L`organizzazione culturale nel nostro paese, l`associazionismo

“DIRITTO ALLA MUSICA”
Roma, 4 dicembre 2006
Sala Ara Pacis
Relazione a cura
di Stefano Ribeca
(Presidente della Scuola Popolare
di Musica Donna Olimpia di Roma)
Salve a tutti e grazie per essere intervenuti. Dopo gli anni bui delle varie
amministrazioni Signorello, Giubilo o Carraro, con il ritorno delle giunte di sinistra anche
alla Regione e alla Provincia, nella nostra città è cresciuto un grande fermento culturale e
ancora di più in questi ultimi anni, con la realizzazione di tanti nuovi spazi quali
l’Auditorium, il nuovo Palalottomatica, la Casa del Jazz, l’Ara Pacis che oggi ci ospita e
molti altri ancora, e con la promozione di moltissimi eventi ed iniziative, Roma ha assunto
un ruolo di primo anche a livello internazionale, come ben dimostrano i dati sul turismo,
un settore centrale nella nostra economia ed in continua crescita. Tutto questo non è
servito solo ad aumentare le occasioni per assistere ad uno spettacolo ma si è realmente
avviato un grande sviluppo di quello che potremmo definire il ‘mercato’ culturale,
costituito da organizzazioni che oggi chiedono di avere un riconoscimento istituzionale.
L’organizzazione culturale nel nostro paese si fonda su un equivoco, quello del
‘non a fine di lucro’, che ha fatto sì che l’associazionismo divenisse la forma principale di
imprenditoria del settore. Cosa si intende con questa indicazione? Che il bilancio deve
essere, anno dopo anno, in sostanziale pareggio fra entrate ed uscite. Ma questa
espressione nel senso comune viene fraintesa, ‘non a fine di lucro’ è ciò che non produce
reddito per coloro che di una certa attività si occupano e questo è, ovviamente, un
abbaglio; basti pensare che questa regola vige non solo per le associazioni ma anche per le
cooperative, quindi alcune delle più grandi aziende del nostro paese in termini di fatturato
e addetti. Ma da dove nasce tutto questo? Dal preconcetto che la cultura, e quindi anche la
musica, non possano produrre reddito, perché non è possibile e perché, in fondo, non è
etico. Siamo legati a concetti quali ‘volontariato’ o ‘filantropia’ e questo, nel paese che
conserva circa il 70% dei beni culturali del pianeta e una storia e una tradizione senza pari,
per me è una bestemmia. Eppure, ancora oggi, dai bandi del Comune di Roma per le
attività dell’Estate Romana sono escluse le società di capitale e chissà cosa penseremmo se
la stessa cosa avvenisse per la costruzione di una metropolitana o di un’ospedale…..
In un quadro così descritto è stato inevitabile che l’iniziativa privata si
incanalasse sulla strada dell’associazionismo. Le imprese di questo settore hanno, per
natura giuridica, l'obbligo di reinvestire gli utili nella loro attività e sono uno strumento di
crescita e di sviluppo fondamentale, componenti di un circolo virtuoso in cui i profitti
sono destinati ad alimentare progettualità e nuova occupazione. La pubblica
amministrazione utilizza stabilmente questa risorsa ma anziché valorizzare questo
rapporto in alcuni casi sembra portata a distruggerlo. Da un lato le istituzioni chiedono
attività e servizi, dall'altro ci sono norme e regolamenti inattuali e spesso non rispettabili.
Ciò che le associazioni chiedono è che si prenda finalmente coscienza dell'importanza del
lavoro da loro realizzato, che si comprenda l'enorme portata occupazionale che ha questo
mercato e gli incredibili margini di crescita che possiede.
I manager, gli operatori, gli artisti, gli insegnanti, tutti coloro che vivono di
cultura addirittura ai margini della legalità perchè al di fuori delle grandi istituzioni,
chiedono che sia finalmente riconosciuto il loro ruolo, la loro dignità, il loro diritto al
lavoro. Questi cittadini sono stanchi di avere solo doveri e nessun diritto, sono stanchi di
essere gli unici a pagare contributi per una pensione che non percepiranno mai, sono
stanchi di una pressione fiscale e previdenziale in continuo aumento senza che questo
corrisponda ad un reale miglioramento delle loro condizioni di vita. Questi lavoratori, i
più atipici fra gli atipici, svolgono una funzione insostituibile, insegnano ciò che
l'istruzione pubblica ignora, diffondono quello che è escluso dai circuiti commerciali e di
massa, hanno diritto ad uno status e ad una riconoscibilità, hanno diritto che tutti si
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accorgano, una volta per sempre, che fra tutte le industrie quella culturale, nel nostro
paese, può essere la più ricca, la più moderna, la più sostenibile nel rispetto dell'ambiente.
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Una riflessione importante non può che riguardare il ruolo delle grandi
istituzioni pubbliche ed in primis degli Enti Lirici, il costo che questi rappresentano
nell’economia generale del settore e la tendenza a fagocitare ogni risorsa disponibile,
anche in campi lontani dai loro compiti istituzionali e dalle loro competenze. Gli Enti Lirici
ricevono dal Fondo Unico per lo Spettacolo circa 250milioni di euro l’anno, quasi il 50%
delle risorse disponibili; a questi vanno aggiunti i finanziamenti dagli enti locali e gli
sponsor, aziende spesso controllate dallo Stato. Ed inoltre va considerato quanto speso per
la ristrutturazione dei teatri o, ad esempio, per la costruzione dell’Auditorium a Roma.
Vorrei fissare l’attenzione su di una realtà non della nostra città ma che
rappresenta senza dubbio un esempio. Per quanto riguarda il Teatro alla Scala di Milano, i
contributi pubblici ammontano a circa 100milioni di euro l’anno e rappresentano quasi il
50% del bilancio. Un dato senz’altro interessante viene fuori dividendo il budget
complessivo per il numero di rappresentazioni prodotte in un anno. Ogni singola recita
all’Opera di Londra costa 275mila euro, a Monaco 350mila, a Vienna 356mila, a Parigi
360mila ed alla Scala 548mila. Un altro confronto utile è con il Metropolitan di New York,
il cui bilancio è di circa 200 milioni di dollari annui, circa 154milioni di euro, il 50%
rappresentato da proventi propri, il 40% da contributi privati ed il 10% da contributi
pubblici; in realtà le donazioni sono deducibili e quindi, considerando quanto non
incassato dall’erario, il finanziamento statale complessivo al Metropolitan è di circa 44
milioni di dollari, il 22% del budget totale. Come si vede le differenze con la Scala sono
enormi. Ci si aspetterebbe, poi, che un teatro largamente sussidiato abbia prezzi più
‘popolari’. Non è così, alla Scala il costo dei biglietti varia tra 30 e oltre 250 euro, mentre al
Metropolitan vanno dai 26 ai 170 dollari, circa dai 20 ai 130 euro, e sono disponibili anche
posti in piedi per 15 dollari. La nostra lirica è, quindi, doppiamente iniqua: costa di più sia
al contribuente che allo spettatore!
Anche dalle nostre parti le cose non vanno meglio. In un precedente convegno
organizzato dal Comune di Roma e dal Coordinamentro delle Scuole Popolari di Musica
mi hanno molto colpito gli interventi dei consiglieri D'Arcangelo e Foschi che
sottolineavano come ogni biglietto staccato per una rappresentazione del Teatro
dell'Opera costasse al Campidoglio circa un milione di lire. E non è che il nostro Teatro si
distingua nel mondo per un’attività qualitativamente e quantitativamente di così alto
profilo….. Domandiamoci: ne vale la pena? Il problema, ovviamente, è che è impossibile
misurare oggettivamente il valore della cultura e il costo che per questa la collettività deve
sostenere. La risposta abituale a certe critiche è che esse rappresentano un approccio
‘ragioneristico’ ad un bene che invece ‘non ha prezzo’. Ma le risorse di una collettività
sono limitate, si ha il diritto e il dovere di stabilire delle priorità ed è oggi indispensabile
un riequilibrio nella distribuzione dei finanziamenti pubblici, con una parte dei soldi
destinati agli Enti Lirici che possa essere spesa utilizzandola, ad esempio, per potenziare
l'insegnamento della musica poiché, da sempre, è l’opera italiana ad essere famosa nel
mondo e non l’attività dei nostri teatri!
Ecco quello che, oltre due secoli fa, pensava il grande compositore Antonio
Salieri, colui che ha avuto il privilegio di inaugurare con un suo lavoro il Teatro alla Scala,
con un’opera rappresentata anche in occasione della ripresa delle attività dopo il restauro
del 2004: ”E' scandaloso come l'opera venga gestita in Italia, non c'è alcun rispetto per il
consumatore. Per esempio quando stavo a Milano se volevo andare a vedere un'opera alla
Scala dovevo prendere un giorno di ferie per farmi sette ore al botteghino, aspettare tre
chiamate e poi dover comprare un biglietto che costava una follia. Ci credo che l'utente è
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scoraggiato. Ora che sono a Londra, pensiamo alla civiltà di questa nazione, c'è un tipo che
mi chiama una volta a settimana e mi dice - Vuoi andare a vedere un'opera alla Royal
Opera House o alla English National Opera? - e se mi va vado e non pago niente. Che gran
paese! E' per questo che l'Italia è allo sfascio.”
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Io credo che dovrebbe essere definitivamente riconosciuto il ruolo
indispensabile dell’associazionismo musicale nei campi della produzione, della
formazione, della ricerca e della fornitura di servizi per la collettività, la funzione
insostituibile che esso rappresenta nel proporre temi ed argomenti fuori dalla cultura
‘ufficiale’. In Italia l'obiettivo di una formazione musicale di base è stato da sempre
perseguito in modo disorganico ed a volte contraddittorio. La struttura dei Conservatori è
stata concepita come scuola di alta specializzazione per la musica classica, questa funzione
si è, negli anni, snaturata causa il moltiplicarsi del numero dei Conservatori stessi,
cresciuto a dismisura per esaudire quella richiesta di musica non soddisfatta dalla scuola
dell'obbligo. I danni prodotti da questa situazione sono sotto gli occhi di tutti: il nostro
paese sta perdendo progressivamente un'identità nazionale per ciò che concerne
l'insegnamento musicale e non riesce a sopperire a queste difficoltà con un'attività
accademica e concertistica di alto profilo. Ci sono, pertanto, migliaia di allievi che si stanno
ora preparando a soddisfare una gigantesca domanda di concerti che invece non c'è. Il
mondo della musica è ormai saturo di interpreti ed insegnanti che possono solo formare
altri interpreti ed insegnanti.
In risposta a tutto questo, dalla metà degli anni settanta in poi, nasce e si
sviluppa a Roma un movimento culturale e didattico di straordinaria importanza per
ampiezza e finalità che, negli anni a venire, si estende a tutto il Paese dando vita a
strutture tutt'oggi in continua evoluzione: le Scuole Popolari di Musica. Tale fenomeno
affonda le sue radici in un più generale movimento intellettuale che considera la musica
come la più spontanea fra le forme espressive e come uno strumento formativo
insostituibile. Il cardine ideologico sul quale si impernia questo progetto didattico è
costituito dalla consapevolezza che la musica è, per eccellenza, l'arte che si pratica e si
realizza insieme agli altri. All'interno delle Scuole, infatti, l'insegnamento è da sempre
legato alle attività collettive che, indipendentemente dal livello di preparazione raggiunto,
consentono all'allievo di confrontarsi non perdendo di vista il più importante degli
obiettivi: esprimersi attraverso la musica.
L'impegno ed il lavoro svolto per la diffusione della conoscenza musicale, la
capacità di fornire un'alternativa metodologica all'insegnamento dei Conservatori di Stato,
hanno reso le Scuole di Musica meritevoli, nel 1994, del Riconoscimento da parte del
Comune di Roma. Ma da allora nulla è più accaduto perché questo legame si sviluppasse
e si consolidasse. Il rapporto fra l’Amministrazione e queste realtà è sporadico e casuale e
queste non sono mai chiamate a svolgere la funzione che meritano. Emblematica, a questo
riguardo, la questione della Casa del Jazz, la cui direzione è stata affidata ad un manager
non della nostra città e nella quale le Scuole Popolari di Musica non svolgono alcun ruolo
di gestione. Eppure, io penso che sia evidente che se la fiamma del jazz a Roma non si è
spenta, negli ultimi decenni, il merito va soprattutto a queste strutture, che con
professionalità, impegno e amore hanno diffuso e radicato più di chiunque altro questa
meravigliosa forma di espressione. Non vorremmo che tutte queste Case che stanno
sorgendo divenissero delle case chiuse…..
La nostra città ha bisogno di un intervento organico e pianificato sulla musica.
Oggi i Conservatori sono Università ma quale è il percorso che porta un allievo al
massimo grado di istruzione se la musica non viene insegnata nelle scuole superiori? Se il
percorso di formazione viene realizzato attraverso una collaborazione fra pubblico e
privato allora è indispensabile conoscere come è fatta questa rete di strutture di base, con
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un Piano Regolatore Culturale che ci dica quanti siamo, che ricaduta sociale hanno le
associazioni, quale è la forza economica, e non solo culturale, della musica nella città.
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Qualche tempo fa ha destato scalpore la pubblicazione, su tutti i giornali, dei
dati riguardanti il reddito delle diverse categorie professionali del nostro paese ed
abbiamo scoperto, con sorpresa, che una maestra guadagna più di un orefice. Ma un altro
dato mi sembra ancora più sorprendente ed è che nelle tabelle che ho potuto leggere erano
indicati tutti i mestieri possibili, dai notai ai sarti, dai medici ai ceramisti ma dei musicisti
non c’era traccia. Non penso fosse a causa di un’amnesia collettiva, è che, nel pensare
comune, la musica non è un lavoro vero e proprio; nella modulistica fornita da un
qualsiasi ufficio pubblico provate a cercare, fra le opzione previste, la professione:
musicista. Non ne troverete traccia! Io vivo di musica, ogni centesimo che guadagno viene
da lì anche se continuamente mi trovo a barrare caselle a fianco delle quali trovo:
‘insegnante’, ‘libero professionista’ o il tristissimo ‘altro’! Gli unici colleghi che godono del
rispetto comune sono quei pochi assunti dalle istituzioni pubbliche, che incontrati sul
pianerottolo di casa vengono salutati come ‘maestro’! Tutti gli altri, le decine di migliaia di
artisti della musica che costituiscono la spina dorsale di questa industria, semplicemente
non esistono. Quando portate vostro figlio a studiare batteria o violoncello in una Scuola
di Musica, perché non avete alcuna altra possibilità che questa se volete indirizzarlo in
queste discipline, l’insegnante non lo salutate, tanto lui non esiste….. quando vostra figlia
fa musica a scuola e voi pagate di tasca vostra per un servizio che, seppur compreso nei
programmi didattici, altrimenti non le sarebbe fornito, se incontrate l’operatrice che
realizza tutto questo giratevi dall’altra parte, tanto lei è come se non ci fosse….. Quando
siete nel vostro locale preferito, ad ascoltare la musica che amate di più, al termine del
concerto non andate nei camerini ad incontrare coloro che vi hanno regalato due ore di
piacere, sono fantasmi…..
Cosa fa per voi lo Stato, per voi che all’opera ci siete stati solo qualche volta ma
magari avete a casa una collezione di migliaia di CD, per voi che vi impegnate perché i
vostri figli abbiano un’educazione musicale anche a partire dalla più tenera età, per voi
che andate ai concerti, forse non nelle sedi più prestigiose ma scovando fra le proposte
possibili quella che davvero vi interessa di più? Cosa fa, dunque, per voi lo Stato? Poco o
forse nulla. Per colpa di un banale errore di stampa sulla Gazzetta Ufficiale (incredibile,
eh?!?) l’IVA sui concerti è ancora al 20%, così come quella sui CD, al contrario del teatro,
dei libri e di molto altro. Il punto è questo, non viene rispettato il nostro diritto alla
musica, né per chi la musica la fa come professione e né per chi ne usufruisce, ascoltatore
appassionato o allievo che sia. Questo è vero per la stragrande maggioranza dei casi, con
l’eccezione di una piccola parte dell’universo musicale sull’altare del quale viene
sacrificata la quasi totalità delle risorse disponibili, indipendentemente da quanto questo
incida sia da un punto di vista occupazionale che per quanto riguarda la fornitura di beni
e servizi alla collettività.
Abbiamo bisogno di una moderna legge nazionale che consenta di superare
l’incapacità di tradurre una grande ricchezza diffusa sul territorio in un sistema
economico; così come abbiamo bisogno anche di una legge regionale, che definisca le
competenze e distribuisca le risorse necessarie perché ci sia sviluppo. Abbiamo bisogno di
norme che non siano costruite su di una realtà virtuale, che riconoscano l’importanza delle
etichette indipendenti al confronto con le major, che sostengano non solo le grandi
istituzioni ma anche chi ai concerti porta un pubblico senz’altro più numeroso, chi
rappresenta l’avanguardia nei campi dell’insegnamento e della formazione. La musica non
può essere vista solo come volano di immagine ma deve essere considerata per le enormi
potenzialità educative che ha e per la capacità di generare occupazione e ricchezza.
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Questa incapacità di fare sistema, di far diventare la musica, ed in generale la
cultura, uno dei motori della nostra economia è, allo stesso tempo, la prima causa e
l’inevitabile conseguenza dell’assoluta mancanza di capacità da parte delle
amministrazioni locali di produrre un progetto organico; al contrario vediamo interventi
ed iniziative estemporanee e al di fuori di qualsiasi quadro programmatico di riferimento.
Ci siamo mai chiesti quali siano i compiti di Regioni, Province, Comuni o Municipi
riguardo la cultura? In altri campi le responsabilità sono chiare: la Regione provvede alla
spesa sanitaria, la Provincià alla manutenzione degli edifici delle scuole superiori, il
Comune ripara le strade della città, i Municipi organizzano i centri estivi….. e per la
Musica? Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un proliferare di eventi che sembra
abbiano come unico scopo quello di promuovere l’immagine delle amministrazioni stesse.
Ed in questa bizzarra strategia i compiti degli enti locali si sovrappongono, moltiplicando
gli eventi gratuiti senza che ci sia attenzione che le risorse investite producano risultati
tangibili per l’occupazione e la stabilità dell’intero comparto.
Non possiamo continuare a parlare di musica come se essa rappresentasse un
bene di proprietà esclusiva di chi la riceve e non di chi la produce. Se si affronta la
questione dei taxi, nella nostra città, si cerca di coniugare gli interessi della categoria con
quelli della collettività, se parliamo di appalti pubblici ci preoccupiamo del rispetto dei
diritti di chi quel lavoro lo porterà avanti. Nella musica tutto questo è fantascienza, anzi,
forse siamo ancora al medioevo; ho scatoloni pieni di bandi pubblici che chiedono
proposte per l’organizzazione di concerti offrendo somme ridicole, importi che non
permettono che tutto sia realizzato nel rispetto della legalità. Pensiamo quanto possa
essere grave tutto ciò, visto che le amministrazioni locali sono, nel nostro Paese, il più
importante promotore di spettacoli dal vivo. Anche la stessa politica degli eventi gratuiti
andrebbe ripensata ed inserita in un quadro di riferimenti più ampio ed articolato, nel
quale gli interventi proposti siano realmente a supporto di una crescita ed una
maturazione collettiva ed aiutino lo sviluppo dell’industria culturale. Un mio collega mi
ha detto: cosa accadrebbe se anziché i concerti si regalasse, che so, la carne? Qualche bel
quarto di manzo tagliato a bistecche e spezzatino! Un giorno proviamoci, ci mettiamo in
piazza e cominciamo a distribuire salsicce gratis per tutti, una, due, cento volte! Cosa
direbbero coloro che la carne la vendono e costruiscono il loro reddito su questo? Non so
mai quante volte ho sentito, al botteghino di un concerto, la frase: Ma che si paga? Come
‘si paga?’, certo che si paga!?! Certo che si deve pagare! Se vogliamo che quello di cui
stiamo parlando divenga finalmente un mondo nel quale i diritti delle persone, che di
quello vivono, siano rispettati allora bisogna insegnare che la cultura, lo spettacolo,
l’educazione all’arte sono un bene necessario e perciò componente stabile del bilancio di
ogni famiglia.
Negli ultimi anni abbiamo visto prendere piede ad un malcostume intollerabile:
sono sempre meno, infatti, i bandi promossi dagli enti locali per l’organizzazione di
attività culturali e di spettacolo e le risorse impiegate per questo si riducono
progressivamente. Al contrario, sempre più spesso, assistiamo a forme di finanziamento
diretto, al di fuori di qualsiasi procedura concorsuale. E’ così che si spiegano i tanti soldi
spesi negli anni scorsi per Enzimi, o per il progetto RomaRock/RomaPop, o il
finanziamento delle costosissime attività per i bambini e per la formazione sulla didattica
per l’infanzia promosse dall’Accademia di Santa Cecilia e non rientranti, ovviamente, fra i
compiti istituzionale di questo ente. Stendiamo un velo pietoso sullo scandalo dei fondi
per la formazione che ha investito nei giorni scorsi il Conservatorio di Roma! Negli anni
ho consolidato un convicimento, ossia che ogni volta che ho sentito dire ‘per questa cosa
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non ci sono i soldi!’ chi parlava stava dicendo una bugia. I soldi, quando c’è la volontà
politica, ci sono sempre e lo dimostrano gli innumerevoli episodi in cui la pubblica
amministrazione ha finanziato in forma diretta progetti faraonici. Faraonici per quanto
riguarda le somme spese, non certo per quanto riguarda il ritorno per la collettività…..
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Ma abbiamo, nonostante tutto questo, grandi possibilità di sviluppo qualora
questa tendenza sia, finalmente, invertita e questo è possibile solo favorendo in ogni modo
una sinergia fra pubblico e privato; quando la pubblica amministrazione, le grandi
istituzioni, il mondo della scuola si accorgeranno di quale incredibile ricchezza è diffusa
sul territorio del nostro Paese, allora, tutto potrà cambiare. Come detto in precedenza, la
promulgazione di una legge sulla musica è elemento fondamentale per la risoluzione di
questi problemi ma lo è ancora di più una diversa distribuzione delle risorse disponibili,
che porti ad un sostanziale riequilibrio fra quanto speso a favore delle grandi istituzioni e
quanto è destinato agli altri soggetti. Molte volte ho sentito che parlando
dell’associazionismo si descrive questo mondo come confusionario, rissoso e impreparato,
al contrario non dovremmo mai dimenticarci che sono associazioni molte delle istituzioni
culturali italiane più importanti. Abbiamo qui autorevolissimi rappresentanti della
pubblica amministrazione ai quali chiedo impegno ed attenzione per tutto questo,
sintetizzandolo in uno slogan: Libertà per la Musica!
Tutti noi abbiamo un sogno. Io sogno una società in cui il filo rosso della musica
accompagni la vita di ogni cittadino. Nel paese di Verdi e Puccini ogni individuo dovrebbe
essere preso per mano dalla più tenera età e condotto in un percorso di conoscenza che lo
porti non solo ad amare e conoscere la musica ma a crescere meglio con e attraverso essa;
lo aiuti a sviluppare la propria personalità in armonia e gli dia gli strumenti per divenire
una persona migliore, perché la musica può tutto questo. Sogno un Paese che si ponga
davanti a queste questioni in modo laico e che non sia ottenebrato dalla fama e dalla
ridondanza propria delle grandi istituzioni, quasi fossero moderne divinità, ma che
rispetti e sostenga anche il più piccolo centro di produzione indipendente, che consideri le
avanguardie come componenti indispensabili per la crescita culturale delle persone. Sogno
un mondo in cui i miei amici e colleghi siano rispettati e abbiano gli stessi diritti che altre
categorie di lavoratori hanno conseguito da decenni. Mi auguro che oggi sapremo avere
un confronto sincero e utile su tutto questo.
Grazie a tutti per l’attenzione.
Stefano Ribeca
(Presidente della Scuola Popolare di Musica Donna Olimpia di Roma)
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