ascolto del suo voler dire. venerdì 27 . sabato 28 giugno 2008 mantova - giardini valentini - ore 22,00 Sonorizzazione I Cacciati dalle città, molti animali se ne sono andati in cerca di posti più tranquilli, altri si sono adattati nascondendosi nei posti più bui ed inaccessibili, altri sono accettati e convivono con gli umani senza grossi problemi, altri ancora si sono estinti. Rimane il fatto che - pur rimanendo in città - il loro numero è molto più alto di quello degli umani. E non tutti sono facilmente visibili. Lasciano tracce però, tracce di vario tipo, anche tracce sonore. Quelle che ho cercato di immaginare e ricostruire per “colonizzare” sonoramente i Giardini Valentini. Alcuni di questi animali li riconoscerete, altri no, li ho inventati io. E questo non significa affatto che non esistono... transatlantico3 Udire l’inudibile di Leonardo Zunica Paul Klee raccoglie sassi, farfalle, radici. Forse dispone i lepidotteri colorati in una “vitrine”, e tiene il resto in fondo alla tasca, sfiorandolo con le dita. Cerca di sentirne le asperità, le porosità, le irregolarità. Guarda, contempla, si sente “alla stessa stregua delle piante, degli animali e delle pietre” (Diari). Forse posa l’occhio sulla lente del microscopio. “Vegetale – strano” (1929) pare una ricomposizione, una ricombinazione di “un’ameba del suolo e di uno sporofillo”. Un ibrido. L’artista, afferma Klee, “si occupa di microscopia, di storia, di paleontologia”. Gli interessano le forze plasmatrici, il prima, e non gli esiti formali, visibili, ottici: il dopo. Pensa ad una “preistoria del visibile”. Dei fenomeni ottici (e non solo) vuole scovare la “formazione prima della formazione”: rendere visibile l’invisibile. E’ uno dei pensieri più belli e significativi di Klee. Attraverso il suo sistema pittorico si approda alla chimica delle forme possibili, all’esperienza delle possibilità infinite della formazione. E dell’invenzione. Tra le molte opere che rimandano alla musica (Klee fu per molto tempo indeciso fra la carriera di musicista e quella di pittore) la Macchina per cinguettare, uno dei tanti automi che inventa - un robot - e Suono antico sono non già raffigurazioni astratte di un’immaginazione sonora, come poteva essere nelle opere sinestetiche dell’ amico Vassilj Kandinskij, ma operazioni che vogliono essere atti generativi perpetui, piccole genesi continue di possibilità sonore; microcosmi che contengono algoritmi del possibile, attraverso i quali de-comporre il reale, scandagliarlo, “frugare” tra le sue trame, sezionare i suoi elementi in arcana, per poi, come nell’opera alchemica, ricomporli all’ infinito. transatlantico4 ascoltate i brani su www.worpress.com/giardinivalentini Béla Bartòk (1881-1945), compositore e pianista ungherese, collezionava lepidotteri e insetti, insieme a centinaia di canti popolari di Romania, Ungheria, Slovacchia, Medio Oriente (anche Walter Gieseking, grande pianista austriaco, curiosamente, più o meno negli stessi anni, amava cacciare farfalle). Nel Diario di una Mosca di Bartòk (Mese a kis légyrol, Mikrokosmos vol. VI) un intrico vibrante di minime dissonanze ci raffigura il volo nervoso dell’insetto. Anche visivamente la grafia musicale è fatta di minimi e veloci colpi d’ala: Ancora impercettibili rumori di fremiti d’ali, gracidii di rane, uccelli notturni, frinire di grilli, crepitii di foglie secche, costituiscono le sottili trame del tessuto sonoro di Klänge der Nacht (Az éjszaka zenéje, Szabadban – all’Aria aperta). Gli agglomerati iniziali sono una trascrizione del rumore, in un quasi-silenzio che è l’annunciazione di futuri sviluppi musicali: della fonografia e del sonogramma. Il silenzio che si percepisce in Klange der Nacht è un sistema di rumori stratificato, di atomi sonori, e come in Klee e in Valéry, nei suoi scritti sulla natura, attingiamo ai “pozzi misteriosi dei microscopi”, che sono qui come veri e propri microscopi sonori. Se Klee rende visibile l’invisibile, Bartòk è forse il primo compositore che, negli stessi termini, rende udibile l’inudibile. *** In Klänge der Nacht si trovano, come si è detto, anche vere e proprie citazioni di canti d’uccelli. Non è un episodio unico nella musica di Bartòk. Nel secondo movimento del Terzo concerto per pianoforte e orchestra, nella parte centrale, si apre improvvisamente un “paesaggio sonoro” che include misteriosi versi d’uccelli. Vi è però un compositore che ha fatto dell’ornitologia un campo d’indagine straordinariamente ricco. Si provino ad elencare i canti che Olivier Messiaen (1908-1992) trascrive e rielabora nel suo immenso Catalogue d’Oiseaux (se ne contano ben 77), e nel meno conosciuto Petite Esquisses d’Oiseaux. Scrive Giovanni Piana in un bellissimo saggio sul canto del merlo: La musica “ornitologica” di Messiaen, che appartiene ai capolavori della musica novecentesca, e che certo non può essere abbattuta con i luoghi comuni dell’antidescrittivismo e della critica dell’imitazione, tanto è ricco il mondo poetico–musicale che la sostiene, tuttavia ha la sua premessa proprio in un ascolto estremamente teso a cogliere ogni dettaglio, dimostrando un udito “microscopico” in un’epoca del tutto priva degli ausili strumentali di cui oggi possiamo disporre” (Giovanni Piana, Il canto del merlo). Sempre in Piana: Il rigogolo canta così: Mondo animato e mondo inanimato convivono lì in una contiguità vera, se ne percepisce il mestiere notturno. Una considerazione. Se in Chopin o in Schumann, il notturno è una fantasia romantica, colorata d’adombramenti serotini, di puri e adamantini ripiegamenti dell’anima, il notturno di Bartòk è il limite del disumano, è il prototipo E Messiaen (Catalogue des Oiseaux, Le Loriot) lo riprende quasi calligraficamente e nello stesso tempo lo reinventa con uno strumento come il pianoforte che sembra particolarmente inadatto per rendere il canto degli uccelli: *** Riprendendo la frase di Klee che si è citata all’inizio: l’artista “si occupa di microscopia, di storia, di paleontologia”. Vox Balenae di George Crumb (1971) è una fantasia paleontologica. I sei movimenti che costituiscono la parte centrale - Archeozoic, Proterozoic, Paleozoic, Mesozoic, Cenozoic rappresentano forse l’unico esempio in cui musica e paleontologia si trovano faccia a faccia. *** Si parlava di alchimisti. Il compositore elettronico, singolare ed antica figura di tecnico, analista, artista, può a suo piacimento squarciare le trame di un suono, andarci dentro, prenderne una molecola, una componente, e ricombinarla con altre. Fare, come si dice, una sintesi additiva. Giovanni Piana parla di ri-sintesi, per descrivere un procedimento in cui da un materiale registrato di partenza possiamo, artificialmente, produrre una sorta di controimmagine interamente sintetica del campione originale. La risintesi permette di soffermarsi sia su interventi di trasformazione e deformazione del suono, sia sul gioco delle possibilità compositivocombinatorie che si possono liberamente inventare. Il compositore elettronico ha guadagnato, se possiamo dire così, una posizione nei confronti di Klee, di Bartòk e di Messiaen: ha registrato e fotografato il suono della notte, ha trasformato la macchina per cinguettare in uno strumento che produce tutti i suoni possibili. transatlantico5 Il 16 marzo 1941 al Quintetto con pianoforte di Dmitri Shostakovich viene assegnato il Premio Stalin. Come intendere quella decisione? Una riabilitazione, un rinnovato consenso del regime sovietico a un artista che, pochi anni prima, aveva saputo - e dovuto! - fare “autocritica”? Il riconoscimento del suo genio? XI international Festival Kiev Summer Music Evening Venerdì 11 lug 2008, 22.00 maryinsky park, kiev un artista del popolo ? di Sandro Cappelletto “Mi sento molto male. La mia nevrastenia si è seriamente aggravata... Ho suonato il Quintetto troppe volte di seguito, e ciò ha portato una qualche abitudine. E l’abitudine è il nemico della creatività e della qualità di esecuzione”, scrive il compositore all’inizio del 1941. La Germania ha invaso l’URSS, per Shostakovich e la sua famiglia inizia un lungo periodo di spostamenti, trasferimenti, nuove angosce, private e politiche. La musica da camera diventa il rifugio segreto, il luogo creativo più intimo, sottratto ad ogni tentazione, ad ogni obbligo di comporre musica celebrativa, ufficiale. Ad ogni tradimento. Nel Trio per pianoforte, eseguito per la prima volta a Leningrado il 14 novembre 1944, iniziato a Mosca, quando suo allievo al Conservatorio era il giovane Mstislav Rostropovic, il maestro utilizza temi ebraici, dopo che era stato informato delle atrocità commesse dai nazisti nei campi di concentramento dell’Europa dell’Est, in particolare nel Lager di Treblinka. Concerto - Racconto “Un artista del popolo ?” di Sandro Cappelletto Produzione Diabolus in musica Musiche di D. Shostakovich Nel Trio, una danza macabra è seguita da un’elegia. L’orrore e il compianto, il suo urlo e la sua commozione. “Dalle sei del mattino alle diciotto di sera sono privo di due servizi fondamentali: luce e acqua. Le lampade al cherosene fanno poca luce. La mia vista non è buona. Alla luce del cherosene non posso scrivere. L’oscurità mi logora i nervi... Insomma, me la passo male. Ma alle sei del pomeriggio si accende la luce e quando si avvicina quel momento di felicità i miei nervi si eccitano a tal punto che non riesco a calmarmi”. La musica, la sua salvezza; più tenace di ogni privazione, di ogni imposizione, di ogni terrore. Sandro Cappelletto è critico musicale, giornalista e drammaturgo. Collabora con La Stampa, Le Monde e Rai Radio 3 «Pravda», 29 Gennaio 1936 Caos anzichè musica Con l’evoluzione generale della cultura nel nostro paese è cresciuta anche la necessità di una buona musica. Mai in alcun momento e in alcun luogo il compositore ha avuto un pubblico maggiormente in grado di apprezzarne l’opera. La gente si aspetta buone canzoni, così come lavori strumentali e opere di qualità. Alcuni teatri stanno presentando al pubblico sovietico, culturalmente più maturo, l’opera di Shostakovich “Lady MacBeth di Mtsensk” come un’innovazione e una conquista. La critica musicale, sempre pronta ad assolvere un ruolo, ha elogiato al massimo quest’opera, riservandole grandi onori. Il giovane compositore, invece di ascoltare le critiche serie, che avrebbero potuto aiutarlo nelle composizioni future, ascolta solamente i complimenti entusiastici. Fin dal primo momento, l’ascoltatore è scosso da una dissonanza deliberata, da un flusso confuso di suoni. I frammenti di melodia, gli inizi di una frase musicale sono soffocati, riemergono, per poi scomparire in un frastuono stridente e acuto. E’ alquanto difficile seguire questa ‘musica’, e ricordarla è impossibile. E si procede così per l’intera opera. Al canto, sul palcoscenico, si sostituiscono le grida. Se al compositore succede di inoltrarsi lungo il sentiero di una melodia semplice e chiara, immediatamente ritorna nel deserto di un caos musicale, in spazi cacofonici. L’espressività che l’ascoltatore si aspetta è soppiantata da un ritmo incontrollato. Dobbiamo presumere che qui la passione sia espressa dal rumore. Tutto ciò non è dovuto alla mancanza di talento, o alla mancanza di capacità nel rappresentare nella musica emozioni forti e semplici. Qui è la musica che viene deliberatamente stravolta perché non vi sia nulla che ricordi l’opera classica, o che abbia qualcosa in comune con la musica sinfonica o con il linguaggio musicale semplice e popolare accessibile a tutti. Questa musica pone le sue basi sul rifiuto stesso dell’opera transatlantico6 - nello stesso modo in cui l’Arte “di Sinistra” respinge del teatro la sua semplicità, il realismo, la chiarezza dell’immagine, la semplice parola detta - e questo apporta al teatro come alla musica le caratteristiche maggiormente negative del “Meyerholdismo”, moltiplicate all’infinito. Qui troviamo la confusione “di sinistra” al posto della naturale musica umana. Il potere della buona musica di contagiare le masse è stato sacrificato al tentativo ‘formalista’ piccolo-borghese di creare originalità tramite pagliacciate a buon mercato. E’ un gioco di furba ingenuità dai possibili esiti negativi. Il pericolo proveniente da questa tendenza è evidente. Il fraintendimento di sinistra nell’opera deriva dalla medesima fonte da cui deriva lo stesso fraintendimento di sinistra nella pittura, nella poesia, nell’insegnamento e nelle scienze. Le ‘innovazioni’ piccolo-borghesi portano ad una frattura con l’autenticità dell’arte, della scienza, della letteratura. Il compositore di Lady MacBeth si è visto costretto a prendere in prestito dal jazz la sua musica nervosa, convulsiva e spasmodica al fine di ‘prestare’ passione ai suoi personaggi. Mentre i nostri critici, inclusi quelli musicali, prestano giuramento in nome del realismo socialista, il palcoscenico ci offre, nella creazione di Shostakovich, il genere più volgare di naturalismo. Egli mostra i mercanti e la gente comune in modo monotono e brutale. La bottegaia rapace, che lotta sino ad uccidere per possedere ricchezze, è dipinta come una ‘vittima’ della società borghese. Si è dato alla storia di Leskov un significato che in realtà non possiede. Tutto ciò è rozzo, primitivo e volgare. La musica schiamazza, grugnisce, ringhia, e si reprime per esprimere le scene d’amore nel modo più naturalistico possibile. E per tutta l’opera l’amore è insudiciato nel modo più volgare. Il letto matrimoniale del mercante occupa sul palcoscenico la posizione centrale. Sopra questo letto tutti i ‘problemi’ sono risolti. Con lo stesso volgare stile naturalistico si rappresentano la scena della morte per avvelenamento e la scena della bastonatura – entrambe portate sul palcoscenico in modo diretto. Il compositore evidentemente non ha mai preso in considerazione il problema di cosa il pubblico sovietico cerchi e si aspetti dalla musica. Quasi in modo deliberato, scribacchia la sua musica, confondendone i suoni a tal punto da farla arrivare solamente a ‘formalisti’ fiaccati, ormai privi di un sano gusto. Ha ignorato la richiesta della cultura sovietica per cui ogni volgarità e brutalità sia abolita da qualunque ambito della sua vita. Alcuni critici definiscono satira la glorificazione della concupiscenza dei mercanti. Ma qui non vi è nulla di satirico. Il compositore ha cercato, con tutti i mezzi musicali e drammatici a sua disposizione, di risvegliare la comprensione degli spettatori per il comportamento e le inclinazioni volgari e rozze della bottegaia Katerina Ismailova. “Lady MacBeth di Mtsensk” sta riscuotendo un grande successo all’estero da parte del pubblico borghese. Non è forse perché l’opera è apolitica e sviante? Non si spiega forse dal fatto che essa solletica con la sua musica nevrotica e irrequieta il gusto perverso dei borghesi? I nostri teatri hanno speso grandi energie nell’offrire all’opera di Shostakovich un’accurata presentazione. Gli attori hanno dimostrato un talento straordinario nel dominare il rumore, le urla e il frastuono dell’orchestra. Hanno cercato, con una recitazione drammatica, di dare forza al debole contenuto melodico. Purtroppo, questo non è servito che ad esaltare ancora di più le caratteristiche volgari dell’opera. Il talento della recitazione merita la gratitudine, lo spreco degli sforzi, il rammarico. transatlantico7 16 березня 1941 року фортепіанному квінтету Дмитра Шостаковича була присуджена Сталінська премія. Як розуміти це рішення? Реабілітація? Схвалення артиста радянським режимом? Визнання свого генія? Дмитро Шостакович. Літня естрада Центрального парку культури і відпочинку, Київ п’ятниця, 11 липня 2008 року, «Народний артист?» Творчий проект Сандро Каппеллетто присвячений творчості Дмитра Шостаковича. Даний проект здійснено при співпраці фестивалів «Diabolus in Musica» (Італія, Мантуя) та «Київські літні музучні вечори» (Україна, Київ). Народний артист? Сандро Каппеллетто «Я відчуваю себе дуже погано. А якщо це загострення моєї неврастенії? Я виконував квінтет дуже багато разів підряд, що стало майже звичкою творчого супротивника і виконавця», писав композитор на початку 1941 року. Німеччина вторглася у СРСР. Для Шостаковича та його сім’ї почався тривалий період переїздів, усе нових і нових тривог. Камерна музика стала для композитора чимось на зразок таємного затишку, вмістилищем більш глибокої, інтимної творчості, втечею від спокус писати офіціальну хвалебну музику. Фортепіанне тріо вперше виконувалось у Ленінграді 14 листопада 1944 року, коли його учнем в консерваторії був юнак Мстислав Ростропович. Маестро використовував єврейські теми після того, як був поінформований про жорстокість нацистів у концтаборах Східної Європи, особливо в таборі Треблінка. У тріо моторошний танець йде за елегією – страх і співчуття, крики і потрясіння. Шостакович писав: «Від 6 ранку до 6 вечора я був позбавлений лише двох основних послуг: світла і води. Керосинові лампи давали мало світла, мій зір не був хорошим. При світлі керосинки я не міг писати. Сутінь нищила мої нерви. В результаті пересувався я погано. Але з 6 вечора загорілося світло і наближалася та щаслива мить, коли мої нерви збуджувались до тієї точки, коли заспокоїтись було марно». Музика була єдиним його спасінням, сильнішим за будь-які нестатки, будь-який диктат, будьякий терор. «Правда», 28 января 1936 Сумбур вместо музыки Вместе с общим культурным ростом в нашей стране выросла и потребность в хорошей музыке. Никогда и нигде композиторы не имели перед собой такой благодарной аудитории. Народные массы ждут хороших песен, но также и хороших инструментальных произведений, хороших опер. Некоторые театры как новинку, как достижение преподносят новой, выросшей культурно советской публике оперу Шостаковича «Леди Макбет Мценского уезда». Услужливая музыкальная критика превозносит до небес оперу, создает ей громкую славу. Молодой композитор вместо деловой и серьезной критики, которая могла бы помочь ему в дальнейшей работе, выслушивает только восторженные комплименты. Слушателя с первой же минуты ошарашивает в опере нарочито нестройный, сумбурный поток звуков. Обрывки мелодии, зачатки музыкальной фразы тонут, вырываются, снова исчезают в грохоте, скрежете и визге. Следить за этой «музыкой» трудно, запомнить ее невозможно. Так в течение почти всей оперы. На сцене пение заменено криком. Если композитору случается попасть на дорожку простой и понятной мелодии, то он немедленно, словно испугавшись такой беды, бросается в дебри музыкального сумбура, местами превращающегося в какофонию. Выразительность, которой требует слушатель, заменена бешеным ритмом. Музыкальный шум должен выразить страсть. Это все не от бездарности композитора, не от его неумения в музыке выразить простые и сильные чувства. Это музыка, умышленно сделанная «шиворот-навыворот», — так, чтобы ничего не напоминало классическую оперную музыку, ничего не было общего с симфоническими звучаниями, с простой, общедоступной музыкальной речью. Это музыка, которая построена по тому же принципу отрицания оперы, по какому левацкое искусство вообще отрицает в театре простоту, реализм, понятность образа, естественное звучание слова. Это — перенесение в оперу, в музыку наиболее отрицательных черт «мейерхольдовщины» в умноженном виде. Это левацкий сумбур вместо естественной, человеческой музыки. Способность хорошей музыки захватывать массы приносится в жертву мелкобуржуазным формалистическим потугам, претензиям создать оригинальность приемами дешевых оригинальничаний. Это игра в заумные вещи, которая может кончиться очень плохо. Опасность такого направления в советской музыке ясна. Левацкое уродство в опере растет из того же источника, что и левацкое уродство в живописи, в поэзии, в педагогике, в науке. Мелкобуржуазное «новаторство» ведет к отрыву от подлинного искусства, от подлинной науки, от подлинной литературы. Автору «Леди Макбет Мценского уезда» пришлось заимствовать у джаза его нервозную, судорожную, припадочную музыку, чтобы придать «страсть» своим героям. В то время, как наша критика — в том числе и музыкальная — клянется именем социалистического реализма, сцена преподносит нам в творении Шостаковича грубейший натурализм. Однотонно, в зверином обличии представлены все — и купцы и народ. Хищница-купчиха, дорвавшаяся путем убийств к богатству и власти, представлена в виде какой-то «жертвы» буржуазного общества. Бытовой повести Лескова навязан смысл, какого в ней нет. И все это грубо, примитивно, вульгарно. Музыка крякает, ухает, пыхтит, задыхается, чтобы как можно натуральнее изобразить любовные сцены. И «любовь» размазана во всей опере в самой вульгарной форме. Купеческая двуспальная кровать занимает центральное место в оформлении. На ней разрешаются все «проблемы». В таком же грубо-натуралистическом стиле показана смерть от отравления, сечение почти на самой сцене. Композитор, видимо, не поставил перед собой задачи прислушаться к тому, чего ждет, чего ищет в музыке советская аудитория. Он словно нарочно зашифровал свою музыку, перепутал все звучания в ней так, чтобы дошла его музыка только до потерявших здоровый вкус эстетов-формалистов. Он прошел мимо требований советской культуры изгнать грубость и дикость из всех углов советского быта. Это воспевание купеческой похотливости некоторые критики называют сатирой. Ни о какой сатире здесь и речи не может быть. Всеми средствами и музыкальной и драматической выразительности автор старается привлечь симпатии публики к грубым и вульгарным стремлениям и поступкам купчихи Катерины Измайловой. «Леди Макбет» имеет успех у буржуазной публики за границей. Не потому ли похваливает ее буржуазная публика, что опера эта сумбурна и абсолютно аполитична? Не потому ли, что она щекочет извращенные вкусы буржуазной аудитории своей дергающейся, крикливой, неврастенической музыкой? Наши театры приложили немало труда, чтобы тщательно поставить оперу Шостаковича. Актеры обнаружили значительный талант в преодолении шума, крика и скрежета оркестра. Драматической игрой они старались возместить мелодийное убожество оперы. К сожалению, от этого еще ярче выступили ее грубо-натуралистические черты. Талантливая игра заслуживает признательности, затраченные усилия — сожаления. Dmitrii Dmitriyevich Shostakovich (nel suo 60° compleanno) di Maria Yudina Maria Yudina, pianista russa, è stata tra le interpreti più significative delle musiche di D. Shostakovich. Il valore, l’importanza, e la misura di Dmitrii Dmitriyevich Shostakovich come artista creativo non conoscono confini, pur tuttavia egli è innanzitutto un uomo e un compositore profondamente russo. E’ del tutto possibile che questa consapevolezza dell’avere numerosi attributi, che sono il cuore della cultura e tradizione russe e che lo avvicinano a Andrei Rublev, Pushkin, Dostoevsky e Lenin, ci aiuti a capire la sua arte e la sua vita. Esistono, tuttavia, altri legami non deducibili. Le composizioni di Dmitrii Dmitriyevich Shostakovich si elevano davanti a noi come radiose vette di montagna, e ci richiamano alla mente l’arte shakespeariana. Fortunatamente, Dmitrii Dmitriyevich è ora all’apice del suo genio e del suo enorme potere creativo; e noi, suoi grati contemporanei, ci rallegriamo con lui per il suo compleanno, e per la guarigione da una malattia recente che gli ha colpito il cuore, un cuore che ha spazio per tutti noi; e noi preghiamo e speriamo che sia ancora presto per fare un compendio della sua arte. La speranza di essere testimoni della nascita e realizzazione di molte opere da parte di questo famoso compositore ci riempie di felicità. Se proseguiamo nell’analogia con Shakespeare, associamo l’arte di Shostakovich ad immagini abissali, sommovimenti del terreno, rapide, che consumano nella loro corsa inesorabile l’uomo e la natura, come in “Lady Macbeth di Mtzensk”, o nel dolore insopportabile della Decima Sinfonia, accanto alle vette quasi irraggiungibili della maggior parte delle sue sinfonie, dei quartetti, dei preludi e fuga, la seconda sonata per solo pianoforte, il ciclo vocale sulle poesie di Pushkin. Facendo risuonare le ultime parole di Alexander Blok: “Impara attraverso la sofferenza!” - dal suo “ ‘King Lear’ di Shakespeare, discorso agli attori “ (Petrograd, 1920), inevitabilmente richiamiamo l’antica saggezza, quando percepiamo che la scossa emotiva vissuta nello spirito è una sorta di dono della sua musica tragica. Ci trascina nella vastità degli accadimenti storici: la Settima, l’Ottava e la Tredicesima Sinfonia, i corali, dedicati agli eventi del 1905, il Trio per Pianoforte, Violino e Violoncello. Il realismo narrativo senza precedenti di queste due composizioni, trasformate e portate a un livello mai sentito, supera a volte in potenza e verità accecante le cronache di Shakespeare come quelle di Pushkin e il “Boris Godunov” di Mussorgsky. Dovremmo aggiungere che Shostakovich non si sforza di ottenere l’equilibrio di un’epopea, ma ci coinvolge direttamente nelle catastrofi dei tempi moderni. Tuttavia, si conoscono anche esempi di incomparabile umorismo, vivacità di ingegno, inesauribile creatività, come nel “Il Naso“ (basata su un’opera di Gogol’), nei cicli vocali su testi inglesi e sui poemi di Sasha Chernyi; scintille di questo umorismo si sprigionano in tutte le sue composizioni, polverizzando qualsiasi traccia di indolenza spirituale. transatlantico8 Shostakovich e Pushkin sono geni della Russia europea. Il compositore denuncia i peccati dell’uomo e dell’umanità, come Dostoevsky e Mahler, scoppiando in lacrime di compassione, come Shakespeare; egli avvolge tutto e tutti. Eppure, sotto molti importanti aspetti, la sua arte ha legami con Mozart e Schubert. E’ giusto ricordare al lettore che ogni relazione o analogia con altri autori deve essere intesa solo come un confronto tra atmosfere spirituali affini; Dmitrii Dmitriyevich Shostakovich è sempre sé stesso, non “prende mai in prestito”, è traboccante dei suoi stessi tesori, che lui da solo porta in essere, ma per quanto geniale sia un creatore, egli non vive sempre in un vuoto interplanetario, piuttosto nella storia dell’uomo e dell’umanità! Shostakovich ha un linguaggio preciso, un proprio pensiero implicito, formule proprie di ritmo e di tonalità, segni, simboli e immagini. Riprendiamo alcune analogie: Mozart e Schubert. Che cosa sono? Oh, sono nell’intero mondo, magnifico, luminoso e trasparente, di Shostakovich. Questi “finali illuminati “ - finali di molte delle sue composizioni, le code nei finali, “le ultime parole di un morente”, o le parole di un servizio funebre, la conclusione dei finali, l’incontro dell’uomo con l’Eternità, per la quale i Cristiani pregano per l’intera vita, “termine ultimo di pace, assenza di dolore e vergogna “... Non chiederemo all’autore se questa fosse la sua linea di pensiero, che rappresenta il suo segreto e intimo mistero. Ciò che importa è la presenza di uno spirito angelico nelle pagine delle sue composizioni, e l’influenza di questa musica sugli ascoltatori. In queste ultime parole dell’autore, quando sopraggiunge il sollievo alla fine del percorso intrapreso da lui stesso e dall’ascoltatore, il dolore si placa, giungono pace e tranquillità, brilla la purificazione dell’uomo, a volte persino un sorriso, o la sua trasformazione in un’essenza diversa, che non sempre è accessibile alla nostra comprensione; questa è, certamente, Trasfigurazione! Permetteteci di utilizzare le parole di Vladimir Solovyev: “Il Male passato \ Annega nel sangue \ Si innalza trasformato \ Sole dell’Amore”, o di Boris Pasternak: “La mano dell’artista è la più potente \ E lava il sudicio da ogni cosa” (“Dopo un temporale”). Di conseguenza, concedendoci di commentare alcuni finali di Shostakovich, ora ne affronteremo alcuni, quelli che ci sembrano più significativi a questo proposito: il finale della Sonata per Violoncello, il finale del Quintetto con Pianoforte, il finale della Tredicesima Sinfonia (non parleremo del finale dell’Ottava Sinfonia - questa si distingue per argomento ed essenza). Il finale della sonata per violoncello ricorda vagamente una canzone popolare. E’ canticchiata a bocca chiusa da un personaggio leggermente brillo che in qualche modo richiama i protagonisti di Gor’ky, Hemingway, Andrei Platonov - un operaio ingenuo, che ha il proprio posto, necessario e irriducibile nella vita, con un ruolo lievemente filosofico, che ha attraversato grandi e piccoli guai a modo suo, che è ora in pace sia con il proprio passato che con l’oscuro futuro... Il finale del quintetto è di gran lunga più complesso: dopo le prime esplosioni di felicità e l’inquietante asprezza del suo culmine che visualizza il sentiero percorso con le sue avversità - che riassumono l’eccezionale e significativa profondità e diversità dei quattro movimenti precedenti; l’inizio Gotico, spigoloso del preludio e a seguire il suo carattere elegiaco e pensoso, la grandiosità della fuga e dell’intermezzo che meditano sul significato della cultura medievale, si fondono con essa, le vanno incontro, per poi realizzarsi nella modernità. Dopo tutto ciò, tutte queste contraddizioni scompaiono nella coda: l’uccellino cinguetta gioiosamente, con leggerezza e felicità. Non è forse simile alla famosa e misteriosa gazza di Peter Bruegel il Vecchio presente presso le rovine carbonizzate tra quel che resta dopo l’ultima totale distruzione? No, l’uccello del Quintetto è più gentile e più saggio. E’ gioioso con tutti noi; la gazza di Breugel è “natura senza emozione”, enuncia solo i fatti, è del tutto ignara. L’intera composizione insiste sulla luce trasparente della gentilezza. La coda del finale della Tredicesima Sinfonia fa da corona a queste idee, combinate all’incredibile ed incomprensibile bellezza delle sue formule ritmiche e tonali. Se passiamo ora ad alcuni dei movimenti lenti presenti nelle composizioni da camera di Shostakovich, cosa ci troveremo? Nel Largo della sonata per violoncello, come nella fuga del Quintetto, troviamo l’artista e l’Eternità che dialogano. Questa musica riordina il mondo interiore dell’ascoltatore (e di qui la sua vita e le sue azioni), allo stesso modo dell’arte russa, dei tesori della pittura delle icone, della cultura corale della musica religiosa, di Bach nelle “Passioni”... Un breve commento: una volta ho scritto a Dmitrii Dmitriyevich a riguardo della coda della fuga: “Lei non sa cosa ha scritto. Ciò succede agli artisti geniali... Questa è la ‘Pietà’ di Michelangelo. Persino nelle sue formule ritmiche ...” Ci siamo avvicinati ora al punto decisivo: il sentimento dell’amore e il cuore umano. Ci sono molti scritti sull’umanesimo, che tuttavia presentano parecchi errori, come le sue radici rinascimentali (non possiamo ora dilungarci su una analisi storica che non è in relazione diretta in questo articolo con l’arte e la vita di Dmitrii Dmitriyevich). Questa teoria e le fonti da cui è tratta sono astratte e fredde. E noi, popolo di cultura russa, non abbiamo né la capacità né la volontà di creare nell’insensibile indifferenza. L’immagine esterna della vita di Dmitrii Dmitriyevich circola nei viaggi, congressi e premières, nella sua cura per i compositori minori, nel battito del suo cuore appassionato. Egli porta nel suo cuore e nel suo intelletto un’immagine unificata di tutto il genere umano e l’unicità di ciascun essere umano, e quella di un genio; nella sua arte egli affronta l’Eternità. Porta in sé tutta la complessità dell’uomo e dell’artista moderni. (Da Moskovskii Komsomolets, Quotidiano Popolare del Partito della Gioventù, 1966 ) creta engineering per la musica www.eterotopie.it CRETA ENGINEERING EDILIZIA RESIDENZIALE CHIAVI IN MANO www.cretaengineering.it L’iPOD Il libro È il 1957 quando Roland Barthes pubblica Miti d’oggi, il catalogo filosofico della cultura popolare e delle manie borghesi, smitizzate attraverso l’analisi dei suoi stessi simboli. Barthes fornisce lo strumento, gli oggetti d’indagine invece cambiano e si aggiornano: alla Citroën si sostituiscono la Smart e il Suv, Greta Garbo cede il posto a Kate Moss, le patate fritte al sushi. Il compito di riscrivere il catalogo dei prodotti, dei marchi e dei feticci della contemporaneità è affidato a cinquantasette intellettuali francesi che, con un tono lieve ma a tratti anche critico, spiegano come dietro la seduzione delle merci e la retorica del linguaggio della cultura di massa si nascondono oggetti culturali in grado di svelarci il senso, o forse il non-senso, di un sistema sempre meno antropocentrico. L’autore Jérôme Garcin (Parigi, 1956) giornalista e scrittore. È condirettore della rivista Nouvel Observateur e produttore della trasmissione tv Le Masque et la Plume. Isbn Edizioni di Angie David Ambivalente e assai seducente, l’iPod esprime una funzione sociale tipica della nostra epoca: gli adolescenti che lo portano sempre con sé, per strada, sull’autobus e persino a scuola, esprimono in tal modo il loro rifiuto del contesto esterno. Rifiutano di confrontarsi con il rumore del mondo, e preferiscono un accompagnamento musicale per i loro movimenti quotidiani – camminare e sognare. La sensibilità fisica è accresciuta da questo ripiegamento su se stessi e non ci si annoia mai: è come vivere in una commedia musicale. Niente di ciò che è intorno lo può toccare o aggredire; l’utente dell’iPod è dentro una bolla, perso nei suoi pensieri. A volte ha persino l’impressione di volare, il movimento si accelera, la testa si erge e il tempo della passeggiata si confonde con quello dei brani musicali. Cammina a passo cadenzato. La città diventa uno scenario da film, di cui i passanti sono le comparse. L’iPod possiede due essenziali caratteristiche della contemporaneità: la rapidità e la facilità. Un’altra modalità di relazione – di comunicazione – è allora possibile: su internet, la musica si scambia grazie al peer to peer. Ciascuno mette online la propria discografia, e costruisce in tal modo la propria identità culturale. Siamo quel che ascoltiamo. Le relazioni nascono a partire da gusti comuni e specifici: gli adepti del garage rock degli anni sessanta (soprattutto tra il 1965 e il 1967) si incontrano, i fan della mutant disco del 1977 si connettono ai blog musicali per pescarvi veri e propri tesori, così come i puristi della house affermatasi a Chicago a partire dalla fine degli anni ottanta. A parte internet, esistono altre forme di sociabilità diretta – più tangibile – dell’iPod. Come tanti dj, i partecipanti a una festa accendono i loro lettori mp3 per far ascoltare una play list: una selezione personale di brani musicali. Con un’estremità della cuffia stretta tra guancia e spalla, e tenendo d’occhio il mixer, guardano gli altri ballare, reagire. Il legame sociale nasce dalla selezione, in modo autistico. Si scelgono gli interlocutori in base a criteri ben precisi: la comunità non è più universale, ma settoriale. L’appartenenza a un gruppo è determinata dalla cultura dei segni: dietro la nuca, sono visibili solo due fili bianchi. Immagine pubblicitaria, in cui si vedono danzare solo delle sagome nere, irriconoscibili, su sfondi dai colori sgargianti: in sovraimpressione appare solo l’iPod. Segno distintivo della marca high-tech Apple: il bianco è il suo colore di riferimento. Puro e liscio, l’iPod è un’invenzione che cancella ogni traccia del lavoro tecnico, umano. La nuova natura vieta tuttavia di prestarvi attenzione, di proteggerlo per mezzo di un astuccio (fosse pure firmato Vuitton): la sua origine non deve apparire. Dev’essere patinato, a significare il suo uso, il suo consumo. Non è un oggetto prezioso, ma qualcosa di indispensabile. La sua composizione è eteroclita: oltre a immettervi una collezione personale di dischi, vi si possono scaricare (da iTunes per i legalisti) canzoni in quantità. Soprattutto le hit – unico pezzo interessante di certi dischi – il più kitsch possibile. Non si parla proprio di acquistare l’ultimo Ep di Justin Timberlake, ma scaricare Sexy Back è irresistibile. L’iPod è un oggetto sacro – mitologico – anche se il suo contenuto è profano – assieme al mio computer, rappresenta l’oggetto che amo di più. Passo ore intere a riempirlo: appena 1973 brani fino a oggi, ovvero 7 giga su una capacità totale di 30 giga. Scendo in strada, e mi accorgo di averlo dimenticato a casa. Risalgo le scale a tutta velocità. Passare una giornata senza il mio iPod è inconcepibile, ormai. Spostarsi con la propria musica, poterla condividere senza limitarsi a pochi amici costretti a venire da voi per scoprirla. L’iPod vi costringe a rivelare le vostre musiche più preziose, le più rare. Un’altra ambivalenza di un oggetto che è l’ideale per gli introversi, ma per introversi desiderosi di condividere il loro sapere. Collezionare musica è un gesto regale: il segno di una cultura vasta e acuta. Angie David, nasce nel 1978. Lavora nella redazione della rivista letteraria La Revue Littéraire. Nel 2006 ha pubblicato il suo primo libro, una biografia della scrittrice francese Dominique Aury. transatlantico10 musica practica di Roland Barthes Ci sono due tipi di musica (così almeno ho sempre pensato): quella che si ascolta, quella che si suona. Queste due musiche sono arti completamente diverse, e ciascuna di esse possiede, a titolo individuale, una storia, una sociologia, un’estetica e un’erotica: uno stesso autore può sembrare minore se lo si ascolta, grandissimo se lo si suona (anche male): così Schumann. La musica che si suona è costituita da un’attività non tanto uditiva quanto manuale (dunque, in un certo senso molto più sensuale); è la musica che voi o io possiamo suonare, soli o tra amici, senza nessun pubblico se non i presenti (senza alcun rischio cioè di teatralità o di isterismi). É una musica muscolare; l’udito vi contribuisce solo in parte: è come se fosse il corpo ad ascoltare - e non “l’anima”-; questa musica non si suona “a memoria”; seduti al pianoforte o davanti allo spartito, il corpo comanda, conduce, coordina, trascrive egli stesso ciò che legge: fabbrica suono e senso: è scrittore, e non ricettore, fruitore. Tale musica non esiste più; legata in un primo tempo alla classe oziosa (aristocratica), con l’avvento della borghesia democratica è decaduta a rito mondano (il piano, la fanciulla, il salotto, il notturno); poi è scomparsa (chi suona il piano oggi?). La musica pratica va cercata, in Occidente, in un altro pubblico, in un altro repertorio, in un altro strumento (i giovani, la canzonetta, la chitarra). Parallelamente, la musica passiva, ricettiva, la musica sonora è diventata la musica (quella del concerto, del festival, del disco, della radio). Non si suona più; l’attività musicale non è più manuale, muscolare, impastatrice, bensì solo liquida, effusiva, “lubrificante” per usare un termine di Balzac. Anche l’esecutore è cambiato. Il dilettante, ruolo definito più da uno stile che non da un’imperfezione tecnica, non si trova più da nessuna parte; i professionisti, specialisti puri la cui formazione è del tutto esoterica per il pubblico (chi conosce ancora i problemi della psicologia musicale?), non presentano più quello stile del dilettante perfetto il cui valore poteva ancora essere riconosciuto in un Lipatti, in un Panzéra, perchè suscitava in noi non tanto la soddisfazione, quanto il desiderio, quello di fare quella musica. Insomma, prima c’è stato l’attore della musica, poi l’interprete (grande voce romantica), infine il tecnico, che impedisce all’ascoltatore qualsiasi attività anche per procura, e abolisce nell’ordine della musica il pensiero stesso del fare. L’opera di Beethoven mi sembrava legata a questa problematica storica, non in quanto semplice espressione di un momento (il passaggio dal dilettante all’interprete), ma in quanto genere potente di un disagio della civiltà di cui Beethoven ha riunito gli elementi e nello stesso tempo tratteggiato la soluzione. Questa ambiguità va riferita ai due ruoli storici di Beethoven: il ruolo mitico che ha fatto di lui il rappresentante di un intero secolo - il XIX - e quello moderno, che il nostro secolo inizia a riconoscergli (mi riferisco qui allo studio di Bukurechliev). Per il XIX secolo, ad eccezione di alcune immagini sciocche, come quella di Vincent d’Indy che fa di Beethoven una specie di bigotto reazionario e antisemita, Beethoven è stato il primo uomo libero della musica. Per la prima volta, si è lodato un artista per avere avuto più maniere successive; gli si è riconosciuto il diritto di metamorfosi; poteva non essere soddisfatto di se stesso, oppure, più profondamente, della sua lingua, poteva, durante la sua esistenza, cambiare i propri codici (come appare nell’immagine ingenua e entusiasta che Lenz ha dato delle tre maniere di Beethoven); e in quanto l’opera diventa la traccia di un movimento, di un itinerario, rinvia all’idea di destino; l’artista cerca la sua “verità” e questa ricerca diventa un’ordine in sé, un messaggio globalmente leggibile, nonostante le variazioni del suo contenuto; o almeno la sua leggibilità si nutre di una specie di totalità dell’artista: la sua carriera, gli amori, le idee, il carattere, le sue intenzioni diventano tratti di senso. segue sul prossimo numero. tratto dal volume “L’ovvio e l’ottuso” gentilmente concesso da Giulio Einaudi Editore transatlantico11 La danza è un’arte che utilizza il corpo come principale strumento per realizzare una comunicazione non verbale, sviluppando un linguaggio non immediato, perché lontano dagli abituali parametri della percezione. A differenza della musica, delle arti plastiche e visive, del teatro, la danza, almeno fino all’avvento del video, non ha mai potuto oggettivarsi in elementi iconici o testuali persistenti, definendosi piuttosto come arte della non durevolezza, esistente solo nel tempo del suo farsi, del suo accadere momentaneo. Inoltre, tentare un discorso sulla danza contemporanea significa addentrarsi in una matassa molto complessa e intricata da dipanare, in quanto con questa espressione ci si riferisce ad esperienze molto diverse tra loro, a realtà molto lontane le une dalle altre, tanto che è legittimo chiedersi se ogni volta che un corpo agisce nello spazio in una maniera non utilitaristica, non immediatamente spontanea, sia possibile parlare di danza. Così come esiste un leggere che è un intelligere, un leggere dentro, leggere con il pensiero, interpretando, esiste anche un vedere che è un guardare. Saper guardare la danza: questa forse è la questione, guardarla non solo considerando gli aspetti tecnici con cui il danzatore si è formato e attraverso i quali offre il discorso coreografico. La tecnica formalizzata e codificata è da sempre il supporto fondamentale della danse d’école, l’elemento centrale del grande balletto accademico ottocentesco. Oggi nella danza definita contemporanea le tecniche sono molte e diversificate, a volte sembrano persino passare in secondo piano rispetto a ciò che, attraverso un teatro del corpo, un artista vuole esprimere. La tecnica è finalizzata all’espressione di un discorso teatrale, sia esso astratto o concreto, narrativo o immaginifico. Occorre quindi addentrarsi nella densità dell’opera di ciascun autore-creatore. Ognuno appare unico e si colloca al centro dell’attenzione per aver utilizzato il corpo, la luce, la parola, la partitura drammaturgica, la musica in modo diverso creando e inventando un mondo, facendo ricorso a formule estetiche talvolta riconoscibili, talvolta del tutto inaspettate. Saper guardare la danza dunque, imparare a vedere, non limitandosi a descrivere il teatro di movimento sulla base di modalità ortodosse e prevedibili, ma risvegliando uno sguardo-pensiero che sappia vedere-interpretare la danza come un oggetto artistico che esprime una visione del mondo, un punto di vista, una weltanshaung, proprio come ogni altra arte. Non è possibile fornire qui un’analisi dettagliata, si impongono delle scelte che ci obbligano a muoverci per cenni, tracciando a brevi pennellate qualche riflessione su alcune figure di riferimento nel panorama attuale. Frammenti di un discorso intorno alla danza di Giovanna Venturini Sasha Waltz è una delle più importanti coreografe tedesche di danza contemporanea. La sua produzione è consistente ed estremamente varia e dunque difficilmente definibile in modo unitario. Il suo stile coreografico è il risultato di una miscela di Tanztheater tipicamente tedesco, orientato verso una teatralità e una costante ricerca di approfondimento tematico e di un movimento legato alla New Dance americana, che non implica necessariamente l’espressione di un significato. In un’intervista rilasciata recentemente a proposito del modo in cui sceglie i suoi interpreti Sasha Waltz ha dichiarato: “Mi interessano le personalità dei danzatori, al di là degli aspetti puramente tecnici, il loro universo personale, il loro caratteristico linguaggio corporeo, il loro sguardo sulle cose, l’immaginario, e ciò che possono dare al gruppo. Desidero avere un gruppo eterogeneo e cerco per questo qualità corporee differenti. Cerco degli estremi, che esistono nei corpi e anche nelle qualità di movimento. Inoltre ogni scelta nasce sempre da qualcosa di intuitivo e le mie decisioni avvengono in funzione del gruppo”. Parlando poi del modo in cui nascono le coreografie ha affermato: “Non faccio dimostrazione dei movimenti, perché non trovo affatto appassionante trasmetterli per imitazione. Desidero che i danzatori sviluppino qualcosa partendo da loro stessi e mi piacciono le differenze. Non mi interessa mettere in scena una copia di me stessa. Indico delle direzioni, ma poi voglio che i danzatori abbiano la sensazione che sia una cosa loro. Mi piace condividere il mio universo e transatlantico12 sviluppare il materiale insieme. Serve per questo un clima di fiducia e un legame mentale molto forte e per questo le mie collaborazioni sono durature, tanto che negli anni abbiamo sviluppato un linguaggio particolare, non immediatamente comprensibile per chi è esterno al gruppo”. In uno dei suoi ultimi lavori, Gezeiten, che letteralmente significa marea e fa riferimento al fluire e rifluire dell’acqua, Sasha Waltz ha indagato il tema della catastrofe, e soprattutto come ci si rapporta all’evento eccezionale, catastrofico appunto, cosa si scatena in un individuo, cosa comporta a livello di relazione. In scena le pareti vacillano, si incendiano, i danzatori costruiscono canali per l’acqua, i pavimenti tremano, si spezzano e alla fine dalle macerie emergono figure che sembrano mummie pre-umane. Tutto si comprende anche quando il movimento è astratto o surreale, tutto risponde ad un discorso drammaturgico fatto con il corpo, l’azione fisica, la densità, la qualità di movimento dei corpi sulla scena. Si tratta quindi di danza, ma che racconta, narra, evoca, esprime una visione del mondo, si interroga su un tema attuale, la paura dell’uomo di fronte alla catastrofe sia essa umana o naturale. C’è poi un’altra realtà di cui vorrei fare breve menzione: l’esperienza del fiammingo Wim Vandekeybus coreografo della compagnia Ultima Vez. I suoi lavori sono caratterizzati da una grande energia fisica ed emotiva, i corpi esprimono potenza, vitalità, animalità e un legame a qualcosa di selvaggio, di indomabile, fuori da ogni codice, da ogni riferimento. In scena i danzatori corrono, si inseguono, lottano, utilizzano oggetti, si muovono con assoluta naturalezza tanto al suolo quanto in una dimensione sospesa e aerea. Ogni relazione, ogni contatto, elemento centrale del suo universo creativo, presuppone un’assoluta coscienza del peso, una costante assunzione di responsabilità, una sfida alle possibilità estreme dell’equilibrio e della forza di gravità. Vandekeybus ha collaborato con musicisti, con attori, ha realizzato veri e propri progetti cinematografici, ha utilizzato la scena come luogo della trasformazione, terreno del rischio e della ricerca di naturalezza e verità. Vorrei concludere con un riferimento ad un importante Festival che si è appena concluso a Reggio Emilia, il RED, quest’anno interamente dedicato alla danza di Israele. Tra i bellissimi spettacoli ospitati ho assistito all’ultimo lavoro della coreografa Yasmeen Godder: Sudden birds. In uno spazio interamente bianco, asettico e minimale, accompagnate dal suono di un violoncello elettronico, quattro danzatrici intrecciavano relazioni instabili, in continua trasformazione, in un’atmosfera di grande tensione. Sembrava di assistere all’esplorazione di una gamma vastissima di stati mentali ed emotivi, che andavano dalla dolcezza alla paura, dalla rabbia alla sopraffazione, dalla tenerezza alla docile sottomissione, dalla volontà di supremazia alla perdita di ogni punto di riferimento, dalla curiosità allo stupore. Lo spettatore veniva così trasportato in un mondo, in un universo apparentemente chiuso e intimo, ma nel quale diventava impossibile non riconoscersi, non ritrovarsi. Le realtà interessanti sono moltissime, ma ciascuna richiede prima di tutto un occhio che sappia guardare, che sappia posarsi sui corpi non solo per osservarne la bellezza, ma per riconoscerne l’unicità, l’irripetibilità, la verità. mantovabanca per la danza www.eterotopie.it transatlantico13 intervista a mauro bigonzetti Mauro Bigonzetti. Coreografo principale della Compagnia Aterballetto di cui è stato direttore artistico per dieci anni. di Giovanna Venturini Mauro Bigonzetti è oggi il coreografo principale della Compagnia Aterballetto, che rappresenta una delle realtà più importanti, consolidate e significative della danza contemporanea in Italia. Oltre che autore di importanti creazioni che hanno riscosso un grande successo di pubblico e di critica, Bigonzetti è stato anche direttore artistico della compagnia per dieci anni, creando una realtà di altissimo livello professionale, realizzando numerosi progetti e contribuendo notevolmente sia a diffondere la danza contemporanea in Italia, sia a far conoscere la danza italiana all’estero. Bigonzetti concede un po’ del suo tempo in un momento di pausa durante le prove, per l’allestimento dei numerosi spettacoli che la Compagnia porterà in scena nella stagione estiva. Lo raggiungo presso la Fonderia, dal 2004 sede della Fondazione Nazionale della Compagnia Aterballetto e quartier generale in cui ogni progetto, ogni spettacolo prende vita. L’intervista acquista quasi subito la dimensione di un dialogo, di uno scambio, interessante, informale, disteso. La prima domanda riguarda proprio il luogo, la Fonderia, nata dal recupero architettonico di una vera e propria fonderia degli anni ’30, che faceva parte di un complesso industriale posto alle porte della città di Reggio Emilia. Quanto è importante uno spazio, questo spazio nel processo creativo? Il luogo è fondamentale, per l’atmosfera che vi si respira e le suggestioni che suscita. In questo edificio si fondevano i metalli, si creavano forme. Le cose, i corpi, erano sottoposti al calore e alla fatica. La memoria di quel sudore e del processo di trasformazione è rimasta. E poi ci sono vetri ovunque, che diminuiscono la distanza tra la realtà interna ed esterna. Da lì la luce penetra, entra, muta, si appoggia sui corpi, li rivela. Il sole diventa un interprete. E’ un ambiente perfetto per chi agisce sul movimento, per chi crea azioni e lavora sul corpo, che proprio come un metallo viene forgiato e si trasforma attraverso il lavoro, il calore. Nel tuo lavoro, quanto la coreografia si adatta alla personalità dei tuoi danzatori, o piuttosto un buon interprete è tale se sa calarsi perfettamente nell’idea coreografica? Nel mio modo di costruire le coreografie è fondamentale lavorare con persone che conosco, di cui so la cultura, la formazione, il passato. Ogni corpo è un universo, è unico, e ogni danzatore è insostituibile. Infatti, quando rimonto lavori con danzatori differenti, l’impianto cambia necessariamente e la coreografia si trasforma. Mi piace pensare che il processo creativo sia uno scambio, perché l’idea coreografica nasce per quell’interprete, che ha sue particolarissime caratteristiche, una sua sensibilità, una personalità non solo riguardo al movimento, ma anche a livello umano ed emotivo. L’idea coreografica è il danzatore che la interpreta, la incarna, la fa esistere e vivere. transatlantico14 Hai utilizzato spesso le musiche di compositori contemporanei importanti e particolarmente significativi, come Xenachis o Lachelman. Quale è il tuo rapporto con la musica contemporanea? Sento un rapporto particolare con la musica contemporanea, un legame intimo e profondo. Richiede un udito allenato, una particolare disponibilità ad un ascolto non facile, non immediato. Oggi l’udito appare molto inquinato, si vive in una dimensione continuamente sottoposta a stimoli sonori e uditivi. La musica, in particolare la musica contemporanea, ha bisogno di una certa condizione per essere davvero ascoltata, perché recupera i fondamenti stessi dell’ascolto. Il corpo traduce l’ascolto, lo trasforma, dunque non esiste sonorità che non abbia un valore intimo e puro, quasi primitivo. E’ a questo che la musica contemporanea riconduce. Nella tua carriera hai realizzato numerose coreografie. C’è qualche lavoro al quale sei particolarmente affezionato? Sono legato ad ognuna delle mie creazioni, perché ciascuna rappresenta un punto fermo della mia vita professionale. Ogni lavoro ha un significato, perché nel momento in cui è nato era da me sentito come necessario e fondamentale. Inoltre, ogni spettacolo si lega sempre a qualcosa di intimo e ha un posto importante nel mio bagaglio artistico ed umano. Tuttavia non è sempre detto che un lavoro di grande successo sia poi quello in cui un coreografo si riconosce di più. Ad esempio “Cantata” ha riscosso e continua a riscuotere ovunque un successo enorme, tuttavia io mi sento legato forse di più a lavori come “Pression”, “Songs” e anche “Romeo and Juliet”. Ma è sempre la prossima creazione la più importante, la più necessaria, la più irrinunciabile. Pensando proprio a lavori come “Romeo and Juliet” e “Terra”, quanto è importante nel tuo lavoro l’aspetto luminotecnico? La luce per me è fondamentale, fa parte del processo creativo, è un elemento che in una creazione ha un peso specifico molto importante, determinante. A volte per creare un’atmosfera, un ambiente, è sufficiente una particolare luce o anche un oggetto, come la valigia in “Terra”: un oggetto che è allo stesso tempo reale e simbolico e quindi fortemente evocativo. In un lavoro è rilevante ogni dettaglio. Il teatro è un luogo in cui ancora possono accadere magie e, certamente, la luce è uno degli strumenti nelle mani di chi crea per rendere possibile questa magia. Uno strumento, fondamentale, ma pur sempre uno strumento. Mi piace pensare che la danza esista anche senza alcun apparato scenografico, che si possa fare anche senza nulla, solo corpi che si muovono nello spazio. Puoi raccontare qualcosa a proposito del tuo processo creativo, del modo in cui nasce un lavoro? Ogni creazione nasce in un momento e viene realizzata in un particolare momento, ad esempio quando si sente che i danzatori sono pronti per quel progetto, che le condizioni sono ideali per trasformare quell’idea in realtà, in qualcosa di concreto. Per realizzare un progetto serve un’idea iniziale, qualcosa di vago, di largo, ma percepito con urgenza, ed è proprio questa la cosa importante: l’idea di partenza che può essere un’immagine, una suggestione, un’atmosfera, un ambiente. Il movimento nasce poi durante il lavoro in sala sui corpi dei danzatori, che devono corrispondere all’idea, devono incarnarla. Le strutture coreografiche prendono vita dai danzatori, dai loro corpi, sui loro corpi vengono costruite, forgiate. Quali sono i tuoi riferimenti nel mondo della danza o della cultura in genere? Più che riferimenti nel mondo della danza sono molto importanti per me altri aspetti della cultura, altri linguaggi artistici, come la pittura, la scultura, l’incisione – che trovo un’arte molto affascinante – e soprattutto l’architettura che mi ha sempre appassionato molto. Nelle arti visive trovo una ricerca estetica che anche nella danza dovrebbe essere fondamentale. Raramente per la messa in scena delle mie creazioni ho lavorato con scenografi, ma mi sono trovato spesso a collaborare con artisti visivi, ed è sempre stata un’esperienza molto stimolante. L’intervista sta per concludersi, ma mi sento di porre un’ultima domanda, che purtroppo va a toccare un tasto piuttosto delicato. Chiedo una riflessione sulla situazione della danza in Italia. Il tono si fa più cupo, percepisco un filo di amarezza nella voce e un certo rammarico. Che cosa penso della situazione della danza in Italia oggi? Preferisco non pensare e se devo pensare, penso male. So, vedo che esistono personalità artistiche interessanti, credo che siano presenti talenti e volontà di dare vita a progetti, ma se tutto questo non è supportato da una cultura artistica adeguata diventa estremamente difficile. La danza non è percepita come un’arte, un’altissima espressione artistica, e si galleggia in una situazione statica, per non dire terribile. Per tutti i linguaggi artistici occorrerebbe un terreno diverso, un’attenzione maggiore, un’educazione alla percezione. In particolare per la danza, che da sempre è un’arte un po’ trascurata, non tenuta nella giusta considerazione, non misurata nel suo reale valore. Anche nei Festival importanti, raramente alla danza è dato uno spazio di rilievo, mentre all’estero ovunque le si attribuisce un ruolo determinante, centrale. Questa è la situazione, ed è davvero molto triste. Maschera. Avvicinare in poche parole la madre dell’illusione una torrida giornata estiva, di imbattersi nello straordinario brevetto è possibile solo guardando all’etimologia della parola, e non alle e alchimisti di rango. Come la prospettiva, è un artificio per restituire naturale che è la “camera oscura”. La luce che attraversa le persiane sue ben più importanti funzioni. Latino medievale: màsca, strega; la terza dimensione su di una dimensione piana, che tuttavia gioca abbassate, o il foro di una porta, riproduce sul muro ciò che accade in provenzale: masc, stregone. Questi primi significati vennero a non dimostrar le proprie leggi, anzi, le nasconde, le mistifica strada. Tutto però è rovesciato. Il nostro occhio funziona similmente: declinati come: fantasma, larva, chi si camuffa per incutere paura. assurdamente. la serratura è la pupilla, la retina il muro. Tutto però è raddrizzato. La locuzione araba maschara riporta ad una buffonata, una burla. Burattino. “C’era una volta... – «Un re!» – diranno subito i Dissolvenza. La dissolvenza da all’immagine il suo carattere Da non sottovalutare che il nostro termine “persona” deriva dal miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un di liquidità. Nel 1839, Henry Langdon Childe utilizzò più lanterne greco prosopon e dal latino persona-ae, che designano proprio pezzo di legno”. Quale miglior incipit se non quello di Collodi per magiche per consentire spettacolari effetti di apparizioni e di la maschera. descrivere un burattino. Lo stupore più grande che si prova quando trasformazione delle vedute. Il meccanismo verrà perfezionato con Notte. Ambiente primitivo in cui allenare l’occhio. Riconoscere Brighella e Pantalone mimano le proprie vicende, è legato alla loro le sofisticate lanterne doppie e triple sovrapposte, impiegate negli le ombre e ambientarsi tra i contorni indefiniti degli oggetti, finzione palese. Il mistero si cela nella cosiddetta “bottega”, dove il spettacoli degli ultimi decenni del secolo considerando ogni sguardo incerto come lo strumento più affidabile burattinaio condivide con le sue maschere il duplice destino di non Eclisse. Quando un corpo entra nel cono d’ombra di un altro per ritrovare la via di casa. esistere più – e il legno, come il ceppo di Pinocchio, è adatto da corpo. Un fenomeno che riferito al pianeta terrestre ha destato non Organetto di Barberia. Una scatola che produce musica “buttar sul fuoco”, quindi esser ridotto in cenere – e, insieme, quello poca preoccupazione e curiosità. Vero e proprio teatro d’ombre meccanicamente, spesso sgangherata e acciaccata. Risente del tempo di voler diventare qualcosa d’altro e trasformarsi. cosmico, complici il sole e la luna, l’eclisse ha illuminato il percorso di come colui che la suona, o meglio fa girare i suoi ingranaggi, perché alcuni scienziati, scombussolando il bioritmo di cavalli e galline. fatta sia di pelle che di metallo, di legno e tela. Di natura girovaga, Fenachistoscopio. Prima tappa delle visioni animate. 1833. era spesso la colonna sonora di illusionisti e scalzacani. I più noti Joseph Plateau, precursore ante litteram dei Lumière, inaugura la suonatori d’organo di Barberia sono delle scimmiette imbellettate. riproduzione meccanica del movimento. Il Fenachistoscopio consiste Praxinoscopio. Terza tappa delle visioni animate, di nuovo essenzialmente in un disco di cartone con un certo numero di sottili un giocattolo. 1877. Il brevetto di Emile Reynaud rappresenta un fessure radiali e con figure dipinte su una delle facce. Il disco gira notevole miglioramento nell’animazione, perchè elimina il tempo di intorno al suo centro di fronte ad uno specchio, un occhio guarda otturazione molto lungo dei meccanismi precedenti, ottenendo un attraverso le fessure: le figure riflesse nello specchio, invece di movimento più legato e fluido. Ciò avviene sostituendo le fessure confondersi come avverrebbe guardando il disco rotante da un altro nella parete con un prisma poligonale al centro del tamburo, dotato punto di vista, sembra che non partecipino più al moto rotatorio del di un numero di specchi pari a quello delle immagini disegnate, che disco, ma che si animino ed eseguano dei movimenti loro propri. riflette il movimento ottenuto con la rotazione. di Micol Ferretti poco prima dell’avvento del cinematografo Camera oscura. Può capitare, durante la siesta pomeridiana di una depravazione ottica, una mostruosità, una crittografia per iniziati Abbecedario dell’illusione Anamorfosi. Prima dell’avvento della prospettiva era considerata Quadro. Equivalente nella lingua ad un dipinto, il quadro delimita, fa quadrare ciò che tendenzialmente scapperebbe fuori dal recinto. Mette i paletti alla tensione creativa che scappa, incatena ciò che altrimenti sgorgherebbe come lava. Il primo filosofo Anassimandro fu agrimensore, e perimetrò l’ápeiron, l’origine dell’universo. L’agrimensore K., a distanza di secoli, ne fu travolto. Risata. Il più efficace grimaldello per scassinare la bieca univocità delle cose. Basti una definizione di “risata” per buttarci gambe all’aria: «modificazione del ritmo respiratorio, sospensione dell’aspirazione, scosse che si ripercuotono nella gola, contrazioni concatenata di molti muscoli (in particolare facciali e addominali), scopertura dei denti, e talvolta lacrimazione». Schermo. Non dimenticare il senso della scherma, un combattimento in cui è fondamentale ripararsi, proteggersi. Sia esso un telo su cui la luce viene proiettata, o la roccia della caverna platonica, è comunque assimilabile ad un diaframma che separa due cose che dovrebbero essere separate – realtà e illusione, forma e sostanza? – di cui risulta tuttavia inevitabile la loro prossimità. Taumatropio. È la dimostrazione più semplice ed efficace della persistenza delle impressioni luminose sulla aretina, una sorta di latenza dell’occhio. Basta ritagliare un cartoncino a cerchio, Grand Guignol. Rinunciare all’occhio e concedersi al corpo disegnarvi sopra poniamo un uccello sul primo lato, una gabbia torbido e sanguigno. Devastandolo, depravandolo, torturandolo, sul secondo, e attaccare due cordicelle o bastoncini a due estremi attraverso la doppiezza e la parte oscura dei sobborghi fin de siècle. opposti del pezzo di carta. Facendolo ruotare sul suo asse il gioco è Fondatore del teatro Grand Guignol nel 1896 fu Oscar Méténier, un fatto. L’uccello è in gabbia. ex segretario di commissariato della polizia parigina, il quale attinse Utsushie. Più noto come il teatro delle ombre cinesi. Sembra siano alla sua esperienza fatta come tutore dell’ordine, per portare in scena state improvvisate da un manipolo di eunuchi. Persa l’amata, il loro i casi più orripilanti di costume e malcostume. La spettacolarizzazione imperatore sembrava inconsolabile. Pensarono allora di ricostruire dell’obbrobrio era spesso compiaciuta, e il pubblico chiedeva proprio una statua della ragazza, per poi proiettarla su di un telo. La sagoma quello: un emozione proibita spiata dalla serratura, l’esser messi a dell’amata riportava il sovrano alle verità dell’amore. “La tua mano disagio forzatamente. si muove alla luce, guarda l’ombra e imparerai a sognare. L’illusione Hans Holbein il giovane. In riferimento all’anamorfosi. Nel è la porta del sogno”. celebre quadro “Gli ambasciatori”, Holbein non vuole nascondere Veduta ottica. Il giorno e la notte in una sola immagine. il viaggio “d’andata” dell’anamorfosi, perché anche un cieco nota Bucherellando sapientemente la veduta di una piazza, arricchendone la patacca sul tappeto tra i due nobiluomini vestiti di tutto punto. il retro in trasparenza con carte colorate, grazie ad una fonte Ciò che vien celato è invece il movimento di “ritorno”, ossia il fatto luminosa, è possibile gustarsi momenti della giornata differenti di che, vista da una particolarissima posizione, la patacca è un teschio un unico scorcio. Proust ne trae spunto per farne un escamotage terrifico. Come chiosa il buon Baltrušaitis, «una distruzione che narrativo, quando il suo alter ego sperimenta “la veduta ottica degli prelude a un ripristino, un evasione che implica però un ritorno». anni, la veduta non d’un momento, ma d’una persona situata nella Illusione. Un modo di esplorare il mondo spiccando un salto su prospettiva deformante del tempo”. alcuni dettagli. Zootropio. Seconda tappa delle visioni animate. 1834. Lanterna Magica. Apparecchio ottico, fornito inizialmente di Perfezionamento da parte di William George Horner del un solo obiettivo che, grazie ad una fonte luminosa interna, proietta fenachistoscopio. Le prime, brevissimi, sequenze animate condivise da su uno schermo immagini dipinte su vetro con colori traslucidi, un gruppo di persone. Questo perché le immagini venivano raffigurate ottenendone l’ingrandimento. Nel frattempo, l’invenzione della su una striscia di carta che poteva poi essere messa all’interno di un fotografia nel 1826 ad opera di Joseph-Nicéphore Niepce pose le tamburo di cartone o di metallo, e osservate direttamente attraverso basi per l’invenzione del Cinematografo: unendo la proiezione delle le fessure intagliate sul lato del cilindro. Noto anche con il nome di immagini alla fotografia sarebbe stato possibile riprodurre la realtà? “Daedalum”, rotella del diavolo. transatlantico15 Da parecchio era passata la mezzanotte, in una nottata di questa primavera un po’ umida, per trovarci in piazza dei Signori a Verona. Eravamo usciti da un concerto di “musica del nostro tempo”, di una rassegna denominata “Variazioni di pressione”; quindi il giro delle osterie. Aveva cominciato l’Armando, violinista barocco di talento, ad inveire con acredine contro “la Musica Contemporanea”, contro “quella gente che cerca solo di darsi un po’ di tono, che in realtà - diceva lui - non può capire nulla di una serie di eventi in cui non c’è niente da capire, cacofonie, urla, rumori.... ”. Tasso alcolico medio-alto, ma lucidità: discussione accesa sulle sorti intorno ai massimi sistemi, sui nostri gusti, sulle nostre, tante, passioni e idiosincrasie. La sfida è, con varie sfumature, tra chi accetta di avventurarsi alle soglie dell’Ur-grund, della percezione pura, e chi reclama a gran voce l’irrinunciabilità di una qualche melodia. Tra chi, in definitiva, si sente a proprio agio (pseudo-intellettuale?) nell’apparente caos dell’accadere di eventi sonori, pecependoli secondo un autentico ‘respiro di vita’, tra chi affronta con coraggio la necessità di esprimere l’angoscia (ebbene sì) e chi di converso non ne vuole sapere per nulla. Sembra di sognare. Forse il tempo si è fermato? In fondo i toni delle invettive e delle discussioni non è cambiato in questi ultimi quaranta anni. Ma chi può dirlo? Intanto, passando con la sua bicicletta, il giovane Edoardo, allampanato teen ager, dalle venature esistenzialiste, ci dice che siamo fuori dal mondo: “Parlate di una realtà musicale che non esiste. Musica contemporanea è quella che realmente rappresenta il nostro tempo, che sa essere sperimentale ma nello stesso tempo sa effettivamente comunicare: Radiohead, Animal Collective, Dresden Dolls!”; chiude e pedala via. Confrontandoci con le musiche appena ascoltate di autori come Elliot Carter, George Crumb, Sciarrino, Bussotti, Berio, ci troviamo in un territorio che in fondo dovrebbe essere considerato tout-court ‘Classico’. Negli anni ’90 poi qualcosa è cambiato: c’è stata l’irruzione sulla scena ‘contemporanea’ di minimalisti, neoromantici, tendenze new age; il pop, il rock, il jazz così come le diverse etnie musicali sono stati gli elementi e gli ingredienti con cui i nuovi compositori si sono confrontati e da cui, in molti casi, hanno attinto come in una sorta di supermercato. Sembra che ormai si possa fare di tutto, con una libertà pressoché totale, senza dover render conto a nessun tribunale: un tempo i più rigorosi e dogmatici seguaci dell’ortodossia seriale e dodecafonica non ammettevano devianze! Ma nella vulgata quando si parla di “Musica Contemporanea” si pensa alla produzione di questi nonni un po’ folli (molti sono scomparsi e uno come Eliott Carter quest’anno compie 100 anni!); si pensa quindi alla grande stagione di radicalismo estremo, alle utopie che n’erano strettamente connesse. Prima dell’avvento e della ripresa di un rinnovato ritorno della tonalità - che è una delle realtà dei nostri giorni – è esistita una specie di zona grigia, nella storia della ricezione, in cui, negli anni ‘60/’70 il ‘pubblico’ - a volte numeroso a volte fatto di poche ‘barbe’ - ha saputo confrontarsi ed affrontare stoicamente, con coraggio, con le proposte tra le più dure. La tensione a spiegare da parte dei compositori era tutta tesa ad esplicitare l’organizzazione e le intenzioni di una partitura o di un progetto altrimenti non intelligibile con gli strumenti tradizionali dell’ascolto. Ecco che quindi il destinatario della “musica contemporanea” si trovava di fronte ad un orizzonte di scelte inimmaginabili, tra il rifiuto netto e la possibilità di essere egli stesso, con il suo atto interpretativo, creatore di nuovi sensi di nuovi significati. Ma oggi la babele dei mondi musicali, sedimentati in ognuno di noi, con i loro linguaggi, sistemi di regole e che - chi più o chi meno - molti tengono serbo come proprio patrimonio identitario, quando si incontrano con questa specie di terra di nessuno, genera un orizzonte di interpretazioni tra le più disparate; come se, di fronte ad un gruppo di persone che gioca con la palla, ognuno si aspettasse diversi tipi di gioco con diverse regole: chi il calcio, chi la pallavolo o la pallacanestro, piuttosto che palla prigioniera... Nelle nostre conversazioni notturne, dopo aver scrutato le nostre ragioni, ci siamo chiesti chi fossero gli appassionati o i Fabio Zannoni è corrispondente da Verona per il Giornale della Musica. Illazioni notturne Intorno alla musica contemporanea di Fabio Zannoni transatlantico16 curiosi che si erano avventurati nella Sala Maffeiana del Teatro Filarmonico di Verona, che non fossero gli addetti ai lavori o amici e parenti dei musicisti. Insomma ci siamo chiesti quale tipo di viaggio si fa, un ascoltatore di musica nel 2008, di fronte alle produzioni dei maestri dell’avanguardia musicale, assieme a quelle delle scuole che ne ricalcano le tracce o che da queste cercano di scrutare nuovi orizzonti. Nella Contemporanea ‘Classica’, dodecafonica, seriale o elettronica che sia, si chiede una ricezione che nasca e si chiuda nel silenzio, si chiede un contributo del pensiero in cui ci si appelli - ebbene sì - ancora, in misura diversa, a ragione e sentimento. Ma all’oggi, superate le utopie che avevano agitato le avanguardie storiche, la ricezione di quest’idea di musica assume caratteristiche e connotazioni sempre diverse, anche se alla base, dei ragionamenti che suscitano obiezioni, resistenze, passioni, ritroviamo immutate le contrapposizioni di un tempo. I giorni successivi proseguo solitario la mia indagine, con sporadici incontri e appuntamenti, con chi aveva seguito i “Quattro incontri con la musica del nostro tempo”, tra i portici di Via Sottoriva o i baretti di Piazza Erbe: chiacchierate in libertà davanti ad uno spritz o ad un bicchiere di Valpolicella. Varie e diversissime le tipologie d’ascoltatori. E i nostri utenti rivelano una notevole vivacità e curiosità, con una vasta gamma di sfaccettature; che vanno oltre i clichées della sociologia adorniana, che restano sullo sfondo, come figure limite, stereotipi un po’ caricaturali: quelli dell’esperto, del consumatore di cultura, dell’ascoltatore emotivo, quello risentito e poi il consumatore di jazz, chi propende per il rock o il pop e chi spazia tra i generi. Scopro che i nostri amici hanno qualcosa in più; tratto comune una notevole curiosità: Giuseppe, 65 anni, pensionato, ex gioielliere, Annalisa, 54 anni, Insegnante di Matematica in un Liceo Scientifico, Luca, 38 anni, avvocato, Roberta, 39 anni, regista e animatrice teatrale, Anna, 25 anni, sociologa, Carolina, 28 anni, art designer. Nessun ‘addetto ai lavori’ quindi, nessun musicista, ma ognuno con il suo background, i suoi schemi e la sua sensibilità. GIUSEPPE - ”Sono nato in una famiglia di musicisti, di musica veramente classica! Trent’anni fa ho scoperto Bruckner: per me era contemporaneo! poi pian piano Mahler, Stravinsky, fino a Schoenberg. Ho anche conosciuto personalmente Bruno Maderna, ma non sono mai riuscito a capire la sua musica. Forse adesso riuscirei a capirla di più. Ascoltando la prima volta Notte trasfigurata pensavo finalmente di esser entrato nel mondo della musica contemporanea, quando in realtà in seguito scoprii uno Schoenberg ben più duro...”. LUCA - “Io per un periodo mi sono fatto prendere molto da un genere che si chiamava kraut rock, fatto da gruppi tedeschi in cui molti componenti erano stati allievi di Stockhausen - come Popol Vuh, Can, Ash, Ra, Tempel, Amon Duul - gruppi che indirizzavano la sperimentazione sia verso il rock che verso la musica contemporanea”. ROBERTA - “Io lavoro con la poesia e con musicisti pop, che fanno elettronica, del tipo drum & bass; m’interessa capire se c’è un altro modo di utilizzare musica per la poesia, una musica che sia sperimentale, creativa ma non elitaria, non per pochi, non difficile: per riuscire a metterla insieme alla musica pop, in modo che questa combinazione possa veicolare nuove idee”. CAROLINA - “Non ho avuto particolari conoscenze od esperienze musicali, nemmeno una particolare passione per il rock, il pop o il jazz. Mi sono fermata ai cantautori ai tempi della mia adolescenza. C’è un buco in mezzo, qualche disco dei miei e basta, per me la musica non è mai stata strumento di crescita o d’identità: è una cosa che mi è mancata molto.”. Entriamo nello specifico: sulla musica ascoltata i giorni scorsi nei concerti di “Variazioni di pressione”. ANNA - “Durante l’esecuzione di un brano elettronico ho sentito una specie di atmosfera tesa nella sala, una specie di perdita di senso dell’orientamento, anche perché poi il pezzo è durato moltissimo. Mi sono pure un po’ preoccupata per le persone anziane presenti in sala. All’inizio ero molto curiosa. Non posso dire comunque che mi sia piaciuta”. CAROLINA – “Nel pezzo d’improvvisazione ho notato che anche sul palco c’era la necessità dell’ascolto da parte dei musicisti stessi, perché senza la volontà di ascoltarsi a vicenda non poteva nascere un dialogo, mi è piaciuto capire la nascita di questo parlare tra loro, di questo percorso verso un’intesa. Poi ho trovato molto sensuale il pezzo per flauto ‘All’aure in una lontananza’ di Sciarrino”. Come ascoltare questa musica. Con quale stato d’animo. Quali il coinvolgimento, la partecipazione, la necessità di comprendere, di controllare il materiale, di conoscerne i presupposti culturali; o piuttosto come si cerca di cogliere, immaginare e, perché no, anche di lasciarsi andare, per sentire in maniera immediata, un ‘qualcosa’, un messaggio, una vibrazione ... GIUSEPPE - “Comunque, quando vado a questi concerti non sono soddisfatto come quando ascolto la ‘mia’ musica, non riesco a captarne il percorso. Anche se la musica di Cage, ad esempio, mi piace molto e riesce ad entrarmi subito”. ANNALISA – “Mi colpisce l’uso di uno strumento in maniere ‘altre’, come un pianoforte cui è cambiato il ruolo: lo batti oppure lo amplifichi. M’interessa anche l’elemento della performance: non potrei assolutamente seguire un concerto ad occhi chiusi. Il fatto che il pianista durante l’esecuzione di un pezzo come Makrokosmos di Crumb sembrava entrasse dentro lo strumento, come se lo invadesse, mi coinvolgeva, mi faceva capire che lui viveva qualcos’altro”. LUCA - “Di solito cerco di capire il messaggio, cosa significa, perché c’è un determinato strumento che entra. Poi puoi andare d’immaginazione: In Vox Balenae di Crumb, ad esempio, era bello perché riuscivi a figurarti un’immagine precisa, potevo immaginarmi anche i gabbiani... mentre altre volte è più difficile crearsi un percorso d’immagini”. ROBERTA - “Non conosco la musica contemporanea; e quando non conosco una lingua, mi concentro sul ritmo, sulla struttura e su un certo colore o atmosfera”. CAROLINA - “Un’esperienza particolare l’ho vissuta una volta ascoltando, di Messiaen, il Quartetto per la fine dei tempi: mi ha decisamente sconvolto, è stato un ascolto molto intimo, molto personale. E’difficile spiegare il perché ma, in qualche maniera, mi ha ricordato un piacere privato. E’ stata una musica che mi parlato in modo molto intimo e segreto, anche se ho avuto la sensazione che questa cosa stesse succedendo a tutti gli altri in sala, per cui figurativamente mi sono immaginata che questa cosa potesse essere come un autoerotismo generale: un piacere intimo e segreto, ma che eravamo tutti insieme a condividere. Per me erano le prime esperienze, però non so come succede normalmente”. Musica per evadere dalla realtà o per entrare dentro una riflessione più profonda? Musica che fa star male, veicolo di un’angoscia esistenziale o che stimola l’immaginazione? ANNALISA - “Se è vero che noi dalla nostra realtà vogliamo evadere, allora o evadi riuscendo a coinvolgerti con musiche fasulle - musica che è contemporanea ma che ti serve per allontanarti - oppure riuscendo a recepire qualcosa che ti porta il messaggio del tuo tempo: la contemporanea è una musica che tutto sommato non ti fa star bene, ti fa star peggio, in molti casi, perché vivi tutto il trambusto di quello che è la tua vita” GIUSEPPE - “Ma allora se la musica non può essere d’evasione, che ti aiuti a star bene, diventa una sofferenza! Anche Mahler non ha pensato la sua musica come musica d’evasione, ma quella è di una bellezza sconvolgente, anche quando è triste; così come con il Requiem di Mozart: io vado in paradiso con un Requiem!” LUCA – “Se posso avere un coinvolgimento a livello emotivo, ci può entrare anche l’angoscia. Questo sì: ma è un sentimento che in queste sere non ho mai provato. Ho vissuto certi momenti un po’ come in un film horror: la musica può anche dare questo”. ROBERTA – “Dire che certa musica possa far star male lo escluderei, anzi per me può creare un certo tipo di vicinanza. E’ l’assenza di idee e di creatività piuttosto, che può far star male!” E forse senza la reattività e la creatività di chi ascolta le opere musicali sarebbero un po’ incomplete, monumenti privi di risonanza. Tra l’indifferenza e il vivere un’avventura dell’anima c’è quindi tutta una gamma di reazioni che costituiscono un reticolo di risposte che sono l’altra vita delle opere stesse: una cosa spesso imprevedibile per lo stesso compositore. Anche in queste ‘conversazioni davanti ad uno spritz’ ci sono le tracce di questo, tracce di pensieri, interpretazioni; tracce di letture che, qua e là, colgono ciò che resta della vitalità e delle utopie - vuoi stimolanti, visionarie o fumose - che avevano mosso le avanguardie musicali del secolo scorso. transatlantico17 transatlantico18 Mantova non è un paese per vecchi... ... né ci dobbiamo augurare che lo diventi o perlomeno non diventi l’isola (in)felice dove i problemi, a partire dal costante invecchiamento della popolazione attraverso la progressiva deindustrializzazione del territorio, la costante dequalificazione dell’occupazione intellettuale e l’inesorabile crescita della popolazione non indigena, siano fatalmente subiti invece che generosamente affrontati. Bisogna anche pensare o ripensare ad un modello politico per cui Mantova, come qualunque altra città, non sia solo un contenitore di problemi da risolvere, bensì di opportunità da sviluppare. E in questo contesto si colloca l’attenzione che deve essere posta allo sviluppo culturale del territorio. Le amministrazioni locali, in particolare quella comunale non sembrano disattente, almeno in quanto destinano una generosa fetta del bilancio pubblico al settore della cultura, con una percentuale del contributo che varia negli ultimi anni dal 12% al 10%. Ma in tempi di vacche magre, questo è per qualcuno un lusso che non possiamo permetterci. Sia dalla destra proto-liberale, sia dalla sinistra proto-comunista, si levano grida di dolore per spese in favore della cultura ritenute sconsiderate perché destinate ad un bene effimero. Secondo i più illuminati censori dello sperpero pubblico, lo stato dovrebbe occuparsi unicamente di favorire la spesa sociale. Infatti, se in veste di giornalisti di un qualunque giornale populista di paese ci mettessimo ad intervistare l’uomo della strada, e lo di Enrico Alberini chiamassimo ad esprimere un’indicazione su come e dove destinare la spesa pubblica, ci sentiremmo rispondere che, “premesso che lo stato spende troppo, i soldi per la cultura sono tutti buttati via!”. Per poi sentire lo stesso uomo della strada, magari un po’più giovane e meno lobotomizzato dalla televisione, lamentarsi perché non ci sono cinema, teatri, che la sera non si sa dove andare e la città è vuota e spenta ... Non si vive di solo pane sociale e il compito di un’amministrazione è quello di non ostacolare o peggio fermare la cultura, semmai quello di governarne i processi di sviluppo, discriminando: 1. le iniziative che riversano sulla comunità insignificanti redditi culturali da quelle che, non solo in termini di ricaduta economica sul terziario, accrescono il genius loci, 2. quelle che basano le loro dinamiche esclusivamente sulla circolarità autoreferente dei proponenti da quelle che favoriscono l’osmosi fra realtà diverse, 3. quelle che ripropongono sé stesse come modello, da altre che invece creano nuovi modelli di riferimento, 4. quelle la cui notorietà consolidata non abbisogna più di un consistente intervento pubblico, da quelle che, verificato il loro tratto innovativo, lo richiedono per crescere. La politica abbia il coraggio di credere in una cultura che genera occupazione vera e non solo del tempo libero di chi può permettersi di averlo. La crescita di un territorio, in modo che sia attrattivo nei confronti di quelli circostanti, è determinata anche dalla capacità dei suoi amministratori di tramutare la ricchezza culturale in ricchezza materiale (un tempo si diceva benessere). Altrimenti Mantova non è un paese per vecchi, ma nemmeno per giovani... è un paese per morti viventi. transatlantico19 eterotopie altriluoghi suono parola danza immagine Mantova Palazzo Te 27 Agosto 2 settembre 2 Il festival Eterotopie è l’appuntamento annuale dedicato all’esplorazione delle tendenze delle arti contemporanee organizzato dall’Associazione Culturale Diabolus in Musica. Immerso nella magnifica cornice di Palazzo Te a Mantova, il festival si configura come una piattaforma intermediale, in cui interagiscono i diversi linguaggi della musica, della danza, del cinema, delle arti visive e del teatro. Concerti dedicati a figure centrali della musica contemporanea sono affiancati da performance di compagnie di teatro e danza di livello internazionale, e da installazioni multimediali di giovani artisti e compositori emergenti che, silenziosamente e coraggiosamente, descrivono e creano il paesaggio sonoro e visivo del nostro tempo. Mylicon - EN L’avventura del quadrato: da Flatland alla ipersuperfici Cartoline dal Vietnam Video-installazione Michele Emmer, Università “La sapienza” di Roma Societas Raffaello Sanzio Flatlandia Madrigale Appena Narrabile un film di Michele Emmer musiche di E. Satie, D. Milhaud 28 Agosto Obliqua (Barcellona) Incontro Live set di musica elettronica e arte visuale Il corpo (filmico) della musica Alessandro Cappabianca, FilmCritica 31 Agosto Letizia Michielon, pianoforte Incontro Musiche di Chopin, Ligeti Giorgio Sancristoforo 29 Agosto Presentazione del libro Tech Stuff in collaborazione con ISBN Edizioni Spazio Visivo #3 - Soglia Sonorika V installazione di Paolo Cavinato e Stefano Trevisi Incontro danza contemporanea 1 Settembre Corpo Sonoro Carlo Serra, Università Statale di Milano El Gallo Rojo Omaggio a Oliver Messiaen The Spook Speaks II sonorizzazione live di film muti Spazio Visivo #3 - Soglia Provincia di Mantova 8 Incontro 30 Agosto Centro Internazionale d’Arte e Cultura di Palazzo Te 0 27 Agosto nel centenario della nascita Corrado Rojac, Oleksandr Semchuk, Flavia Casari, Leonardo Zunica, Mauro Graziani Musiche di Messiaen, Rojac, Perezzani, Graziani, Harvey Comune di Mantova 0 Regione Lombardia Ad Libitum Associazione Culturale Verona 2 Settembre Le Sacre du Printemps Musica di Igor Stravinsky, Luigi Manfrin Rossella Spinosa, Leonardo Zunica, Carlo Miotto, Luigi Manfrin, Cristiano Tassinari, Massimo Biasioni co-produzione Diabolus in Musica e Centro Musica Contemporanea di Milano Accademia Filarmonica di Verona Comune di Villa Lagarina Isbn Edizioni