trimestrale dell’associazione Diabolus in Musica
transatlantico
numero 1 _ Estate 2008
• CHIARA GUIDI • LEONARDO ZUNICA • SANDRO CAPPELLETTO • PRAVDA gennaio 1936 •
MARIA YUDINA • GIOVANNA VENTURINI • MAURO BIGONZETTI intervista • MICOL FERRETTI
• ANGIE DAVID • ROLAND BARTHES • FABIO ZANNONI • ENRICO ALBERINI •
trimestrale dell’associazione Diabolus in Musica
transatlantico
numero 1 _ Estate 2008
editoriale
Ecco il numero_1 di transatlantico. Non è un numero qualsiasi. E’ l’inizio di
un’avventura editoriale, e anche di un gioco.
Abbiamo incluso in questo numero contributi importantissimi, come quello di
Roland Barthes, i cui scritti sulla musica sono tanto rari quanto illuminanti.
Abbiamo voluto dedicare tre pagine a Dmitrii Shostakovich, la cui personalità
e la cui musica rientrano in un progetto curato da Sandro Cappelletto, in
collaborazione con Diabolus in Musica e il Kiev Summer Music Festival. La pagina
in cirillico è per il nostro pubblico “orientale”, che ci guarda, ci ascolta curioso.
Rimaniamo a Est. Un noto pianista polacco, durante le lezioni, aveva l’abitudine
di far guardare ai suoi allievi alcuni film interpretati dai grandi attori inglesi.
Come dire che la musica è anche gesto, calcolato e corporeo, anche se in
molti casi il testo che illustra quel gesto, quella didascalia che viene elaborata
nell’atto compositivo ed esecutivo, restano celati a chi ascolta. Frustrazione ed
incanto della musica. Non solo musica, quindi, in questo numero. Una scelta che
rivela le inclinazioni di transatlantico.
In occasione del Festival del Teatro di Mantova, abbiamo colto l’occasione
per confrontarci con due fra i maggiori interpreti del teatro e della danza
contemporanea italiana: Chiara Guidi, della compagnia Societas Raffaello
Sanzio, e Mauro Bigonzetti di Aterballetto.
Vogliamo rivolgere un particolare ringraziamento alla casa editrice ISBN, con la
quale speriamo possa iniziare, anzi, è già iniziata, una fruttuosa collaborazione.
MALAVASI
DEMOS
SCALE-PORTE-SERRAMENTI
Buona traversata.
la redazione di transatlantico
PRODUZIONE E VENDITA
SERRAMENTI IN PVC
redazione
Leonardo Zunica
Giovanna Venturini
Micol Ferretti
s o m m a r i o
PORTO MANTOVANO (MN)
grafica Paola Pradella
hanno collaborato
Chiara Guidi
Sandro Cappelletto
Mauro Bigonzetti
Fabio Zannoni
Enrico Alberini
si ringraziano
Giulio Einaudi Editore
ISBN edizioni
Antonio Galuzzi
Roberto Piccinini
stampa FDA Eurostampa
di Borgosatollo BS
in copertina
senza titolo, di Patrizia Giudici
12 anni, Firenze
collezione INDIRE
info
[email protected]
Associazione Culturale
Diabolus in Musica
Via Eremo, 37/A
46010 Curtatone MN
www.diabolusinmusica.org
www.eterotopie.it
www.myspace.com/eterotopie
Stampato in 4.000 copie
in attesa di registrazione presso il
Tribunale di Mantova
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Editoriale
pag.
2
Vedere la voce di Chiara Guidi
pag.
3
Udire l’inudibile di Leonardo Zunica
pag.
4
Un artista del popolo? di Sandro Cappelletto /
Caos anzichè musica da Pravda, gennaio 1936
pag.
6
Dmitrii Dmtriyevich Shostakovich di Maria Yudina
pag.
8
L’iPOD di Angie David
pag. 10
Musica practica di Roland Barthes
pag. 11
Frammenti di un discorso intorno alla danza
di Giovanna Venturini
pag. 12
Intervista a Mauro Bigonzetti di Giovanna Venturini
pag. 14
Abbecedario dell’illusione di Micol Ferretti
pag. 15
Illazioni notturne di Fabio Zannoni
pag. 16
Mantova non è un paese per vecchi... di Enrico Alberini
pag. 19
AUTOTRASPORTI GECCHELE geom. OLINDO
SCAVI - GHIAIA - MAGAZZINO
una produzione Diabolus in Musica
per il Festival del Teatro “Arlecchino d’oro”
in collaborazione con
sponsor tecnici
vedere la voce
di Chiara Guidi
Chiara Guidi è tra le fondatrici della Societas Raffaello
Sanzio e ideatrice del progetto Stoa.
Solitamente si parte dal testo per indagare
l’essenza della voce, ma se si sospende l’uso della
parola, l’essenza della voce è il suono.
Io parto dal presupposto che occorra riconoscere una voce
prima dell’avvento delle parole. Consideriamo la voce di un anziano, di
un bambino; o la voce malata di un uomo che con il passare dei giorni
si restringe nell’angustia. Sono voci che portano con sé una fisicità: si
fanno ascoltare, si vedono. Non è quello che dicono ciò che suscita
l’emozione, ma quello che non dicono. La commozione è provocata
senza messaggi di commozione. La voce, da sola, ha l’incarico di
rivelare ogni parola, senza emettere alcuna parola. Oppure ha l’incarico
di mantenere intatta l’anima nascosta di ogni parola mentre la dice.
La trachea, il fiato, fanno transitare affetti e affezioni che nascono
dalla fisicità e si assestano nella fisicità. Tutto ciò che è udibile ha una
storia fatta di spostamenti, cadute, rimbalzi, pause, allungamenti. E’
possibile quindi affermare che la voce contiene un mondo narrabile a
cominciare dalla fisicità di cui è costituita.
La mia ricerca parte di qui: saper vedere la propria voce e saper
sempre dove si trova. Al pari di un corpo esteso e solido, la si plasma e
la si muove. L’attore e il cantante devono ogni giorno andare a caccia
di voci, così da conoscerle, riprodurle e collocarle. Ogni propulsione
vocale richiede un controllo puntiforme del carattere e poi un indirizzo
spaziale. Non è possibile pensare la voce priva dagli effetti che essa
stessa produce nel luogo in cui si trova, così come non è possibile
emettere un suono strumentale indipendentemente dalle relazioni che
crea con gli altri suoni, e il riverbero dell’ambiente.
Il controllo “molecolare” dell’emissione vocale è questo saper
vedere e figurarsi la voce come una forma che prende corpo in un
quadro. E’ questa una pratica artigianale che ho definito: “Tecnica
molecolare della voce”. Essa prepara a individuare e a cogliere
l’unità più piccola: il minimo segno, il minimo suono, non già per un
compendio dettagliato dei casi, ma per entrare in intimità con la voce
a incominciare dalla sua genesi, anzi dall’aria appena smossa che la
prepara. Il primo madrigale, è appena narrabile. E’ sempre questa
condizione iniziale della voce che ci pone in ascolto del suo voler dire.
venerdì 27 . sabato 28 giugno 2008
mantova - giardini valentini - ore 22,00
Sonorizzazione I
Cacciati dalle città, molti animali se ne sono andati in cerca di posti più tranquilli, altri si sono adattati nascondendosi nei posti
più bui ed inaccessibili, altri sono accettati e convivono con gli umani senza grossi problemi, altri ancora si sono estinti. Rimane
il fatto che - pur rimanendo in città - il loro numero è molto più alto di quello degli umani. E non tutti sono facilmente visibili.
Lasciano tracce però, tracce di vario tipo, anche tracce sonore. Quelle che ho cercato di immaginare e ricostruire per “colonizzare”
sonoramente i Giardini Valentini. Alcuni di questi animali li riconoscerete, altri no, li ho inventati io. E questo non significa affatto
che non esistono...
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Udire l’inudibile
di Leonardo Zunica
Paul Klee raccoglie sassi, farfalle, radici. Forse dispone i lepidotteri
colorati in una “vitrine”, e tiene il resto in fondo alla tasca,
sfiorandolo con le dita. Cerca di sentirne le asperità, le porosità,
le irregolarità. Guarda, contempla, si sente “alla stessa stregua
delle piante, degli animali e delle pietre” (Diari). Forse posa l’occhio
sulla lente del microscopio. “Vegetale – strano” (1929) pare una
ricomposizione, una ricombinazione di “un’ameba del suolo e di
uno sporofillo”. Un ibrido. L’artista, afferma Klee, “si occupa di
microscopia, di storia, di paleontologia”. Gli interessano le forze
plasmatrici, il prima, e non gli esiti formali, visibili, ottici: il dopo.
Pensa ad una “preistoria del visibile”. Dei fenomeni ottici (e non
solo) vuole scovare la “formazione prima della formazione”: rendere
visibile l’invisibile. E’ uno dei pensieri più belli e significativi di Klee.
Attraverso il suo sistema pittorico si approda alla chimica delle forme
possibili, all’esperienza delle possibilità infinite della formazione. E
dell’invenzione. Tra le molte opere che rimandano alla musica (Klee
fu per molto tempo indeciso fra la carriera di musicista e quella
di pittore) la Macchina per cinguettare, uno dei tanti automi che
inventa - un robot - e Suono antico sono non già raffigurazioni
astratte di un’immaginazione sonora, come poteva essere nelle
opere sinestetiche dell’ amico Vassilj Kandinskij, ma operazioni che
vogliono essere atti generativi perpetui, piccole genesi continue
di possibilità sonore; microcosmi che contengono algoritmi del
possibile, attraverso i quali de-comporre il reale, scandagliarlo,
“frugare” tra le sue trame, sezionare i suoi elementi in arcana, per
poi, come nell’opera alchemica, ricomporli all’ infinito.
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ascoltate i brani su
www.worpress.com/giardinivalentini
Béla Bartòk (1881-1945), compositore e pianista
ungherese, collezionava lepidotteri e insetti, insieme
a centinaia di canti popolari di Romania, Ungheria,
Slovacchia, Medio Oriente (anche Walter Gieseking,
grande pianista austriaco, curiosamente, più o
meno negli stessi anni, amava cacciare farfalle). Nel
Diario di una Mosca di Bartòk (Mese a kis légyrol,
Mikrokosmos vol. VI) un intrico vibrante di minime
dissonanze ci raffigura il volo nervoso dell’insetto.
Anche visivamente la grafia musicale è fatta di minimi
e veloci colpi d’ala:
Ancora impercettibili rumori di fremiti d’ali, gracidii di
rane, uccelli notturni, frinire di grilli, crepitii di foglie
secche, costituiscono le sottili trame del tessuto
sonoro di Klänge der Nacht (Az éjszaka zenéje,
Szabadban – all’Aria aperta). Gli agglomerati iniziali
sono una trascrizione del rumore, in un quasi-silenzio
che è l’annunciazione di futuri sviluppi musicali:
della fonografia e del sonogramma. Il silenzio che
si percepisce in Klange der Nacht è un sistema di
rumori stratificato, di atomi sonori, e come in Klee
e in Valéry, nei suoi scritti sulla natura, attingiamo ai
“pozzi misteriosi dei microscopi”, che sono qui come
veri e propri microscopi sonori. Se Klee rende visibile
l’invisibile, Bartòk è forse il primo compositore che,
negli stessi termini, rende udibile l’inudibile.
***
In Klänge der Nacht si trovano, come si è detto,
anche vere e proprie citazioni di canti d’uccelli.
Non è un episodio unico nella musica di Bartòk.
Nel secondo movimento del Terzo concerto per
pianoforte e orchestra, nella parte centrale, si apre
improvvisamente un “paesaggio sonoro” che include
misteriosi versi d’uccelli. Vi è però un compositore
che ha fatto dell’ornitologia un campo d’indagine
straordinariamente ricco. Si provino ad elencare i
canti che Olivier Messiaen (1908-1992) trascrive e
rielabora nel suo immenso Catalogue d’Oiseaux
(se ne contano ben 77), e nel meno conosciuto
Petite Esquisses d’Oiseaux. Scrive Giovanni Piana in
un bellissimo saggio sul canto del merlo:
La musica “ornitologica” di Messiaen, che appartiene
ai capolavori della musica novecentesca, e che certo
non può essere abbattuta con i luoghi comuni
dell’antidescrittivismo e della critica dell’imitazione,
tanto è ricco il mondo poetico–musicale che la
sostiene, tuttavia ha la sua premessa proprio in un
ascolto estremamente teso a cogliere ogni dettaglio,
dimostrando un udito “microscopico” in un’epoca
del tutto priva degli ausili strumentali di cui oggi
possiamo disporre” (Giovanni Piana, Il canto del
merlo).
Sempre in Piana:
Il rigogolo canta così:
Mondo animato e mondo inanimato convivono lì
in una contiguità vera, se ne percepisce il mestiere
notturno. Una considerazione. Se in Chopin o in
Schumann, il notturno è una fantasia romantica,
colorata d’adombramenti serotini, di puri e
adamantini ripiegamenti dell’anima, il notturno
di Bartòk è il limite del disumano, è il prototipo
E Messiaen (Catalogue des Oiseaux, Le Loriot) lo
riprende quasi calligraficamente e nello stesso tempo
lo reinventa con uno strumento come il pianoforte
che sembra particolarmente inadatto per rendere il
canto degli uccelli:
***
Riprendendo la frase di Klee che si è citata all’inizio:
l’artista “si occupa di microscopia, di storia, di
paleontologia”. Vox Balenae di George Crumb
(1971) è una fantasia paleontologica. I sei movimenti
che costituiscono la parte centrale - Archeozoic,
Proterozoic, Paleozoic, Mesozoic, Cenozoic rappresentano forse l’unico esempio in cui musica e
paleontologia si trovano faccia a faccia.
***
Si parlava di alchimisti. Il compositore elettronico,
singolare ed antica figura di tecnico, analista, artista,
può a suo piacimento squarciare le trame di un
suono, andarci dentro, prenderne una molecola,
una componente, e ricombinarla con altre. Fare,
come si dice, una sintesi additiva. Giovanni Piana
parla di ri-sintesi, per descrivere un procedimento in
cui da un materiale registrato di partenza possiamo,
artificialmente, produrre una sorta di controimmagine interamente sintetica del campione
originale. La risintesi permette di soffermarsi sia su
interventi di trasformazione e deformazione del
suono, sia sul gioco delle possibilità compositivocombinatorie che si possono liberamente inventare.
Il compositore elettronico ha guadagnato, se possiamo
dire così, una posizione nei confronti di Klee, di Bartòk
e di Messiaen: ha registrato e fotografato il suono della
notte, ha trasformato la macchina per cinguettare in
uno strumento che produce tutti i suoni possibili.
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Il 16 marzo 1941 al
Quintetto con pianoforte di Dmitri
Shostakovich viene assegnato il
Premio Stalin. Come intendere
quella decisione? Una riabilitazione,
un rinnovato consenso del regime
sovietico a un artista che, pochi anni
prima, aveva saputo - e dovuto! - fare
“autocritica”? Il riconoscimento del
suo genio?
XI international Festival
Kiev Summer Music Evening
Venerdì 11 lug 2008, 22.00
maryinsky park, kiev
un artista del popolo ?
di Sandro Cappelletto
“Mi sento molto male. La mia nevrastenia si è
seriamente aggravata... Ho suonato il Quintetto
troppe volte di seguito, e ciò ha portato una
qualche abitudine. E l’abitudine è il nemico della
creatività e della qualità di esecuzione”, scrive il
compositore all’inizio del 1941.
La Germania ha invaso l’URSS, per Shostakovich
e la sua famiglia inizia un lungo periodo di
spostamenti, trasferimenti, nuove angosce,
private e politiche.
La musica da camera diventa il rifugio segreto,
il luogo creativo più intimo, sottratto ad ogni
tentazione, ad ogni obbligo di comporre musica
celebrativa, ufficiale. Ad ogni tradimento.
Nel Trio per pianoforte, eseguito per la prima
volta a Leningrado il 14 novembre 1944, iniziato
a Mosca, quando suo allievo al Conservatorio
era il giovane Mstislav Rostropovic, il maestro
utilizza temi ebraici, dopo che era stato
informato delle atrocità commesse dai nazisti nei
campi di concentramento dell’Europa dell’Est,
in particolare nel Lager di Treblinka.
Concerto - Racconto
“Un artista del popolo ?”
di Sandro Cappelletto
Produzione Diabolus in musica
Musiche di D. Shostakovich
Nel Trio, una danza macabra è seguita da
un’elegia. L’orrore e il compianto, il suo urlo e la
sua commozione.
“Dalle sei del mattino alle diciotto di sera sono
privo di due servizi fondamentali: luce e acqua.
Le lampade al cherosene fanno poca luce. La
mia vista non è buona. Alla luce del cherosene
non posso scrivere. L’oscurità mi logora i nervi...
Insomma, me la passo male. Ma alle sei del
pomeriggio si accende la luce e quando si avvicina
quel momento di felicità i miei nervi si eccitano
a tal punto che non riesco a calmarmi”.
La musica, la sua salvezza; più tenace di ogni
privazione, di ogni imposizione, di ogni terrore.
Sandro Cappelletto è critico musicale,
giornalista e drammaturgo.
Collabora con La Stampa, Le Monde e
Rai Radio 3
«Pravda», 29 Gennaio 1936
Caos anzichè musica
Con l’evoluzione generale della cultura nel nostro paese
è cresciuta anche la necessità di una buona musica. Mai in alcun
momento e in alcun luogo il compositore ha avuto un pubblico
maggiormente in grado di apprezzarne l’opera. La gente si aspetta
buone canzoni, così come lavori strumentali e opere di qualità.
Alcuni teatri stanno presentando al pubblico sovietico,
culturalmente più maturo, l’opera di Shostakovich “Lady
MacBeth di Mtsensk” come un’innovazione e una conquista. La
critica musicale, sempre pronta ad assolvere un ruolo, ha elogiato
al massimo quest’opera, riservandole grandi onori. Il giovane
compositore, invece di ascoltare le critiche serie, che avrebbero
potuto aiutarlo nelle composizioni future, ascolta solamente i
complimenti entusiastici.
Fin dal primo momento, l’ascoltatore è scosso da una
dissonanza deliberata, da un flusso confuso di suoni. I frammenti di
melodia, gli inizi di una frase musicale sono soffocati, riemergono,
per poi scomparire in un frastuono stridente e acuto. E’ alquanto
difficile seguire questa ‘musica’, e ricordarla è impossibile.
E si procede così per l’intera opera. Al canto, sul
palcoscenico, si sostituiscono le grida. Se al compositore succede
di inoltrarsi lungo il sentiero di una melodia semplice e chiara,
immediatamente ritorna nel deserto di un caos musicale, in
spazi cacofonici. L’espressività che l’ascoltatore si aspetta è
soppiantata da un ritmo incontrollato. Dobbiamo presumere che
qui la passione sia espressa dal rumore. Tutto ciò non è dovuto alla
mancanza di talento, o alla mancanza di capacità nel rappresentare
nella musica emozioni forti e semplici. Qui è la musica che viene
deliberatamente stravolta perché non vi sia nulla che ricordi l’opera
classica, o che abbia qualcosa in comune con la musica sinfonica
o con il linguaggio musicale semplice e popolare accessibile a
tutti. Questa musica pone le sue basi sul rifiuto stesso dell’opera
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- nello stesso modo in cui l’Arte “di Sinistra” respinge del teatro
la sua semplicità, il realismo, la chiarezza dell’immagine, la
semplice parola detta - e questo apporta al teatro come alla musica
le caratteristiche maggiormente negative del “Meyerholdismo”,
moltiplicate all’infinito. Qui troviamo la confusione “di sinistra”
al posto della naturale musica umana. Il potere della buona musica
di contagiare le masse è stato sacrificato al tentativo ‘formalista’
piccolo-borghese di creare originalità tramite pagliacciate a buon
mercato. E’ un gioco di furba ingenuità dai possibili esiti negativi.
Il pericolo proveniente da questa tendenza è evidente. Il
fraintendimento di sinistra nell’opera deriva dalla medesima fonte
da cui deriva lo stesso fraintendimento di sinistra nella pittura,
nella poesia, nell’insegnamento e nelle scienze. Le ‘innovazioni’
piccolo-borghesi portano ad una frattura con l’autenticità dell’arte,
della scienza, della letteratura.
Il compositore di Lady MacBeth si è visto costretto a
prendere in prestito dal jazz la sua musica nervosa, convulsiva e
spasmodica al fine di ‘prestare’ passione ai suoi personaggi. Mentre
i nostri critici, inclusi quelli musicali, prestano giuramento in nome
del realismo socialista, il palcoscenico ci offre, nella creazione di
Shostakovich, il genere più volgare di naturalismo. Egli mostra
i mercanti e la gente comune in modo monotono e brutale. La
bottegaia rapace, che lotta sino ad uccidere per possedere ricchezze,
è dipinta come una ‘vittima’ della società borghese. Si è dato alla
storia di Leskov un significato che in realtà non possiede.
Tutto ciò è rozzo, primitivo e volgare. La musica
schiamazza, grugnisce, ringhia, e si reprime per esprimere le scene
d’amore nel modo più naturalistico possibile. E per tutta l’opera
l’amore è insudiciato nel modo più volgare. Il letto matrimoniale
del mercante occupa sul palcoscenico la posizione centrale. Sopra
questo letto tutti i ‘problemi’ sono risolti. Con lo stesso volgare
stile naturalistico si rappresentano la scena della morte per
avvelenamento e la scena della bastonatura – entrambe portate sul
palcoscenico in modo diretto.
Il compositore evidentemente non ha mai preso in
considerazione il problema di cosa il pubblico sovietico cerchi e
si aspetti dalla musica. Quasi in modo deliberato, scribacchia la
sua musica, confondendone i suoni a tal punto da farla arrivare
solamente a ‘formalisti’ fiaccati, ormai privi di un sano gusto. Ha
ignorato la richiesta della cultura sovietica per cui ogni volgarità
e brutalità sia abolita da qualunque ambito della sua vita. Alcuni
critici definiscono satira la glorificazione della concupiscenza dei
mercanti. Ma qui non vi è nulla di satirico. Il compositore ha cercato,
con tutti i mezzi musicali e drammatici a sua disposizione, di
risvegliare la comprensione degli spettatori per il comportamento e
le inclinazioni volgari e rozze della bottegaia Katerina Ismailova.
“Lady MacBeth di Mtsensk” sta riscuotendo un grande
successo all’estero da parte del pubblico borghese. Non è forse
perché l’opera è apolitica e sviante? Non si spiega forse dal fatto
che essa solletica con la sua musica nevrotica e irrequieta il gusto
perverso dei borghesi?
I nostri teatri hanno speso grandi energie nell’offrire
all’opera di Shostakovich un’accurata presentazione. Gli attori
hanno dimostrato un talento straordinario nel dominare il
rumore, le urla e il frastuono dell’orchestra. Hanno cercato, con
una recitazione drammatica, di dare forza al debole contenuto
melodico. Purtroppo, questo non è servito che ad esaltare ancora di
più le caratteristiche volgari dell’opera. Il talento della recitazione
merita la gratitudine, lo spreco degli sforzi, il rammarico.
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16 березня 1941 року фортепіанному
квінтету Дмитра Шостаковича була
присуджена Сталінська премія. Як
розуміти це рішення? Реабілітація?
Схвалення артиста радянським
режимом? Визнання свого генія?
Дмитро Шостакович.
Літня естрада Центрального парку
культури і відпочинку, Київ
п’ятниця, 11 липня 2008 року,
«Народний артист?»
Творчий проект Сандро
Каппеллетто присвячений
творчості Дмитра Шостаковича.
Даний проект здійснено при
співпраці фестивалів «Diabolus
in Musica» (Італія, Мантуя) та
«Київські літні музучні вечори»
(Україна, Київ).
Народний артист?
Сандро Каппеллетто
«Я відчуваю себе дуже погано. А якщо це
загострення моєї неврастенії? Я виконував
квінтет дуже багато разів підряд, що стало майже
звичкою творчого супротивника і виконавця», писав композитор на початку 1941 року.
Німеччина вторглася у СРСР. Для Шостаковича
та його сім’ї почався тривалий період переїздів,
усе нових і нових тривог.
Камерна музика стала для композитора чимось
на зразок таємного затишку, вмістилищем більш
глибокої, інтимної творчості, втечею від спокус
писати офіціальну хвалебну музику.
Фортепіанне тріо вперше виконувалось
у Ленінграді 14 листопада 1944 року,
коли його учнем в консерваторії був
юнак
Мстислав
Ростропович.
Маестро
використовував єврейські теми після того,
як був поінформований про жорстокість
нацистів у концтаборах Східної Європи,
особливо в таборі Треблінка. У тріо моторошний
танець йде за елегією – страх і співчуття, крики
і потрясіння.
Шостакович писав: «Від 6 ранку до 6 вечора я
був позбавлений лише двох основних послуг:
світла і води. Керосинові лампи давали мало
світла, мій зір не був хорошим. При світлі
керосинки я не міг писати. Сутінь нищила мої
нерви. В результаті пересувався я погано. Але
з 6 вечора загорілося світло і наближалася та
щаслива мить, коли мої нерви збуджувались до
тієї точки, коли заспокоїтись було марно».
Музика була єдиним його спасінням, сильнішим
за будь-які нестатки, будь-який диктат, будьякий терор.
«Правда», 28 января 1936
Сумбур вместо музыки
Вместе с общим культурным ростом в нашей
стране выросла и потребность в хорошей музыке. Никогда и
нигде композиторы не имели перед собой такой благодарной
аудитории. Народные массы ждут хороших песен, но также и
хороших инструментальных произведений, хороших опер.
Некоторые театры как новинку, как достижение
преподносят новой, выросшей культурно советской публике
оперу Шостаковича «Леди Макбет Мценского уезда».
Услужливая музыкальная критика превозносит до небес
оперу, создает ей громкую славу. Молодой композитор вместо
деловой и серьезной критики, которая могла бы помочь ему
в дальнейшей работе, выслушивает только восторженные
комплименты.
Слушателя с первой же минуты ошарашивает в
опере нарочито нестройный, сумбурный поток звуков. Обрывки
мелодии, зачатки музыкальной фразы тонут, вырываются,
снова исчезают в грохоте, скрежете и визге. Следить за этой
«музыкой» трудно, запомнить ее невозможно.
Так в течение почти всей оперы. На сцене
пение заменено криком. Если композитору случается
попасть на дорожку простой и понятной мелодии, то он
немедленно, словно испугавшись такой беды, бросается в
дебри музыкального сумбура, местами превращающегося в
какофонию. Выразительность, которой требует слушатель,
заменена бешеным ритмом. Музыкальный шум должен
выразить страсть.
Это все не от бездарности композитора, не от его
неумения в музыке выразить простые и сильные чувства. Это
музыка, умышленно сделанная «шиворот-навыворот», — так,
чтобы ничего не напоминало классическую оперную музыку,
ничего не было общего с симфоническими звучаниями, с
простой, общедоступной музыкальной речью. Это музыка,
которая построена по тому же принципу отрицания оперы,
по какому левацкое искусство вообще отрицает в театре
простоту, реализм, понятность образа, естественное звучание
слова. Это — перенесение в оперу, в музыку наиболее
отрицательных черт «мейерхольдовщины» в умноженном
виде. Это левацкий сумбур вместо естественной, человеческой
музыки. Способность хорошей музыки захватывать массы
приносится в жертву мелкобуржуазным формалистическим
потугам, претензиям создать оригинальность приемами
дешевых оригинальничаний. Это игра в заумные вещи, которая
может кончиться очень плохо.
Опасность такого направления в советской музыке
ясна. Левацкое уродство в опере растет из того же источника,
что и левацкое уродство в живописи, в поэзии, в педагогике,
в науке. Мелкобуржуазное «новаторство» ведет к отрыву
от подлинного искусства, от подлинной науки, от подлинной
литературы.
Автору «Леди Макбет Мценского уезда»
пришлось заимствовать у джаза его нервозную, судорожную,
припадочную музыку, чтобы придать «страсть» своим героям.
В то время, как наша критика — в том числе и
музыкальная — клянется именем социалистического реализма,
сцена преподносит нам в творении Шостаковича грубейший
натурализм. Однотонно, в зверином обличии представлены
все — и купцы и народ. Хищница-купчиха, дорвавшаяся путем
убийств к богатству и власти, представлена в виде какой-то
«жертвы» буржуазного общества. Бытовой повести Лескова
навязан смысл, какого в ней нет.
И все это грубо, примитивно, вульгарно. Музыка
крякает, ухает, пыхтит, задыхается, чтобы как можно
натуральнее изобразить любовные сцены. И «любовь»
размазана во всей опере в самой вульгарной форме.
Купеческая двуспальная кровать занимает центральное
место в оформлении. На ней разрешаются все «проблемы». В
таком же грубо-натуралистическом стиле показана смерть от
отравления, сечение почти на самой сцене.
Композитор, видимо, не поставил перед собой задачи
прислушаться к тому, чего ждет, чего ищет в музыке советская
аудитория. Он словно нарочно зашифровал свою музыку,
перепутал все звучания в ней так, чтобы дошла его музыка
только до потерявших здоровый вкус эстетов-формалистов.
Он прошел мимо требований советской культуры изгнать
грубость и дикость из всех углов советского быта. Это
воспевание купеческой похотливости некоторые критики
называют сатирой. Ни о какой сатире здесь и речи не может
быть. Всеми средствами и музыкальной и драматической
выразительности автор старается привлечь симпатии публики
к грубым и вульгарным стремлениям и поступкам купчихи
Катерины Измайловой.
«Леди Макбет» имеет успех у буржуазной публики
за границей. Не потому ли похваливает ее буржуазная
публика, что опера эта сумбурна и абсолютно аполитична? Не
потому ли, что она щекочет извращенные вкусы буржуазной
аудитории своей дергающейся, крикливой, неврастенической
музыкой?
Наши театры приложили немало труда, чтобы
тщательно поставить оперу Шостаковича. Актеры обнаружили
значительный талант в преодолении шума, крика и скрежета
оркестра. Драматической игрой они старались возместить
мелодийное убожество оперы. К сожалению, от этого еще ярче
выступили ее грубо-натуралистические черты. Талантливая
игра заслуживает признательности, затраченные усилия —
сожаления.
Dmitrii Dmitriyevich Shostakovich (nel suo 60° compleanno)
di Maria Yudina
Maria Yudina, pianista russa, è stata tra le interpreti più
significative delle musiche di D. Shostakovich.
Il valore, l’importanza, e la misura di Dmitrii
Dmitriyevich Shostakovich come artista creativo non
conoscono confini, pur tuttavia egli è innanzitutto un uomo e
un compositore profondamente russo. E’ del tutto possibile che
questa consapevolezza dell’avere numerosi attributi, che sono
il cuore della cultura e tradizione russe e che lo avvicinano a
Andrei Rublev, Pushkin, Dostoevsky e Lenin, ci aiuti a capire la
sua arte e la sua vita.
Esistono, tuttavia, altri legami non deducibili.
Le composizioni di Dmitrii Dmitriyevich Shostakovich
si elevano davanti a noi come radiose vette di montagna, e ci
richiamano alla mente l’arte shakespeariana. Fortunatamente,
Dmitrii Dmitriyevich è ora all’apice del suo genio e del suo
enorme potere creativo; e noi, suoi grati contemporanei, ci
rallegriamo con lui per il suo compleanno, e per la guarigione
da una malattia recente che gli ha colpito il cuore, un cuore
che ha spazio per tutti noi; e noi preghiamo e speriamo che
sia ancora presto per fare un compendio della sua arte. La
speranza di essere testimoni della nascita e realizzazione di
molte opere da parte di questo famoso compositore ci riempie
di felicità.
Se proseguiamo nell’analogia con Shakespeare,
associamo l’arte di Shostakovich ad immagini abissali,
sommovimenti del terreno, rapide, che consumano nella loro
corsa inesorabile l’uomo e la natura, come in “Lady Macbeth
di Mtzensk”, o nel dolore insopportabile della Decima
Sinfonia, accanto alle vette quasi irraggiungibili della maggior
parte delle sue sinfonie, dei quartetti, dei preludi e fuga, la
seconda sonata per solo pianoforte, il ciclo vocale sulle poesie
di Pushkin.
Facendo risuonare le ultime parole di Alexander
Blok: “Impara attraverso la sofferenza!” - dal suo “ ‘King
Lear’ di Shakespeare, discorso agli attori “ (Petrograd, 1920),
inevitabilmente richiamiamo l’antica saggezza, quando
percepiamo che la scossa emotiva vissuta nello spirito è una
sorta di dono della sua musica tragica. Ci trascina nella vastità
degli accadimenti storici: la Settima, l’Ottava e la Tredicesima
Sinfonia, i corali, dedicati agli eventi del 1905, il Trio per
Pianoforte, Violino e Violoncello. Il realismo narrativo senza
precedenti di queste due composizioni, trasformate e portate
a un livello mai sentito, supera a volte in potenza e verità
accecante le cronache di Shakespeare come quelle di Pushkin
e il “Boris Godunov” di Mussorgsky. Dovremmo aggiungere
che Shostakovich non si sforza di ottenere l’equilibrio di
un’epopea, ma ci coinvolge direttamente nelle catastrofi dei
tempi moderni.
Tuttavia, si conoscono anche esempi di incomparabile
umorismo, vivacità di ingegno, inesauribile creatività, come
nel “Il Naso“ (basata su un’opera di Gogol’), nei cicli vocali
su testi inglesi e sui poemi di Sasha Chernyi; scintille di
questo umorismo si sprigionano in tutte le sue composizioni,
polverizzando qualsiasi traccia di indolenza spirituale.
transatlantico8
Shostakovich e Pushkin sono geni della Russia
europea. Il compositore denuncia i peccati dell’uomo e
dell’umanità, come Dostoevsky e Mahler, scoppiando in
lacrime di compassione, come Shakespeare; egli avvolge tutto
e tutti. Eppure, sotto molti importanti aspetti, la sua arte ha
legami con Mozart e Schubert. E’ giusto ricordare al lettore che
ogni relazione o analogia con altri autori deve essere intesa
solo come un confronto tra atmosfere spirituali affini; Dmitrii
Dmitriyevich Shostakovich è sempre sé stesso, non “prende mai
in prestito”, è traboccante dei suoi stessi tesori, che lui da solo
porta in essere, ma per quanto geniale sia un creatore, egli non
vive sempre in un vuoto interplanetario, piuttosto nella storia
dell’uomo e dell’umanità! Shostakovich ha un linguaggio
preciso, un proprio pensiero implicito, formule proprie di ritmo
e di tonalità, segni, simboli e immagini.
Riprendiamo alcune analogie: Mozart e Schubert. Che
cosa sono? Oh, sono nell’intero mondo, magnifico, luminoso e
trasparente, di Shostakovich. Questi “finali illuminati “ - finali
di molte delle sue composizioni, le code nei finali, “le ultime
parole di un morente”, o le parole di un servizio funebre, la
conclusione dei finali, l’incontro dell’uomo con l’Eternità, per
la quale i Cristiani pregano per l’intera vita, “termine ultimo di
pace, assenza di dolore e vergogna “...
Non chiederemo all’autore se questa fosse la sua linea di
pensiero, che rappresenta il suo segreto e intimo mistero. Ciò che
importa è la presenza di uno spirito angelico nelle pagine delle
sue composizioni, e l’influenza di questa musica sugli ascoltatori.
In queste ultime parole dell’autore, quando
sopraggiunge il sollievo alla fine del percorso intrapreso da
lui stesso e dall’ascoltatore, il dolore si placa, giungono pace
e tranquillità, brilla la purificazione dell’uomo, a volte persino
un sorriso, o la sua trasformazione in un’essenza diversa, che
non sempre è accessibile alla nostra comprensione; questa è,
certamente, Trasfigurazione! Permetteteci di utilizzare le parole
di Vladimir Solovyev: “Il Male passato \ Annega nel sangue \
Si innalza trasformato \ Sole dell’Amore”, o di Boris Pasternak:
“La mano dell’artista è la più potente \ E lava il sudicio da ogni
cosa” (“Dopo un temporale”).
Di conseguenza, concedendoci di commentare
alcuni finali di Shostakovich, ora ne affronteremo alcuni,
quelli che ci sembrano più significativi a questo proposito: il
finale della Sonata per Violoncello, il finale del Quintetto con
Pianoforte, il finale della Tredicesima Sinfonia (non parleremo
del finale dell’Ottava Sinfonia - questa si distingue per
argomento ed essenza). Il finale della sonata per violoncello
ricorda vagamente una canzone popolare. E’ canticchiata a
bocca chiusa da un personaggio leggermente brillo che in
qualche modo richiama i protagonisti di Gor’ky, Hemingway,
Andrei Platonov - un operaio ingenuo, che ha il proprio posto,
necessario e irriducibile nella vita, con un ruolo lievemente
filosofico, che ha attraversato grandi e piccoli guai a modo suo,
che è ora in pace sia con il proprio passato che con l’oscuro
futuro...
Il finale del quintetto è di gran lunga più complesso: dopo le
prime esplosioni di felicità e l’inquietante asprezza del suo
culmine che visualizza il sentiero percorso con le sue avversità
- che riassumono l’eccezionale e significativa profondità e
diversità dei quattro movimenti precedenti; l’inizio Gotico,
spigoloso del preludio e a seguire il suo carattere elegiaco
e pensoso, la grandiosità della fuga e dell’intermezzo che
meditano sul significato della cultura medievale, si fondono
con essa, le vanno incontro, per poi realizzarsi nella modernità.
Dopo tutto ciò, tutte queste contraddizioni scompaiono nella
coda: l’uccellino cinguetta gioiosamente, con leggerezza e
felicità. Non è forse simile alla famosa e misteriosa gazza di
Peter Bruegel il Vecchio presente presso le rovine carbonizzate
tra quel che resta dopo l’ultima totale distruzione? No, l’uccello
del Quintetto è più gentile e più saggio. E’ gioioso con tutti
noi; la gazza di Breugel è “natura senza emozione”, enuncia
solo i fatti, è del tutto ignara. L’intera composizione insiste
sulla luce trasparente della gentilezza. La coda del finale della
Tredicesima Sinfonia fa da corona a queste idee, combinate
all’incredibile ed incomprensibile bellezza delle sue formule
ritmiche e tonali.
Se passiamo ora ad alcuni dei movimenti lenti
presenti nelle composizioni da camera di Shostakovich, cosa ci
troveremo? Nel Largo della sonata per violoncello, come nella
fuga del Quintetto, troviamo l’artista e l’Eternità che dialogano.
Questa musica riordina il mondo interiore dell’ascoltatore (e di
qui la sua vita e le sue azioni), allo stesso modo dell’arte russa,
dei tesori della pittura delle icone, della cultura corale della
musica religiosa, di Bach nelle “Passioni”...
Un breve commento: una volta ho scritto a Dmitrii
Dmitriyevich a riguardo della coda della fuga: “Lei non sa cosa
ha scritto. Ciò succede agli artisti geniali... Questa è la ‘Pietà’
di Michelangelo. Persino nelle sue formule ritmiche ...”
Ci siamo avvicinati ora al punto decisivo: il
sentimento dell’amore e il cuore umano. Ci sono molti scritti
sull’umanesimo, che tuttavia presentano parecchi errori, come
le sue radici rinascimentali (non possiamo ora dilungarci su una
analisi storica che non è in relazione diretta in questo articolo
con l’arte e la vita di Dmitrii Dmitriyevich). Questa teoria e le
fonti da cui è tratta sono astratte e fredde. E noi, popolo di
cultura russa, non abbiamo né la capacità né la volontà di
creare nell’insensibile indifferenza. L’immagine esterna della
vita di Dmitrii Dmitriyevich circola nei viaggi, congressi e
premières, nella sua cura per i compositori minori, nel battito
del suo cuore appassionato. Egli porta nel suo cuore e nel suo
intelletto un’immagine unificata di tutto il genere umano e
l’unicità di ciascun essere umano, e quella di un genio; nella
sua arte egli affronta l’Eternità. Porta in sé tutta la complessità
dell’uomo e dell’artista moderni.
(Da Moskovskii Komsomolets, Quotidiano Popolare
del Partito della Gioventù, 1966 )
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L’iPOD
Il libro
È il 1957 quando Roland Barthes pubblica
Miti d’oggi, il catalogo filosofico della cultura
popolare e delle manie borghesi, smitizzate
attraverso l’analisi dei suoi stessi simboli.
Barthes fornisce lo strumento, gli oggetti
d’indagine invece cambiano e si aggiornano:
alla Citroën si sostituiscono la Smart e il Suv,
Greta Garbo cede il posto a Kate Moss, le
patate fritte al sushi.
Il compito di riscrivere il catalogo dei prodotti,
dei marchi e dei feticci della contemporaneità
è affidato a cinquantasette intellettuali francesi
che, con un tono lieve ma a tratti anche critico,
spiegano come dietro la seduzione delle merci
e la retorica del linguaggio della cultura di
massa si nascondono oggetti culturali in grado
di svelarci il senso, o forse il non-senso, di un
sistema sempre meno antropocentrico.
L’autore
Jérôme Garcin (Parigi, 1956) giornalista e
scrittore. È condirettore della rivista Nouvel
Observateur e produttore della trasmissione
tv Le Masque et la Plume.
Isbn Edizioni
di Angie David
Ambivalente e assai seducente, l’iPod esprime una funzione sociale tipica della
nostra epoca: gli adolescenti che lo portano sempre con sé, per strada, sull’autobus e
persino a scuola, esprimono in tal modo il loro rifiuto del contesto esterno. Rifiutano di
confrontarsi con il rumore del mondo, e preferiscono un accompagnamento musicale per
i loro movimenti quotidiani – camminare e sognare. La sensibilità fisica è accresciuta da
questo ripiegamento su se stessi e non ci si annoia mai: è come vivere in una commedia
musicale. Niente di ciò che è intorno lo può toccare o aggredire; l’utente dell’iPod è dentro
una bolla, perso nei suoi pensieri. A volte ha persino l’impressione di volare, il movimento
si accelera, la testa si erge e il tempo della passeggiata si confonde con quello dei brani
musicali. Cammina a passo cadenzato. La città diventa uno scenario da film, di cui i passanti
sono le comparse. L’iPod possiede due essenziali caratteristiche della contemporaneità: la
rapidità e la facilità. Un’altra modalità di relazione – di comunicazione – è allora possibile:
su internet, la musica si scambia grazie al peer to peer. Ciascuno mette online la propria
discografia, e costruisce in tal modo la propria identità culturale. Siamo quel che ascoltiamo.
Le relazioni nascono a partire da gusti comuni e specifici: gli adepti del garage rock
degli anni sessanta (soprattutto tra il 1965 e il 1967) si incontrano, i fan della mutant
disco del 1977 si connettono ai blog musicali per pescarvi veri e propri tesori, così come
i puristi della house affermatasi a Chicago a partire dalla fine degli anni ottanta. A parte
internet, esistono altre forme di sociabilità diretta – più tangibile – dell’iPod. Come tanti
dj, i partecipanti a una festa accendono i loro lettori mp3 per far ascoltare una play list:
una selezione personale di brani musicali. Con un’estremità della cuffia stretta tra guancia
e spalla, e tenendo d’occhio il mixer, guardano gli altri ballare, reagire.
Il legame sociale nasce dalla selezione, in modo autistico. Si scelgono gli
interlocutori in base a criteri ben precisi: la comunità non è più universale, ma settoriale.
L’appartenenza a un gruppo è determinata dalla cultura dei segni: dietro la nuca, sono visibili
solo due fili bianchi. Immagine pubblicitaria, in cui si vedono danzare solo delle sagome
nere, irriconoscibili, su sfondi dai colori sgargianti: in sovraimpressione appare solo l’iPod.
Segno distintivo della marca high-tech Apple: il bianco è il suo colore di riferimento. Puro e
liscio, l’iPod è un’invenzione che cancella ogni traccia del lavoro tecnico, umano. La nuova
natura vieta tuttavia di prestarvi attenzione, di proteggerlo per mezzo di un astuccio (fosse
pure firmato Vuitton): la sua origine non deve apparire. Dev’essere patinato, a significare
il suo uso, il suo consumo. Non è un oggetto prezioso, ma qualcosa di indispensabile. La
sua composizione è eteroclita: oltre a immettervi una collezione personale di dischi, vi si
possono scaricare (da iTunes per i legalisti) canzoni in quantità. Soprattutto le hit – unico
pezzo interessante di certi dischi – il più kitsch possibile. Non si parla proprio di acquistare
l’ultimo Ep di Justin Timberlake, ma scaricare Sexy Back è irresistibile. L’iPod è un oggetto
sacro – mitologico – anche se il suo contenuto è profano – assieme al mio computer,
rappresenta l’oggetto che amo di più. Passo ore intere a riempirlo: appena 1973 brani fino
a oggi, ovvero 7 giga su una capacità totale di 30 giga. Scendo in strada, e mi accorgo di
averlo dimenticato a casa. Risalgo le scale a tutta velocità. Passare una giornata senza il
mio iPod è inconcepibile, ormai. Spostarsi con la propria musica, poterla condividere senza
limitarsi a pochi amici costretti a venire da voi per scoprirla. L’iPod vi costringe a rivelare le
vostre musiche più preziose, le più rare. Un’altra ambivalenza di un oggetto che è l’ideale
per gli introversi, ma per introversi desiderosi di condividere il loro sapere. Collezionare
musica è un gesto regale: il segno di una cultura vasta e acuta.
Angie David, nasce nel 1978. Lavora nella redazione della rivista letteraria La Revue
Littéraire. Nel 2006 ha pubblicato il suo primo libro, una biografia della scrittrice francese
Dominique Aury.
transatlantico10
musica
practica
di Roland Barthes
Ci sono due tipi di musica
(così almeno ho sempre pensato):
quella che si ascolta, quella che si suona.
Queste due musiche sono arti completamente
diverse, e ciascuna di esse possiede, a titolo individuale,
una storia, una sociologia, un’estetica e un’erotica:
uno stesso autore può sembrare minore se lo si
ascolta, grandissimo se lo si suona (anche male): così
Schumann.
La musica che si suona è costituita da un’attività
non tanto uditiva quanto manuale (dunque, in un
certo senso molto più sensuale); è la musica che voi
o io possiamo suonare, soli o tra amici, senza nessun
pubblico se non i presenti (senza alcun rischio cioè
di teatralità o di isterismi). É una musica muscolare;
l’udito vi contribuisce solo in parte: è come se fosse il
corpo ad ascoltare - e non “l’anima”-; questa musica
non si suona “a memoria”; seduti al pianoforte o
davanti allo spartito, il corpo comanda, conduce,
coordina, trascrive egli stesso ciò che legge: fabbrica
suono e senso: è scrittore, e non ricettore, fruitore.
Tale musica non esiste più; legata in un primo tempo
alla classe oziosa (aristocratica), con l’avvento della
borghesia democratica è decaduta a rito mondano
(il piano, la fanciulla, il salotto, il notturno); poi è
scomparsa (chi suona il piano oggi?). La musica
pratica va cercata, in Occidente, in un altro pubblico,
in un altro repertorio, in un altro strumento (i giovani,
la canzonetta, la chitarra). Parallelamente, la musica
passiva, ricettiva, la musica sonora è diventata la
musica (quella del concerto, del festival, del disco,
della radio). Non si suona più; l’attività musicale
non è più manuale, muscolare, impastatrice, bensì
solo liquida, effusiva, “lubrificante” per usare un
termine di Balzac. Anche l’esecutore è cambiato. Il
dilettante, ruolo definito più da uno stile che non da
un’imperfezione tecnica, non si trova più da nessuna
parte; i professionisti, specialisti puri la cui formazione
è del tutto esoterica per il pubblico (chi conosce
ancora i problemi della psicologia musicale?), non
presentano più quello stile del dilettante perfetto il
cui valore poteva ancora essere riconosciuto in un
Lipatti, in un Panzéra, perchè suscitava in noi non
tanto la soddisfazione, quanto il desiderio, quello di
fare quella musica. Insomma, prima c’è stato l’attore
della musica, poi l’interprete (grande voce romantica),
infine il tecnico, che impedisce all’ascoltatore qualsiasi
attività anche per procura, e abolisce nell’ordine della
musica il pensiero stesso del fare.
L’opera di Beethoven mi sembrava legata
a questa problematica storica, non in quanto
semplice espressione di un momento (il passaggio
dal dilettante all’interprete), ma in quanto genere
potente di un disagio della civiltà di cui Beethoven ha
riunito gli elementi e nello stesso tempo tratteggiato
la soluzione. Questa ambiguità va riferita ai due ruoli
storici di Beethoven: il ruolo mitico che ha fatto di lui
il rappresentante di un intero secolo - il XIX - e quello
moderno, che il nostro secolo inizia a riconoscergli
(mi riferisco qui allo studio di Bukurechliev).
Per il XIX secolo, ad eccezione di alcune
immagini sciocche, come quella di Vincent d’Indy
che fa di Beethoven una specie di bigotto reazionario
e antisemita, Beethoven è stato il primo uomo
libero della musica. Per la prima volta, si è lodato
un artista per avere avuto più maniere successive;
gli si è riconosciuto il diritto di metamorfosi; poteva
non essere soddisfatto di se stesso, oppure, più
profondamente, della sua lingua, poteva, durante la
sua esistenza, cambiare i propri codici (come appare
nell’immagine ingenua e entusiasta che Lenz ha dato
delle tre maniere di Beethoven); e in quanto l’opera
diventa la traccia di un movimento, di un itinerario,
rinvia all’idea di destino; l’artista cerca la sua “verità”
e questa ricerca diventa un’ordine in sé, un messaggio
globalmente leggibile, nonostante le variazioni del
suo contenuto; o almeno la sua leggibilità si nutre di
una specie di totalità dell’artista: la sua carriera, gli
amori, le idee, il carattere, le sue intenzioni diventano
tratti di senso.
segue sul prossimo numero.
tratto dal volume “L’ovvio e l’ottuso”
gentilmente concesso da Giulio Einaudi Editore
transatlantico11
La danza è un’arte che utilizza il corpo come principale strumento per realizzare
una comunicazione non verbale, sviluppando un linguaggio non immediato, perché lontano
dagli abituali parametri della percezione.
A differenza della musica, delle arti plastiche e visive, del teatro, la danza, almeno fino
all’avvento del video, non ha mai potuto oggettivarsi in elementi iconici o testuali persistenti,
definendosi piuttosto come arte della non durevolezza, esistente solo nel tempo del suo farsi,
del suo accadere momentaneo. Inoltre, tentare un discorso sulla danza contemporanea significa
addentrarsi in una matassa molto complessa e intricata da dipanare, in quanto con questa
espressione ci si riferisce ad esperienze molto diverse tra loro, a realtà molto lontane le une
dalle altre, tanto che è legittimo chiedersi se ogni volta che un corpo agisce nello spazio in una
maniera non utilitaristica, non immediatamente spontanea, sia possibile parlare di danza.
Così come esiste un leggere che è un intelligere, un leggere dentro, leggere con il
pensiero, interpretando, esiste anche un vedere che è un guardare.
Saper guardare la danza: questa forse è la questione, guardarla non solo considerando
gli aspetti tecnici con cui il danzatore si è formato e attraverso i quali offre il discorso
coreografico. La tecnica formalizzata e codificata è da sempre il supporto fondamentale della
danse d’école, l’elemento centrale del grande balletto accademico ottocentesco. Oggi nella
danza definita contemporanea le tecniche sono molte e diversificate, a volte sembrano persino
passare in secondo piano rispetto a ciò che, attraverso un teatro del corpo, un artista vuole
esprimere. La tecnica è finalizzata all’espressione di un discorso teatrale, sia esso astratto o
concreto, narrativo o immaginifico.
Occorre quindi addentrarsi nella densità dell’opera di ciascun autore-creatore.
Ognuno appare unico e si colloca al centro dell’attenzione per aver utilizzato il corpo, la luce, la
parola, la partitura drammaturgica, la musica in modo diverso creando e inventando un mondo,
facendo ricorso a formule estetiche talvolta riconoscibili, talvolta del tutto inaspettate.
Saper guardare la danza dunque, imparare a vedere, non limitandosi a descrivere
il teatro di movimento sulla base di modalità ortodosse e prevedibili, ma risvegliando uno
sguardo-pensiero che sappia vedere-interpretare la danza come un oggetto artistico che esprime
una visione del mondo, un punto di vista, una weltanshaung, proprio come ogni altra arte.
Non è possibile fornire qui un’analisi dettagliata, si impongono delle scelte che ci
obbligano a muoverci per cenni, tracciando a brevi pennellate qualche riflessione su alcune
figure di riferimento nel panorama attuale.
Frammenti di un discorso intorno alla danza
di Giovanna Venturini
Sasha Waltz è una delle più importanti coreografe tedesche
di danza contemporanea. La sua produzione è consistente ed
estremamente varia e dunque difficilmente definibile in modo
unitario. Il suo stile coreografico è il risultato di una miscela di
Tanztheater tipicamente tedesco, orientato verso una teatralità
e una costante ricerca di approfondimento tematico e di un
movimento legato alla New Dance americana, che non implica
necessariamente l’espressione di un significato.
In un’intervista rilasciata recentemente a proposito del modo
in cui sceglie i suoi interpreti Sasha Waltz ha dichiarato:
“Mi interessano le personalità dei danzatori, al di
là degli aspetti puramente tecnici, il loro universo
personale, il loro caratteristico linguaggio corporeo,
il loro sguardo sulle cose, l’immaginario, e ciò che
possono dare al gruppo. Desidero avere un gruppo
eterogeneo e cerco per questo qualità corporee
differenti. Cerco degli estremi, che esistono nei corpi
e anche nelle qualità di movimento. Inoltre ogni
scelta nasce sempre da qualcosa di intuitivo e le mie
decisioni avvengono in funzione del gruppo”.
Parlando poi del modo in cui nascono le coreografie ha
affermato: “Non faccio dimostrazione dei movimenti,
perché non trovo affatto appassionante trasmetterli
per imitazione. Desidero che i danzatori sviluppino
qualcosa partendo da loro stessi e mi piacciono le
differenze. Non mi interessa mettere in scena una
copia di me stessa. Indico delle direzioni, ma poi
voglio che i danzatori abbiano la sensazione che sia
una cosa loro. Mi piace condividere il mio universo e
transatlantico12
sviluppare il materiale insieme. Serve per questo un
clima di fiducia e un legame mentale molto forte e
per questo le mie collaborazioni sono durature, tanto
che negli anni abbiamo sviluppato un linguaggio
particolare, non immediatamente comprensibile per
chi è esterno al gruppo”.
In uno dei suoi ultimi lavori, Gezeiten, che letteralmente
significa marea e fa riferimento al fluire e rifluire dell’acqua,
Sasha Waltz ha indagato il tema della catastrofe, e soprattutto
come ci si rapporta all’evento eccezionale, catastrofico
appunto, cosa si scatena in un individuo, cosa comporta a
livello di relazione. In scena le pareti vacillano, si incendiano,
i danzatori costruiscono canali per l’acqua, i pavimenti
tremano, si spezzano e alla fine dalle macerie emergono figure
che sembrano mummie pre-umane. Tutto si comprende anche
quando il movimento è astratto o surreale, tutto risponde ad
un discorso drammaturgico fatto con il corpo, l’azione fisica, la
densità, la qualità di movimento dei corpi sulla scena. Si tratta
quindi di danza, ma che racconta, narra, evoca, esprime una
visione del mondo, si interroga su un tema attuale, la paura
dell’uomo di fronte alla catastrofe sia essa umana o naturale.
C’è poi un’altra realtà di cui vorrei fare breve menzione:
l’esperienza del fiammingo Wim Vandekeybus
coreografo della compagnia Ultima Vez. I suoi lavori sono
caratterizzati da una grande energia fisica ed emotiva, i corpi
esprimono potenza, vitalità, animalità e un legame a qualcosa
di selvaggio, di indomabile, fuori da ogni codice, da ogni
riferimento. In scena i danzatori corrono, si inseguono, lottano,
utilizzano oggetti, si muovono con assoluta naturalezza tanto
al suolo quanto in una dimensione sospesa e aerea. Ogni
relazione, ogni contatto, elemento centrale del suo universo
creativo, presuppone un’assoluta coscienza del peso, una
costante assunzione di responsabilità, una sfida alle possibilità
estreme dell’equilibrio e della forza di gravità. Vandekeybus
ha collaborato con musicisti, con attori, ha realizzato veri e
propri progetti cinematografici, ha utilizzato la scena come
luogo della trasformazione, terreno del rischio e della ricerca
di naturalezza e verità.
Vorrei concludere con un riferimento ad un importante Festival
che si è appena concluso a Reggio Emilia, il RED, quest’anno
interamente dedicato alla danza di Israele.
Tra i bellissimi spettacoli ospitati ho assistito all’ultimo lavoro
della coreografa Yasmeen Godder: Sudden birds. In uno
spazio interamente bianco, asettico e minimale, accompagnate
dal suono di un violoncello elettronico, quattro danzatrici
intrecciavano relazioni instabili, in continua trasformazione,
in un’atmosfera di grande tensione. Sembrava di assistere
all’esplorazione di una gamma vastissima di stati mentali ed
emotivi, che andavano dalla dolcezza alla paura, dalla rabbia
alla sopraffazione, dalla tenerezza alla docile sottomissione,
dalla volontà di supremazia alla perdita di ogni punto di
riferimento, dalla curiosità allo stupore. Lo spettatore veniva
così trasportato in un mondo, in un universo apparentemente
chiuso e intimo, ma nel quale diventava impossibile non
riconoscersi, non ritrovarsi.
Le realtà interessanti sono moltissime, ma ciascuna richiede
prima di tutto un occhio che sappia guardare, che sappia
posarsi sui corpi non solo per osservarne la bellezza, ma per
riconoscerne l’unicità, l’irripetibilità, la verità.
mantovabanca per la danza
www.eterotopie.it
transatlantico13
intervista
a mauro
bigonzetti
Mauro Bigonzetti. Coreografo principale della
Compagnia Aterballetto di cui è stato direttore
artistico per dieci anni.
di Giovanna Venturini
Mauro Bigonzetti è oggi il coreografo principale
della Compagnia Aterballetto, che rappresenta una delle
realtà più importanti, consolidate e significative della danza
contemporanea in Italia. Oltre che autore di importanti creazioni
che hanno riscosso un grande successo di pubblico e di critica,
Bigonzetti è stato anche direttore artistico della compagnia per
dieci anni, creando una realtà di altissimo livello professionale,
realizzando numerosi progetti e contribuendo notevolmente
sia a diffondere la danza contemporanea in Italia, sia a far
conoscere la danza italiana all’estero.
Bigonzetti concede un po’ del suo tempo in un momento
di pausa durante le prove, per l’allestimento dei numerosi
spettacoli che la Compagnia porterà in scena nella stagione
estiva. Lo raggiungo presso la Fonderia, dal 2004 sede della
Fondazione Nazionale della Compagnia Aterballetto e quartier
generale in cui ogni progetto, ogni spettacolo prende vita.
L’intervista acquista quasi subito la dimensione di un dialogo,
di uno scambio, interessante, informale, disteso. La prima
domanda riguarda proprio il luogo, la Fonderia, nata dal
recupero architettonico di una vera e propria fonderia degli
anni ’30, che faceva parte di un complesso industriale posto
alle porte della città di Reggio Emilia.
Quanto è importante uno spazio, questo spazio nel
processo creativo?
Il luogo è fondamentale, per l’atmosfera che vi si respira e
le suggestioni che suscita. In questo edificio si fondevano i
metalli, si creavano forme. Le cose, i corpi, erano sottoposti al
calore e alla fatica. La memoria di quel sudore e del processo
di trasformazione è rimasta. E poi ci sono vetri ovunque, che
diminuiscono la distanza tra la realtà interna ed esterna. Da
lì la luce penetra, entra, muta, si appoggia sui corpi, li rivela.
Il sole diventa un interprete. E’ un ambiente perfetto per chi
agisce sul movimento, per chi crea azioni e lavora sul corpo, che
proprio come un metallo viene forgiato e si trasforma attraverso
il lavoro, il calore.
Nel tuo lavoro, quanto la coreografia si adatta alla
personalità dei tuoi danzatori, o piuttosto un buon
interprete è tale se sa calarsi perfettamente nell’idea
coreografica?
Nel mio modo di costruire le coreografie è fondamentale lavorare
con persone che conosco, di cui so la cultura, la formazione, il
passato. Ogni corpo è un universo, è unico, e ogni danzatore
è insostituibile. Infatti, quando rimonto lavori con danzatori
differenti, l’impianto cambia necessariamente e la coreografia
si trasforma. Mi piace pensare che il processo creativo sia uno
scambio, perché l’idea coreografica nasce per quell’interprete,
che ha sue particolarissime caratteristiche, una sua sensibilità,
una personalità non solo riguardo al movimento, ma anche a
livello umano ed emotivo. L’idea coreografica è il danzatore che
la interpreta, la incarna, la fa esistere e vivere.
transatlantico14
Hai utilizzato spesso le musiche di compositori
contemporanei importanti e particolarmente
significativi, come Xenachis o Lachelman. Quale è il
tuo rapporto con la musica contemporanea?
Sento un rapporto particolare con la musica contemporanea,
un legame intimo e profondo. Richiede un udito allenato,
una particolare disponibilità ad un ascolto non facile,
non immediato. Oggi l’udito appare molto inquinato,
si vive in una dimensione continuamente sottoposta a
stimoli sonori e uditivi. La musica, in particolare la musica
contemporanea, ha bisogno di una certa condizione per
essere davvero ascoltata, perché recupera i fondamenti
stessi dell’ascolto. Il corpo traduce l’ascolto, lo trasforma,
dunque non esiste sonorità che non abbia un valore
intimo e puro, quasi primitivo. E’ a questo che la musica
contemporanea riconduce.
Nella tua carriera hai realizzato numerose
coreografie. C’è qualche lavoro al quale sei
particolarmente affezionato?
Sono legato ad ognuna delle mie creazioni, perché ciascuna
rappresenta un punto fermo della mia vita professionale.
Ogni lavoro ha un significato, perché nel momento in cui
è nato era da me sentito come necessario e fondamentale.
Inoltre, ogni spettacolo si lega sempre a qualcosa di intimo
e ha un posto importante nel mio bagaglio artistico ed
umano. Tuttavia non è sempre detto che un lavoro di grande
successo sia poi quello in cui un coreografo si riconosce
di più. Ad esempio “Cantata” ha riscosso e continua
a riscuotere ovunque un successo enorme, tuttavia io
mi sento legato forse di più a lavori come “Pression”,
“Songs” e anche “Romeo and Juliet”. Ma è sempre la
prossima creazione la più importante, la più necessaria, la
più irrinunciabile.
Pensando proprio a lavori come “Romeo and
Juliet” e “Terra”, quanto è importante nel tuo
lavoro l’aspetto luminotecnico?
La luce per me è fondamentale, fa parte del processo
creativo, è un elemento che in una creazione ha un peso
specifico molto importante, determinante. A volte per creare
un’atmosfera, un ambiente, è sufficiente una particolare
luce o anche un oggetto, come la valigia in “Terra”: un
oggetto che è allo stesso tempo reale e simbolico e quindi
fortemente evocativo. In un lavoro è rilevante ogni dettaglio.
Il teatro è un luogo in cui ancora possono accadere
magie e, certamente, la luce è uno degli strumenti nelle
mani di chi crea per rendere possibile questa magia. Uno
strumento, fondamentale, ma pur sempre uno strumento.
Mi piace pensare che la danza esista anche senza alcun
apparato scenografico, che si possa fare anche senza nulla,
solo corpi che si muovono nello spazio.
Puoi raccontare qualcosa a proposito del tuo processo
creativo, del modo in cui nasce un lavoro?
Ogni creazione nasce in un momento e viene realizzata in
un particolare momento, ad esempio quando si sente che
i danzatori sono pronti per quel progetto, che le condizioni
sono ideali per trasformare quell’idea in realtà, in qualcosa
di concreto. Per realizzare un progetto serve un’idea iniziale,
qualcosa di vago, di largo, ma percepito con urgenza, ed è
proprio questa la cosa importante: l’idea di partenza che
può essere un’immagine, una suggestione, un’atmosfera, un
ambiente. Il movimento nasce poi durante il lavoro in sala
sui corpi dei danzatori, che devono corrispondere all’idea,
devono incarnarla. Le strutture coreografiche prendono vita
dai danzatori, dai loro corpi, sui loro corpi vengono costruite,
forgiate.
Quali sono i tuoi riferimenti nel mondo della danza o
della cultura in genere?
Più che riferimenti nel mondo della danza sono molto
importanti per me altri aspetti della cultura, altri linguaggi
artistici, come la pittura, la scultura, l’incisione – che trovo
un’arte molto affascinante – e soprattutto l’architettura che
mi ha sempre appassionato molto. Nelle arti visive trovo
una ricerca estetica che anche nella danza dovrebbe essere
fondamentale. Raramente per la messa in scena delle mie
creazioni ho lavorato con scenografi, ma mi sono trovato
spesso a collaborare con artisti visivi, ed è sempre stata
un’esperienza molto stimolante.
L’intervista sta per concludersi, ma mi sento di porre un’ultima
domanda, che purtroppo va a toccare un tasto piuttosto
delicato.
Chiedo una riflessione sulla situazione della
danza in Italia. Il tono si fa più cupo, percepisco
un filo di amarezza nella voce e un certo rammarico.
Che cosa penso della situazione della danza in Italia oggi?
Preferisco non pensare e se devo pensare, penso male. So,
vedo che esistono personalità artistiche interessanti, credo
che siano presenti talenti e volontà di dare vita a progetti,
ma se tutto questo non è supportato da una cultura artistica
adeguata diventa estremamente difficile. La danza non è
percepita come un’arte, un’altissima espressione artistica, e
si galleggia in una situazione statica, per non dire terribile.
Per tutti i linguaggi artistici occorrerebbe un terreno diverso,
un’attenzione maggiore, un’educazione alla percezione.
In particolare per la danza, che da sempre è un’arte un
po’ trascurata, non tenuta nella giusta considerazione, non
misurata nel suo reale valore. Anche nei Festival importanti,
raramente alla danza è dato uno spazio di rilievo, mentre
all’estero ovunque le si attribuisce un ruolo determinante,
centrale. Questa è la situazione, ed è davvero molto triste.
Maschera. Avvicinare in poche parole la madre dell’illusione
una torrida giornata estiva, di imbattersi nello straordinario brevetto
è possibile solo guardando all’etimologia della parola, e non alle
e alchimisti di rango. Come la prospettiva, è un artificio per restituire
naturale che è la “camera oscura”. La luce che attraversa le persiane
sue ben più importanti funzioni. Latino medievale: màsca, strega;
la terza dimensione su di una dimensione piana, che tuttavia gioca
abbassate, o il foro di una porta, riproduce sul muro ciò che accade in
provenzale: masc, stregone. Questi primi significati vennero
a non dimostrar le proprie leggi, anzi, le nasconde, le mistifica
strada. Tutto però è rovesciato. Il nostro occhio funziona similmente:
declinati come: fantasma, larva, chi si camuffa per incutere paura.
assurdamente.
la serratura è la pupilla, la retina il muro. Tutto però è raddrizzato.
La locuzione araba maschara riporta ad una buffonata, una burla.
Burattino. “C’era una volta... – «Un re!» – diranno subito i
Dissolvenza. La dissolvenza da all’immagine il suo carattere
Da non sottovalutare che il nostro termine “persona” deriva dal
miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un
di liquidità. Nel 1839, Henry Langdon Childe utilizzò più lanterne
greco prosopon e dal latino persona-ae, che designano proprio
pezzo di legno”. Quale miglior incipit se non quello di Collodi per
magiche per consentire spettacolari effetti di apparizioni e di
la maschera.
descrivere un burattino. Lo stupore più grande che si prova quando
trasformazione delle vedute. Il meccanismo verrà perfezionato con
Notte. Ambiente primitivo in cui allenare l’occhio. Riconoscere
Brighella e Pantalone mimano le proprie vicende, è legato alla loro
le sofisticate lanterne doppie e triple sovrapposte, impiegate negli
le ombre e ambientarsi tra i contorni indefiniti degli oggetti,
finzione palese. Il mistero si cela nella cosiddetta “bottega”, dove il
spettacoli degli ultimi decenni del secolo
considerando ogni sguardo incerto come lo strumento più affidabile
burattinaio condivide con le sue maschere il duplice destino di non
Eclisse. Quando un corpo entra nel cono d’ombra di un altro
per ritrovare la via di casa.
esistere più – e il legno, come il ceppo di Pinocchio, è adatto da
corpo. Un fenomeno che riferito al pianeta terrestre ha destato non
Organetto di Barberia. Una scatola che produce musica
“buttar sul fuoco”, quindi esser ridotto in cenere – e, insieme, quello
poca preoccupazione e curiosità. Vero e proprio teatro d’ombre
meccanicamente, spesso sgangherata e acciaccata. Risente del tempo
di voler diventare qualcosa d’altro e trasformarsi.
cosmico, complici il sole e la luna, l’eclisse ha illuminato il percorso di
come colui che la suona, o meglio fa girare i suoi ingranaggi, perché
alcuni scienziati, scombussolando il bioritmo di cavalli e galline.
fatta sia di pelle che di metallo, di legno e tela. Di natura girovaga,
Fenachistoscopio. Prima tappa delle visioni animate. 1833.
era spesso la colonna sonora di illusionisti e scalzacani. I più noti
Joseph Plateau, precursore ante litteram dei Lumière, inaugura la
suonatori d’organo di Barberia sono delle scimmiette imbellettate.
riproduzione meccanica del movimento. Il Fenachistoscopio consiste
Praxinoscopio. Terza tappa delle visioni animate, di nuovo
essenzialmente in un disco di cartone con un certo numero di sottili
un giocattolo. 1877. Il brevetto di Emile Reynaud rappresenta un
fessure radiali e con figure dipinte su una delle facce. Il disco gira
notevole miglioramento nell’animazione, perchè elimina il tempo di
intorno al suo centro di fronte ad uno specchio, un occhio guarda
otturazione molto lungo dei meccanismi precedenti, ottenendo un
attraverso le fessure: le figure riflesse nello specchio, invece di
movimento più legato e fluido. Ciò avviene sostituendo le fessure
confondersi come avverrebbe guardando il disco rotante da un altro
nella parete con un prisma poligonale al centro del tamburo, dotato
punto di vista, sembra che non partecipino più al moto rotatorio del
di un numero di specchi pari a quello delle immagini disegnate, che
disco, ma che si animino ed eseguano dei movimenti loro propri.
riflette il movimento ottenuto con la rotazione.
di Micol Ferretti
poco prima dell’avvento
del cinematografo
Camera oscura. Può capitare, durante la siesta pomeridiana di
una depravazione ottica, una mostruosità, una crittografia per iniziati
Abbecedario dell’illusione
Anamorfosi. Prima dell’avvento della prospettiva era considerata
Quadro. Equivalente nella lingua ad un dipinto, il quadro delimita,
fa quadrare ciò che tendenzialmente scapperebbe fuori dal recinto.
Mette i paletti alla tensione creativa che scappa, incatena ciò che
altrimenti sgorgherebbe come lava. Il primo filosofo Anassimandro
fu agrimensore, e perimetrò l’ápeiron, l’origine dell’universo.
L’agrimensore K., a distanza di secoli, ne fu travolto.
Risata. Il più efficace grimaldello per scassinare la bieca
univocità delle cose. Basti una definizione di “risata” per buttarci
gambe all’aria: «modificazione del ritmo respiratorio, sospensione
dell’aspirazione, scosse che si ripercuotono nella gola, contrazioni
concatenata di molti muscoli (in particolare facciali e addominali),
scopertura dei denti, e talvolta lacrimazione».
Schermo. Non dimenticare il senso della scherma, un
combattimento in cui è fondamentale ripararsi, proteggersi. Sia
esso un telo su cui la luce viene proiettata, o la roccia della caverna
platonica, è comunque assimilabile ad un diaframma che separa due
cose che dovrebbero essere separate – realtà e illusione, forma e
sostanza? – di cui risulta tuttavia inevitabile la loro prossimità.
Taumatropio. È la dimostrazione più semplice ed efficace
della persistenza delle impressioni luminose sulla aretina, una sorta
di latenza dell’occhio. Basta ritagliare un cartoncino a cerchio,
Grand Guignol. Rinunciare all’occhio e concedersi al corpo
disegnarvi sopra poniamo un uccello sul primo lato, una gabbia
torbido e sanguigno. Devastandolo, depravandolo, torturandolo,
sul secondo, e attaccare due cordicelle o bastoncini a due estremi
attraverso la doppiezza e la parte oscura dei sobborghi fin de siècle.
opposti del pezzo di carta. Facendolo ruotare sul suo asse il gioco è
Fondatore del teatro Grand Guignol nel 1896 fu Oscar Méténier, un
fatto. L’uccello è in gabbia.
ex segretario di commissariato della polizia parigina, il quale attinse
Utsushie. Più noto come il teatro delle ombre cinesi. Sembra siano
alla sua esperienza fatta come tutore dell’ordine, per portare in scena
state improvvisate da un manipolo di eunuchi. Persa l’amata, il loro
i casi più orripilanti di costume e malcostume. La spettacolarizzazione
imperatore sembrava inconsolabile. Pensarono allora di ricostruire
dell’obbrobrio era spesso compiaciuta, e il pubblico chiedeva proprio
una statua della ragazza, per poi proiettarla su di un telo. La sagoma
quello: un emozione proibita spiata dalla serratura, l’esser messi a
dell’amata riportava il sovrano alle verità dell’amore. “La tua mano
disagio forzatamente.
si muove alla luce, guarda l’ombra e imparerai a sognare. L’illusione
Hans Holbein il giovane. In riferimento all’anamorfosi. Nel
è la porta del sogno”.
celebre quadro “Gli ambasciatori”, Holbein non vuole nascondere
Veduta ottica. Il giorno e la notte in una sola immagine.
il viaggio “d’andata” dell’anamorfosi, perché anche un cieco nota
Bucherellando sapientemente la veduta di una piazza, arricchendone
la patacca sul tappeto tra i due nobiluomini vestiti di tutto punto.
il retro in trasparenza con carte colorate, grazie ad una fonte
Ciò che vien celato è invece il movimento di “ritorno”, ossia il fatto
luminosa, è possibile gustarsi momenti della giornata differenti di
che, vista da una particolarissima posizione, la patacca è un teschio
un unico scorcio. Proust ne trae spunto per farne un escamotage
terrifico. Come chiosa il buon Baltrušaitis, «una distruzione che
narrativo, quando il suo alter ego sperimenta “la veduta ottica degli
prelude a un ripristino, un evasione che implica però un ritorno».
anni, la veduta non d’un momento, ma d’una persona situata nella
Illusione. Un modo di esplorare il mondo spiccando un salto su
prospettiva deformante del tempo”.
alcuni dettagli.
Zootropio. Seconda tappa delle visioni animate. 1834.
Lanterna Magica. Apparecchio ottico, fornito inizialmente di
Perfezionamento da parte di William George Horner del
un solo obiettivo che, grazie ad una fonte luminosa interna, proietta
fenachistoscopio. Le prime, brevissimi, sequenze animate condivise da
su uno schermo immagini dipinte su vetro con colori traslucidi,
un gruppo di persone. Questo perché le immagini venivano raffigurate
ottenendone l’ingrandimento. Nel frattempo, l’invenzione della
su una striscia di carta che poteva poi essere messa all’interno di un
fotografia nel 1826 ad opera di Joseph-Nicéphore Niepce pose le
tamburo di cartone o di metallo, e osservate direttamente attraverso
basi per l’invenzione del Cinematografo: unendo la proiezione delle
le fessure intagliate sul lato del cilindro. Noto anche con il nome di
immagini alla fotografia sarebbe stato possibile riprodurre la realtà?
“Daedalum”, rotella del diavolo.
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Da parecchio era passata la mezzanotte, in una nottata di questa primavera
un po’ umida, per trovarci in piazza dei Signori a Verona. Eravamo usciti da
un concerto di “musica del nostro tempo”, di una rassegna denominata
“Variazioni di pressione”; quindi il giro delle osterie. Aveva cominciato
l’Armando, violinista barocco di talento, ad inveire con acredine contro “la
Musica Contemporanea”, contro “quella gente che cerca solo di darsi un po’
di tono, che in realtà - diceva lui - non può capire nulla di una serie di eventi
in cui non c’è niente da capire, cacofonie, urla, rumori.... ”.
Tasso alcolico medio-alto, ma lucidità: discussione accesa sulle sorti intorno ai
massimi sistemi, sui nostri gusti, sulle nostre, tante, passioni e idiosincrasie.
La sfida è, con varie sfumature, tra chi accetta di avventurarsi
alle soglie dell’Ur-grund, della percezione pura, e chi reclama
a gran voce l’irrinunciabilità di una qualche melodia. Tra chi,
in definitiva, si sente a proprio agio (pseudo-intellettuale?)
nell’apparente caos dell’accadere di eventi sonori, pecependoli
secondo un autentico ‘respiro di vita’, tra chi affronta con
coraggio la necessità di esprimere l’angoscia (ebbene sì) e chi
di converso non ne vuole sapere per nulla.
Sembra di sognare. Forse il tempo si è fermato? In fondo i toni
delle invettive e delle discussioni non è cambiato in questi
ultimi quaranta anni. Ma chi può dirlo?
Intanto, passando con la sua bicicletta, il giovane Edoardo,
allampanato teen ager, dalle venature esistenzialiste, ci dice
che siamo fuori dal mondo: “Parlate di una realtà musicale
che non esiste. Musica contemporanea è quella che realmente
rappresenta il nostro tempo, che sa essere sperimentale ma
nello stesso tempo sa effettivamente comunicare: Radiohead,
Animal Collective, Dresden Dolls!”; chiude e pedala via.
Confrontandoci con le musiche appena ascoltate di autori
come Elliot Carter, George Crumb, Sciarrino, Bussotti, Berio,
ci troviamo in un territorio che in fondo dovrebbe essere
considerato tout-court ‘Classico’.
Negli anni ’90 poi qualcosa è cambiato: c’è stata l’irruzione
sulla scena ‘contemporanea’ di minimalisti, neoromantici,
tendenze new age; il pop, il rock, il jazz così come le diverse
etnie musicali sono stati gli elementi e gli ingredienti con cui
i nuovi compositori si sono confrontati e da cui, in molti casi,
hanno attinto come in una sorta di supermercato. Sembra
che ormai si possa fare di tutto, con una libertà pressoché
totale, senza dover render conto a nessun tribunale: un tempo
i più rigorosi e dogmatici seguaci dell’ortodossia seriale e
dodecafonica non ammettevano devianze!
Ma nella vulgata quando si parla di “Musica Contemporanea”
si pensa alla produzione di questi nonni un po’ folli (molti
sono scomparsi e uno come Eliott Carter quest’anno compie
100 anni!); si pensa quindi alla grande stagione di radicalismo
estremo, alle utopie che n’erano strettamente connesse.
Prima dell’avvento e della ripresa di un rinnovato ritorno della
tonalità - che è una delle realtà dei nostri giorni – è esistita
una specie di zona grigia, nella storia della ricezione, in cui,
negli anni ‘60/’70 il ‘pubblico’ - a volte numeroso a volte
fatto di poche ‘barbe’ - ha saputo confrontarsi ed affrontare
stoicamente, con coraggio, con le proposte tra le più dure. La
tensione a spiegare da parte dei compositori era tutta tesa
ad esplicitare l’organizzazione e le intenzioni di una partitura
o di un progetto altrimenti non intelligibile con gli strumenti
tradizionali dell’ascolto. Ecco che quindi il destinatario della
“musica contemporanea” si trovava di fronte ad un orizzonte
di scelte inimmaginabili, tra il rifiuto netto e la possibilità
di essere egli stesso, con il suo atto interpretativo, creatore
di nuovi sensi di nuovi significati. Ma oggi la babele dei
mondi musicali, sedimentati in ognuno di noi, con i loro
linguaggi, sistemi di regole e che - chi più o chi meno - molti
tengono serbo come proprio patrimonio identitario, quando
si incontrano con questa specie di terra di nessuno, genera
un orizzonte di interpretazioni tra le più disparate; come se,
di fronte ad un gruppo di persone che gioca con la palla,
ognuno si aspettasse diversi tipi di gioco con diverse regole:
chi il calcio, chi la pallavolo o la pallacanestro, piuttosto che
palla prigioniera...
Nelle nostre conversazioni notturne, dopo aver scrutato le
nostre ragioni, ci siamo chiesti chi fossero gli appassionati o i
Fabio Zannoni è corrispondente da Verona
per il Giornale della Musica.
Illazioni notturne
Intorno alla musica contemporanea
di Fabio Zannoni
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curiosi che si erano avventurati nella Sala Maffeiana del Teatro
Filarmonico di Verona, che non fossero gli addetti ai lavori o
amici e parenti dei musicisti. Insomma ci siamo chiesti quale
tipo di viaggio si fa, un ascoltatore di musica nel 2008, di
fronte alle produzioni dei maestri dell’avanguardia musicale,
assieme a quelle delle scuole che ne ricalcano le tracce o che
da queste cercano di scrutare nuovi orizzonti.
Nella Contemporanea ‘Classica’, dodecafonica, seriale o
elettronica che sia, si chiede una ricezione che nasca e si
chiuda nel silenzio, si chiede un contributo del pensiero in cui
ci si appelli - ebbene sì - ancora, in misura diversa, a ragione
e sentimento. Ma all’oggi, superate le utopie che avevano
agitato le avanguardie storiche, la ricezione di quest’idea di
musica assume caratteristiche e connotazioni sempre diverse,
anche se alla base, dei ragionamenti che suscitano obiezioni,
resistenze, passioni, ritroviamo immutate le contrapposizioni
di un tempo.
I giorni successivi proseguo solitario la mia indagine, con
sporadici incontri e appuntamenti, con chi aveva seguito
i “Quattro incontri con la musica del nostro tempo”, tra i
portici di Via Sottoriva o i baretti di Piazza Erbe: chiacchierate
in libertà davanti ad uno spritz o ad un bicchiere di
Valpolicella. Varie e diversissime le tipologie d’ascoltatori. E
i nostri utenti rivelano una notevole vivacità e curiosità, con
una vasta gamma di sfaccettature; che vanno oltre i clichées
della sociologia adorniana, che restano sullo sfondo, come
figure limite, stereotipi un po’ caricaturali: quelli dell’esperto,
del consumatore di cultura, dell’ascoltatore emotivo, quello
risentito e poi il consumatore di jazz, chi propende per il rock
o il pop e chi spazia tra i generi. Scopro che i nostri amici
hanno qualcosa in più; tratto comune una notevole curiosità:
Giuseppe, 65 anni, pensionato, ex gioielliere, Annalisa, 54 anni,
Insegnante di Matematica in un Liceo Scientifico, Luca, 38
anni, avvocato, Roberta, 39 anni, regista e animatrice teatrale,
Anna, 25 anni, sociologa, Carolina, 28 anni, art designer.
Nessun ‘addetto ai lavori’ quindi, nessun musicista, ma ognuno
con il suo background, i suoi schemi e la sua sensibilità.
GIUSEPPE - ”Sono nato in una famiglia di musicisti, di
musica veramente classica! Trent’anni fa ho scoperto Bruckner:
per me era contemporaneo! poi pian piano Mahler, Stravinsky,
fino a Schoenberg. Ho anche conosciuto personalmente
Bruno Maderna, ma non sono mai riuscito a capire la sua
musica. Forse adesso riuscirei a capirla di più. Ascoltando la
prima volta Notte trasfigurata pensavo finalmente di esser
entrato nel mondo della musica contemporanea, quando in
realtà in seguito scoprii uno Schoenberg ben più duro...”.
LUCA - “Io per un periodo mi sono fatto prendere
molto da un genere che si chiamava kraut rock, fatto da
gruppi tedeschi in cui molti componenti erano stati allievi di
Stockhausen - come Popol Vuh, Can, Ash, Ra, Tempel, Amon
Duul - gruppi che indirizzavano la sperimentazione sia verso il
rock che verso la musica contemporanea”.
ROBERTA - “Io lavoro con la poesia e con musicisti
pop, che fanno elettronica, del tipo drum & bass; m’interessa
capire se c’è un altro modo di utilizzare musica per la poesia,
una musica che sia sperimentale, creativa ma non elitaria,
non per pochi, non difficile: per riuscire a metterla insieme
alla musica pop, in modo che questa combinazione possa
veicolare nuove idee”.
CAROLINA - “Non ho avuto particolari conoscenze
od esperienze musicali, nemmeno una particolare passione per
il rock, il pop o il jazz. Mi sono fermata ai cantautori ai tempi
della mia adolescenza. C’è un buco in mezzo, qualche disco
dei miei e basta, per me la musica non è mai stata strumento
di crescita o d’identità: è una cosa che mi è mancata molto.”.
Entriamo nello specifico: sulla musica ascoltata i giorni scorsi
nei concerti di “Variazioni di pressione”.
ANNA - “Durante l’esecuzione di un brano elettronico
ho sentito una specie di atmosfera tesa nella sala, una specie
di perdita di senso dell’orientamento, anche perché poi il pezzo
è durato moltissimo. Mi sono pure un po’ preoccupata per le
persone anziane presenti in sala. All’inizio ero molto curiosa.
Non posso dire comunque che mi sia piaciuta”.
CAROLINA – “Nel pezzo d’improvvisazione ho
notato che anche sul palco c’era la necessità dell’ascolto da
parte dei musicisti stessi, perché senza la volontà di ascoltarsi
a vicenda non poteva nascere un dialogo, mi è piaciuto capire
la nascita di questo parlare tra loro, di questo percorso verso
un’intesa. Poi ho trovato molto sensuale il pezzo per flauto
‘All’aure in una lontananza’ di Sciarrino”.
Come ascoltare questa musica. Con quale stato d’animo.
Quali il coinvolgimento, la partecipazione, la necessità di
comprendere, di controllare il materiale, di conoscerne i
presupposti culturali; o piuttosto come si cerca di cogliere,
immaginare e, perché no, anche di lasciarsi andare, per
sentire in maniera immediata, un ‘qualcosa’, un messaggio,
una vibrazione ...
GIUSEPPE - “Comunque, quando vado a questi
concerti non sono soddisfatto come quando ascolto la ‘mia’
musica, non riesco a captarne il percorso. Anche se la musica di
Cage, ad esempio, mi piace molto e riesce ad entrarmi subito”.
ANNALISA – “Mi colpisce l’uso di uno strumento in
maniere ‘altre’, come un pianoforte cui è cambiato il ruolo: lo
batti oppure lo amplifichi. M’interessa anche l’elemento della
performance: non potrei assolutamente seguire un concerto
ad occhi chiusi. Il fatto che il pianista durante l’esecuzione di
un pezzo come Makrokosmos di Crumb sembrava entrasse
dentro lo strumento, come se lo invadesse, mi coinvolgeva, mi
faceva capire che lui viveva qualcos’altro”.
LUCA - “Di solito cerco di capire il messaggio, cosa
significa, perché c’è un determinato strumento che entra. Poi
puoi andare d’immaginazione: In Vox Balenae di Crumb,
ad esempio, era bello perché riuscivi a figurarti un’immagine
precisa, potevo immaginarmi anche i gabbiani... mentre altre
volte è più difficile crearsi un percorso d’immagini”.
ROBERTA - “Non conosco la musica contemporanea;
e quando non conosco una lingua, mi concentro sul ritmo,
sulla struttura e su un certo colore o atmosfera”.
CAROLINA - “Un’esperienza particolare l’ho vissuta
una volta ascoltando, di Messiaen, il Quartetto per la fine
dei tempi: mi ha decisamente sconvolto, è stato un ascolto
molto intimo, molto personale. E’difficile spiegare il perché ma,
in qualche maniera, mi ha ricordato un piacere privato. E’ stata
una musica che mi parlato in modo molto intimo e segreto,
anche se ho avuto la sensazione che questa cosa stesse
succedendo a tutti gli altri in sala, per cui figurativamente mi
sono immaginata che questa cosa potesse essere come un
autoerotismo generale: un piacere intimo e segreto, ma che
eravamo tutti insieme a condividere. Per me erano le prime
esperienze, però non so come succede normalmente”.
Musica per evadere dalla realtà o per entrare dentro una
riflessione più profonda? Musica che fa star male, veicolo di
un’angoscia esistenziale o che stimola l’immaginazione?
ANNALISA - “Se è vero che noi dalla nostra realtà
vogliamo evadere, allora o evadi riuscendo a coinvolgerti con
musiche fasulle - musica che è contemporanea ma che ti
serve per allontanarti - oppure riuscendo a recepire qualcosa
che ti porta il messaggio del tuo tempo: la contemporanea è
una musica che tutto sommato non ti fa star bene, ti fa star
peggio, in molti casi, perché vivi tutto il trambusto di quello
che è la tua vita”
GIUSEPPE - “Ma allora se la musica non può essere
d’evasione, che ti aiuti a star bene, diventa una sofferenza!
Anche Mahler non ha pensato la sua musica come musica
d’evasione, ma quella è di una bellezza sconvolgente, anche
quando è triste; così come con il Requiem di Mozart: io vado
in paradiso con un Requiem!”
LUCA – “Se posso avere un coinvolgimento a livello
emotivo, ci può entrare anche l’angoscia. Questo sì: ma è un
sentimento che in queste sere non ho mai provato. Ho vissuto
certi momenti un po’ come in un film horror: la musica può
anche dare questo”.
ROBERTA – “Dire che certa musica possa far star
male lo escluderei, anzi per me può creare un certo tipo di
vicinanza. E’ l’assenza di idee e di creatività piuttosto, che può
far star male!”
E forse senza la reattività e la creatività di chi ascolta le opere
musicali sarebbero un po’ incomplete, monumenti privi di
risonanza. Tra l’indifferenza e il vivere un’avventura dell’anima
c’è quindi tutta una gamma di reazioni che costituiscono un
reticolo di risposte che sono l’altra vita delle opere stesse: una
cosa spesso imprevedibile per lo stesso compositore. Anche in
queste ‘conversazioni davanti ad uno spritz’ ci sono le tracce
di questo, tracce di pensieri, interpretazioni; tracce di letture
che, qua e là, colgono ciò che resta della vitalità e delle utopie
- vuoi stimolanti, visionarie o fumose - che avevano mosso le
avanguardie musicali del secolo scorso.
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Mantova
non è un
paese
per
vecchi...
... né ci dobbiamo augurare che lo diventi
o perlomeno non diventi l’isola (in)felice
dove i problemi, a partire dal costante
invecchiamento della popolazione attraverso la
progressiva deindustrializzazione del territorio,
la costante dequalificazione dell’occupazione
intellettuale e l’inesorabile crescita della
popolazione non indigena, siano fatalmente
subiti invece che generosamente affrontati.
Bisogna anche pensare o ripensare ad un modello politico per cui
Mantova, come qualunque altra città, non sia solo un contenitore di
problemi da risolvere, bensì di opportunità da sviluppare. E in questo
contesto si colloca l’attenzione che deve essere posta allo sviluppo
culturale del territorio. Le amministrazioni locali, in particolare quella
comunale non sembrano disattente, almeno in quanto destinano una
generosa fetta del bilancio pubblico al settore della cultura, con una
percentuale del contributo che varia negli ultimi anni dal 12% al 10%.
Ma in tempi di vacche magre, questo è per qualcuno un lusso che
non possiamo permetterci. Sia dalla destra proto-liberale, sia dalla
sinistra proto-comunista, si levano grida di dolore per spese in favore
della cultura ritenute sconsiderate perché destinate ad un bene
effimero. Secondo i più illuminati censori dello sperpero pubblico, lo
stato dovrebbe occuparsi unicamente di favorire la spesa sociale.
Infatti, se in veste di giornalisti di un qualunque giornale populista
di paese ci mettessimo ad intervistare l’uomo della strada, e lo
di Enrico Alberini
chiamassimo ad esprimere un’indicazione su come e dove destinare
la spesa pubblica, ci sentiremmo rispondere che, “premesso che lo
stato spende troppo, i soldi per la cultura sono tutti buttati via!”. Per
poi sentire lo stesso uomo della strada, magari un po’più giovane
e meno lobotomizzato dalla televisione, lamentarsi perché non ci
sono cinema, teatri, che la sera non si sa dove andare e la città è
vuota e spenta ...
Non si vive di solo pane sociale e il compito di un’amministrazione è
quello di non ostacolare o peggio fermare la cultura, semmai quello
di governarne i processi di sviluppo, discriminando:
1.
le iniziative che riversano sulla comunità insignificanti redditi
culturali da quelle che, non solo in termini di ricaduta economica sul
terziario, accrescono il genius loci,
2.
quelle che basano le loro dinamiche esclusivamente sulla
circolarità autoreferente dei proponenti da quelle che favoriscono
l’osmosi fra realtà diverse,
3.
quelle che ripropongono sé stesse come modello, da altre
che invece creano nuovi modelli di riferimento,
4.
quelle la cui notorietà consolidata non abbisogna più di un
consistente intervento pubblico, da quelle che, verificato il loro
tratto innovativo, lo richiedono per crescere.
La politica abbia il coraggio di credere in una cultura che genera
occupazione vera e non solo del tempo libero di chi può permettersi
di averlo. La crescita di un territorio, in modo che sia attrattivo nei
confronti di quelli circostanti, è determinata anche dalla capacità dei
suoi amministratori di tramutare la ricchezza culturale in ricchezza
materiale (un tempo si diceva benessere). Altrimenti Mantova non
è un paese per vecchi, ma nemmeno per giovani... è un paese per
morti viventi.
transatlantico19
eterotopie
altriluoghi
suono parola danza immagine
Mantova Palazzo Te
27 Agosto 2 settembre
2
Il festival Eterotopie è
l’appuntamento annuale dedicato
all’esplorazione delle tendenze delle
arti contemporanee organizzato
dall’Associazione Culturale Diabolus
in Musica. Immerso nella magnifica
cornice di Palazzo Te a Mantova,
il festival si configura come una
piattaforma intermediale, in cui
interagiscono i diversi linguaggi della
musica, della danza, del cinema,
delle arti visive e del teatro. Concerti
dedicati a figure centrali della musica
contemporanea sono affiancati da
performance di compagnie di teatro
e danza di livello internazionale, e da
installazioni multimediali di giovani
artisti e compositori emergenti che,
silenziosamente e coraggiosamente,
descrivono e creano il paesaggio
sonoro e visivo del nostro tempo.
Mylicon - EN
L’avventura del quadrato:
da Flatland alla ipersuperfici
Cartoline dal Vietnam
Video-installazione
Michele Emmer, Università “La sapienza” di
Roma
Societas Raffaello Sanzio
Flatlandia
Madrigale Appena Narrabile
un film di Michele Emmer
musiche di E. Satie, D. Milhaud
28 Agosto
Obliqua (Barcellona)
Incontro
Live set di musica elettronica e arte visuale
Il corpo (filmico) della musica
Alessandro Cappabianca, FilmCritica
31 Agosto
Letizia Michielon, pianoforte
Incontro
Musiche di Chopin, Ligeti
Giorgio Sancristoforo
29 Agosto
Presentazione del libro Tech Stuff
in collaborazione con ISBN Edizioni
Spazio Visivo #3 - Soglia
Sonorika V
installazione di Paolo Cavinato e Stefano Trevisi
Incontro
danza contemporanea
1 Settembre
Corpo Sonoro
Carlo Serra, Università Statale di Milano
El Gallo Rojo
Omaggio a Oliver Messiaen
The Spook Speaks II
sonorizzazione live di film muti
Spazio Visivo #3 - Soglia
Provincia di Mantova
8
Incontro
30 Agosto
Centro Internazionale
d’Arte e Cultura di Palazzo Te
0
27 Agosto
nel centenario della nascita
Corrado Rojac, Oleksandr Semchuk,
Flavia Casari, Leonardo Zunica, Mauro Graziani
Musiche di Messiaen, Rojac, Perezzani,
Graziani, Harvey
Comune di Mantova
0
Regione Lombardia
Ad Libitum
Associazione Culturale Verona
2 Settembre
Le Sacre du Printemps
Musica di Igor Stravinsky, Luigi Manfrin
Rossella Spinosa, Leonardo Zunica, Carlo
Miotto, Luigi Manfrin,
Cristiano Tassinari, Massimo Biasioni
co-produzione Diabolus in Musica
e Centro Musica Contemporanea di Milano
Accademia Filarmonica di Verona
Comune di Villa Lagarina
Isbn Edizioni