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trimestrale dell’associazione Diabolus in Musica
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numero 2 _ Speciale Eterotopie altri luoghi 08
FIORENZA BRIONI • PAOLO GIANOLIO • ENRICO VOCERI • MICHEL FOUCAULT • MYLICON/EN • GIOVANNA VENTURINI
• ALESSANDRO CAPPABIANCA • LETIZIA MICHIELON • GYÖRGY LIGETI • CARLO SERRA • MAURO GRAZIANI •
CORRADO ROJAC • PAOLO PEREZZANI • MICHELE EMMER • EDWIN ABBOTT • RICCARDO MASSARI SPIRITINI
• PAOLO CAVINATO • GIORGIO SANCRISTOFORO • SIMONA BERTOZZI • CELESTE TALIANI • MATTEO MOLINARI •
MICOL FERRETTI • IGOR STRAVINSKIJ • LUIGI MANFRIN • LEONARDO ZUNICA • ENRICO ALBERINI
trimestrale dell’associazione Diabolus in Musica
numero 2 _ Speciale Eterotopie altri luoghi 08
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editoriale
Come
uno scoglio di roccia calcarea, l’arte è sfaccettata, ambigua, polimorfa, insidiosa,
complessa: presuppone una tensione costante, un’idea di salita, di conquista, di espugnazione. È un
luogo fisico di attraversamenti, è una frontiera. La salita implica un rischio, è fatta di tappe, slanci,
battute d’arresto e, finalmente, di vittoria sul limite.
Come lo scoglio, i linguaggi contemporanei dell’arte nascono e muoiono in un terreno favoloso e
leggendario, che sfugge alla cronologia, alla possibilità di una definizione, vivono negli interstizi delle
parole, nel luogo senza luogo dei sogni.
Eterotopie è esso stesso scoglio e roccia. Rappresenta la ricerca di altri modi, l’invenzione di uno
spazio reale ed utopico allo stesso tempo, in cui la musica dialoga con le sue possibilità di reinventarsi,
il gesto di farsi comprendere, l’immagine di evocare.
Eterotopie, giunto alla quinta edizione, prosegue il suo itinerario accettando, candidamente e
seriamente, la sfida complessa del contemporaneo.
Il crescente consenso del pubblico, la significativa partecipazione delle istituzioni, il sostegno degli
sponsors, l’attenzione di importanti enti culturali, accompagnano e rendono possibile la realizzazione
di questo progetto, che si sta configurando come punto di riferimento di giovani artisti e compositori
emergenti che, silenziosamente e coraggiosamente, descrivono e creano il paesaggio sonoro e visivo
del nostro tempo.
Diabolus in musica
Editoriale
redazione
Leonardo Zunica
Giovanna Venturini
Micol Ferretti
grafica Paola Pradella
editing
Paolo Vanini
Mariangela Mattioli
Ivan Fiaccadori
hanno collaborato
Fiorenza Brioni
Paolo Gianolio
Enrico Voceri
Alessandro Cappabianca
Letizia Michielon
Carlo Serra
Mauro Graziani
Corrado Rojac
Paolo Perezzani
Michele Emmer
Riccardo Massari Spiritini
Paolo Cavinato
Giorgio Sancristoforo
Simona Bertozzi
Celeste Taliani
Micol Ferretti
Matteo Molinari
Luigi Manfrin
Enrico Alberini
Contributi
di F. Brioni, P. Gianolio, E. Voceri
3
Piccolo dizionario degli artisti
4
Utopie Eterotopie
di Michel Foucault
6
La Grande Guerra
di Enrico Alberini
23
mercoledì
27_8
giovedì
28_8
si ringraziano
Adelphi edizioni
Cronopio edizioni
EDT edizioni
ISBN edizioni
Antonio Galuzzi
Roberto Piccinini
stampa FDA Eurostampa
di Borgosatollo BS
in copertina “Scoglio/R”
foto di Leonardo Zunica
Associazione Culturale
Diabolus in Musica
Via Eremo, 37/A
46010 Curtatone MN
venerdì
29_8
www.diabolusinmusica.org
www.eterotopie.it
www.myspace.com/eterotopie
[email protected]
Registrato presso il Tribunale di
Mantova N. 4/2008
Registro di stampa in data
16 Giugno 2008
Direttore responsabile
Leonardo Zunica
Stampato in 5.000 copie
2
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sommario
pag 2
Cartoline dal Vietnam
di Mylicon/EN
Societas Raffaello Sanzio
Madrigale Appena Narrabile
di Giovanna Venturini
Il corpo (filmico) della musica
di Alessandro Cappabianca
Sintesi interculturale e
teatralizzazione del tempo negli
Études pour piano di György Ligeti
di Letizia Michielon
6
7
s
sabato
30_8
domenica
31_8
La mia posizione
di compositore oggi
di György Ligeti
10
Spazio Visivo #3 - Soglia
di Paolo Cavinato
15 lunedì
Corpo Sonoro e risonanza
di Carlo Serra
p
24
8
26
01_9
Omaggio a Oliver Messiaen
Uno scrigno
di ricordi e polvere
di Mauro Graziani
12 martedì
Liturgia e Catarsi
di Corrado Rojac
14
With drum and colors e addio
di Paolo Perezzani
14
pag 2
Editoriale
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e
L’avventura di un povero quadrato
di Michele Emmer
28
Of the nature of Flatland
di Edwin A. Abbott
29
Cadenze oblique
di Riccardo Massari Spiritini
15
Tech Stuff
di Giorgio Sancristoforo
30
Sonorika V - Riverberi
di Giovanna Venturini
16
Terrestre in progress n°1
di Simona Bertozzi e Celeste Taliani
17
The Spook Speaks II
Intervista a El Gallo Rojo
di Micol Ferretti
18
Il mondo magico
di Ladislas Starewitch
di Matteo Molinari
19
Le Sacre du Printemps
Ricordi e commenti
di Igor Stravinskij
20
To the end of surfaces
di Luigi Manfrin
21
Un incontro perfetto
di Leonardo Zunica
22
Fiorenza Brioni
(Sindaco di Mantova)
Paolo Gianolio
(Vicesindaco e Assessore alla Cultura del Comune di Mantova)
I linguaggi dell’arte più recenti e incontaminati, più inesplorati dalla critica e quindi generalmente meno accessibili al
pubblico, stanno assumendo, in questi ultimi anni di attività del Centro Internazionale d’Arte e di Cultura di Palazzo Te, un ruolo
tutt’altro che secondario nella sua programmazione artistica. Conosciuto come cuore organizzativo di grandi eventi espositivi
dedicati ai nomi e ai periodi più significativi della storia dell’arte antica e moderna, il Centro di Palazzo Te accoglie infatti, sempre
con maggiore passione, gli stimoli e la ricchezza delle espressioni più attuali sia della pittura, sia delle forme qui meno frequentate
come il teatro, musica e danza, e sostiene con determinazione i progetti che mettono in luce gli aspetti più originali e notevoli.
L’occasione di misurarsi in queste nuove esperienze è spesso offerta dalle proposte di giovani artisti, mantovani e non, che con
il loro lavoro creano una rete di stimolanti collegamenti tra le varie discipline e interconnessioni temporali: citano il passato, e ci
presentano i concetti, i metodi e i risultati artistici del domani. Alla loro creatività va rivolta un’attenzione particolare che subito
deve tradursi in gesto di incoraggiamento e disponibilità economica. Con questo spirito viene promosso il festival Eterotopie, altri
luoghi curato da Leonardo Zunica e Giovanna Venturini, che riuniscono a Mantova i talenti eterogenei di danzatori, musicisti,
attori e artisti noti ed emergenti.
Enrico Voceri
(Presidente Centro Internazionale d’Arte e di Cultura di Palazzo Te)
c o n t r i b u t i
A
lcuni studi recenti ritengono che la nozione moderna di paesaggio, quale luogo privilegiato della cultura del territorio,
sia nato in Europa nel XVI secolo contestualmente alla prospettiva rinascimentale. Mantova che, con il suo patrimonio storicoartistico e la sua azione di conservazione e valorizzazione, è stata riconosciuta dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità,
ha l’opportunità di porsi come esempio di riferimento, incentivando l’azione di conservazione del suo “paesaggio culturale”
e introducendo un ordine inedito nel territorio. E’ un disegno culturale virtuoso che comprende l’ unicità dei beni naturali e
materiali, delle risorse economiche e culturali, delle relazioni umane, dei rapporti con l’esterno. E’ una scelta coraggiosa e non
facile, che può essere vincente solo con l’apporto di tutti, con la consapevolezza che ogni atto di carattere innovativo, dinamico
e creativo debba poggiare la sua incisività sul rispetto e sulla conoscenza approfondita dell’ambiente e del territorio della nostra
città e sull’analisi dei complessi e articolati elementi di cui è plasmata la nostra identità. Il governo degli equilibri, nel rispetto del
passato e con la prospettiva di un futuro del fare e del vivere di qualità, deve trovare corrispondenza nella raffigurazione di un
mondo fatto di spazi che alludono ad altri spazi, di luoghi che prevedono altri luoghi, di riflessioni e pensieri che rispondano alle
esigenze della comunità.
Eterotopie è la declinazione nel presente e nel contemporaneo di questa argomentazione, con la convinzione profonda che l’arte
sia un concetto aperto le cui condizioni mutano con il mutare dei contesti e grazie alla creatività umana. La musica, la danza,
il teatro, le arti multimediali contemporanee, i movimenti e le avanguardie rispecchiano una percezione della realtà, la forza
potente dell’inventiva e la capacità di creare nuove prospettive e visioni del mondo. Di tutto ciò dobbiamo sempre tenere conto
sostenendo e promuovendo la contemporaneità, pur con tutte le difficoltà di approccio e comprensione, che sono sì un limite ma
anche una sfida.
Siclafin srl
SICLAinvestimenti srl
SICLAgricoltura srl
Piazza San Francesco, 7 - 46100 Mantova
Tel 0376 220318 Fax 0376 225770
[email protected]
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PICCOLO DIZIONARIO
DEGLI
ARTISTI
Mauro Graziani. Compositore.
Dice di sé: “Come molti altri ho due vite, a tratti tenute insieme con
colla di bassa qualità, ma che a volte si fondono dandomi quasi
l’impressione di percorrere un’unica strada. In realtà, so fare bene
una cosa sola: trattare con i computers. Questo è quello che mi viene
naturale e facile. Che poi questa dote abbia trovato applicazione nel
campo dell’ICT (sono analista free-lance, consulente e formatore da
più di 20 anni) e in quello musicale (attività compositiva, di ricerca e
di insegnamento da più di 1/4 di secolo), è una questione secondaria.
Simona Bertozzi. Danzatrice.
Tra le più accreditate nell’ambito della danza contemporanea italiana.
Lavora dal 2005 nella Compagnia Virgilio Sieni Danza, prendendo
parte a numerosi progetti e produzioni tra cui: Mi difenderò (2005),
Five Dreams (2006), Piega Canova (2006), Un Respiro (2006-2007),
Tregua (2007-2008). Con Terrestre N.1 (2008), partecipa al Festival di
Santarcangelo.
Massimo Biasioni. Compositore.
Ha composto musica orchestrale e da camera, per strumenti tradizionali
ed elettronici, musica per teatro e per video. Suoi brani sono stati
incisi su compact disc, radiotrasmessi dalla RAI e da altre emittenti ed
eseguiti in importanti manifestazioni fra cui “World Music Days” (ISCM)
a Yokohama, festival “Synthèse” di musica elettroacustica a Bourges,
festival L.I.M. a Madrid, “Sonopolis” a Venezia, Teatro Argentina a
Roma, Festival Musica ‘900 Trento.
Alessandro Cappabianca. Architetto.
È nel direttivo di “Filmcritica”. Per la collana “Il Castoro cinema” ha
scritto una monografia su Erich von Stroheim e su Billy Wilder. Con M.
Mancini è autore di Ombre urbane. Set e città dal cinema muto agli
anni ‘80 e, con M. Mancini e U. Silva, di La costruzione del labirinto.
Ha curato, con altri, il volume Michelangelo Antonioni. Architetture della
visione.
Flavia Casari. Pianista.
Talento emergente della scena pianistica italiana, si dedica
particolarmente alla musica del XX e del XXI secolo, eseguendo autori
come Webern, Schönberg, Messiaen, Cage, Crumb, Xhuvani, Perezzani.
Segue gli insegnamenti di K. Bogino, V. Pavarana e A. Ambrosini. Nel
marzo 2007 si è laureata col massimo dei voti e lode alla facoltà di
Filosofia presso l’università degli studi di Verona con una tesi su John
Cage.
Paolo Cavinato. Artista.
Ha recentemente creato installazioni per la 9 Biennale d’Istanbul. Nel
2006 ha partecipato ad eventi espositivi quali: Salone Satellite di Milano;
Bigscreen Italia a Kunming in Cina; Intimate Spaces alla CVB Gallery di
New York; Benin Sultanahmetim all’Istituto Veneto di Cultura di Venezia.
Nel 2008 è vincitore del Premio Fondazione Arnaldo Pomodoro.
El Gallo Rojo. Collettivo musicale.
Tra i gruppi più attivi sulla scena italiana, è un contenitore senza etichette
stilistiche, un collettivo di musicisti con una naturale inclinazione alla
sperimentazione e all’incrocio linguistico. Attorno ad una etichetta
discografica, scambiano idee, consigli, esperienze d’ascolto. Realizzano
performance.
Michele Emmer. Professore di Matematica all’Università
La Sapienza di Roma. Si occupa inoltre di cinema scientifico, di arte e
scienza. Ha organizzato mostre, convegni e realizzato film e video. Ha
realizzato 18 film della serie Arte e Matematica che hanno fatto il giro
del mondo. Di essi ricordiamo Il nastro di Moebius, Flatlandia e uno
spettacolare Bolle di sapone. Ha vinto nel 1998 il premio Galilei per la
divulgazione scientifica.
Cecilia Fontanesi. Giovane danzatrice.
È da anni impegnata nell’ambito della danza contemporanea,
completando la sua formazione in Italia e all’estero. Ha al suo attivo
diversi spettacoli e performances. Lavora presso il Centro di formazione
professionale Opus Ballet (Firenze).
Luigi Manfrin. Compositore.
Nasce in Australia. Le sue composizioni sono state eseguite in festival
e rassegne internazionali fra le quali: Milano Musica, Nuove Sincronie
(Milano), Societè de Musique Contemporaine (Losanna), Gaudeamus
Music Week (Amsterdam). I suoi lavori sono stati trasmessi da RAI 3,
dalla Radio Svizzera Francese, e sono editi dalla casa editrice Suvini e
Zerboni di Milano.
Letizia Michielon. Pianista.
Ha suonato per numerose associazioni, tra cui la Fondazione Teatro La
Fenice, la Società dei Concerti di Milano, Amici della Musica di Padova,
Amici della Musica di Venezia, Amici della Musica di Vicenza, Fondazione
G. Cini di Venezia e la Società del Quartetto di Busto Arsizio. Si è esibita
al Teatro la Fenice di Venezia, al Conservatorio “G. Verdi” e al Teatro delle
Erbe di Milano, al Teatro Euclide (Roma), alla Sala Mozart (Bologna),
al Mozarteum (Salisburgo), al Festsaal di Freiberg, al Teatro di Epinal
(Francia) e all’Abravanel Hall (Salt Lake City). Sue registrazioni sono state
trasmesse dalla RAI, dalla Radio di Salt Lake City e dalla NHK di Tokyo.
Carlo Miotto. Percussionista.
Lavora presso l’Orchestra dell’Ente Lirico dell’Arena di Verona. È
direttore artistico del Festival Variazioni di Pressione (Verona). Si dedica
all’esecuzione di musiche di autori contemporanei, come Bartòk,
Stravinsky, Cage, Carter, Crumb, Xenakis.
Mylicon/En. Duo formato da Lino Greco e Daniela Cattivelli.
È impegnato nella sperimentazione di modi alternativi di concepire il live
audio-video, recuperando performatività e concretezza attraverso l’uso
di dispositivi analogici, digitali e meccanici.
Federico Mosconi. Chitarrista.
Collabora con Mauro Graziani al progetto S.N.O.W. (Sound, Noise and
Other Waves), risultato di improvvisazioni, viaggi nell’immaginario,
dialoghi attraverso il suono, costruzione (elaborazione) di scenari aperti
ad ogni possibile variazione, stratificazioni di idee o scarti improvvisi
verso altri scenari e soluzioni”.
Paolo Perezzani. Compositore.
Dopo aver iniziato la propria formazione musicale come autodidatta,
inizia a studiare composizione con Salvatore Sciarrino. Nel 1992 vince
il Concorso Internazionale di Composizione di Vienna con Primavera
dell’anima (per orchestra), lavoro che è stato eseguito dalla Gustav
Mahler Jugendorchester nell’ambito del Festival Wien Modern, con la
direzione di Claudio Abbado. Alcune sue composizioni sono state diffuse
dalla RAI e da diverse Radio nazionali di altri Paesi.
Corrado Rojac. Fisarmonicista e
compositore. Ha suonato per Aspekte (Salisburgo), Biennale di
Zagabria, Chromas (Trieste), Musicarte (Torino), Novurgia (Milano),
Aterforum (Rimini), Mundus (Reggio Emilia), Estate musicale sorrentina
(Napoli), La Fenice (Venezia), Amici della musica (Padova), Rive-gauche
(Torino, 2001), Spazionovecento (Cremona), Nuovi spazi musicali
(Roma), Festival Pontino.
Oleksandr Semchuk. Violinista.
È stato insignito nel 2001 del titolo di “Artista Nazionale Ucraino”.
Ha suonato come solista e in formazioni da camera in Russia, Ucraina,
Svezia, Germania, Corea, Svizzera, Australia, Stati Uniti. Insegna
presso la Scuola Superiore di Musica di Fiesole: tiene numerosi corsi di
perfezionamento in città italiane come Mantova e Bergamo. I suoi allievi
sono stati premiati in importanti concorsi internazionali.
Carlo Serra. Filosofo della musica.
Si occupa di morfologie dello spazio musicale e dell’analisi delle strutture
ritmiche, a cui ha dedicato numerose pubblicazioni tra cui: Intendere
l’unità degli opposti (CUEM 2003), La rappresentazione fra paesaggio
sonoro e spazio musicale (CUEM 2005). Insegna presso il DAMS di
Arcavacata di Rende e presso l’Università degli Studi di Palermo.
Dirige con Giovanni Piana, Elio Franzini e Paolo Spinicci il sito “Spazio
Filosofico”.
Socìetas Raffaello Sanzio. Compagnia teatrale
italiana. Nata a Cesena nel 1981 dall’incontro dei fratelli Claudia e
Romeo Castellucci e Chiara e Paolo Guidi ha dato vita ad un teatro
lucidamente visionario e provocatorio con un uso estremo del corpo e il
concepimento di complesse macchine teatrali.
Rossella Spinosa. Pianista e compositrice. Si è esibita come
solista e in diverse formazioni presso i più importanti teatri e festival
(tra cui il Teatro degli Arcimboldi di Milano, il Teatro Sociale di Como, il
Teatro Dal Verme di Milano, la Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco
della Musica di Roma, il Teatro Comunale di Benevento, Festa Europea
della Musica di Roma, Festival Novecento in Musica di Ancona, Sistema
Musica di Torino, Compositori a confronto di Reggio Emilia, Centro
Culturale di Stato di S. Pietroburgo, Festival Internazionale di Benevento)
in Europa, Russia, Stati Uniti e Canada.
Riccardo Massari Spiritini. Compositore, sound artist,
performer. Il suo lavoro è aperto alle continue trasformazioni e spesso
connesso con la poesia, il teatro, il video. Collabora con il collettivo di
artisti visivi Obliqua. Vive e lavora a Barcellona.
Cristiano Tassinari. Artista visivo.
Realizza numerose mostre personali, tra cui: Doppio Sguardo, a cura
di Daniele Masini, presso il Foyer Teatro Diego Fabbri di Forlì (2004),
Opera incisa, alla Galleria Graffio di Bologna (2005); Heads, a cura di
Andrea Bondanini, presso la Libreria Bocca di Milano (2007). Nel 2006
è il vincitore del Premio Italian Factory per la giovane pittura italiana.
Nel 2008 prende parte alla collettiva La Nuova Figurazione Italiana To
be continued... che presenta le ricerche pittoriche figurative di questo
ultimo decennio alla Fabbrica Borroni, Bollate (Milano). Vive e lavora
a Berlino.
Tobor Experiment (alias Giorgio Sancristoforo). Sound
designer, tecnico del suono e docente di Sintesi al SAE International
Technology College, ha all’attivo musiche per il cinema, televisione, una
lunga serie di collaborazioni a progetti di sound art in tutto il mondo. Il
suo sito è gleetchplug.com
Stefano Trevisi. Compositore.
Sue composizioni sono state eseguite in rassegne come Gaudeamus
Music Week. (Amsterdam), Internationale FerienKurse (Darmstadt),
Acousmania 06 (Bucarest), Zeppelin (Barcellona), Rai Nuova Musica
2006, Synthèse 2006 (Bourges), 51a Biennale di Venezia. I suoi lavori
sono editi per Rai-Trade.
Giovanna Venturini. Danzatrice e perfomer.
Svolge da oltre un decennio attività nell’ambito della danza
contemporanea e del teatro danza. Apprezzata interprete, ha collaborato
con figure importanti della scena contemporanea italiana, tra i quali
Monica Francia, Daniele Ziglioli, Nicola Laudati. Con il lavoro Pensatoio
Tre Cubi (06 - Produzione Diabolus in Musica) ha ottenuto la menzione
speciale al 33° Festival di Bourges.
Leonardo Zunica. Pianista.
Svolge attività concertistica in Italia e in Europa. Si è esibito in sale come
FestSaal di Vienna, Rachmaninov Saal di Mosca, Teatro Romano di Fiesole,
Teatro Bibiena di Mantova, Sala Maffeiana di Verona. È stato ospite in
festival e stagioni concertistiche come Società dei Concerti di Milano,
Amici della Musica di Verona, Società della Musica di Mantova, Festival
Galuppi di Venezia, International Festival di Poreç, Kiev Music Festival.
È direttore artistico del festival Eterotopie altri luoghi.
presso Zanzara - lungo lago di Porta Mulina
eterotopie, altre notti
tutte le sere, dalle 23.00 alle 2.00
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creta engineering per la musica
www.eterotopie.it
CRETA ENGINEERING
EDILIZIA RESIDENZIALE CHIAVI IN MANO
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UTOPIE
ETEROTOPIE
di Michel Foucault
Ci sono dunque paesi senza luogo e storie senza cronologia; città, pianeti, continenti, universi, di cui sarebbe certo impossibile
trovare traccia in qualche carta geografica o in qualche cielo, semplicemente perché non appartengono a nessuno spazio. Probabilmente
queste città, questi continenti, questi pianeti sono nati, come si suol dire, nella testa degli uomini o, a dire il vero, negli interstizi delle parole,
nello spessore dei loro racconti o anche nel luogo senza luogo dei loro sogni, nel vuoto dei loro cuori; insomma è la dolcezza delle utopie.
Credo tuttavia che ci siano – e questo in ogni società – delle utopie che hanno un luogo preciso e reale, un luogo che si può localizzare su
una carta; utopie che hanno un tempo determinato, un tempo che si può fissare e misurare secondo il calendario di tutti i giorni. E’ molto
probabile che ogni gruppo umano, quale che sia, si ritagli dei luoghi utopici nello spazio che occupa, in cui vive realmente, in cui lavora, e
dei momenti ucronici nel tempo in cui si affaccenda e si agita.
Ecco che cosa voglio dire. Non si vive in uno spazio neutro e bianco; non si vive, non si muore, non si ama nel rettangolo di un
foglio di carta. Si vive, si muore, si ama in uno spazio quadrettato, ritagliato, variegato, con zone luminose e zone buie, dislivelli, scalini,
avvallamenti e gibbosità, con alcune regioni dure e altre friabili, penetrabili e porose. Ci sono le regioni di passaggio, le strade, i treni,
le metropolitane; ci sono le regioni aperte della sosta transitoria, i caffé, i cinema, le spiagge, gli alberghi, e poi ci sono le regioni chiuse
del riposo e della casa. Ora, fra tutti questi luoghi che si distinguono gli uni dagli altri, ce ne sono alcuni che sono in qualche modo
assolutamente differenti; luoghi che si oppongono a tutti gli altri e sono destinati a cancellarli, a compensarli, a neutralizzarli o a purificarli.
Si tratta in qualche modo di contro-spazi. I bambini conoscono benissimo questi contro-spazi, queste utopie localizzate. L’ angolo remoto
del giardino, la soffitta o, meglio ancora, la tenda degli indiani montata al centro della soffitta, e infine – il giovedì pomeriggio – il grande
letto dei genitori. E’ in quel letto che si scopre l’ oceano, perché tra le sue coperte si può nuotare; ma quel letto è anche il cielo, perché sulle
sue molle si può saltare; è il bosco, perché ci si può nascondere; è la notte, perché fra le sue lenzuola si diventa fantasmi; ed è il piacere,
perché al ritorno dei genitori si verrà puniti.
Questi contro-spazi non sono, in verità, soltanto l’invenzione dei bambini: semplicemente perché i bambini non inventano mai
niente; sono gli adulti, invece, che hanno inventato i bambini e sussurrato loro mirabili segreti, anche se poi restano sorpresi quando i
bambini glieli urlano a loro volta nelle orecchie. La società adulta ha organizzato anch’essa, e ben prima dei bambini, i suoi contro-spazi, le
sue utopie situate, i suoi luoghi reali fuori da tutti i luoghi. Ci sono i giardini, i cimiteri, i manicomi, le case chiuse, le prigioni, i villaggi del
club Méditerranée e molti altri.
Sì, sogno una scienza – dico proprio una scienza – che abbia come oggetto questi spazi diversi, questi altri luoghi, queste contestazioni
mitiche e reali dello spazio in cui viviamo. Questa scienza non avrebbe il compito di studiare le utopie, perché bisogna riservare questo
nome a ciò che veramente non ha nessun luogo, ma le etero-topie, gli spazi assolutamente altri; la scienza in questione dovrebbe
necessariamente chiamarsi, anzi si chiamerà, si chiama già, etero-topologia.
tratto dal volume “Utopie Eterotopie” di Michel Foucault (2006)
Gentilmente concesso da Cronopio Edizioni
cartoline dal vietnam
Cortile Meridionale
dalle ore 20.00
mercoledì
27_8
C
osa rimane dell’immagine del
Vietnam a 30 anni dalla vittoria della guerra?
Che rimosso rappresenta oggi nell’occidente un
paese che è stato il simbolo di una rivoluzione
vittoriosa contro l’impero americano? Poco si
è parlato del Vietnam in questo anniversario.
Il Vietnam diviene opaco, complesso,
transatlantico6
contraddittorio. In questi loop abbiamo tentato
di lavorare sul filo dell’immagine e della memoria
di un esotico che fa resistenza. Esotizzazione,
differenza, ma anche flusso, movimento...
Cartoline dal Vietnam è un progetto in corso
di Mylicon/En dedicato ai 30 anni dalla guerra
piú mediatizzata e “cinematografica” di
tutti i tempi. Le Cartoline sono dei loop con
microvariazioni interne, il congelamento di
gesti e movimenti, non si procede se non con
scarti minimi. Tutto si ripete all’infinito e diventa
quasi astratto. Ogni Cartolina ha il nome di un
villaggio sperduto nella foresta nel nord del
Vietnam, vicinissimi alla Cina, li nella Casa/
Capanna del capovillaggio è facile trovare le
medaglie al valore per i servigi prestati durante
la guerra, di fianco alla foto di Ho Chi Min.
“Questo non è un film sul Vietnam, questo è il
Vietnam” recitava il sottotitolo di “Apocalypse
di Mylicon/EN
Now” di Francis Ford Coppola, il film che
per molti critici ed intellettuali sancisce
definitivamente la fine della storia e l’ingresso
nello “spettacolo”. Tutti conoscono il Vietnam,
Saigon, il Fiume Rosso e il Mekong, i Viet
Cong - Charlie - e Ho Chi Min, lo zio Ho. Il
Vietnam ha smesso di esistere nella storia e
nella geografia per entrare nell’immaginario
e nell’immaginazione collettiva. Il Vietnam
che porta ancora i segni dell’orrore, Napalm e
non solo, il Vietnam che orgoglioso rivendica
la sua “vittoria”, il Vietnam degli anziani che
parlano in Francese, il Vietnam che non ha mai
vissuto lunghi periodi di pace, il Vietnam che è
riuscito a fermare Gengis Khan e la sua orda. E’
facile imbattersi oggi a Saigon come ad Hanoi
nell’Apocalypse Now Bar.
Socìetas Raffaello Sanzio
madrigale appena narrabile
Fruttiere di Palazzo Te
ore 21.00 e 22.30
mercoledì
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Socìetas Raffaello Sanzio
Madrigale Appena Narrabile
(2007)
per voce e violoncello
Claudia Castellucci, testi
Scott Gibbons, musica
Chiara Guidi, drammaturgia
Eugenio Resta, violoncello
voci
Marco Andreetti
Angela Burico
Alessandro Cafiso
Mara Cassiani
Agata Castellucci
Eva Castellucci
Teodora Castellucci
Maria Costantini
Rascia Darwish
Gabriella Maria Gasparri
Simona Generali
Diego Invernizzi
Margareth Kammerer
Sabina Laghi
Sandro Mabellini
Sara Masotti
Caterina Moroni
Alessandra Pasi
Eugenio Resta
Eleonora Ribis
Gregorio Valducci
di Giovanna Venturini
Madrigale fa pensare a qualcosa di antico, porta con sé un immaginario
d’altri tempi. La parola colpisce per la sua sonorità aperta e persino vagamente
solenne. La sua origine è a tutt’oggi discussa, se ne ipotizza l’etimologia dal latino
volgare mandria-mandrialis in riferimento al contenuto rustico e pastorale. Ma è
presente anche nel Provenzale, nell’antica lingua d’oc, mandra gal, canto di pastori
o ancora nello spagnolo mandrugada, canto dell’alba. Altri attribuiscono l’origine
del nome Madrigale al termine materialis, ovvero cose di argomento profano, in
contrasto con spiritualis.Tecnicamente il madrigale è una composizione poetica, di
carattere profano, composta da otto o quattordici versi, per lo più endecasillabi,
divisi in terzine e legati da rime baciate, scritte per essere musicate. Il madrigale
era un genere molto praticato durante il Trecento, visse un momento di eclissi nel
Quattrocento e raggiunse il suo apogeo nel corso del XVI secolo, in cui i compositori
dedicavano una cura particolare alla corrispondenza tra suono e testo, attraverso
ricerche cromatiche ed espressive, con effetti d’eco e di contrappunto.
Madrigale appena narrabile di Chiara Guidi e Scott Gibbons sui testi di Claudia
Castellucci è la presentazione sperimentale di un madrigale nuovo, un madrigale
contemporaneo.
Si tratta di una partitura musicale intessuta attorno a testi brevi ed essenziali, che
sviluppano il tema di un incontro fortuito tra un uomo e un cane. Il canto corale si
unisce alla recitazione, la parola incontra la musica senza alcuna struttura gerarchica,
ogni elemento si colloca in un punto di consistenza “appena narrabile”.
Il fraseggio sincopato si muove attorno ad un’espressione prossima al singulto, così
come le frasi mozzate sono proprie di un compianto. Non si tratta della gamma
completa di una voce colta nel pianto, ma il senso integrale viene restituito
dall’insieme sinfonico formato dalla frase nella sua verità. C’è un silenzio attonito,
c’è attesa, trattenimento, voce racchiusa, voce che scorre nella sua fluidità, dallo
scoppio al soffio sottile.
Occorre grande attenzione a quello che sta prima e a quello che sta dopo le mutilazioni
sonore. Occorre ascoltare cosa scaturisce da quel punto protetto e inaccessibile in
mezzo al proscenio, circondato da sedici figure raccolte in un’ensemble polifonica.
Occorre concentrazione per cogliere le sfumature del racconto, che scorre tra i respiri
e le pulsazioni gutturali.
Occorre una profonda disponibilità a cogliere le parole, le poche rimaste, le sole che
sembrano ancora possedere qualche segreto, qualche mistero.
Questo madrigale del XXI secolo appare dunque come un concentratissimo
esperimento che porta l’eco di una tradizione antica fin dentro la contemporaneità, un
esperimento coraggioso, nato da una delle più importanti e significative compagnie
del teatro di ricerca italiano, la Raffaello Sanzio.
transatlantico7
Sintesi interculturale e teatralizzazione del tempo
negli Études pour piano di György Ligeti.
di Letizia Michielon
Sala dei Cavalli
ore 21.00
giovedì
28_8
Letizia Michielon, pianoforte
Fabio Grasso
Étude - Impromptu,
Hommage à Ligeti (2007)
György Ligeti
Études pour piano,
premier livre (1985)
1. Désordre
2. Cordes à vide
3. Touches bloquées
4. Fanfares
5. Arc - en - ciel
6. Automne à Varsovie
Frédéric Chopin
12 Studi op. 25 (1829-1836)
1. Allegro sostenuto
2. Presto
3. Allegro
4. Agitato
5. Vivace
6. Allegro
7. Lento
8. Vivace
9. Allegro assai
10. Allegro con fuoco
11. Lento. Allegro con brio
12. Molto Allegro, con fuoco
transatlantico8
N
el linguaggio poliedrico di György Ligeti si fondono
abilmente immaginazione musicale, interculturalità, interessi
scientifici e suggestioni estetiche tra le più varie, che donano vita
ad universi sonori intrecciati saldamente alla tradizione, ma nel
contempo proiettati verso un orizzonte futuro che si tinge di tratti
utopici e visionari.
Gli Études pour piano, premier livre, opera cruciale della produzione
ligetiana, pubblicata nel 1985, incarnano emblematicamente lo stile
stratificato del maestro ungherese, giunto in quegli anni alla piena
maturità creativa.
Dopo il primo periodo di formazione nella terra di origine - ove,
pur in un’atmosfera culturalmente e politicamente repressiva, opera
ancora con estrema vitalità la feconda lezione di Bartók e Kodaly - e la scoperta rivelatrice, negli anni
Cinquanta, delle più recenti intuizioni di Cage, Boulez e Stockhausen, Ligeti inventa, tra la fine degli
anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, un proprio percorso espressivo coerente, teso alla ricerca di
nuove architetture compositive che ripensano alla radice i parametri del tempo e dello spazio sonoro.
Lo sperimentalismo prosegue con le opere degli anni Sessanta e Settanta , nei quali si approfondiscono
la ricerca micropolifonica e l’interesse per le componenti melodiche e ritmiche.
Tra il 1978 e il 1982 Ligeti matura un ritorno critico alla tradizione, arricchito da una curiosità sempre
più versatile che riesce a connettere tra loro riflessioni estetiche e scientifiche. Tre anni dopo le Drei
Phantasien su testi di Hölderlin e il celebre Trio per violino, corno e pianoforte, dedicato alla memoria
brahmsiana, viene pubblicata la prima raccolta degli Études per pianoforte, considerati unanimemente,
per originalità di scrittura e innovazione della tecnica pianistica, uno dei capolavori della letteratura
musicale del secondo Novecento.
Il ciclo si compone di sei brani, parti di un organismo unitario, frutto di una prodigiosa capacità di
sintesi che riesce ad amalgamare in uno stile personale i modelli estetici ereditati dalla tradizione
musicale colta (in particolare Chopin, ma anche Liszt, Schumann, Brahms, Debussy, Ravel, Bartók),
gli spunti tratti dal folclore ungherese, rumeno, balcanico, portoricano e africano, la conoscenza
delle opere per pianoforte meccanico realizzate da Conlon Nancarrow, il linguaggio jazzistico e le
suggestioni evocate dalle teorie scientifiche di quegli anni.
Se la raccolta di Studies for Player Piano di Nancarrow rappresenta una sfida avvincente per realizzare,
nei limiti imposti a un interprete umano, le sovrapposizioni e progressive gradazioni di velocità
raggiunte dal compositore americano con i pianoforti meccanici grazie all’utilizzo di una particolare
perforatrice, saranno soprattutto le teorie esposte da Simha Arom nei saggi etnomusicologici dedicati
alle poliritmie sub-sahariane a rendere possibile la sovrapposizione di periodi musicali complessi, la
cui unità di fondo viene garantita dalla continuità di una pulsazione isocrona.
A tali desuete fonti di ispirazione, Ligeti unisce l’attrazione esercitata da alcune fondamentali intuizioni
matematiche e fisiche di quegli anni: il pensiero generativo del computer (da cui sorge l’idea di dare
vita a forme musicali “vegetali”), la teoria del caos (che propone un’interpretazione dei fenomeni
caotici fondata sulla progressiva alternanza di ordine e disordine) e il fascino evocato dalla geometria
frattale, sorta di arte astratta in grado di restituire visivamente la sensazione di un tempo incantato,
quasi congelato.
Nonostante Ligeti dichiari di avere voluto realizzare, con la prima collana di Studi, brani di carattere
eminentemente virtuosistico, estranei ad ogni categoria stilistica predeterminata, è possibile comunque
delineare alcuni dei principi estetici e compositivi che caratterizzano l’intera raccolta.
Emerge innanzitutto una concezione del suono inteso come
realtà vibratoria che fa appello alla globalità del gesto
percettivo, grazie alla convergenza tra la seduzione sensitiva
e la facoltà conoscitiva. Il suono appare come forma in
movimento, soggetta ad un processo di trasformazione
continua, sospeso in trame spazio-temporali multiple,
senza centro né gerarchie, simili a sistemi infiniti e aperti. Il
ramificarsi di forme in espansione verso architetture sempre
più complesse può essere assimilato ad un processo di
cristallizzazione, durante il quale lo sfumare di una sezione
nell’altra appare sempre estremamente morbido, in ossequio
al principio di massima gradualità descritto dalla teoria del
caos. L’illusionismo sonoro generato dalla variazione continua
delle cellule musicali germinali riverbera come un’eco delle
zone più sottili della coscienza, traccia preziosa di un tempo
interiore divelto dal tempo cronologico ed immerso in una
mescolanza fluida ove si fondono esperienze vive e proiezioni
immaginative fantastiche.
In questa sorta di mondo virtuale, dove nulla si crea e nulla
si distrugge, in un continuo trasparire di presenze - assenze
che emergono e si riassorbono nel silenzio, il tempo sembra
ingoiato, staticizzato in un divenire immobile popolato da
figure dalla latente drammaturgia. La teatralizzazione del
tempo, con le sue diverse maschere, si rivela così il tema
nascosto dell’intera raccolta, dinamizzata dal conflitto
innescato grazie alla polarità ordine-caos.
Tutti i sei studi, infatti, iniziano con formule musicali molto
elementari che progressivamente si complicano approdando
ad una dimensione caotica.
L’apparente ordine con cui si apre il primo studio (Désordre),
si allontana sempre più dalla chiarezza percettiva attraverso il
sapiente utilizzo del décalage (ovvero lo slittamento prodotto
dalla sottrazione o aggiunta progressiva delle pulsazioni che
sorreggono il tessuto ritmico di crome), la biforcazione dei
registri attuata tra le due sequenze melodiche affidate alla
mano destra (sui tasti bianchi) e alla mano sinistra (sui tasti
neri) e il crescendo irresistibile che sfocia nel finale. Il disordine,
sorta di deviazione imprevedibile all’interno di un percorso
infinitamente ripetitivo, è vissuto come una necessaria
discontinuità che genera nuova energia e nuove possibilità di
vita, proiettate verso un universo immaginario ove convivono
armoniosamente Essere e Divenire. Ne scaturisce un effetto
acustico spiraliforme che coniuga in sé la dimensione spaziale
e la dimensione temporale, articolata in una sovrapposizione
di diversi livelli di velocità.
In Cordes à vide la ricerca sul fenomeno della turbolenza
si concentra nell’esplorazione delle più intime profondità
dell’inconscio, in un’indagine che mira a restituire i percorsi
magnetici racchiusi nel flusso di coscienza e nella memoria.
La complessità ritmica dona ora voce alle misteriose
sovrapposizioni del tempo interiore, nutrito di desideri,
sogni, ricordi, ansietà, silenzi, attese. Presente passato e
futuro convivono e si intersecano all’interno di un amalgama
psichico cangiante, connesso grazie ai tenui fili tracciati dai
percorsi della memoria.
La dimensione dell’ascolto, dilatato fino a sfiorare le soglie
di udibilità più sottili, si approfondisce ancor più nel terzo
studio (Touches bloquées), costruito sul geniale intarsio
di suoni e silenzi, ottenuti percuotendo alternativamente
con una mano alcuni dei tasti tenuti abbassati dall’altra.
Ne scaturiscono grappoli di cellule ritmico-melodiche
che germinano espandendo il materiale tematico grazie
all’utilizzo di abbellimenti e voci in contrappunto libero.
La quinta sezione, l’unica a non presentare tasti bloccati,
rivela, con le sue vertiginose pause, il senso recondito del
il ciclo che si era aperto con le
spirali ascensionali di Désordre
si conclude con il cedimento ad
una forza dal potere oscuro che
magnetizza l’energia del suono
e la ingoia vorticosamente nel
buio del nulla.
brano e insieme dell’intero ciclo: il processo trasformativo
del materiale tematico evoca per analogia le metamorfosi
dei processi vitali che, privi di una precisa destinazione,
precipitano tragicamente nell’abisso del nulla e del vuoto. Il
silenzio rappresenta così l’esito del processo autosoppressivo
del suono e contemporaneamente l’ombra preziosa che
consente l’accrescersi dell’intero organismo compositivo. Le
note mute suonate fin dalle prime misure evocano infatti
spettri annichilenti che se da un lato consumano il suono,
dall’altro ne rendono possibile l’evoluzione, incarnando il
principio negativo necessario alla dialettica polare su cui si
regge lo sviluppo del materiale tematico.
Il tempo che si autodistrugge, confondendosi con il silenzio, si
trasforma, in Fanfares, in un tempo che diventa spazio denso
di compresenze. L’intuizione goethiana dell’istante capace
di concentrare in sé la totalità dell’Essere si concretizza in
questo contesto attraverso un gioco di specchi che moltiplica
le identità tematiche. Giocando sulla rotazione dell’ostinato
costruito sulla successione ritmica di 3+2+3 crome, la sequenza
tematica affidata alle due fanfare appare teatralizzata in una
polispazialità che irrora il suono di luce e leggerezza, avviando
alle rarefazioni meditative di Arc-en-ciel (Arcobaleno), apice
contemplativo dell’intera raccolta.
Le soluzioni ritmiche e armoniche ispirate al jazz generano
infatti in questo brano un tessuto sonoro ove gli accordi
appaiono simili a raggi di luce trascolorante che si rifrangono
in cristalli purissimi. Si rimane incantati da questa atmosfera
assolutamente libera da ogni rete concettuale preordinata,
sospesa in una beatitudine immateriale, fuori dal tempo e
dallo spazio .
Al fascio di luce iridescente che sfiora lievemente il tempo
cristalizzato di Arc-en-ciel, segue il lamento di Automne à
Varsovie, ultimo tassello del polittico ligetiano, emergente
dallo sfondo di una pioggia incessante, simbolo di un pianto
infinito, in cui si consumano volti, identità, desideri. La
progressiva saturazione delle velocità sorge da una cascata di
ramificazioni ritmiche incastonate l’una sull’altra. L’implosione
dello spazio acustico approda inesorabilmente al crollo finale:
il ciclo che si era aperto con le spirali ascensionali di Désordre
si conclude con il cedimento ad una forza dal potere oscuro
che magnetizza l’energia del suono e la ingoia vorticosamente
nel buio del nulla.
L’ultima maschera indossata dal tempo, sintesi estrema
di un pensiero compositivo che sorge sullo sfondo di un
orizzonte umano e culturale sconfinato, conduce dunque
paradossalmente al collasso nell’indifferenza e alla tragica
auto-negazione dell’identità sonora: riflesso drammatico,
forse, di una civiltà che non sempre sa rispettare le diversità e
che ha scoperto nella distruzione uno dei principi polari su cui
si regge il processo di sviluppo della vita.
Ad alcune cellule motiviche utilizzate in Automne à Varsovie
e nel Concerto per pianoforte e orchestra di Ligeti si ispira
l’Étude-Impromptu (2007) di Fabio Grasso, ideato come
Hommage al compositore ungherese. L’indagine sugli impasti
timbrici generati dalla sovrapposizione dei registri estremi
della tastiera, la ricerca sulla stratificazione temporale e
l’articolazione in strati sonori multipli caratterizzano questo
lavoro del giovane compositore e pianista vercellese, vincitore
del Concorso internazionale di musica contemporanea di
Orleans, formatosi alla scuola di Gorli, Donatoni e Manzoni.
Posto ad ideale chiusura di serata, il ciclo chopiniano dell’op.
25, elaborato tra il 1829 e il 1836, descrive, a differenza della
raccolta ligetiana, un’architettura slanciata eroicamente verso
il vertice drammatico rappresentato dai tre studi conclusivi.
Tutte le risorse tecniche più complesse si alternano in un
crescendo sempre più ardito di difficoltà, sorretto da un piano
armonico straordinariamente complesso e variegato. Anche
in questo caso il virtuosismo compositivo e quello pianistico
si trasfigurano in intuizione poetica capace di evocare,
attraverso la magia del timbro, il rapimento suscitato dalle
nuances psichiche più sottili.
transatlantico9
la mia posizione di compositore oggi
di György Ligeti
Viviamo in tempi artisticamente pluralistici. Il modernismo e perfino l’avanguardia sperimentale esistono ancora ma movimenti artistici
“postmoderni” si manifestano sempre più frequentemente.
Quella di “premoderni” sarebbe tuttavia per questi movimenti una definizione piu idonea, perchè gli artisti che ne fanno parte mirano alla restaurazione di
elementi e forme storiche: il naturalismo in pittura, colonne, cupole e timpani in architettura e, nella musica, una tonalità ritrovata unitamente a figurazioni
ritmico-melodiche impregnate di pathos espressionista. La sintassi del diciannovesimo secolo è presente in tutte le arti.
Questa nozione rétro dopo un periodo di sperimentazione e di modernità è comprensibile, e così pure il pathos soggettivo dopo un’era costruttivista.
Comprensibile ma non perdonabile. Noi viviamo alla fine del ventesimo secolo in un mondo di microprocessori, di biotecnologia, di televisione, di manipolazione
delle masse e di burocrazia, di dittature totalitarie espansioniste che fronteggiano democrazie populiste e società di consumi. Non siamo più alla fine del
diciannovesimo secolo con le macchine a vapore, i becchi a gas, le masse povere di contadini e di operai, la ricca élite borghese decadente e viziata, le rivalità
nazionaliste e i movimenti sociali operai.
E il modernismo e l’avanguardia sperimentale degli anni Cinquanta e Sessanta, non appartengono forse anch’essi al passato, alla storia, all’accademia?
Rifiutando del pari il rétro e la vecchia avanguardia mi dichiaro per un modernismo di oggi. Per me questo vuol dire in primo luogo una precisa distanza
rispetto al cromatismo totale e alle dense tessiture micropolifoniche che caratterizzavano la mia musica tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta.
Questo significa anche sviluppo di una polifonia fatta di una rete di voci ritmicamente e metricamente complesse e al tempo stesso di un’armonia trasparente
e consonante che non intende tuttavia ristabilire la vecchia tonalità.
Per la ritmica e la metrica ci sono stati due influssi determinanti sulla mia musica degli anni Ottanta: la complessità polimetrica degli Studies for Player
Piano di Conlon Nancarrow e la grande diversità delle culture musicali
non europee. Tra queste ultime due in particolare mi hanno interessato:
la musica dei Caraibi, alla quale mi ha introdotto nel 1979 un mio exallievo, il compositore portoricano Roberto Sierra, e, nel 1982-83, i folclori
Banda Linda e Pigmeo della Repubblica Centroafricana. Si tratta di una
musica polifonica di ricchezza ritmica incomparabile che ho conosciuto
grazie alle ricerche del musicologo israeliano Simha Arom.
Questo non significa affatto che la mia musica sia folclorica. Solo le
tracce delle idee di base delle culture etniche agiscono sul mio pensiero
musicale; la musica resta autonoma. Il mondo ritmico di Nancarrow,
dell’America latina e dell’Africa centrale si amalgamano nella mia
immaginazione con elementi del folclore ungherese e rumeno dei quali
sono impregnato fin dalla mia gioventù e si trasformano nella mia musica
in concezioni che non hanno nulla di folclorico ma restano individuali e
costruite in maniera personale.
C’è poi un altro settore della cultura contemporanea che ha influito in
maniera ancora più decisiva sul mio pensiero musicale e si tratta del
computer e delle modalità di pensiero scaturite dalla sua utilizzazione.
Non è il computer in sè a influire sulle mie concezioni musicali ma
piuttosto il tipo di pensiero che si forma intorno al computer: un pensiero
strutturato a differenti livelli di astrazione, un pensiero che si manifesta in
segnali, super-segnali e super-super-segnali che ci vengono consegnati
dall’informatica e dall’intelligenza artificiale. Più precisamente si tratta
di adottare un tipo di pensiero la cui composizione è generativa, un
tipo di pensiero nel quale alcuni principi di base funzionano come i
codici genetici producendo forme musicali “vegetali”; un procedimento
analogo dunque alla crescita degli organismi viventi. In questo campo
il mio pensiero musicale è stato profondamente influenzato dalle idee
di Jacques Monod e di Manfred Eigen, nonchè dai libri di Douglas
Hofstaedter. Per quanto riguarda la computer-music, alla quale mi
hanno introdotto John Chowning e Jean-Claude Risset, aspetto con
impazienza i risultati di centri di informatica musicale, quali l’università di
Stanford e l’IRCAM. Una ulteriore sollecitazione scientifica, i cui risultati
entusiasmanti esercitano sulle mie concezioni musicali un’influenza
decisiva, è costituita dal mondo della geometria frattale sviluppata da
Benoît Mandelbrot, ed in special modo mi interessa la rappresentazione
grafica dei limiti complessi, realizzata recentemente da alcuni gruppi di
matematici.
Il pensiero e i metodi della scienza sono talmente diversi da quelli
dell’arte che non sono certo la tecnologia e le matematiche ad assumersi
il compito di creare opere d’arte. I dati della scienza potrebbero invece
fecondare il pensiero e l’immaginazione artistica raggiungendo in questo
modo un risultato capace di incidere in maniera decisiva sullo sviluppo di
una nuova arte visuale e di una nuova musica. Un’arte di questo genere
sarebbe perfettamente in sintonia con lo spirito e la concezione della
vita del nostro tempo.
Dal volume “Ligeti” Autori vari, a cura di Enzo Restagno,
1985. Gentilmente concesso da EDT edizioni
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mantovabanca per la danza
www.eterotopie.it
transatlantico11
omaggio a olivier messiaen
nel centenario della nascita
Sala dei Cavalli
ore 21.00
venerdì
29_8
Corrado Rojac, fisarmonica
Oleksandr Semchuk, violino
Leonardo Zunica - Flavia Casari,
pianoforte
Mauro Graziani, live electronics e
regia del suono
Olivier Messiaen
Fantaisie (1933)
per violino e pianoforte
Thème e variations (1932)
per violino e pianoforte
Sofia Gubaidulina
De profundis (1978)
per fisarmonica
Corrado Rojac
Liturgia (2008)
Murato nell’immobilità
Infinitamente è e diviene
per fisarmonica, violino e pianoforte
Olivier Messiaen
Da “Vingt Regards sur
l’Enfant-Jésus” (1944)
I. Regard du Père
IV. Regard de la Vierge
XVI. Regard des prophètes, des
bergers et des Mages
per pianoforte
Paolo Perezzani
With drum and colors e addio
(2008) per pianoforte e fisarmonica
Mauro Graziani
Uno Scrigno di Ricordi e Polvere
(2008)
per pianoforte amplificato e live
electronics in quattro movimenti
senza soluzione di continuità
transatlantico12
uno scrigno di ricordi e polvere
di Mauro Graziani
In un momento in cui la musica è in cerca di idee e le trova nel lavoro sul suono
e nella multimedialità, si può ancora scrivere per uno strumento dal suono così
poco manipolabile da parte dell’esecutore come il pianoforte?
Le motivazioni di questo brano sono molteplici:
•
•
•
•
•
un gioco basato sulla corrispondenza lettere/note nel nome di Olivier Messiaen;
il ricordo di un pezzo che avevo iniziato qualche anno fa e poi abbandonato;
il ricordo delle emozioni suscitate dalla scoperta della musica di Messiaen, molti anni fa;
la ripresa di alcuni frammenti dalle opere di Messiaen, principalmente dal Catalogue d’Oiseaux;
lo studio dell’interazione pianoforte/elettronica dal vivo.
La trasformazione delle lettere in note è una consuetudine che esiste da molti secoli. Quella utilizzata qui, però, non si basa sui nomi
delle note anglosassoni, ma sulla loro codifica digitale. Nel computer, infatti, le lettere vengono trasformate in numeri con un codice
basato sul vecchio ASCII (A=65, B=66, etc.) mentre per le note si può utilizzare il MIDI nel quale il DO centrale è 60 e si prosegue
aggiungendo o togliendo 1 per ogni semitono verso l’alto o il basso.
L’applicazione di questo metodo al nome del nostro ha prodotto un risultato curioso:
Lettere
O
L
I
V
I
E
R
M
E
S
S
I
A
E
N
ASCII
79
76
73
86
73
69
82
77
69
83
83
73
65
69
78
Note
Sol
Mi
Do#
Re
Do#
La
Sib
Fa
La
Si
Si
Do#
Fa
La
Fa#
La sorpresa viene dalla traslitterazione del
nome: rivoltando la serie e ignorando il
doppio Do#, si ottiene La, Do#, Mi, Sol,
Sib, Re cioè una limpida e innocente
successione di terze che, peraltro, è
un accordo congeniale al linguaggio
di Messiaen, in bilico fra la tonalità,
l’atonalità e la modalità.
Così questo accordo è diventato l’asse
portante di questo brano, anzi, queste
sei note, nelle varie ottave, sono le sole
utilizzate.
Il brano, infatti, vive nell’immobilità
armonica più assoluta perché, sebbene
commemori la nascita del nostro (1908),
non dimentica che Messiaen è cadavere
dal 1992. Immobilità che è temperata
dall’uso di tecniche di filtraggio della
scala, che consistono nello sviluppare
piccole sezioni focalizzate solo su alcune
note e sulle loro relazioni intervallari,
tecniche ben conosciute e applicate, da
Berg fino ai nostri giorni.
In questo brano, l’elettronica utilizza gli
stessi concetti trasposti a livello timbrico.
Il suono, infatti, è elaborato e filtrato per
selezionare alcune componenti basate
sull’una o sull’altra nota della scala di cui
sopra. I suoni del pianoforte vengono
espansi grazie alla riverberazione e poi
filtrati per evidenziare delle componenti
spettrali tipiche di altre note. Ad esempio,
in un accordo formato da La, Do# e Sib,
l’elettronica evidenzia le componenti
tipiche del Sol costruendo, così, un suono
spurio, armonicamente non identificabile,
caratterizzato dalle assenze.
Perché l’assenza e il vuoto sono il senso
ultimo di questo pezzo. Vale la pena
di notare, infatti, che tutte le altre
motivazioni fanno perno sul ricordo.
Perché i ricordi sono quello che ci resta
quando qualcuno, che per noi significa
molto, ci lascia. E non valgono tutte le
storie secondo cui i ricordi conservano la
presenza. Quando qualcuno sparisce dalla
tua vita, quello che resta è il rimpianto
per le cose non dette e non fatte (per
es. avrei potuto andare a conoscerlo,
come ho fatto con altri compositori per
me importanti) e per quello che sarebbe
potuto essere.
Sì, ci sono anche i ricordi, che però sono
immateriali e vengono rivissuti, rielaborati,
analizzati e spezzettati fino a diventare
polvere. E quando la polvere si posa resta
la consapevolezza che qualcuno non c’è
più e quello che rimane è solo un gran
vuoto...
transatlantico13
In
alcune regioni della Russia
orientale non è insolito vedere persone che
piangono durante la messa. Lì, il rituale non
è solo un costume figlio di liturgie di volta in
volta più sbiadite, è ancora un luogo mistico,
un’occasione di catarsi. Un tramite verso
l’Assoluto, nonostante si percepiscano i limiti
del dogma, il perimetro delle chiese.
E poi pensavo a Olivier Messiaen, alle sue
composizioni, a quel Verbo transustanziato
in partitura musicale, a quel ritmo, per molti
ancora apocrifo.
Liturgia è un riferimento a queste due
suggestioni, nell’orizzonte della poetica
del maestro francese, alla quale ho dovuto
confrontarmi nel momento della mia
composizione, che nasceva appunto come
tentativo di omaggio all’opera di Messiaen.
Liturgia è un dittico suddiviso in due
movimenti, dai titoli Murato nell’immobilità e
Infinitamente è e diviene, due versi di Mario
Luzi, poeta che sento affine all’atmosfera
mistica che voglio descrivere.
Si intuisce che il primo pezzo sarà nervoso,
una disperata peripezia per sfuggire a una
situazione di oppressione, che nel secondo
movimento darà invece spazio a un’insolita
cantabilità eterea, a un clima sereno, a una
percezione di catarsi, a una partitura, in
questi ultimi passaggi, davvero debitrice a
Messiaen.
Tutto ciò con l’intenzione, mai trascurata, di
comporre una musica che fosse il più possibile
vicina alle sonorità, a me familiari, del violino
di Oleksander Semchuk e del pianoforte di
Leonardo Zunica.
Da qui l’entrata del violino, veemente
e bizzarra, che vuole trascinarci con sé;
altrettanto, verso la fine del primo movimento,
i solo del pianoforte che ascendono verso un
acuto quanto mai brutale, per poi ricadere
di nuovo e di nuovo risalire verso un’uscita
soltanto intravista, che infine appare nel
secondo movimento, e il tutto si stempera.
Anche qui la musica irrompe, ma sono
esplosioni di gioia, non di angosciosa rabbia.
In tutto questo, la fisarmonica si pone come
un trait d’union, partecipa soffre e, in ultimo,
si rasserena con entrambi gli altri strumenti,
al termine di un labirintico percorso sonoro
che si interpone, tra esecuzione ed ascolto,
come tappa ineliminabile di quella meta che
è la musica contemporanea.
È una consuetudine non troppo onesta che
With drum and colors e addio
liturgia e catarsi
transatlantico14
di Corrado Rojac
ci ha abituati a considerare l’ascolto come
qualcosa di immediato, se non semplice per
lo meno estemporaneo quanto, e non di
più, del momento dell’esecuzione. Ridurre
la musica a null’altro che svago è alienare
una delle maggiori avventure intellettuali
dell’uomo per esiliarla nell’ambito del
superfluo. Mi piace ricordare che Newton
di Paolo Perezzani
Questa
musica vorrebbe agire
sulla vostra psiche e sul vostro corpo: come
può agire la musica quando non rinunci a
farsi evento capace di provocare il nostro
stupore e di aprirci perciò all’ascolto.
Vorrebbe inoltre agire nel contesto della
configurazione artistica del nostro tempo, e
per questo ha anche a che fare con la verità:
credeva che, nell’universo, ci fosse
corrispondenza fra la distanza dei pianeti
e i rapporti della scala musicale. Ma quello
di Newton non era ancora un cosmo che,
come accadrà a partire dal ‘900, si era fatto
carico della “gravitazione dell’inconscio”,
gravitazione alla quale ha dovuto render
conto la stessa arte, e dunque la stessa musica.
Abbiamo perso l’illusione che tra due punti ci
sia una e una sola retta. Nell’opera di Messiaen
sento il presentimento di questa distanza, che
probabilmente avrebbe chiamato Assoluto.
Una distanza che si confonde nell’orizzonte
del sacro. Una distanza liturgica.
“ogni verità è invenzione. Una verità è una
procedura artistica inaugurata da un evento”
(A.Bodiau).
In un contesto che oggi non pare disposto
annettere rilevanza alla dimensione estetica,
e tanto meno in rapporto alla musica, non
mi pare eccessivo o scontato ripartire da
qui: e anche per quanto riguarda il senso
del mio lavoro, il suo senso anche sociale, o
politico. Costruire, far apparire, permettere il
manifestarsi di una forma capace di dare vita
alla materia sonora non può che comportare
un continuo esercizio di assunzione di
responsabilità, una infinita serie di scelte
volte all’accadere di una effettiva esperienza
estetica. Anche questa composizione, nel
darsi all’ascolto (nell’aprirsi alla significatività)
aspira intanto a dire della potenza della
musica, e della sua capacità di rimetterci
ogni volta in movimento, quando, reagendo
al turbamento dell’incontro con la sua
alterità, siamo disposti a prestarle attenzione,
rispondendo al suo appello, completandola.
Il titolo viene da un verso di Giovanni Raboni,
e vuole anche essere un omaggio al poeta e
all’uomo di cultura scomparso di recente. Parla
dell’irrompere di qualcosa e del suo fulmineo
scomparire (“With drum and colors” è un
modo di dire traducibile con qualcosa di simile
a “con gran fracasso”). Ha a che fare con la
morte, ma dicendola senza disperazione, con
sapiente e quasi divertito distacco.
Il pianoforte e la fisarmonica agiscono
soprattutto come un solo strumento dalle
potenzialità alquanto nuove e singolari: da
qui le dinamiche indipendenti e la costante
tendenza alla costruzione di un unico suono
complessivo, in continua trasformazione. Il
suono del pianoforte viene inoltre trasformato
anche attraverso l’azione, all’interno della
cordiera, di un terzo esecutore impegnato
a determinare una sorta di “preparazione
mobile” dello strumento mentre il pianista
agisce sulla tastiera. Lo scuotimento
della fisarmonica e i cluster di entrambi
gli strumenti contribuiscono al carattere
fondamentalmente fragoroso e a tratti
aggressivo di una composizione al cui interno
si aprono però momenti di silenzio pressoché
assoluto, quasi un invito a tentare l’avventura
di allargare le nostre facoltà percettive: alla
fine è da lì che emergeranno piccoli cenni
di movimento, acutissimi frammenti di un
melodiare infantile appena riconoscibile.
cadenze oblique
meshes of the afternoon - at land
Cortile Meridionale
ore 21.30
sabato
30_8
Cadenze Oblique (2006)
Riccardo Massari Spiritini, piano
elettrificato, strumenti autocostruiti
ed elettronica
Meshes of the afternoon
At land
(B.N. - New York 1943-1944)
due film di Maya Deren con musica
originale di Riccardo Massari Spiritini
di Riccardo Massari Spiritini
CADENZA/E (wikipedia) - Parte di un concerto alla fine
del primo movimento dove lo strumento solista puó mostrare
il suo virtuosismo. Nel XVIII secolo, quando i compositori
interpretavano le proprie opere, questa sezione si improvvisava.
A partire dal XIX secolo, si scriveva completamente.
(Spiritini) - esibizione di abilitá e virtuosismo, spettacolo
mediatico, espressione di potere.
OBLIQUO/A (Spiritini) trasversale, non parallelo, non in
linea, che deforma l’originale, indiretto, sovversivo.
La composizione di Spiritini si é trasformata fino a cristallizzarsi
nella forma attuale che include la coreografia del movimento e
degli oggetti frutto anche del lavoro con il collettivo OBLIQUA
di Barcellona.
Cadenze Oblique
È una performance per pianoforte ed elettronica dove il gesto,
la presenza del corpo, e l’uso di oggetti sono integrati in un
unico mezzo espressivo.
È una composizione ironica, agrodolce, profonda e sottilmente
sovversiva che riflette sul concetto di “pianismo” e quindi sulla
cultura occidentale e la dimensione globalizzata della musica
classica. La figura del musicista é qui in continuo dialogo con
i suoni “invisibili” dell’elettronica ai quali reagisce non solo
con il gesto sonoro, ma anche con l’assenza ed il movimento
silenzioso. Ne nasce un interrogarsi sul ruolo delle arti, sulla
musica occidentale di oggi e sugli stereotipi culturali che
marcano sempre piú profondamente il mondo umano.
“Meshes of the Afternoon” procurò alla sua autrice
una certa notorietà presso i circoli dell’avanguardia newyorkese
gravitanti intorno al Greenwich Village. In quegli anni Deren
ebbe modo di conoscere e frequentare intellettuali come la
scrittrice Anaïs Nin, l’artista Marcel Duchamp, il compositore
John Cage e il filosofo Gregory Bateson, al quale si legò anche
sentimentalmente per un breve periodo.
Paolo Cavinato
Stefano Trevisi
impianto audio 5.1 + 8
circuito luminoso
Dimensioni 140 x 640 x 210 cm
Materiali legno, cartoncino, specchio,
pellicola specchiante
“At Land”, fu realizzato nel 1944, sempre in 16mm. Le due
pellicole di Deren sono caratterizzate da un uso poetico delle
immagini, legate tra loro non secondo criteri (crono)logici, ma
simbolici e associativi. In esse si può scorgere l’influsso degli
autori del Surrealismo, come Luis Buñuel e Jean Cocteau.
di Paolo Cavinato
Spazio visivo #3 - Soglia
Installazione
Suono
Meshes of the afternoon - At land
Maya Deren (Kiev 29 aprile 1917 - New York 13 ottobre
1961) fu una regista statunitense di origine ucraina, attiva
negli anni quaranta e cinquanta del XX secolo.
Soglia, è un’installazione percorribile a misura
d’uomo. Si tratta di un parallelepipedo circondato da scaffali
nei quali sono riposte e assemblate tra loro centinaia di scatole
diverse: ideali contenitori della vita quotidiana della persona.
Riposte su mensole l’una accanto all’altra, contengono mondi
nascosti, concetti, oggetti, emozioni, visioni, percezioni, idee,
soggetti, ecc..
Ogni Scatola è un sistema a se stante, e insieme alle altre
Scatole crea nuovi sistemi. Ogni Scatola è siglata da un numero.
In ogni Scatola vi è una breve descrizione del contenuto, il
peso in grammi. Ogni Scatola vuole evocare. Aprire la mente
dello spettatore. Aprire l’immaginazione. Aprire una piccola,
anche se pur breve Visione. In un primo momento il fruitore
è libero di camminare attorno e all’esterno dell’installazione.
Egli osserva l’involucro esterno: una miriade di scatole diverse
assemblate, incastrate o appoggiate tra loro. Una miriade di
suoni frammentari compongono la galassia della quotidianità
fatta di tanti piccoli eventi effimeri.
Il secondo passo avviene nel momento in cui la persona decide
d’entrare fisicamente nella cavità dell’installazione: una
Soglia attraversabile si affaccia su un profondo corridoio,
entro il quale una prospettiva lineare ordinata conduce
all’infinito.
All’interno del passaggio avviene una metamorfosi. Dapprima,
il fruitore vede se stesso nell’immagine riflessa all’interno.
Poi, essa si liquefà lasciando posto al vuoto della prospettiva
centrale. Qui, un sibilo acustico continuo, sottolinea e dilata
la dissoluzione della propria immagine nello Spazio Vuoto
Interno. La ricerca scava il percorso che l’uomo compie entro
se stesso nel concetto dell’Uno e del Molteplice, all’interno e
all‘esterno di se stesso. La Soglia tra Finito e Infinito.
Loggia di Davide
Spazio Visivo #3 - Soglia
venerdì 29, sabato 30 e domenica 31_8
transatlantico15
Sonorika V
Riverberi
Fruttiere di Palazzo Te
ore 21.00
domenica
31_8
Sonorica V - Riverberi
Evento sonoro per live set
e movimento (2008)
Ideazione e realizzazione
Mauro Graziani
Giovanna Venturini
Cecilia Fontanesi
Musica e live set
S.N.O.W.
Mauro Graziani, Max MSP
Federico Mosconi, chitarra elettrica
Incursioni coreografiche
Giovanna Venturini
Cecilia Fontanesi
transatlantico16
di Giovanna Venturini
Tecnicamente il riverbero è un fenomeno acustico legato alla riflessione del suono
da parte di un ostacolo posto davanti alla fonte sonora. Molti studiosi, musicisti e
compositori si sono occupati e hanno cercato di definire la riverberazione, non solo
come effetto da utilizzare in fase compositiva o esecutiva, ma soprattutto come
interessante sorgente di informazioni sulla natura stessa del suono e sul nostro sistema
percettivo.
Immaginiamo di entrare in una sala e di ascoltare dei suoni, solo una piccola parte di
questi ci arriva come suono diretto, la maggior parte finisce nel riverbero, che viene
a costituire così una caratteristica della percezione molto importante per determinare
l’atmosfera emozionale collegata ai vari suoni. I suoni giungono quindi al nostro sistema
orecchio-cervello irradiandosi da un angolo di ampio raggio, attraverso una sorta di
rimbalzo, di filtro determinato da tutti gli elementi che vanno a costituire lo spazio.
Suono che si colloca in uno spazio implica necessariamente una riverberazione, ma
anche il corpo in relazione ad un suono si può definire come riverbero, elemento
attraverso cui il suono filtra e si trasforma, diventando azione, movimento, presenza
fisica. Il riverbero si definisce quindi come un fenomeno acustico che può essere
analizzato in maniera molto tecnica e precisa, ma riverbero è anche qualcosa di molto
più sfumato e indistinto, che presuppone l’idea che ogni contatto, ogni relazione possa
riverberarsi nel corpo, condizionando il movimento e determinandone la qualità, non
nella ricerca di una forma, ma nella percezione della fluidità, della mutevolezza, della
totalità, del collegamento costante delle parti con il tutto, e dell’insieme con lo spazio,
della non semplice comunicazione tra interno ed esterno, percezione e azione.
Il progetto SONORIKA V che vede impegnati due musicisti e compositori, Mauro
Graziani e Federico Mosconi e due danzatrici, Cecilia Fontanesi e Giovanna Venturini,
prende vita proprio dal desiderio di esplorare il concetto del riverbero, inteso non solo
nel suo significato strettamente musicale, ma allargando la riflessione e la ricerca ad
un ambito più ampio e complesso.
Tradurre in senso fisico e dinamico la relazione esistente tra corpo e oggetto, esplorando
come il movimento sia mediato dalla presenza di elementi scenici che occupano lo
spazio in maniera tanto casuale quanto simbolica, significa far sì che il corpo riverberi
della loro presenza, ne sia trasformato e condizionato.
Oltre al riverbero che gli oggetti possono avere sul corpo esiste anche il riverbero del
linguaggio. Come il corpo reagisce a stimoli sonori, così avviene nei confronti della
parola, perché ciò che viene detto in qualche modo ci riguarda e il corpo diventa
l’elemento attraverso cui la parola filtra. Il corpo è l’ostacolo, ciò che sta in mezzo, ciò
che si fa attraversare e percorrere dalla parola.
Solo in uno spazio veramente sgombro e scarno il corpo cessa di essere elemento che
riverbera in relazione ad elementi esterni e risuona in sé stesso, costruendo forme che
partono da stimoli e suggestioni puramente fisici. Tuttavia anche in questa dimensione
il corpo si definisce come riverbero, in quanto il movimento di una parte si riflette sul
tutto, un contatto si riverbera in quello successivo.
Non è possibile sfuggire alla rete che ci colloca in una matassa intricata di stimoli,
relazioni, scambi, contatti, rimandi, memorie. Tutto riverbera, anche se non tutto è
udibile. Legittimo chiedersi se sia un male o un bene.
Terrestre
in progress n°1
Fruttiere di Palazzo Te
ore 21.00
domenica
31_8
Terrestre in progress n.1
Anno di Produzione 2008
Durata 30’/35’
Progetto
Simona Bertozzi e Marcello Briguglio
Coreografia e Danza
Simona Bertozzi
Musica, Ambienti sonori e luci
Roberto Passuti
Scenografie e costumi
Simona Bertozzi, Marcello Briguglio
e Ilaria Barelli
Terrestre, movement in
still-life
Anno di produzione 2008
Durata 10’
Lavoro vincitore del premio
Videodance - Moving Virtual Bodies
2008 / Riccione TTV festival
Opera Video di Celeste Taliani
Concetto Simona Bertozzi,
Marcello Briguglio e Celeste Taliani
Regia Celeste Taliani
Opera realizzata nell’ambito del
Progetto Internazionale Choreoroam
sostenuto da:
British Council / The place,
Operaestate Festival / Veneto
Dansateliers / Rotterdam
Vincitrice dell’ultima edizione
premio GD’A - Giovani Danz’Autori
dell’Emilia Romagna.
Azione e memoria
di Simona Bertozzi
Azione che abita lo spazio della memoria e diviene interpretazione organica della plasticità,
in quanto capacità di trasformazione del corpo. Dall’immagine complessa e stratificata della maturità
biologica ed emotiva, al segno dell’antropomorfo e dell’animalità.
Terrestre è una figura colta in atto di ri-composizione-evoluzione, reminiscenza e
straniamento.
All’inizio è un corpo incompleto, instabile che può rispondere a stimoli ambientali ma con una motricità
semplice, parziale, quasi imposta.
E’ disarmonico e biologicamente costretto ad una reazione meccanica; costruisce la propria azione
nel presente dell’esercizio ambientale e incede spazialmente rivelando un atto evolutivo dal taglio
enciclopedico.
Poi è un corpo che riappare nella sua completezza, “già fatto”, e significativo per sostanza
emotiva ed esperienziale. Il suo tempo ha una presenza liquida e scandisce il dialogo con il ricordo
fuoriuscendo e rientrando per interstizi articolari, prolungamenti della colonna vertebrale, dispiegamento
e vibrazione degli arti. Ha una percezione predisposta all’inatteso-irriducibile che esprime procedendo
da lunghe stasi a formule dinamiche più ampie e strutturate, reiterazioni e soluzione di ripartenza, per
lasciare-lasciando, scolpito nello spazio, un reticolato di affezioni profonde, fantasmi di sopravvivenze.
Movimento del corpo e della mente che rinnova le immagini per non rimanere chiuso nella storia.
L’atto finale è una condizione di sintesi; il tentativo di dare un volto a ciò che resta della
compenetrazione animale/umano e dell’umano a tu per tu con il suo destino al di là della storia.
Risucchiare dalla memoria biologica ed motiva il nucleo centrale e informare il corpo sulla morfologia
che può assumere in una condizione di congelamento temporale, in cui l’azione si relaziona con lo
spazio non più per conoscenza ma per rappresentazione. Incapace di incedere per compenetrazione
armonica, il corpo balza, tonfa da uno stato a quello successivo esasperando lo sforzo fisico e la ricerca
di una cristallizzazione della forma.
Terrestre sembra sostenersi in virtù della sua stessa instabilità. Nella precarietà del suo sostegno
trova l’equilibrio. Mira all’essenzialità per purezza di forma e alla bellezza che il contenuto di una rinascita
sa imprimere.
terrestre, movement in still-life
di Celeste Taliani
Che cosa del tempo se non la sua qualità. Nell’attualizzazione del suo pensiero-movimento, un corpo
sta tra le scansioni di ritmo, di colore e di intensità, come in un maestoso tentativo di equilibrio fra ciò
che è, ciò che è stato, e ciò che potrebbe essere. Così, nel rinnovamento continuo delle sue immagini,
si apre alle possibilità ellittiche offerte dalla memoria biologica dell’umano e dalla sua natura terrestre,
con traiettorie incostanti e di velocità variabile.
Che cosa dello spazio se non la sua quantità. In un luogo atono per saturazione, uniforme per
disomogeneità delle forme, in un continuo ribaltamento dello zenit e del nadir, la memoria circoscrive
con i movimenti la scena della sua rappresentazione, ma non lascia modo di intravedere alcuna fine alle
sue possibili (virtuali) rappresentazioni. Anzi nella sua quantificazione spaziale, la memoria agisce per
scegliere, dividere e compenetrare, alcune delle immagini generate dal ricordo biologico, e le attualizza
in un unico luogo.
In una casualità assolutamente non caotica, dove le potenzialità dell’azione non si esplicano per
intero, la memoria si sente libera dalle limitazioni imposte dall’interazione di un corpo con uno spazio
determinato, dalle limitazioni imposte dall’interazione di un pensiero con il suo ricordo (pre)determinato,
e può finalmente tentare di rappresentare se stessa.
transatlantico17
el gallo rojo
the spook speaks II
Cortile Meridionale
ore 21.00
lunedì
01_9
Massimiliano Sorrentini, batteria
e percussioni
Pasquale Mirra, vibrafono
Stefano Senni, contrabbasso
Francesco Bigoni, sax tenore e
clarinetto
Gerard Gschlössl, trombone
El Gallo Rojo
The Spook Speaks II
Sonorizzazione live di film muti
estratti cinematografici da
L. Starewich e J. Epstein
transatlantico18
Intervista di Micol Ferretti
Come molte realtà indipendenti, El Gallo Rojo è anzitutto un gruppo di amici
musicisti che convivono una stessa esperienza ed hanno in comune una certa idea
musicale. I dischi dell’etichetta veronese vengono autoprodotti e autofinanziati.
Questo permette grande libertà, implicando allo stesso tempo grande sacrificio.
Hanno all’attivo 20 album e molte altre cose bollono in pentola. Sembrerà
paradossale produrre dischi con l’attuale crisi del mercato musicale, ma i loro cd non
vengono venduti a più di 12 euro, e i canali preferenziali, oltre a negozi di fiducia
in Italia e all’estero, sono Internet e i concerti. Abbiamo fatto qualche domanda a
Massimiliano Sorrentini e Francesco Bigoni, membri del collettivo El Gallo Rojo.
Come nasce, e di cosa si ciba, questo animale esotico chiamato El Gallo Rojo?
M. Sorrentini: Nel 2004 Zeno de Rossi e Danilo Gallo, i due da cui deriva il nome dell’etichetta, mi
contattarono per far parte di un’idea che avevano avuto in Messico qualche mese prima: un collettivo
di musicisti che potesse essere anche un’etichetta indipendente nel panorama del jazz italiano e
della musica di ricerca. Nacque così El Gallo Rojo. A breve il collettivo si allargò insieme a Francesco
Bigoni, Enrico Terragnoli, Alfonso Santimone e Stefano Senni. Attualmente è formato da 14 musicisti
italiani, sparsi nel nord e centro Italia: oltre i già citati, fanno parte delle nostre fila anche Beppe
Scardino, Piero Bittolo Bon, Achille Succi, Nelide Bandello, Simone Massaron, Dimitri Sillato e l’unico
non musicista, Martino Fedrigoli. Direi che l’esperienza de El Gallo Rojo è una comune attitudine alla
trasversalità della musica, il che non significa che abbiamo tutti le stesse idee o gli stessi gusti, ma
significa condividere tutti il senso di una direzione comune che la nostra musica e la nostra ricerca
musicale deve avere. A pensarci bene, questa sorta di sodalizio silenzioso è la stessa cosa che accade
quando ci capita di suonare insieme: pur senza dire o stabilire in anticipo nulla, la nostra musica
prende spontaneamente una direzione in cui tutti ci sentiamo a nostro agio divertendoci.
Come è cambiato il vostro modo di porvi rispetto al mercato musicale, vissuto prima da
musicisti e, oggi, da realtà presente e viva sui palchi e nei negozi specializzati?
M. Sorrentini: Credo sia rimasto sostanzialmente lo stesso, è cambiato solo il rapporto con le
persone, che per fortuna è più diretto e proficuo. Quando cominci a suonare con una certa assiduità
la musica diventa anche la tua forma di sostentamento. Nello stesso momento ti rendi conto
che devi fare una scelta nel tuo percorso artistico e la faccenda a volte si complica. Diciamo che
l’autoproduzione e l’essere un collettivo indipendente non ti pone il giogo del guadagno monetario:
anzi, devo dire che già il pareggio a fine anno è un risultato eccellente! L’investimento che si fa come
musicisti indipendenti è una forma di amore e di rispetto verso la propria musica e la possibilità di
dare al pubblico una musica non soggetta a regole di mercato. In ogni campo il mercato ha le sue
leggi, e queste sono dettate da mode o trend più o meno accentuati dai media. Ma per fortuna, negli
ultimi anni, qualcosa sta cambiando: le major si sono accorte che non possono più fare il bello e il
cattivo tempo, e ciò anche grazie ai musicisti indipendenti e a tutti coloro che gli gravitano intorno.
In questa direzione anche Internet può essere un ottimo strumento di divulgazione che ti permette
di poter vendere la tua musica senza passare per la grattugia degli speculatori: questo stabilisce un
nuovo tipo di rapporto tra gli artisti e il pubblico.
F. Bigoni: Concordo con Massimiliano sul fatto che il rapporto sia rimasto il medesimo. Siamo un
collettivo, un’etichetta sui generis, e quindi il nostro punto di vista resta quello del musicista. È
evidente, poi, che chi faccia una scelta come la nostra abbia il fine - oltre a quello pratico, di natura
produttiva - di perseguire un progetto culturale e trasmettere un’idea di cultura: l’organizzazione
“dal basso”, l’autoproduzione, la produzione a basso costo, il prezzo politico, la scelta attenta del
materiale grafico e musicale. Insomma, l’“impegno” dell’artista, con la sua pluralità di significati.
Spesso si sconta il ruolo di esporsi come profeti in patria. Come hanno risposto le
istituzioni squisitamente italiane rispetto alla vostra proposta?
F. Bigoni: Direi che abbiamo avuto un buon riscontro da parte della critica italiana, che - oltre a
riconoscere il nostro valore artistico e premiare l’intraprendenza - è stata sensibile alla chiara politica
produttiva - basse tirature, ma molti titoli e cura del dettaglio. E all’estero c’è molta curiosità rispetto
al nostro lavoro: i nostri punti vendita nel resto d’Europa e negli Stati Uniti funzionano a pieno regime.
Di “istituzioni” musicali vere e proprie, poi, nell’ambito del jazz - della musica creativa, improvvisata e
che dir si voglia - in Italia non ce ne sono.
La vostra scelta sottintende che ha ancora senso firmare per una casa discografica. In
un clima musicale in cui la rete gestisce gran parte delle sorti dei gruppi emergenti, che
identità possiede questo doppio volto legato da una parte al sostegno materiale del
disco e dall’altra alle esibizioni live?
M. Sorrentini: Non credo che la nostra scelta sottintenda l’esigenza di “firmare per una casa
discografica”. Direi l’esatto contrario. La scelta di avere un’etichetta indipendente è ancor prima
la scelta d’essere un collettivo di musicisti. Prima viene
il rapporto umano, lo scambio musicale ed artistico, poi
vengono gli album. In questi anni ci è capitato e ci capita
spesso di ricevere cd e proposte di musicisti esterni al
nostro collettivo: le ascoltiamo sempre e se, i soldi e le
nostre produzioni ce lo permettono, li pubblichiamo. Il
messaggio che possiamo dare non è, quindi, quello di
firmare per un’etichetta, bensì quello di inventarsi la
propria etichetta, stringendo collaborazioni e lavorando
con musicisti che si ritengano affini al proprio percorso
artistico. L’album è solo una minima parte del percorso
di un musicista, il cd che si pubblica è un momento
necessario per confrontarsi con il lavoro passato e quello
futuro, ma poi viene il resto. La vera dimensione di cui vive
un musicista è quella dal vivo, insieme agli altri musicisti
e con il pubblico che ti accoglie o ti rifiuta.
F. Bigoni: Sebbene non si possa - e non si voglia
- delineare un manifesto estetico che abbracci tutte le
produzioni de El Gallo Rojo, abbiamo un preciso interesse
a far percepire i nostri lavori discografici come parte di
un tutto - il progetto collettivo - che è diverso dalla
somma delle parti. La nostra non è un’etichetta per
cui si “firma”, ma un gruppo col quale - e all’interno
del quale - si instaura un rapporto umano. Questo dal
punto di vista discografico. I nostri gruppi, poi, sono
ospitati nei maggiori festival e rassegne italiani, e non
solo. Di recente, ad esempio, una nostra delegazione è
stata impegnata in un piccolo tour newyorchese che ha
visto, tra l’altro, un paio di formazioni italo-statunitensi
esibirsi in concerto allo Stone - spazio patrocinato da
John Zorn che è ormai il punto di riferimento della scena
downtown della città. Tuttavia, organizzare uno sforzo di
promozione concertistica collettiva è più problematico,
per ragioni economico-logistiche, anche se vari nostri
progetti condividono in parte - o del tutto - i musicisti.
Dai dischi alla vostra esibizione. Il jazz e il cinema,
penso alle sonorizzazioni di Bill Frisell sulle
pellicole di Buster Keaton, sono parenti lontani
e tuttavia pressoché inseparabili e attuali. Che
ruolo gioca l’improvvisazione strumentale sul
montaggio di un film nato senza la banda sonora?
E, se esiste, qual è il nome di questa contagio
sempreverde tra arti differenti?
M. Sorrentini: Non so se esista un nome per questo
contagio ma so che è una delle più belle malattie che
mi sia capitato di avere! La sonorizzazione di un film,
così come certa parte della musica jazz, ha diversi
approcci, tra cui spiccano, semplificando molto, quello
compositivo e quello improvvisativo. Certo questi due
aspetti possono compenetrarsi o rimanere autonomi:
direi che è semplicemente una scelta artistica dettata da
un determinato approccio al materiale cinematografico e
visivo. La mia esperienza musicale mi spinge a stringere
un contatto sempre più vivo con le immagini e il loro
universo rovesciato: mi piace suonare una musica che
liberi immagini, che dia anche la possibilità di visualizzare
ciò che sto suonando, in una compenetrazione e
immersione corporea totale. Credo che una musica che
si rivolga solo a se stessa sia autoreferenziale e diventi
terribilmente noiosa.
F. Bigoni: Mi piace pensare che la colonna sonora soprattutto se si tratta della sonorizzazione di un film
muto - aggiunga qualcosa all’immagine in movimento,
piuttosto che commentarla. Che quest’esito si ottenga
tramite il ricorso alla composizione di una partitura
oppure l’improvvisazione, si tratta sempre di due aspetti
complementari di uno stesso processo. L’improvvisazione,
del resto, così come è intesa in uno dei suoi approcci
fondamentali, è una forma di composizione istantanea.
Ladislas Starewitch è uno dei padri del
cinema d’animazione tridimensionale. Nato in Russia nel
1882, in seguito alla Rivoluzione del 1917 è fuggito in
Europa e dal 1920 si è stabilito in Francia dove è vissuto fino
al 1965. Starewitch si è affermato come uno dei registi più
originali nella sperimentazione della tecnica dello stop motion.
Si tratta di una tecnica fondamentalmente semplice ma richiede
un’applicazione meticolosa e costante. Nata fin dalle origini
del cinema con i “trucchi” di Georges Méliès, l’animazione
tridimensionale comporta l’utilizzo di pupazzi che vengono mossi
di pochi millimetri dalla mano del regista prima dello scatto di
ogni singolo fotogramma. Durante la proiezione, facendo scorrere
24 fotogrammi al secondo, si crea l’illusione dei pupazzi viventi.
Starewich ha iniziato a sperimentare questa tecnica cinematografica
dalla fine del primo decennio del ‘900 impiegando pupazzi
articolati (in francese “marionnettes”) a forma di insetti ma dotati
di caratteristiche antropomorfiche. I pupazzi erano intagliati nel
legno e venivano ricoperti di pelle di camoscio che aderiva al
L’interesse per l’entomologia ha portato Satarewitch ha costruire
le marionnettes con molta cura non solo per i dettagli anatomici,
ma soprattutto per i comportamenti degli insetti. Tutti i movimenti
fatti dai personaggi hanno una sorprendente verosimiglianza.
Quando sono irati scuotono le antenne e sollevano le corna e
camminano nervosi come gli esseri umani. Talvolta i pupazzi
hanno la recitazione esasperata propria di molti attori del muto,
ruotano gli occhi o esagerano le espressioni della bocca. Anche
la mimica dei corpi si ispira ad attori celebri. Starewitch era un
appassionato spettatore dei film di Charlie Chaplin. Apprezzava
le caratteriche del personaggio di Charlot: gli atteggiamenti del
corpo, l’ingenuità, l’espressione pudica ma parlante. In alcuni film
(Amour noir et blanc, 1923) Starewitch ha inserito un pupazzo
con le sembianze di Chaplin che interviene come deus ex machina
per risolvere i problemi.
Nel corso degli anni ’20 Starewitch ha fatto interagire attori in
carne ed ossa con i pupazzi. La sua attrice preferita è stata Nina
Star, alias Jeanne Starewitch, figlia del regista. La bambina funge
spesso da cornice: la si vede all’inizio attenta ad ascoltare una
fiaba che le viene raccontata o come piccola addormentata che
inizia a sognare. Poi, all’improvviso, il suo corpo umano incotra
i corpi bizzarri degli insetti-marionettes nello stesso spazio ed
inizia ad interagire con loro. Per ottenere tali risultati il regista ha
fatto uso di vari effetti speciali, soprattutto quello della doppia
esposizione.
La presenza di Nina Star nei film di Starewitch è importante per
comprendere la poetica del regista. Si deve passare
attraverso lo sguardo di un bambino per penetrare
nell’universo di Starewitch. Il mondo fantastico e
visionario nel quale lo spettatore viene immerso
altro non è che la trasfigurazione del mondo reale
di Matteo Molinari in cui si manifeatano le emozioni, i sentimenti e i
pensieri degli uomini. Sono piccoli racconti morali
che mettono a nudo la natura più profonda dei
comportamenti umani con una descrizione poetica,
malinconica e fiabesca. La cicala e la formica (La
cigale et la fourmi, 1911, remake: 1927) è una
riflessione carica di commozione e compassione
sul conflitto fra due modi inconciliabili di intendere
la vita. La spensieratezza leggiadra della cicala si
scontra con la laboriosità e l’egoismo inflessibile
della formica. L’immagine triste dei fiocchi di neve
candida che si depositano freddi e leggeri sul
violino abbandonato della cicala conclude il film.
Anche Nelle grinfie del ragno (Dans les griffes de
l’araignée, 1920) è una favola che esemplifica,
non senza ironia, una riflessione etica. La mosca di
campagna, poverella e bruttina, desidera diventare
bella ed elegante come la falena di città. Ma
corpo dei personaggi ed offriva loro una straordinaria levigatezza
una volta arrivata a Parigi viene sedotta e ingannata dall’avido
unita ad un’efficacissima “fotogenia”. L’altezza dei pupazzi varia
e bitorzoluto ragnaccio che le promette grandi ricchezze e la
dai 10 ai 60 cm. Le marionnettes di Starewitch tuttora esistenti
imprigiona nella sua tela terrificante. È lo sgraziato scarabeo, da
appartengono a Léona Beatrice Starewitch, nipote del regista, e
sempre innamorato di lei, che si sacrifica per salvarla. Ma, tornata
a suo marito François Martin. Léona e François possiedono anche
in campagna, la mosca viene considerata una puttanella di città e,
le pellicole dei film che Starewicth ha realizzato da quando si è
respinta dalla famiglia, muore al freddo tutta sola.
trasferito in Francia. Insieme al marito, Léona si è occupata del
Starewitch libera l’immaginario proprio dell’infanzia facendo
restauro delle pellicole del nonno e della loro distribuzione nei
un uso straordinario delle possibilità espressive del linguaggio
Festival del cinema di tutto il mondo. Vale la pena di ricordare
cinematografico. L’effetto speciale dello stop motion rende
l’importante retrospettiva dedicata al regista che si è tenuta
credibili, grazie al realismo intrinseco del mezzo filmico e al
nell’ottobre del 2007 a Pordenone durante Le Giornate del
movimento, i mondi fantastici che ogni uomo si porta dentro.
Cinema Muto. Per l’occasione, oltre alla proiezione delle pellicole,
Lo spettatore è calato in un sogno ad occhi aperti: si emoziona,
è stata organizzata una divertentissima mostra delle marionnettes,
sorride e soffre di fronte alla complessità dei comportamenti
consentendo agli spettatori di conoscere dal vivo le star dei film!
umani e, con lo sguardo limpido e incantato del bambino, segue i
Le storie che Starewitch racconta sono inventate e scritte dal
percorsi infiniti della fantasia senza esprimere giudizi categorici.
regista stesso oppure derivate dalla tradizione fiabesca e letteraria
Starewitch è considerato un maestro indiscusso da alcuni
(La cicala e la formica, Le rane vogliono un re, etc.). È notevole
importanti registi che hanno continuato e sviluppato la tecnica
l’influsso che le favole, patrimonio folklorico della cultura russa,
dell’animazione tridimensionale: Ray Harryhausen che ha animato
hanno avuto nella formazione del regista.
i mostri in molti film di fantascienza americani degli anni ’50, e
Una delle storie più divertenti è quella della Vendetta del
Tim Burton. Il regista californiano ha realizzato due lungometraggi
cameraman (Mest’ kinematogrficheskogo pperatora). Una
in stop motion, Nightmare Before Christmas (1993) e La sposa
commedia deliziosa e licenziosa in cui un adulterio fra insetti
cadavere (The Corpse Bride, 2005). La tecnica dei pupazzi animati
è reso lampante dall’utilizzo del cinematografo. Una piccola
ha consentito a Burton di rendere verosimile la “normalità” del
storia alquanto audace che già nel 1911 sviluppa una riflessione
mondo dei suoi “freaks”, e ha confermato, grazie al grande
metalinguistica.
successo ottenuto dai film, l’eccezionale modernità delle
I film sono mediamente di breve durata e sono realizzati
invenzioni del cinema di Starewitch.
con effetti speciali sorprendenti. Ad esempio quando un
il mondo magico
di Ladislas
Starewitch
personaggio corre in un senso, l’impressione della velocità
viene rafforzata da una scenografia che scorre in senso inverso;
o, meglio, due scenografie scorrono a velocità differenti
suggerendo un movimento della macchina da presa. Vengono
utilizzati degli specchi per dilatare e amplificare le profondità
di campo, per moltiplicare la presenza degli attori, o per
disegnare anamorfosi in funzione delle loro deformazioni.
NOTA: L’ortografia Ladislas Starewitch è quella scelta dal regista
stesso per il suo nome nel momento in cui si è installato in Francia.
La traslitterazione corretta dal cirillico è Wladislaw Starewicz.
transatlantico19
le sacre du printemps
Fruttiere di Palazzo Te
ore 21.30
martedì
02_9
Rossella Spinosa Leonardo Zunica, pianoforti
Carlo Miotto Didier Bellon, percussioni
Luigi Manfrin, live electronics
Cristiano Tassinari, video
Massimo Biasioni, regia del suono
Igor Stravinskij
Le sacre du Printemps (I parte)
L’Adoration de la terre
1. Introduction
2. Les augures printaniers
(Danses des adolesentes)
3. Jeu du rapt
4. Rondes printanieres
5. Jeux des cites rivales
6. Cortege du Sage
7. Adoration de la terre (Le Sage)
8. Danse de la terre
Luigi Manfrin
To the end of surfaces (2008)
Igor Stravinskij
Le sacre du Printemps (II parte)
di Igor Stravinskij
L’
idea della Sagra mi venne mentre stavo ancora componendo l’Uccello di fuoco. Avevo
sognato una scena di un rito pagano in cui una vergine sacrificale danza fino a morirne. Questa visione
non si accompagnò a concrete idee musicali, e siccome fui ben presto gravido di un’altra concezione
puramente musicale che andò sviluppandosi, così credevo, in un Konzertstück per pianoforte e
orchestra, fu quest’ultimo che cominciai a comporre. Avevo già parlato a Djagilev della Sagra prima
che venisse a trovarmi a Losanna alla fine del settembre 1910; ma non sapeva niente del Petruška,
che è come chiamai il Konzertstiick, pensando che lo stile della parte pianistica suggeriva il burattino
russo. Se Djagilev fu deluso di non ascoltare musica per “riti pagani” non lo diede a vedere: Petruška
gli piacque moltissimo, e mi incoraggiò a svilupparlo in un balletto prima di intraprendere la Sagra.
Nel luglio 1911, dopo le prime rappresentazioni di Petruška, partii alla volta della tenuta di
campagna della principessa Teniševa vicino a Smolensk, per incontrare Nikolaj Roerich e progettare
la sceneggiatura della Sagra della primavera. Roerich conosceva bene la principessa, e ci teneva che
vedessi le sue collezioni di arte popolare russa. Da Ustilug raggiunsi Brest-Litovsk, e scoprii che avrei
dovuto aspettare due giorni il prossimo treno per Smolensk. Corruppi perciò il macchinista di un
treno merci perchè mi lasciasse viaggiare in un carro bestiame, dove mi trovai solo a tu per tu con un
toro. L’animale era imbrigliato da un’unica fune non molto rassicurante, e poichè mi guardava con
cipiglio e sbavava mi barricai dietro la mia solitaria valigetta. Quando a Smolensk uscii da questa
corrida, spazzolandomi vestito e cappello, con la mia valigia lussuosa o almeno non da vagabondo,
dovevo fare un buffo effetto, ma certo sarò apparso sollevato. La principessa Teniševa mi ospitò
in una foresteria accudita da domestici in belle uniformi bianche con fascia rossa e stivali neri. Mi
misi al lavoro con Roerich, e in pochi giorni il piano d’azione e i titoli delle danze furono pronti.
Mentre eravamo là Roerich abbozzò anche i suoi famosi fondali di tipo polovesiano, e disegnò i
costumi basandosi su costumi veri della collezione della principessa. A questo punto il nostro titolo
per il balletto era Vesna Svjaschennaja (“Primavera sacra“ o “Primavera santa”). Il titolo Le sacre du
printemps [“La sagra della primavera”] è di Bakst. In inglese, The Coronation of Spring si avvicina più
di The Rite of Spring al mio significato originario. [...]
Le Sacrifice
9. Introduction
10. Cercles mysterieux des adolescentes
11. Glorification de l’elue
12. evocation des ancetres
13. Action rituelle des ancetres
14. Danse sacrale (l’Ilue)
Roerich aveva disegnato un fondale di steppe e cielo, la terra incognita, l’hic sunt leones
dell’immaginazione degli antichi cartografi. Lo schieramento di dodici bionde ballerine dalle spalle
quadrate contro questo paesaggio formava un insieme notevole.
E i costumi di Roerich, a quanto si diceva, erano storicamente esatti, oltre che felici scenicamente.
Roerich venne a Parigi per la prima, ma riscosse assai poca attenzione, e presto scomparve, sdegnato,
immagino, tornando in Russia. Non l’ho più rivisto; ma durante l’ultima guerra non mi meravigliò sapere
delle sue attività segrete e dei suoi curiosi rapporti col vicepresidente americano Wallace nel Tibet.
Aveva l’aria di uno che avrebbe dovuto fare il mistico o la spia. [...]
Co-produzione Diabolus in Musica
Eterotopie altri luoghi 08 e
Centro Musica Contemporanea di Milano
Dal volume “Ricordi e commenti” di Igor’ Stravinskij e Robert Craft, 2008.
Gentilmente concesso da Adelphi edizioni .
transatlantico20
to the end of surfaces
di Luigi Manfrin
To the end of surfaces è una composizione per due pianoforti ed elettronica scritta
appositamente per il Festival Eterotopie 2008 di Mantova. Il punto di partenza di
questo brano è il richiamo a Le Sacre du Printemps di Igor Stravinskij, in particolare
alla versione a quattro mani per due pianoforti realizzata dallo stesso compositore
russo e che sarà proposta all’interno della stessa serata della prima di To the end
of surfaces in modo da porre le due composizioni direttamente a confronto.
Non si tratta, tuttavia, di un semplice accostamento tra un classico
del primo novecento con uno contemporaneo che s’ispira liberamente
ad esso; ciò che si vuole mettere in scena è piuttosto un processo
generativo che nasce da opera musicale preesistente – il Sacre - e che
s’innesca su essa senza mai citarla direttamente, per poi procedere
altrove seguendo dei percorsi sonori propri. Si può paragonare tale
processo ad una sorta di viaggio immaginario avventuroso, che inizia
da un luogo noto per trasferirsi successivamente in zone sempre meno
conosciute o familiari; nel caso in questione i territori da esplorare
riguardano il suono o il timbro dei due pianoforti e la derivazione da
esso di un disegno formale variegato, a partire da alcuni oggetti sonori
noti e riconoscibili, ricavabili, appunto, dal Sacre.
Com’è noto, il soggetto del balletto di Stravinskij concerne la
rappresentazione di un rito sacrificale pagano nella Russia antica
all’inizio della primavera; ciò nonostante, rispetto a questa tematica, il
piano compositivo di To the end of surfaces volge in un tutt’altro senso
o direzione.
Innanzitutto, come già detto, non c’è l’impiego di citazioni o
materiali provenienti esplicitamente dal Sacre, ma solo la derivazione
di alcune Gestalten o «immagini sonore» adottate per generare
morfogeneticamente il brano sia dal punto di vista degli oggetti
musicali che dei processi compositivi. Il riferimento principale è la
Danse de la Terre che chiude la prima parte, ovvero L’Adoration de la
Terre, ma le immagini sonore scelte, premesse del lavoro compositivo,
fanno riferimento solo in parte alle sonorità e ai gesti pianistici ben
congegnati da Stravinskij per la sua riduzione dall’organico orchestrale,
essendo esse state particolarmente pensate per originare altre sonorità
complesse, in bilico tra la tastiera e la cordiera del pianoforte.
Centrale è il lavoro sulla ripetizione, elemento importante dal punto di
vista generativo per il Sacre. La periodicità impiegata inizialmente in To
the end of surfaces, in effetti, ripresenta continuamente le immagini
sonore principali, intese come corpi sonori da deformare e tendere in
una ricorrenza insistente e pulsata di reminiscenza Stravinskijana, ma
ulteriormente frammentata fino a divenire in alcuni momenti caotica,
con violenti sbalzi sconnessi di piani e d’intensità, secondo diversi livelli
di compenetrazione e con oscillazioni e alternanze di blocchi accordali,
organizzate in modo intermittente con gradi d’irregolarità crescente.
Essenziale, soprattutto, è l’aspetto temporale con cui è organizzato
l’intero impianto dell’opera: estraendo determinate durate delle
singole parti e dall’insieme del L’Adoration de la Terre, e derivando
matematicamente una progressione graduale di valori in espansione
comprendente queste durate, si procede nel corso del brano verso
tempi sempre più ampi e distesi.
L’intento è oltrepassare il senso terrestre del Sacre, decostruendone
progressivamente il rituale o, meglio, facendone un punto
d’installazione verso flussi temporali insieme allentati e concentrati
– tempi che suggeriscono unitamente universi stellari e quantistici
–, ossia verso dimensioni del suono sempre più ampie ma cariche di
velocità infinitesimali o virtuali, ulteriormente dilatabili.
Si può, pertanto, paragonare la forma di To the end of surface ad
un’immaginaria lente d’ingrandimento che amplia a poco a poco gli
oggetti sonori impiegati distendendoli sempre più nel tempo, simile ad
una successione di zoomate man mano più ampie; dunque, un viaggio
fino ai confini estremi delle superfici sonore tracciate da Stravinskij per
il suo Sacre.
In questo senso la predominanza iniziale delle tastiere, contraddistinta
dal gioco convulsivo dei blocchi ritmici-accordali sobbalzati sull’intero
spazio delle frequenze a disposizione, lascia a poco a poco campo
all’interazione con la sintesi elettronica dei suoni tramite risonanze,
modulazioni, sgranamenti ed espansioni rielaborate del timbro;
quest’ultimi affiorano per gradi dalle superfici sonore schizzate dai
pianoforti, necessitando così di tempi sempre più rallentati in modo
da lasciare spazio alla percezione di un’ampia aura acustica in cui la
materia sonora diviene capace - per dirla con Deleuze - di captare forze
non sonore come la durata e l’intensità, assecondando il proposito di
voler «rendere la Durata sonora».
transatlantico21
un incontro perfetto
di Leonardo Zunica
Nel
1910, Erik Satie, non si sa con quale dispositivo,
spiana Claude Debussy e Igor Stravinskij sulla carta fotosensibile.
La foto, agli occhi meno sofisticati, non sembra ben riuscita.
Debussy guarda alla nostra sinistra. Non ne penetriamo lo sguardo,
ci sfugge. “Facciamone un’altra”.
Debussy amava sfuggire. Le sue tarde esecuzioni al pianoforte ci
rivelano, a quanto si dice, un suono felpato, che scansava esso
stesso ogni definizione consueta: il pianoforte veniva chiuso
e spesso avvolto da una coperta. Nascosto. Debussy “parlava a
voce bassa e calma, e le sue frasi finivano in un mormorio quasi
impercettibile”.
Stravinskij, invece, ci coglie frontalmente, come in quasi tutti i
ritratti fotografici che ci sono pervenuti, almeno in quell’epoca.
Anche le sue varie raccolte di memorie vogliono essere precise,
puntuali, nette.
In quella foto Debussy ci avverte involontariamente che c’è
qualcun altro, dietro o a fianco l’occhio fotografico. Sentiamo una
certa inquietudine, un certo ritmo. Una certa asimmetria. Forse
cogliamo l’ombra di Satie, il suo voler uscire dalla rappresentazione.
Il binomio, quel “binomio” doveva apparire allo stesso Satie quasi
perfetto. Stravinskij dal canto suo, registrerà il proprio ricordo del
“mammifero”:
“Verso la fine della sua vita (Satie, ndr) si era volto alla religione e
aveva cominciato a comunicarsi. Una mattina lo incontrai dopo una
funzione religiosa, e con quel suo tono tranquillo mi disse: “Alors,
j’ai un peu communiquè ce matin”. Si ammalò d’improvviso, e
morì poco dopo, quietamente” (Igor’ Stravinskij e Robert Craft,
Ricordi e Commenti - Adelphi, Milano 2008).
Un paio d’anni dopo Debussy e Stravinskij s’incontrano di nuovo,
ancora a Parigi. Non ci è dato di sapere quanto fosse sincero il loro
legame. Viene da pensare che, difficilmente, due geni si possano
dichiaratamente stimare. Di quell’incontro ci dà un dettagliato
transatlantico22
resoconto Louis Laloy, orientalista, musicologo e biografo di
Debussy:
“Nella primavera del 1912, grazie ad un chiaro pomeriggio, io
facevo due passi nel mio giardino di Bellevue con Debussy. Stavamo
aspettando Stravinskij. Come ci vide, il musicista russo corse, con
le braccia in avanti, ad abbracciare il maestro francese che, sopra
la sua spalla, mi gettò uno sguardo divertito e al tempo stesso
commosso. Egli aveva portato con sé la riduzione per pianoforte
a quattro mani del suo nuovo lavoro, Le Sacre du Printemps.
Debussy acconsentì a suonare il basso sul pianoforte Pleyel che
ancora oggi possiedo. Stravinskij aveva domandato il permesso di
togliersi il colletto. Con lo sguardo, immobilizzato dagli occhiali,
che dal naso puntava verso il pianoforte, a momenti accennando
con la voce una parte, egli trascinava in un torrente sonoro le mani
agili e molli del suo collega che seguiva senza intoppi e sembrava
infischiarsene delle difficoltà. Quando ebbero terminato, non ci fu
più ragione di abbracci e neppure di complimenti. Eravamo muti,
messi a terra come dopo un uragano giunto, dalla profondità dei
tempi, a strappare la nostra vita alle radici”.
Quell’incontro non verrà ricordato nelle memorie stravinskiane.
Debussy invece, scriverà una lettera all’amico russo, prima della
fatidica rappresentazione parigina del Sacre:
“Ho ancora in mente il ricordo dell’esecuzione del vostro Sacre du
printemps in casa di Laloy. Mi ossessiona come un bell’incubo e
inutilmente cerco di riprovare la terribile impressione. Per questo
ne attendo la rappresentazione come un bambino goloso al quale
sia stata promessa della marmellata”.
A noi, comunque, rimane l’immaginazione che quell’esecuzione
del Sacre sia stata un clamoroso caso di incontro perfetto.
la grande guerra
di Enrico Alberini
I
n passato le generazioni si alternavano con costante regolarità alla guida della civiltà: quella degli adulti
prendeva il testimone da quella degli anziani, mentre i giovani erano educati a sostituirsi nel tempo ai genitori.
Nel XX secolo il progressivo innalzamento dell’età media e l’affrancamento della donna da un ruolo sussidiario a quello
maschile, hanno mutato la secolare successione delle generazioni.
Inoltre nelle società occidentali degli ultimi cinquant’anni, grazie alla relativa assenza di conflitti bellici e al costante calo
delle nascite, i confini temporali di una generazione si sono dilatati di almeno dieci anni, creando situazioni ibride, per cui
oggi non è chiaro come in passato definire chi ha il piacere e la responsabilità di comandare il gioco della storia.
In Italia in particolare, a differenza di quanto sta succedendo in altre nazioni europee, i ruoli del potere politico,
economico e culturale raramente sono ricoperti da quarantenni, a mala pena qualche cinquantenne guida un’azienda,
un’amministrazione pubblica o un ente culturale e quindi padroni del vapore sono uomini (donne anziane e potenti
ancora non se ne vedono) che hanno più di sessant’anni, se non settanta, un’età che se raggiunta da un nonno del primo
dopoguerra, lo trovava comodamente o meno seduto su una poltrona in casa con i propri figli, senza alcuna possibilità, né
ambizione di determinare le sorti della nazione.
Focalizzando ora l’attenzione su quanto accade nel piccolo mondo antico mantovano, mentre si notano deboli
segnali di rinnovamento nei ruoli decisionali della politica e dell’economia, in campo culturale si assiste a un curioso
fenomeno dove, avendo rinunciato i cosiddetti adulti al ruolo di protagonisti, i giovani faticano a sconfiggere
l’ostinazione con cui gli anziani continuano a vestire i panni di padri, o meglio nonni, nobili della cultura.
Alla ferrea volontà di attempati trentenni, non spesso supportata invero da corrispondente fantasia d’idee o qualità di
proposte, di assurgere a faro del processo culturale locale, si oppone quella non meno ferrea della geronto-intellighenzia
nel chiedere uguali diritti (contributi pubblici e sponsorizzazioni private per le proprie iniziative) e doveri (posti d’indirizzo
culturale, garantiti fino al decesso).
Che fare? Poiché non è augurabile che i giovani siano più aggressivi e meno democratici, almeno gli anziani siano
più generosi, riscoprano il ruolo di maestri dietro le quinte, abbandonino quello di protagonisti sulla scena, aiutino chi
dimostra di avere più energie e motivazioni a inventare il futuro, mettendolo in guardia a non ripetere gli errori del (loro)
passato, evitando così di celebrarlo oltre misura.
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transatlantico23
giovedì
28_8
di Alessandro Cappabianca
filmico
il corpo
della musica
Un incontro con Alessandro Cappabianca sul rapporto fra suono e
immagine. Un tentativo di porsi all’ascolto dei film, considerandone
gli elementi temporali e ritmici. Un’indagine sulla durata, nella
disposizione spaziale del suono, come se non si trattasse solo di
udirlo, e neppure solo di vederlo, ma quasi di toccarlo...
transatlantico24
I N C O N T R I
Loggia Meridionale
ore 19.00
Contrariamente ad un’attitudine diffusa
(particolarmente virulenta in Italia, patria del
doppiaggio, dove fino a non molti anni fa si era
capaci perfino di doppiare le canzoni di certi musical
americani), occorre prendere l’abitudine di porsi
all’ascolto del film – il che significa poi acquisire
la percezione d’una sfera sonora in cui musica,
parole, rumori e quant’altro, entrano a far parte
di quello che Deleuze ha chiamato, nelle ultime
pagine dell’Immagine-tempo, “continuum sonoro”,
elaborato tanto a partire dal lavoro di Straub e Huillet,
quanto riflettendo su certe esperienze di Godard, di
Margherite Duras e sulla collaborazione del musicista
Michel Fano con Robbe-Grillet (in veste di regista):
“Il continuum sonoro smette dunque di differenziarsi
secondo le appartenenze dell’immagine visiva o
le dimensioni del fuori campo e la musica non
garantisce più una presentazione diretta di un tutto
presupposto”.1
In L’Eden et aprés, diretto nel 1970 da Robbe-Grillet, gli
studenti della facoltà di matematica che frequentano
il bar Eden, si dilettano a organizzare all’interno dei
suoi spazi labirintici, tra pareti rivestite di specchi,
alcune messe in scena derisorie (un finto stupro, una
finta roulette russa, un finto avvelenamento), un po’
per scherzo, un po’ sul serio, tanto per passare il
tempo. Si bevono aperitivi color rosso-sangue, circola
cocaina. Alla scena dell’avvelenamento, segue la
finta morte d’uno studente di nome Boris, per il cui
“funerale” occorre dunque improvvisare una sorta
di marcia funebre. Il “compositore” di questa marcia
è Michel Fano, musicista, abituale collaboratore di
Robbe-Grillet, per il versante sonoro dei suoi film.
Ma cos’è una “marcia funebre”? Michel Fano e
Robbe-Grillet ne discussero ai Colloqui di Cerisy
dedicati nel ’75 proprio a Robbe-Grillet.2 Jean
Ricardou, coordinatore dei colloqui, osservava
che una marcia funebre dev’essere “lenta” per
accordarsi alle necessità pratiche d’un funerale (al
suo “tragitto”). La lentezza della marcia permette
l’esecuzione pratica della cerimonia “ma, in più, essa
significherà la tristezza stessa”.3
Musica a programma, certo, cliché abusato. E Fano
replicava: proprio per questo, occorre pervertire il
tragitto.
Nella marcia funebre per Boris, Fano elabora una
musica per oggetti, in cui si pone il problema (che lo
ossessiona da sempre) del trattamento musicale dei
suoni non-musicali, legati comunque (a suo giudizio)
a un sistema referenziale. Il funerale di Boris è un
finto funerale, perché Boris è morto “per finta”. Così
i suoni e i rumori che si ascoltano, è possibile elencarli
in rapporto alla presentazione visiva degli oggetti
che li producono (o che sembrano produrli): le corde
pizzicate d’una chitarra, il tintinnio di una posata su
un bicchiere vuoto, le battute di un tamburo, due
bottiglie che si urtano, due bicchieri di metallo,
due piatti, due vassoi, un cucchiaio su una bottiglia
piena, un cucchiaino e una tazzina, i tasti di un
pianoforte (premuti “a caso”), una mano che batte
sul muro, una che struscia su un vassoio, infine la
mano del “morto” che batte il tempo sul catafalco.
Ma siamo sicuri che questi suoni o rumori siano
veramente prodotti dagli oggetti corrispondenti?
Certo non possiamo sapere a quali modificazioni
(di altezza, di intensità, di timbro) Fano e RobbeGrillet li abbiano sottoposti. Del resto, forse, non è
importante saperlo: la fonte del suono è ancora più
indecidibile della realtà dei corpi e degli oggetti che
crediamo di vedere sullo schermo, a maggior ragione
nell’odierna era elettronica.
La perversione sonora può assumere anche la forma
d’una frustrazione delle attese spettatoriali. Per
esempio, l’arrivo all’Eden dell’enigmatico Straniero
non è sottolineato da alcuna musica “misteriosa”
(secondo la prassi del cinema commerciale), ma dal
silenzio. Gli avventori del bar tacciono all’improvviso.
Non si sente risuonare altro che il rumore amplificato
dei suoi passi.
Altra forma di perversione sonora: l’utilizzo “fuori
contesto” di materiali musicali preesistenti. TransEurop-Express (del ’66) è un meta-film dalla struttura
complicata, sulla quale non è il caso di soffermarsi
qui – ma a livello esplicito, può presentarsi come
la storia di un trafficante di droga (Jean-Louis
Trintignant) che trasporta la sua merce in treno
(nell’Europ-Express) da Parigi ad Anversa, ed è anche
un killer sadico, stupratore e strangolatore di donne.
Il film comincia in stazione, a Parigi. Rumori realistici,
tipici di una stazione ferroviaria. Il fischio di un treno,
però, sfuma quasi insensibilmente, tramutandosi
in un famoso brano verdiano, “Amami Alfredo”
della Traviata. Il brano continua sui titoli di testa, su
Trintignant che cammina per i corridoi del metrò, e
finisce esattamente in contemporanea con l’attore
che esce dalla sotterranea (tornano allora i suoni
“realistici”).
Durante un incontro erotico, fortemente venato
di sadismo, tra il killer e una ragazza, ad Anversa,
Trintignant si avvicina lentamente al letto dove la
donna è legata e si ode solo il rumore dei suoi passi,
che risuonano nella stanza. Poi, in corrispondenza
del (presumibile) stupro, parte un brano dolcissimo
della Traviata. Primi piani della ragazza che si dibatte.
Inserti di binari ferroviari. Continua la musica molto
dolce, che poi si interrompe bruscamente. I due
parlano tranquilli, distesi sul letto: sembra che lo
“stupro” sia terminato, in concomitanza con la fine
della musica4.
Nei momenti “forti”, insomma, la colonna sonora
ci propone sempre brani famosi della Traviata.
Qual è il loro ruolo? Il pompierismo di una musica
operistica talmente popolare da risultare ormai
quasi inascoltabile, ma che Robbe-Grillet amava,
corrispondeva al soggetto apparente d’un film
di genere – ma non solo: è una musica le cui
connotazioni emotive più immediate vengono
poste metodicamente in contrasto con il carattere
delle sequenze cui si accompagnano (per esempio:
dolcezza VS violenza ecc.).
Jeu avec le feu (1975) è invece, a mio parere, il
film di Robbe-Grillet il cui versante visivo si avvicina
più pericolosamente a un certo erotismo patinato
(allora di moda), riuscendo a sfuggirgli solo grazie
all’ironia e ai lampi d’intelligenza che malgrado
tutto lo costellano. La storia è ingarbugliata, i nessi
narrativi rifiutano programmaticamente di chiarirsi
– però il nucleo del film (nucleo drammatico, ma
anche scenografico e sonoro) sono le scene del
bordello per pervertiti in cui viene tenuta prigioniera
Carolina (Anicée Alvina), figlia del ricco banchiere
De Saxe (Philippe Noiret), col pretesto di salvarla
da un minacciato rapimento. Ciò che i presunti
rapitori minacciano di fare, per convincere il padre
a non chiamare la polizia e a pagare un riscatto, è di
consegnare la ragazza alle voglie dei clienti sadici e,
infine, di bruciarla viva.
E’ appunto il tema del fuoco (presente già nel titolo)
a operare, sul piano sonoro, il collegamento con
l’orrendo fuoco del Trovatore verdiano, un cui brano
interviene fin dall’inizio, quando Noiret osserva alla
finestra la scena del rapimento di un’altra ragazza.
Nei lunghi corridoi del bordello, invece, Carolina
apre porte misteriose sulle quali sono scritti nomi di
ragazze e si trova ad assistere (come fosse invisibile)
a scene di perversione e sadismo – ma alla fine
apre una porta che immette in una specie di teatro
d’Opera (senza pubblico), sul cui palcoscenico una
cantante lirica sta provando appunto una scena del
Trovatore...
Nel complesso del film, comunque, il gioco di RobbeGrillet e Michel Fano coinvolge tre “generatori
musicali”: il Trovatore (con citazioni sonore quasi
“fedeli”, che poi man mano vengono scientemente
deformate), una canzone brasiliana (Carolina) e una
marcia militare tedesca (Erika) – detti “generatori”
formano, intersecandosi e sovrapponendosi,
quella che Robbe-Grillet chiama una struttura di
contaminazione.
Non mancano, come in altri film del regista francese,
citazioni wagneriane, peraltro qui difficilmente
avvertibili: solo da alcune dichiarazioni di Fano
si può capire (o almeno, io non ci riesco) che il
canto dell’uccello del secondo atto di Sigfrido si
mescola al canto degli uccelli veri, fino a diventarne
indistinguibile, in una sequenza che si svolge,
all’inizio, nel parco della villa del banchiere.
Altri esempi, anche dovuti ad altri registi, potrebbero
e dovrebbero essere portati. Ma si può arrivare, a
questo punto, a una prima conclusione provvisoria:
le nozioni di continuum sonoro, di inquadratura
audio-visiva, di film da vedere/sentire, vanno nel
senso di una feconda contaminazione tra universo
del vedibile e universo dell’udibile, che rientra nella
natura basicamente eterogenea del cinema.
Sentire le immagini, vedere i suoni... paradossali
sinestesie, rese possibili dall’inquadratura sonora.
E’ in questo senso, che Fano parla di “film-opera”,
usando il termine con un significato ben diverso da
quello corrente (così come faceva Robbe-Grillet, in
quanto scrittore, col termine “cine-romanzo”).
E’ un fatto, però, che il versante sonoro è stato
sempre trascurato (salvo poche eccezioni) dai teorici
del film – e oggi il pubblico è letteralmente assordito
dal frastuono insostenibile dei blockbuster, a base di
effetti speciali e meraviglie elettroniche. In questo,
esiste anche una responsabilità dei critici (per quanto
poco contino), che se (in rari casi) hanno occhi,
sembrano comunque non avere orecchie.
Allora, porsi all’ascolto del film, significa collegare il
tempo, il ritmo, la durata, alla disposizione spaziale
del suono, come se non si trattasse solo di udirlo, e
neppure solo di vederlo, ma quasi di toccarlo. Se è
vero che il cinema, basicamente, si fa (o si faceva,
prima dell’elettronica) con i corpi, quello che esso
dovrebbe essere in grado di materializzare è il corpo
(filmico) della musica.
1 G. Deleuze – L’immagine-tempo (Ubulibri – Milano, 1989) – p.287.
2 Cfr. in Robbe-Grillet: Analyse, Théorie - vol.1°- (Union Général d’Editions –
Paris, 1976), la relazione di Michel Fano, “L’Ordre Musical chez Alain RobbeGrillet” e la conseguente discussione (pag. 173-213).
3 Id.- p.200.
4 A proposito di passi. I “rumoristi” (giustamente, dal loro punto di vista)
tendono a sfumarne il rumore, man mano che un personaggio si allontana
dalla mdp (e ad aumentarlo, quando si avvicina). E’ un “realismo” al quale
Robbe-Grillet ha spesso ribadito di non essere interessato. A maggior ragione,
non gli interessava la ripresa del suono in presa diretta, che invece occupa un
posto centrale nella poetica di Straub/Huillet.
transatlantico25
venerdì
29_8
Corpo sonoro
e risonanza:
verso una
concettualizzazione
del piano sensibile
dell’esperienza
transatlantico26
di Carlo Serra
I N C O N T R I
Loggia Meridionale
ore 19.00
Cos’era quel rumore strano, che ha
echeggiato or ora? Nell’appartamento sopra
al mio è caduto qualcosa, qualcosa di pesante,
e quel rumore è assai diverso dal fragore
evocato dalla caduta dello stesso oggetto nel
mio appartamento. Il suono ha il carattere di
un rumore, sordo, immodulabile, che rimanda
immediatamente alla materia stessa della cosa,
a sua volta un corpo, e sollecita un bagaglio
di inferenze che si muove per comprendere di
cosa si tratti. Un evento ha rotto uno sfondo,
che misteriosamente ha preso forma e si è
consumato: mi sto intrecciando per comprendere
di cosa si tratti e, anche se potessi dire che il
senso del fenomeno, la sua valenza logica, il suo
significato, è irrimediabilmente connesso al modo
in cui esso si presenta, dovrei immediatamente
riconoscere che, allo stesso modo, essa non
sembra esaurirsi nel suo orizzonte interno, mette
in moto un serie di problemi, che giocano con la
sua posizione spaziale, e la sua intensità.
Un suono può essere vicino, incombente,
oppure risuonare in una distanza attutita, come
quello avvertito. L’emergere di una sorgente
puntiforme, e tenue, porta con sé una serie di
pensieri: il primo, più ovvio, è che quel piccolo
evento stava aprendo una direzione, che si
è subito chiusa. Attendevo un decorso, che
quel suono si ripetesse, acquistando maggior
intensità, e perciò rimandando ad un processo
il cui senso interno coincidesse con il farsi avanti
di cosa che andava avvicinandosi, di cui quel
suono era un aspetto. All’identità della cosa
corrispondeva, in concordanza, un intensificarsi
degli aspetti timbrici, rumoristici di quel suono,
un progredire della sua plasticità dimensionale.
Avrei potuto pensare un oggetto, che si
preannunciava grazie all’incremento sonoro della
sua presenza. Sul piano dell’immaginazione,
la mia aspettativa immediata si lega ad uno
schema in cui identità oggettuale ed incremento
del volume coincidono, fissando la continuità
dell’incremento come una regola interna alla
gradualità del fenomeno e del movimento. Ma
la cosa non è andata così, quel suono lontano
Che rapporti intreccia la musica con lo spazio in cui risuona?
Quali tracce lascia la vibrazione del corpo quando appare un suono?
La dimensione concreta, legata alle modalità con cui i suoni si espandono nello spazio,
sembra appartenere al mondo dell’acustica, ma il timbro narra qualcosa, fa scivolare
l’ascolto dal piano della passività a quello della sintesi delle immagini. Un itinerario del
corpo sonoro tracciato da Carlo Serra, attraverso le visioni di Antonin Artaud, Edgar
Varèse, Gustav Mahler, della popolazione dei Kaluli, dei Pink Floyd.
mi ha chiamato verso di sé, lasciandomi sulla
soglia del corso, su un inizio che non ha avuto
sviluppi, ed ora mi volgo verso l’opacità, come
una serie di potenzialità che non si è ancora
concretizzata. La distanza è inghiottita nel
suono, offre solo una direzione, ma non riesce a
coagularsi su un punto. Potrei individuare, con
forte approssimazione, il punto in cui è caduto,
ma il carattere di quel rumore, si è già svincolato
dal riferimento puntuale alla cosa. Il suono è
fuggente: ma cosa lascia dietro di sé, qual è il
suo residuo?
Un suono è stato ascoltato, si è imposto alla
nostra attenzione, un suono fatto così e così,
che ha caratteristiche ben determinate, e che
si è staccato da un gruppo di suoni che lo
circondavano (il silenzio assoluto è evento
raro, quasi impossibile, siamo costantemente
circondati da un pulviscolo sonoro, che sollecita
sottotraccia).
Esso, naturalmente, si intrecciava ad altre fonti,
ma è stato portato in primo piano per la sua
stranezza, per la sua familiarità, per il fatto che
si collegava in qualche modo ad altri, perché
emergeva assieme ad una serie di correlati;
forse diremmo che ci ha attirato solo perché ci
ricordava qualcosa. Siamo portati a guardare
le reazioni a quell’evento: forse abbiamo
impercettibilmente spostato la testa in quella
direzione, oppure siamo sobbalzati (con il nostro
corpo abbiamo espresso insofferenza, o paura,
per l’ennesimo trillo di telefono). Un gesto
inutile, che racconta una reazione immediata,
che non abbiamo saputo controllare, ma che
esprime bene la tensione verso quell’evento.
Abbiamo accennato ad una serie di reazioni, che
hanno in comune il fatto di essere semplicemente
possibili. Quella possibilità, tuttavia, non vuol
essere rinchiusa nelle maglie di una descrittiva
psicologica, racconta semplicemente che, di
fronte ad un suono, il corpo può avere una
reazione di tipo espressivo. Vi è però un piano
opaco: una reazione rispetto a cosa? Forse
potremmo porre la questione così: il suono porta
con sé un suo senso che si preannuncia con lui,
e a quel senso reagisce il corpo, con una postura
irriflessa. Se le cose stanno così, non udiamo
propriamente nulla, ogni dato si preannuncia
con una coda di significato, che ci pone di fronte
ad un suono, a un gruppo di suoni ed alla sua
opacità. Comincia così a delinearsi una nozione,
la nozione di corpo sonoro, che, sulle prima, non
sembra immediatamente doversi condensare in
una valenza esclusivamente musicale.
L’espressione corpo sonoro designa, in generale,
le componenti espressive legate alla dimensione
del timbro, intese come portato ritmico, legato
all’attacco del suono, come amplificazione
che rimanda all’orizzonte organologico del
corpo dello strumento, e quindi anche del
corpo umano, inteso come strumento musicale.
Nozione ampia, che si correla in modo immediato
alla dimensione qualitativa dell’ascolto,
e
che presenta molti lati sfuggenti, proprio per
quel rimando alla nozione di corporeo che
dovremmo intendere sempre come risonanza
musicale determinata da un’azione, o meglio da
un gesto, che amplifica le possibilità espressive,
fino al rumoristico, insite nell’emissione di un
suono da uno strumento musicale o da una
fonte sonora.
Il rimando alla nozione di formante, da questo
punto di vista, se rimanda ad una caratteristica
fisica dell’emissione dell’onda sonora, può essere
assunto anche come riferimento espressivo ad
un nucleo qualitativo del suono, che trasfigura il
concetto di corpo in risonanza, o corpo sonoro.
I due concetti che stiamo accostando possono
creare immediatamente il senso di una lacuna,
di un salto fra elementi messi in sequenza.
La nozione di corpo sonoro rimanda così al
significato strutturale di tutti gli aspetti sensibili
in cui si muove il piano dell’ascolto, e che
costituisce un mondo di giochi linguistici, che
estrinsecano il valore di una struttura musicale.
Sono giochi poveri, assolutamente elementari
e, su questo piano, primitivi, e sono basati su
una materia evanescente come il suono, ma la
loro sottigliezza cattura l’ascoltatore, e veicola
con forza un significato. Un evento intonativo,
un passaggio di registro, lo spessore timbrico
di un evento sonoro sono i riferimenti corporei
attraverso cui la grammatica della musica ci
porta dentro di sé.
Tali aspetti emergono anche dalla storia
terminologica degli elementi che sostengono la
teoria musicale come accade, per fare un piccolo
esempio, con la nozione di accento. Cercando
attorno alle occorrenze di accentus verifichiamo,
già in epoca classica, l’esistenza di una serie di
metafore corporee, che emergono nella storia di
un termine tecnico, che solitamente accostiamo
ad ambiti sublimati, come la metrica: accentus
nella lingua latina indica il prender spessore di
qualcosa, un evento che altera lo stato di un
corpo senziente, come accade per una febbre,
o, sul piano musicale, l’emergere di una voce
sulle altre, in un costrutto polifonico. Alla
generalità della nozione di passaggio di stato,
si affianca così un restringimento del termine,
che va rendendosi sempre più avvertibile,
modificando il piano del significato in senso
qualitativo. In altri contesti, un poco più tecnici
il riferimento all’accento va a toccare una
peculiarità di ordine timbrico, che stacca la voce
che canta dal contesto che la circonda: si tratta
di un piccolo arricchimento alle valenze possibili
dell’espressione ad cantus, che rimandava al
modo in cui un suono si trasforma rispetto
agli altri, e prende rilievo rispetto all’attacco, e
ai suoi precipitati timbrici. Allo stesso modo,
l’espressione ictus designa tanto la rottura,
il morso, lo strappo, che rompe un regime di
continuità, come accade per l’emergere di
una struttura ritmica che fa marciare il tempo,
dandogli un andamento, uno scambio, una
forma di circolazione, il mantenimento di un
ordine alterato: in entrambe i casi, potremmo
pensare ad un’emergenza, legata ad un
incremento di spessore fonico, o connessa ad
una posizione saliente sul piano ritmico, in cui la
metafora del corpo sonoro, indica il rilievo che
porta in primo piano un evento all’interno di
una struttura temporale.
Non vogliamo giocare con le valenze metaforiche
delle parole, ma stiamo entrando in una
dialettica legata al costituirsi di un ambito di tipo
formale, a partire da una serie di azioni, di giochi
linguistici che trovano il proprio assetto dentro
al consolidarsi delle regole che tengono assieme,
o mettono in fibrillazione, una struttura. In altri
termini, la nozione teorica, formale, di ictus o
di accentus, rimandano certamente ad aspetti
grammaticali dell’articolazione ritmica di una
scansione, ma rimandano anche al prendere
forma di un evento, che ci trascina dentro di
sé, attraverso una serie di portati espressivi,
che devono trovare una forma descrittiva
adeguata proprio nel gioco che la materia del
suono intreccia con il tempo sul piano della
sua enunciazione, della costruzione della sua
materialità timbrica e risonante.
transatlantico27
quadrato, la sua apparizione, quasi archetipica nell’arte e che,
pur con la scoperta degli spazi non-euclidei e le nuove possibili
trasformazioni geometriche, resiste e diventa uno dei simboli della
Loggia Meridionale
ore 19.00
sabato
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modernità. Fino al sogno di un povero quadrato.
l’avventura
di un povero
quadrato
Pochi possono vantare una storia così interessante, lunga,
misteriosa, affascinante, antichissima e pur modernissima.
La sua prima descrizione ufficiale è probabilmente in uno di
quei libri che sono alle base del pensiero occidentale, e non
solo: gli Elementi di Euclide, scritti circa 2000 anni fa. Nel libro
primo, nella definizione 22, Euclide definisce che cosa sia un
quadrato, lo battezza insomma.
Ma delle figure di quattro lati una è detta quadrato, “il
qual quadrato è de lati equali, e de angoli retti” (Nicolò
Tartaglia, prima edizione in italiano, Venezia, 1565. In greco
tetragonon)
Kandinsky ha definitivamente affermato la grande importanza
del quadrato nell’arte e nella cultura del Novecento; non solo
lui certo, tanti altri lo hanno fatto prima e dopo l’artista russo.
Nel 1978 Bruno Munari nella collana “Quaderni di design“
dedica un volume alla storia del quadrato:
“Nel campo delle arti visive il quadrato è il modulo spaziale nel
quale o col quale operatori visuali, ricercatori e sperimentatori
trovano vari modi di strutturare le loro opere. Queste misure,
compresa la famosa sezione aurea, derivano da interventi
sul quadrato, modificandolo in base a precise regole di
scomposizione e di ricomposizione, derivate dalla suddivisione
logica delle sue stesse dimensioni, sia dello spazio interno al
quadrato sia riportando all’esterno alcune sue misure intere
o frazionate con l’uso del compasso e della riga. Nel campo
della grafica il quadrato aiuta a strutturare molti lavori grafici,
dai marchi di fabbrica ai simboli e ai segnali.”
Alcuni esempi di artisti: Josef Albers, Max Bill, Franco Grignani,
Paul Klee, Le Corbusier, El Lissitskij, François Morellet, Kasimir
Malevich e tanti altri, includendo alcune opere dello stesso
Munari, come “Concavo-convesso” del 1948.
Una storia quella del quadrato e l’arte del Novecento che
parrebbe una palese contraddizione con il mutare dell’idea di
spazio iniziata nella geometria dell’ottocento con la scoperta
delle geometrie non euclidee e continuata nel Novecento sino
all’avvento dello spazio-tempo e la teoria della relatività. Un
mutamento, certo non l’unico fattore, che ha profondamente
influenzato le avanguardie artistiche Parigi, russe, italiane
e tedesche. Pur con l’ampliamento degli Spazi e le nuove
possibili trasformazioni geometriche quella forma nata
migliaia di anni fa resiste ed anzi diventa uno dei simboli della
modernità. Quella forma semplice, arcaica, immutabile del
quadrato resta, vittoriosa. Un archetipo, verrebbe da dire.
Come vittorioso era stato il quadrato rosso di El Lissitskij. Nel
1922 Lissitskij pubblica su “De Stijl”, la rivista di Mondrian,
la storia del Quadrato rosso che sconfigge il Quadrato nero,
il Quadrato rosso che riporta l’ordine nel caos. Un Quadrato
rivoluzionario, un Quadrato bolscevico che sconfigge il
transatlantico28
I N C O N T R I
Michele Emmer ci guida in un viaggio attraverso la storia del
“Gli angoli retti in contatto
tra loro non possono essere più di
quattro. Attraverso il contatto dei
lati divergenti si creano superfici
rettangolari, nel caso più regolare il
quadrato. L’elemento freddo-caldo
del quadrato e la sua chiara natura
di superficie ci suggeriscono subito il
rosso; non per nulla negli ultimi tempi
si vedono tanti quadrati rossi. Le tre
superfici triangolo, quadrato, cerchio
sono prodotti naturali del punto che
si muove secondo un piano”.
W. Kandinsky
di Michele Emmer
male oscuro, nero. L’apoteosi del Quadrato che, sulle note
dell’Internazionale, cambia il mondo.
Non sempre la storia del Quadrato è stata una storia a lieto
fine. Un altro quadrato ha avuto una grande influenza non
solo sulla matematica, ma anche nella letteratura, nell’arte,
nell’informatica. Nel Ventesimo secolo, ovviamente. Una
grande influenza il Quadrato di cui si parla, ma una vita
“letteraria” si intende, molto sfortunata. Come tutti coloro
che hanno la possibilità di immaginare il futuro, di capire
che non esiste un solo punto di vista dominante, ma che le
cose possono cambiare, in meglio. Che è possibile mettere
in discussione lo stato delle cose, che nulla è immutabile.
Un sognatore, un veggente molto lucido, quel Quadrato.
Il Quadrato di cui si parla è naturalmente il protagonista
del libro di Edwin A. Abbott “Flatland: a Romance of Many
Dimensions”, pubblicato anonimo a Londra nel 1884 e da
allora ristampato migliaia di volte in molte lingue del mondo.
Il primo libro in assoluto in cui si parla di superamento
della geometria euclidea tridimensionale, della possibilità
di ipotizzare se non vedere oggetti di uno spazio a quattro,
cinque, sei dimensioni, in un ansia di conoscenza che il
Quadrato incarna, come un moderno Prometeo. Il primo libro
“letterario” che parla di più di tre dimensioni possibili, che
i matematici pochissimi anni prima avevano incominciato
ad immaginare mondi a più dimensioni. Mettendo così in
discussione in modo definitivo la struttura “assoluta” dello
spazio così come era stato pensato e codificato dagli Elementi
di Euclide 2000 anni prima.
Ed ecco cosa immagina il Quadrato di Flatland, che ha
appena scoperto le gioie dello spazio a tre dimensioni, non
più costretto a vivere nel suo spazio piatto a due dimensioni:
(si rivolge alla Sfera che lo ha visitato facendolo salire nello
spazio a tre dimensioni)
“IO [il quadrato]: Che cosa c’è, dunque, di più facile che
condurre ora il suo servo in una seconda spedizione, questa
volta verso la beata regione delle Quattro Dimensioni, donde
ancora una volta mi chinerò con lui su questa terra delle Tre
Dimensioni, e vedrò l’interno di ogni cosa tridimensionale, i
segreti della terra solida, i tesori delle miniere di Spaceland e
le viscere di ogni creatura solida vivente, anche delle nobili e
venerabili Sfere? In una dimensione un Punto in movimento
non generava una linea con due punti terminali?
SFERA: Ma dov’è questa terra delle Quattro Dimensioni?
IO: Io non lo so, ma senza dubbio il mio Maestro lo sa.
SFERA: No. Un paese simile non esiste. La sola idea che possa
esistere è assolutamente inconcepibile.
IO: Non è inconcepibile per me, mio Signore, e perciò ancor
meno inconcepibile per il mio Maestro. No, non dispero che
anche qui, in questa regione delle Tre Dimensioni, l’arte della
Signoria vostra possa rendermi visibile la Quarta Dimensione
proprio come nella terra delle Due Dimensioni l’ingegno del
mio Maestro ha saputo aprire gli occhi del suo cieco servo alla
presenza invisibile di una Terza Dimensione, benché io non la
vedessi”.
Naturalmente, nel paese di Flatland è impossibile «alcunché
di quel che voi chiamate solido». Gli abitanti di Flatland non
possono nemmeno immaginare l’esistenza di oggetti a tre
dimensioni, dato che per misurare un oggetto tridimensionale
bisogna poter disporre di una unità di misura tridimensionale;
dal loro punto di vista, è il caso di dire, esistono solo linee
luminose che rappresentano loro stessi, cioè gli abitanti, le
case, gli alberi di Flatland.
Ma alcuni degli abitanti, come il Quadrato, sanno osare,
e immaginano, l’inimmaginabile: “Un orrore indicibile
s’impossessò di me. Dapprima l’oscurità; poi una visione
annebbiata, stomachevole, che non era vedere; e vedevo una
Linea che non era una Linea; uno Spazio che non era uno
Spazio; io ero io, e non ero io... Questa è follia o l’Inferno!”.
Ma l’angoscia lascia presto il posto alla meraviglia: “Un nuovo
mondo! Ecco che avevo davanti a me, visibile e corporeo,
tutto quanto prima d’allora avevo dedotto, congetturato,
sognato, intorno alla perfetta bellezza circolare. Quello che
pareva il centro della forma dello straniero si apriva ora al mio
sguardo... un qualcosa di bello e di armonioso che non sapevo
come chiamare; ma voi, miei lettori di Spaceland, lo chiamate
la superficie di una Sfera”.
L’autore del libro, un teologo inglese, studioso di Shakespeare
e insegnante di matematica, di nome Edwin Abbott
Abbott (1838-1926), pubblicò la prima edizione senza il
nome dell’autore perché non era molto convinto che fosse
conveniente per lui, studioso della Bibbia e di Shakespeare,
avere scritto un libro del genere. Abbott fu studente alla
City of London School e al St. John’s College dell’Università
di Cambridge. A ventisei anni divenne rettore della City of
London School e vi rimase sino al 1889, quando si ritirò.
Quando scrisse Flatland era già stato rettore per vent’anni e
aveva scritto più di venti libri su diversi argomenti. Il suo libro
più importante, “A Shakespearian Grammar”, pubblicato nel
1870, voleva essere una introduzione a Shakespeare per gli
studenti dell’età vittoriana.
Oltre che un affascinante racconto, l’avventura del Quadrato
è una “sceneggiatura”, una storia perfetta per il cinema. Con
musiche di Satie e Milhaud (oltre ad un cammeo di Ennio
Morricone) ho pensato di realizzare un film d’animazione.
Anche se tra il dire e il fare ci sono voluti anni!
Riproponiamo qui sotto il primo capitolo della seconda edizione inglese
di “Flatland, romanzo a più dimensioni” di Edwin A. Abbott
FLATLAND
A romance of many dimensions
by Edwin A. Abbott (1884)
and you will find the penny becoming more and more oval to your view, and at
last when you have placed your eye exactly on the edge of the table (so that you
are, as it were, actually a Flatlander) the penny will then have ceased to appear
oval at all, and will have become, so far as you can see, a straight line.
Part I: THIS WORLD
“Be patient, for the world is broad and wide.”
1. Of the Nature of Flatland
I CALL our world Flatland, not because we call it so, but to make its nature clearer
to you, my happy readers, who are privileged to live in Space.
Imagine a vast sheet of paper on which straight Lines, Triangles, Squares,
Pentagons, Hexagons, and other figures, instead of remaining fixed in their places,
move freely about, on or in the surface, but without the power of rising above
or sinking below it, very much like shadows--only hard with luminous edges--and
you will then have a pretty correct notion of my country and countrymen. Alas,
a few years ago, I should have said “my universe”: but now my mind has been
opened to higher views of things.
In such a country, you will perceive at once that it is impossible that there should
be anything of what you call a “solid” kind; but I dare say you will suppose that
we could at least distinguish by sight the Triangles, Squares, and other figures,
moving about as I have described them. On the contrary, we could see nothing
of the kind, not at least so as to distinguish one figure from another. Nothing was
visible, nor could be visible, to us, except Straight Lines; and the necessity of this
I will speedily demonstrate.
Place a penny on the middle of one of your tables in Space; and leaning over it,
look down upon it. It will appear a circle.
But now, drawling back to the edge of the table, gradually lower your eye (thus
bringing yourself more and more into the condition of the inhabitants of Flatland),
(1)
The same thing would happen if you were to treat in the same way a Triangle, or
a Square, or any other figure cut out from pasteboard. As soon as you look at it
with your eye on the edge of the table, you will find that it ceases to appear to you
as a figure, and that it becomes in appearance a straight line. Take for example
an equilateral Triangle--who represents with us a Tradesman of the respectable
class. Figure 1 represents the Tradesman as you would see him while you were
bending over him from above; figures 2 and 3 represent the Tradesman, as you
would see him if your eye were close to the level, or all but on the level of the
table; and if your eye were quite on the level of the table (and that is how we see
him in Flatland) you would see nothing but a straight line.
When I was in Spaceland I heard that your sailors have very similar experiences
while they traverse your seas and discern some distant island or coast lying on
the horizon. The far-off land may have bays, forelands, angles in and out to any
number and extent; yet at a distance you see none of these (unless indeed your
sun shines bright upon them revealing the projections and retirements by means
of light and shade), nothing but a grey unbroken line upon the water.
Well, that is just what we see when one of our triangular or other acquaintances
comes towards us in Flatland. As there is neither sun with us, nor any light of
such a kind as to make shadows, we have none of the helps to the sight that
you have in Spaceland. If our friend comes closer to us we see his line becomes
larger; if he leaves us it becomes smaller; but still he looks like a straight line; be
he a Triangle, Square, Pentagon, Hexagon, Circle, what you will--a straight Line
he looks and nothing else.
You may perhaps ask how under these disadvantages circumstances we are
able to distinguish our friends from one another: but the answer to this very
natural question will be more fitly and easily given when I come to describe the
inhabitants of Flatland.
For the present let me defer this subject, and say a word or two about the climate
and houses in our country.
(2)
Cortile Meridionale
ore 21.00
(3)
Flatlandia (1987)
di Michele Emmer
sabato
30_8
Regia Michele Emmer
Soggetto dal libro di Edwin A. Abbott,
Flatland (1884)
Animazione Roberto Bianchi
Montaggio Lina Drovetti
Musica Erik Satie
Flatlandia
un film di Michele Emmer
transatlantico29
di QOOB (ISBN Edizioni). Una raccolta di testi e documentari per un agile e
divertente compendio della musica elettronica, i segreti tecnici, le questioni
filosofiche, i progetti e le geniali intuizioni dei protagonisti che hanno scritto
la storia della musica elettronica, dal Moog, al Theremin, al linguaggio MIDI.
TECH
STUFF
di Giorgio Sancristoforo
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domenica
31_8
Moog! Alla scoperta di un genere musicale
Un anno dopo Carlos registrò il prosieguo ideale di Switched
on Bach: The Well Tempered Synthesizer, che conteneva brani
di Scarlatti, Monteverdi, Händel e Bach.
Nel 1972, Carlos realizzò il capolavoro con l’apoteosi
beethoviana di Arancia meccanica, commissionata da Stanley
Kubrick, e lo stesso Kubrick collaborò con Carlos alla stesura
del disco per il quarto movimento dell Nona sinfonia.
Il sound moog, si diffuse in tutti i generi musicali. Nei primi
anni settanta erano molto popolari i dischi di cover strumentali.
Case discografiche grandi e piccole producevano numerose
cover record, spesso di altissima qualità.
Il sintetizzatore moog si stava affermando fra i musicisti -
A
vremmo potuto parlarvi
del Transistor Ladder low Pass
Filter brevetteto da Robert Moog,
ma niente al mondo è in grado di
illustrare precisamente cosa sia un
moog come la musica prodotta
con esso. Abbiamo quindi deciso di
condurvi in un bizzarro viaggio sul
giradischi.
In principio era Walter Carlos,
un cliente della prima ora della
R.A.Moog Co.
Carlos era un musicista dotato e
visionario, che intuì con grande
preveggenza le potenzialità del
sintetizzatore come strumento
musicale nel senso più tradizionale.
Nei primi anni sessanta, la musica
elettronica e il sintetizzatore erano
ancora sconosciuti al pubblico pop;
per la maggior parte si trattava di
musica sperimentale elettroacustica,
che per ovvie ragioni non aveva
una vasta diffusione sul mercato
musicale di massa.
Ma nel 1968 avvenne l’evento, la
CBS pubblicò Switched on Bach, un
album di musica classica interamente
realizzato con un sistema modulare moog e un registratore a
quattro piste su nastro.
L’album interamente dedicato a Bach, comprendeva la famosa
“Aria sulla quarta corda” e parte dei Concerti brandeburghesi.
Il successo fu immediato. Le 500 mila copie vendute
fecero schizzare l’LP ai primi posti di vendita, un evento
assolutamente insolito per la musica classica. Il sintetizzatore
usciva così definitivamente allo scoperto, bucando le barriere
della musica sperimentale per raggiungere finalmente il
grande pubblico.
Era appena nata la musica moog, la pietra miliare più felice e
innovativa dell’easy listening, dopo la nascita della stereofonia.
Loggia Meridionale
ore 19.00
I N C O N T R I
Giorgio Sancristoforo presenta il libro/dvd della prima produzione integrale
grazie alla geniale miniaturizzazione del Minimoog model D e la musica moog era il nuovo sound accattivante e ideale per
i dischi cover strumentali che spopolavano fra le generazioni
post-hippy. Ecco spuntare come funghi dischi tipo Switched on
Rock dei Moog Machine e l’ottimo Music to Moog di Gershon
Kingsley che dà alla luce il famoso brano “PopCorn”.
Anche la Chess, leggendaria etichetta blues di Chicago, non
si fece sfuggire l’occasione pubblicando Moogie Woogie
della Zeet Band. Jean Jaques Perrey realizzò per la Vanguard
Moog indigo, mentre la star della strange music Martin Denny
pubblicò Exotic Moog, che contiene la rivisitazione elettronica
del celebre “Quiet Village” di Les Barxter: un classico del lounge
dei primi anni della stereofonia. Ogni successo pop doveva
essere assolutamente eseguibile in versione elettronica e
“moog” era la parola d’ordine che veniva stampata a caratteri
cubitali su una serie infinita di album. Probabilmente il miglior
LP di questa ondata è Moog! di Claude Denjean. All’interno
troviamo Beatles, Simon & Garfunkel, Creeddence Clearwater
revival, Dylan, Shocking Blue e una versione commovente di
“House of the Rising Sun”.
originariamente chiamato Electronic Experience, Moog! fu
pubblicato dalla London (Decca per l’italia) per la famosa
serie Phase 4 Stereo Spectacular.
Nel disco Denjean è accompagnato da un’eccellente band e
il moog si sposa meravigliosamente
con le melodie, dando vita a
interpretazioni molto originali e
accattivanti.
Un’altra perla del genere (anche
se non dello stesso livello) è Moog
Grooves della Electronic Concept
Orchestra che stupisce con versioni
elettronicamente cheesy di Oh
Happy Day e Aquarius, quest’ultima
tratta dal famoso musical Hair.
Naturalmente in questa collezione
non poteva mancare Burt Bacharach,
l’uomo lounge per eccellenza.
Christopher Scott pubblicò quindi
Switched on Bacharach, una
piacevole raccolta dei brani più
famosi del compositore in versione
moog. Fra gli Lp più bizzarri citiamo
God is a Moog, raccolta di musiche
yiddish in chiave moog del già citato
Gershon Kingsley, il delirante Country
Moog (sottotitolato Switched on
Nashville) e Switched on Santas, per
chi è veramente coraggioso.
Anche nel nostro paese vantiamo
brani in chiave moog grazie a
compositori come Piero Umiliani e
Mariano Detto.
Se state pensando che la musica
moog sia solo un feticcio degli anni
settanta vi facciamo subito cambiare idea con il bellissimo
disco dei Moog Cookbook che, negli anni novanta, ripropose
in versione moog brani dei Nirvana, Soundgarden, Weezer,
Green Day, REM, Pearl Jam e Tom Petty (!!). Non vi resta che
mettervi in cerca di queste stravaganti opere musicali e di
godervi il vero spirito moog, se vi sentite pronti e abbastanza
temerari da affrontare questo viaggio di persona.
Da “Tech Stuff, sussidiario di musica
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Biglietto Madrigale Appena Narrabile euro 15
Incontri ingresso gratuito
In caso di maltempo gli eventi proposti nel Cortile Meridionale
avranno luogo presso le Fruttiere.
prevendita
Spazio Mtt via S. Longino, 1/b MN Tel. 0376 363079
[email protected]
www.eterotopie.it
Tel. 320 1136464