ROBERTO COTRONEO PRESTO CON FUOCO Romanzo. ARNOLDO MONDADORI EDITORE. ISBN 88-04-40316-0 C) 1995 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano. prima edizione: ottobre 1995. Quarta edizione: giugno 1996. (pagine: 230). Versione elettronica realizzata e curata da: Libero Giacomini, Viale D'Annunzio 59 - 34138 - Trieste (TS). E-mail: [email protected] Dedica. PRESTO CON FUOCO. A Federica e Francesco, per la pazienza. E ora anche ad Andrea. Giunse a conoscere l'innocenza attraverso il peccato. JAMES JOYCE, Alphabetical Notebook. FRÉDÉRIC CHOPIN, Ballata op. 52, batt. 211-212. Capitolo primo. Eppure deve esistere una calligrafia delle passioni. Un segno più morbido, una coda della croma che scende di troppo, uno svolazzo di pausa, quella che vale un quarto, una pressione più forte del pennino, quasi un graffio, un oltraggio a quella carta spessa, lanosa, che un tempo si usava per scrivere musica. Si deve pur trovare un barlume di esitazione, la follia di un Presto con fuoco; il restringersi dell'inchiostro in quel breve spazio della pagina, come volesse comprimere il tempo, farlo stare tutto tra quelle righe esitanti e quegli spazi irregolari: cascate di note, le chiamano; gocce d'acqua, qualche volta. C'è persino un suo Preludio, di Frédéric Chopin intendo, che ha questo nome. I nomi che vennero dati dopo: emozionali, descrittivi, talvolta deleteri. A significar la musica come qualcosa d'altro. Grande sbandamento di chi venne dopo i romantici e volle che la natura, l'analogia, entrasse tra quei segni, e li guidasse, quasi fossero i cristalli d'argento d'un dagherrotipo. Neppure il ricordo di quell'albero di fronte alla sua finestra nella casa di campagna di Nohant deve esser servito a cambiare quei segni incerti, malati, stanchi, che ho di fronte a me. Certo sublimi, geniali, minati però dalla fatica, dalla sensazione di non farcela. Altro son le gocce d'acqua, altro le pianure polacche, altro ancora i versi del poeta Mickiewicz che guidarono le Ballate. Si diceva che scrisse le quattro Ballate ispirato da quei versi. Eppure, di quei versi nulla rimane, cancellati; rimane la musica, e sarebbe un'offesa accomunarla a qualunque cosa, vorrei che fosse lasciata in pace. No, leggende di vecchi insegnanti, abituati alla vita, alla similitudine, piuttosto che alla musica; a paragonare l'accordo di do maggiore, piuttosto che ascoltarlo per davvero. Qui di fronte a me vedo solo un pianoforte, un sistema di leve sofisticato, con i tasti bianchi e neri che si riflettono sull'interno del coperchio, dove in caratteri oro c'è scritto Steinway & Sons. Di fronte a me non ci sono gocce d'acqua ma tutto quanto sono stato costretto (sì, costretto) a imparare in anni di studio. Imparare a conoscere la meccanica di uno strumento. Perché son quelle leve a garantirmi che ogni cosa funzionerà, che le mie dita assolveranno al loro onesto lavoro. E' lì che parte la suggestione, lì dentro, tra feltri e piccole cinghie in cuoio, tra smorzatori e corde avvitate attorno a perni d'acciaio. Li chiamo così, e non si chiamano così. Con il mio accordatore si parla in un altro modo, e oggi, sul finire di questo secolo, non ci capirebbero che in pochi, pochissimi forse. Da qualche giorno sono convinto che sul terzo fa qualcosa non funziona, forse è la leva del doppio scappamento, ma l'accordatore mi ha detto che si tratta del rullino, il punto di contatto tra montante e martelletto. Siamo rimasti in una posizione di stallo. Forse ha ragione il mio accordatore. Intanto il mio pianoforte ha un fa che non suona come dovrebbe. Si sente un fruscìo impercettibile, come un retrogusto acidognolo di un rosso d'annata, di un barbaresco che vuol darsi importanza. E così quel fa della tastiera mi lascia nell'orecchio lo strofinìo del feltro, del panno, o forse di un tassellino di legno dolce. A pensarci bene, credo che dipenda un po' dal mio orecchio: più ossessivo del solito in questo periodo, e persino incerto. Sento tutto, ogni possibile imperfezione del mio pianoforte (ormai ne suono solo uno, il modello CD 318, uno Steinway naturalmente, costruito nel 1938, gli altri sei sono chiusi), eppure non so decidere quali riesco a tollerare e quali invece no, anche se per tanti anni ho creduto di saperlo. Ora che incido poco, direi pochissimo, vivo qui chiuso, in una villa che nulla ha di arioso, che se potesse non guarderebbe neppure questo prato all'inglese che il giardiniere si ostina a tenere in perfetto ordine; questa villa in cemento grigio, a un solo piano, circondata da mura alte e poco attraenti, che mi son fatto costruire in ostilità al Leon Battista Alberti e alle divine proporzioni di tutti gli architetti, perché mi portasse a dimenticare quelle che si voglion giuste e ammirate, diversa da ogni casetta di montagna che si può vedere da queste parti, lontana da qualunque città e vicina sola a un bosco di abeti, fitto, umido e disordinato, senza panorami, a meno di non cercarli. Qui si parla tedesco e si vive isolati, anche se si è quasi al centro dell'Europa; qui si respira un odore di clinica, asettico e beneducato. Pochi mi conoscono, ancor meno han voglia di chiamarmi maestro, anche perché io non rispondo, sfioro la maleducazione: lascio correre e cancello dalla memoria i sorrisi che mi porge la gente di qui, tutt'altro che semplice, tutt'altro che povera. Da queste parti ogni cosa funziona come dovrebbe: non è un esilio, non è un eremo, non è una fuga. La natura da queste parti non separa, non isola: integra, vanta cavi sotterranei che portano informazioni in ogni parte del mondo, strade perfette che conducono ovunque. Anche a Parigi, dove ho vissuto inutilmente per troppi anni, convinto che la vicinanza ispiri, mentre l'unica fonte di ispirazione è l'ossessione, la paura del distacco, la lontananza, il non poter capire. E' da qui che comincio a comprendere, da un luogo altro, distante nello spazio, ma prima ancora nello spirito. Da queste parti il Romanticismo è arrivato in una forma frusta, come una malattia subdola e un po' fastidiosa da cui si guarisce senza tanti clamori. E poi qui, di pianisti non ce ne sono e pochi si può dire ne siano nati. A parte Alfred Cortot, naturalmente: veloce e ginnico. Imperfetto ma entusiasmante. Come Rubinstein, d'altronde. Arthur, s'intende. Capace di suonare la Ballata in fa minore in quel modo che i volgari definirebbero frizzante, e a me fa sorridere, perché ogni volta che si sedeva al pianoforte sembrava lui l'autore, lui l'unico, quasi potesse ripetere il prodigio di suonarla di fronte a Madame la Baronne Nathaniel de Rothschild. Soltanto che Rubinstein era massiccio, forte, potente. E Chopin esile e tisico. Per non dir di Cortot, che sembrava un bon vivant dalle dita fuggevoli: un po' Proust e un po' Debussy. Eppure deve esistere una calligrafia delle passioni. Ma se c'è, questa volta pensavo, anch'io ne sono responsabile. Colpa di una storia oscura e segreta, che mi ha messo nelle mani un manoscritto che credevo non esistesse. Se non nelle prime pagine, che son poi quelle che meno mi interessano. Perché il problema non è in quell'Andante con moto. Quello si sa come va suonato. Anche se Rubinstein lo fa quasi con la fretta di chi ripone in un cassetto un pacchettino, qualcosa che cerca di nascondere. No, non ce l'ho con Rubinstein, non più oggi. Ma quando ero ragazzo, tutti si chiedevano se sarei diventato come lui. E io a far dispetto al mondo, al mio di mondo, e a sfiorar tasti come fossi Maurice Ravel, l'orologiaio. A calcare su quegli accordi che sembravano impossibili, almeno sulla carta; aggrovigliati al pentagramma come piante tropicali rampicanti, che però creavano un effetto musicale decisamente opposto: freddo, vago, esitante, indisponente. E poi la notte, in fondo alla casa, nella parte vicino al bigliardo, correvo al pianoforte verticale, quello che usava mamma per gli esercizi dello Czerny, dai tasti irregolari, macchiati di caffè, che mescolato con l'avorio prendeva tonalità e colori che saprei riconoscere ma non descrivere, e senza farmi sentire, usando il pedale della sordina, suonavo la Fantasia-Improvviso, sublime pasticcio romantico senza capo né coda pubblicato postumo, e per questo rimasto forse senza vita. E lì la mia mano destra, ancora incerta per l'età e la febbre di notti insonni a pensare alle donne che frequentavano la mia casa, giovani e adulte, e che mi sfioravano con le scuse più diverse, rallentava fino a diventare imprecisa e annebbiata, come le gambe muscolose ma stanche di un corridore. Dovevo essere davvero bambino, allora. Oggi i miei baffi sono quasi bianchi, i capelli pettinati indietro diventano sempre più radi e le febbri hanno lasciato il posto a una parvenza di spirito meditativo. Perché nulla hai più da fare, e assai poco da suonare. Mi sono guardato allo specchio in questi ultimi anni pochissime volte, per non accorgermi che mi infiacchivo (non invecchiavo, è troppo poco; e sarebbe esagerato dir che mi ammalavo). Specchio. Si fa per dire. Qui di specchi quasi non ce ne sono, eccetto quelli dei bagni: spartani, e un po' scomodi come si conviene a un uomo che era destinato alla carriera militare. Il più delle volte mi sono specchiato sul coperchio del pianoforte, dividendo il mio volto con la scritta d'oro della Steinway, che cancellava - sovrapponendosi - il bianco dei miei baffi. L'ho fatto quasi con civetteria come se quel legno soltanto, opportunamente lucidato, potesse restituirmi la mia immagine vera, l'unica possibile. Mi piace questa idea. Ho pensato di riportarla in qualche modo nella mia autobiografia che forse non scriverò mai, anche se il mio editore svizzero mi ha già versato una parte di anticipo e si impegna a venderla all'intero mondo. Tutti pronti a tradurre le memorie di uno che ha passato buona parte della vita a suonare il pianoforte, e quel che rimaneva a pensare perché non avrebbe potuto farlo meglio, a meditare sulle note da migliorare. Come potrei mai scrivere una cosa del genere? Nel 1935 mi sono diplomato, avevo quindici anni: ero come quelle ragazzine che fanno l'amore troppo presto, quando ancora non sono donne, e per tutta la vita guardano gli uomini con espressione lasciva, perché il sesso le ha imprigionate per sempre e impedisce loro di pensare ad altro. E spesso ti seducono: e quando lo fanno, ti legano in una passione soffocata, guardandoti fino alla fine con le iridi spalancate come se volessero dai tuoi occhi una risposta per la loro ossessione. Come se da te sperassero inutilmente di esser liberate da una prigionia che le attrae. Bene: io sono così. Il pianoforte mi ha cambiato la vita perché mi ha sorpreso giovane, quando i miei muscoli erano quelli di un bambino, le mani sottili, fragili, perse in una tastiera che il mio sguardo quasi non riusciva ad abbracciare per intero. Il pianoforte ha svelato come un crudele maieuta quella parte di me che gli altri chiamano talento straordinario, o persino genio. E di cui io non avevo coscienza ma solo emozione nell'ascoltare me stesso, al punto di sentire i brividi salire dalle braccia fino alle tempie e alla nuca, quasi fosse una sapiente carezza; emozione e compiacimento nel vedere che progredivo per una forza interna che mi impauriva, e che doveva impaurire mia madre, mio primo maestro di pianoforte. E il crudele maieuta, quello Steinway & Sons tedesco dei primi anni del secolo, ha mostrato a tutti il mio innegabile talento quando ancora io non ero nelle condizioni di farlo, e me ne vergognavo. E mi ha turbato sentire me stesso quattordicenne studiare il quarto concerto in sol minore di Rachmaninov senza alcuno sforzo, come se il mondo, non solo la tastiera, obbedisse ai miei capricci adolescenziali. Oggi i miei capricci sono oggetto di biografie, di trattati: non lo sopporto, e cerco di isolarmi per quanto posso. Eppure non sono un eccentrico. I critici musicali amano alimentare leggende: e raccontano che ho un pessimo carattere. Non è vero. Amo stare per conto mio e non torno indietro sulle mie decisioni. Basta tutto questo per far parlare di sé come di un bizzarro signore? Non so. Certo no. Ma non importa, perché i giornali preferisco non leggerli. E dunque non mi occupo di quelli che vorrebbero occuparsi di me. Diceva Proust: «Quel che io rimprovero ai giornali è di farci prestare attenzione ogni giorno a cose insignificanti, mentre non leggiamo che tre o quattro volte in tutta la vita i libri dove ci sono cose essenziali». Tra questi libri io potrei mettere anche un paio di partiture. Come fossero dei testi da leggersi. L'altro giorno ho incontrato poco distante da qui Vladimir Aschkenazy. Non lo conosco, solo dopo mi hanno detto chi era. Passeggiavo tra gli abeti, cercando di non guardare il panorama. Lui mi è venuto incontro, quasi correndo, felice. Sembrava un ragazzino sereno nel suo essere scoordinato, con le braccia che si muovevano per conto proprio. Era vestito di nero: un paio di pantaloni sportivi e una dolce vita che rendeva ancora più evidente il pallore del volto e il bianco dei capelli. Pare mi abbia detto qualcosa del tipo: maestro, sono un suo grande ammiratore. Non lo so: è che un uomo che sorride con i capelli lunghi bianchi e mi corre incontro mi fa paura, e così mi sono ritratto, come un riccio. Non l'ho sentito e non gli ho risposto. Alcuni amici mi dicono: peccato, avreste avuto molto da dirvi. Può essere, ma non frequento più le sale da concerto e non posseggo riproduttori di suono molto sofisticati. Talvolta fingo persino di non sapere cosa sia un compact disc, anche se alcuni miei vecchi dischi sono stati stampati in quel materiale. Mi sembrano tutti fanatici, dunque ridicoli. Io che passo le mie giornate a leggerla la musica, senza strumento, come fosse un romanzo di Tolstoj, sentendomi addosso le note, che mi rimbalzano sullo sterno come se fossero biglie d'acciaio. Avrei comprato tutti i manoscritti del mondo per non dover leggere sempre note a stampa, belle, uguali e perfette. E invece niente, quelle vere sono da sempre nei musei, per non essere lette da nessuno, né tanto meno da me, che ormai so riconoscere ogni misterioso tremolìo, ogni esitazione, e la immagino, e trasformo in suono tutto questo. Altro che Cortot, con quello sguardo obliquo e la palpebra socchiusa; altro che Rubinstein, forte come un contadino polacco, capace di bere e poi suonare magnificamente. Per non dire di Claudio Arrau. Lo incontrai tre sole volte. La prima nel 1949, a Berlino. L'ultima poco prima che morisse, a Monaco di Baviera, una città che comincio ad amare e a preferire ad Amburgo. Doveva essere dicembre, perché si portavano guanti imbottiti. Era freddo, molto. Quando entrò in sala e si sedette al pianoforte, capii che non avrei resistito a lungo, e infatti dopo poco me ne andai: non sopportavo quel suo modo immobile di gestire la tastiera, quel virtuosismo che veniva dal cervello senza il bisogno della forza delle braccia, quelle mani placide e veloci che non scattavano. Mi sembrava tutto contronatura: il meraviglioso suono che usciva dal suo gran coda mal si addiceva a quel viso elegante di possidente terriero latino-americano. Anche se con Arrau si parlava tedesco e conosceva meglio Berlino di Santiago del Cile. Devo ammetterlo: in lui c'era il talento totale, assoluto. Non suonava soltanto bene, percepivi che tutto capiva, tutto interpretava. Ti guardava senza metterti in difficoltà, con cortesia; e con cortesia ti contraddiceva mostrando sicurezza. No, non aveva niente di affettato il suo modo di suonare, era più che altro un mistero: un pianista dell'interno, del cervelletto, dell'ipofisi. Ti aspettavi che prima o poi le mani sarebbero scomparse e lui con il pensiero avrebbe continuato a suonare; e che il pianoforte rivelasse un'anima, scacciando via ogni trionfo meccanico, liberando le corde da quella tensione impossibile. Dieci tonnellate deve reggere il telaio dello strumento. Ricordo una sera, lontana, la seconda volta che ci incontrammo, nel 1966 a Ginevra. Io tenevo un concerto: solo Mozart e Brahms. Lui venne e ne fu turbato; si aspettava un programma di sala con Chopin, con Debussy, non Mozart. Mi disse che suonavo il Rondò in la minore in un modo curioso, di più: misterioso. Poi, non so come, si cominciò a parlare dei Preludi di Chopin. Mi chiedeva perché non li avessi ancora incisi e perché figurassero così raramente nei miei programmi, nei miei concerti: «Un pianista della sua profondità potrebbe raccontare molto di quest'opera», disse, «credo che sia il momento più alto, il più drammatico di Chopin. Andrebbero suonati tutti insieme, uno di seguito all'altro, senza interruzioni. Forse non mi darà ragione, ma con i Preludi si può dire molto della personalità di un pianista». Risposi che preferivo le Ballate, e lui mi fissò compiaciuto, poi dopo aver sorseggiato un bicchiere d'acqua minerale mi sorprese con una domanda: «Lei, le Ballate. Io invece amo alcuni Notturni. Sa quale? Forse non se lo aspetterebbe mai, quello dell'opera 37, in sol. Ma non le dirò il perché. Preferirei che lo scoprisse da solo, ascoltandolo». E subito dopo aggiunse: «Credo che la sua Ballata preferita sia la quarta, in fa minore. E questa volta le dirò il perché: per ora è quella che suona peggio». Lo guardai smarrito. Forse fu la prima e ultima volta che mi smarrii nelle parole di un pianista. Credevo di essere un pianista diverso: che suonava note come fossero biglie, biglie d'acciaio che rimbalzano sullo sterno. Probabilmente mi sbagliavo. Oggi tutto mi è molto più chiaro perché ho di fronte il manoscritto dai bordi smangiati, polveroso e sbiadito come si vuole di ogni vecchia carta ritrovata. Ci vuole pazienza con Chopin, troppa pazienza: c'è chi diventa pazzo e chi, come me, finge soltanto. Perché in questo mondo, cinque anni dal duemila, i pianisti o sono folli o non sono; e io non posso raccontare al mondo che non sono. A meno che non riveli ciò che ho qui davanti, quelle due pagine diverse che nessuno poteva immaginare. Mi viene in mente quando suonai l'ultima volta in concerto la quarta Ballata. Si era a Salisburgo, nel 1975. Un concerto che fu trasmesso in diretta alla radio; la solita folla, il solito evento, ma avevo male alla gola e mi sentivo stanco. Studiai il programma fin nei dettagli: Liszt, Debussy, Mozart, una Toccata di Bach. Alla fine Chopin: avrei dovuto suonarlo come bis, per chiudere il concerto. Invece incominciai da lì: quasi a temere di non farcela fino alla fine. La mia musica iniziò come un girotondo ostinato. Suonavo su di un Bosendorfer imperiale: un pianoforte senza le morbidezze degli Steinway. Perfetto per Mozart e Bach, eccitante per Liszt, ma controindicato per Debussy e naturalmente Frédéric Chopin. Era uno strumento che, come dire, faceva sentire l'acciaio delle corde: alcune lunghe quasi tre metri. E allora, già alle prime due battute, sentivo che c'era un errore, che stavo sbagliando qualcosa. Lo sentivo io, s'intende, nessuno del pubblico avrebbe potuto immaginare che quell'inizio in do maggiore portava con sé una sensazione di perdita; meglio, di inadeguatezza. Sentivo il suono svilupparsi per tutta la lunghezza della corda, e da lì arrivare in sala; e capivo che non avevo scelta, che avrei suonato con una meravigliosa precisione, e al tempo stesso che non sapevo che farmene di quella precisione. Lo ricordo: fu Isaac Stern, che suona il violino come fosse uno strumento inventato dai romantici e potrebbe far vibrare di vita persino il deserto del Negev, a farmi capire veramente quanto sia diverso impugnare un archetto, e maneggiare le corde con la forza delle mani, delle dita, delle braccia. Noi pianisti siamo separati dal suono, non abbiamo ance che vibrano, corde che segnano i polpastrelli, ma leve e tasti rigidi, piacevoli al tatto, spesso in avorio. Solo noi siamo separati dalla musica, non aderiamo con il corpo; e ogni sol, ogni do, re, fa diesis avrà sempre lo stesso suono, più forte, più leggero, impercettibile, aumentato dal pedale di risonanza, reso diverso da quello tonale; ma sempre quel timbro verrà fuori, e nulla di più. Sembrerà strano, ma quel giorno a Salisburgo ho pensato a tutto questo in pochi attimi e ho avuto voglia di aggredire il pianoforte, di togliergli quel privilegio; ho avuto il desiderio di chiedere ad alta voce che le note aderissero alle mie emozioni con maggior forza. In una parola, ho sentito la musica lontana da me come se la comandassi a distanza: come se avessi tra le mani solo il filo di un mirabile aquilone, e non l'aquilone stesso. La musica deve viaggiare da sola, come i romanzi: eppure quell'inizio in do maggiore crea il primo equivoco vero della Ballata. Lo so che è un do maggiore presago di altro, e inganna l'ascoltatore facendogli credere che tutta la Ballata sia in questa tonalità: dunque lineare, affatto ambigua, sorprendente per uno Chopin che nel periodo in cui scrisse queste pagine era davvero tormentato. Note aperte, legate, eppure libere; come dire, panorami senza scorci, visti al grandangolo. La musica è matematica: e la matematica è un'opinione, solo gli sciocchi credono che sia indiscutibile, come fosse aritmetica. Sette battute sette. Le sentivo quella sera non tanto come fossero note di passaggio, semmai come note divaganti, come a raccogliere le idee: volevo sfrangiarle, quasi interromperle in modo impercettibile. E invece la musica colta, che altri chiamano ridicolmente «classica», è oggi un museo dell'interpretazione, monumento di regole e canoni, fredde rigidità che ti obbligano a suonare quelle note e in quel modo. E più la partitura si fa precisa, più sembra che il compositore, a voler fissare ogni cosa sulla carta, possa dare un'impronta netta e decisa alla sua opera. Ormai si sa: gli abbozzi contano meno, sono il risultato di pensieri minori, incompleti, dell'artista. Solo ciò che è segnato, e fin nei minimi dettagli, vale e conta: in qualche modo, è. L'incompletezza non si addice ai compositori. Per questo il Novecento si dissolve in mille rivoli di note libere, disegnate, da inventare e percorrere partendo da punti sempre diversi, fatto di pentagrammi circolari e non so che altre diavolerie ancora. Il Novecento è stato l'esplosione liberatoria: uccidere la partitura scolpita nella sua perfezione formale; un deicidio, per intenderci. Ma devo tornare alla Ballata. Dopo le prime sette battute comincia il tema: in fa minore, tonalità vera della Ballata; e si chiarisce l'equivoco tonale. Ora Chopin comincia a raccontare, senza divagare; un'annotazione dice: a mezza voce. In italiano, la mia lingua: anche se mi accade sempre più raramente di parlare e pensare in italiano. Persino nei sogni prediligo il francese, e quelli che faccio in italiano sono quasi sempre sogni antichi, lontani nel tempo, dove non suono mai il pianoforte, come se il mio strumento e il francese fossero uniti da un legame misterioso. Eppure, quando mi soffermo sulle annotazioni in italiano delle partiture ho quasi un moto di rabbia e malinconia, sembra un italiano ingessato in frasi di maniera, qualche volta con errori. Leggiero, si scriveva nell'Ottocento, con quella «i» di troppo che nessuno ha mai tolto: inesorabile rigidità della musica, neppure gli errori di ortografia si osa correggere. E diviene un vezzo lasciare tutto com'è, nel delirio di una mirabile e rigida precisione. Quel a mezza voce arriva dopo un diminuendo ritenuto. Ora, ritenuto è espressione enigmatica che ogni pianista crede di poter interpretare come gli pare. Molti pensano sia sinonimo di rallentare, ma non è così. Niccolò Tommaseo fu più preciso, scrisse: «Tiene luogo di rallentato, se non che ha qualche affinità con stentato». Non sapevo di questa definizione del Tommaseo. Me ne parlò una sera Cortot, in un ristorante di Siena. Non so dire che anno fosse, è come se avessi consegnato alla storia della musica i miei ricordi, ma con un po' di perfidia li avessi privati di un ordine cronologico; e che sia la storia della musica a ordinarseli da sé! Esagero? No, non esagero affatto. Però Cortot mi aveva detto, con quel francese perfetto di chi forse non si è mai dimenticato di essere svizzero: «Un vostro dizionario ottocentesco mi ha regalato l'immagine più nitida della parola ritenuto: "Che ha qualche affinità con stentato". Certo, bisogna stentare, stentare senza dare la sensazione che lo si riesca a stento». Ma non è affare da poco trasferire tutto questo sulle dieci dita. Appesantirle quanto basta per dare una sensazione di stentatezza, che non sia però troppo vicino all'imperizia, e dunque apparire sgradevole e deludente. Ma l'esitante ritenuto rischia, tra i pianisti che credono troppo alle leggende romantiche, di trasformarsi in un'arma impropria, in un rallentìo del pensiero, quasi a voler tener sospeso l'ascoltatore. Certo, a Salisburgo quel giorno non pensai affatto a tutte queste cose. Non immaginavo neppure che la quarta Ballata op. 52 in fa minore di Frédéric Chopin sarebbe diventata per me una vera ossessione, una lingua sconosciuta che mi ha rivelato un mondo che prima non decifravo. E neppure potevo immaginare che esistevano due finali diversi; e in questo spazio, tra queste pagine diverse, io potessi rileggere la mia vita, forse quella di Chopin, e forse - ancor di più che avrei potuto intravedere, scorgere a fatica, la fine di un'epoca, di cui io posso essere un'ultima propaggine, un'appendice sbiadita che non continuerà. Quel giorno a Salisburgo mi domandavo, incurante di un pubblico in visibilio, se fosse possibile suonare un a mezza voce in una sala da duemila persone, e se quei signori che seguivano il mio concerto per radio avrebbero mai potuto immaginare di quanto i miei tendini, i muscoli di ogni singolo dito si contraessero in uno spasmo misurato proprio in quel cambio di tonalità; in quel passaggio al fa minore, esitante, suonato a mezza voce; ma su un Bosendorfer imperiale, di una potenza di suono impressionante, anche se un po' troppo freddo per i miei gusti. Nodi della vita, curiose coincidenze. Di quel concerto ricordo questa angoscia, come se da quel do maggiore, a voler troppo esitare, non sarei stato capace di cambiar di tonalità, di passare al fa minore con il timbro che si conviene. E non sarei stato capace perché lì ha inizio il primo grande tema della Ballata. E ancora sapevo che tutte quelle mie preoccupazioni non le avrei mai potute trasmettere a nessuno: a nessuno tra il pubblico in platea, a nessuno tra i critici musicali, che impazziscono per ogni mio concerto, e fanno chilometri per entusiasmarsi di quanto suono, scrivendo poi cose generiche, e mostrando di avere più dimestichezza con gli aggettivi e un po' meno con le note musicali. Cosa avrebbero capito? Possono sapere quanto pesa, emotivamente, il passaggio da una tonalità di do maggiore a un fa minore? Potrebbe sembrare esagerato, forse è giusto che tutto questo non debba importare a nessuno. Ma allora perché mi seguono, perché dicono che sono il più grande pianista vivente? Perché cercano di intervistarmi quando sanno che preferisco suonare e tacere? E perché i miei dischi vendono centinaia di migliaia di copie, e la mia casa discografica mi manda, almeno una volta al mese, un signore discreto, colto, competente, cortese, educato, che parlando di rose e ortensie (quelle che tiene in ordine la signora Ursula) ed elogiando i miei quadri di Francis Bacon fa poi cadere il discorso su quei Preludi che avrei dovuto incidere da almeno cinque anni? Su cui mi ostino a fare annotazioni a margine della partitura senza mai suonarli. Anche perché continuo a guardare questo autografo, ad odiarlo. Ho comprato lenti di ingrandimento di ogni tipo. Per vedere se in quella calligrafia avrei potuto scorgere un segno, qualcosa che mi avrebbe portato non so dove. Non parlatemi di Frédéric Chopin, e se lo fate sappiate che di lui so tutto. E quel che è peggio ora so anche tutto di me stesso. E guardo con disperazione un pianoforte, mirabile congegno di leve e avorio, di corde e legno stagionato, feltri e chiavi d'acciaio. Un pianoforte così diverso dal suo, così lontano da quelli che si usavano nella prima metà dell'Ottocento. Com'è diversa questa mia villa grigia dalla sua stanza in place Vendome, dove forse avrà pensato alla sua ultima Mazurca. L'ultima cosa che ha scritto: più che una musica, una musica di idee che si allontana; incurante del mondo, della vita. Ma qui divago. L'ho incisa, quella Mazurca. Assieme ad altre, e allo Scherzo in si bemolle minore, e alla Ballata in sol minore, la prima, la più famosa. C'è così poca consapevolezza nella prima Ballata, da lasciare disarmati; la paragono a quell'età della vita in cui si prende coscienza del proprio fascino e si gode del fatto che si è quasi irresistibili. Quando avevo vent'anni non lo sapevo. A trenta mi rendevo conto di cosa sarei stato capace di suscitare negli altri, uomini e donne: e ritenevo che quello fosse l'unico modo per conquistare il mondo. Non lo conquistai, e difatti sto qui, in una valle alpina. In Svizzera, chiuso a tenaglia tra la Francia e l'Italia, a ricordare di quel concerto a Salisburgo. Non so perché ma lì capii che un'annotazione come a mezza voce poteva aprirmi il mondo. Bastava che io facessi più attenzione, che non respingessi quel frammento di follia che piccolo, insignificante, è capace di fermare ogni tuo pensiero. Chiude tutte le strade, te ne lascia una sola come un incubo da cui non puoi che uscire, una strada obbligata in fa minore. Sapevo che l'andamento di questa Ballata era quello di un'improvvisazione. Credo che Chopin sia partito proprio da un'improvvisazione, una delle tante che faceva per la delizia di amici e commensali nelle case di Parigi dove si poteva trovare un pianoforte. Forse il nucleo originario stava in un luogo remoto, in qualche nota solo accennata. Le stesse note che suonavo quella sera, che tornano continuamente, con piccole variazioni, sul tema. E mi rendevo conto per la prima volta, questo sì, che in quel brano, in quelle pagine, c'era tutto lo Chopin che avevo suonato nella mia vita. C'erano passaggi che sembravan richiamare un Rondò, e l'Improvviso, persino gli Studi, e la Barcarola, e le Variazioni e il Notturno. Una vera e propria summa musicale. Io che al conservatorio turbavo i miei professori suonando Liszt in prima lettura senza apparenti difficoltà, che in gioventù sono stato un virtuoso da applauso infinito (ne ricordo uno a Mosca di venticinque minuti, dopo aver eseguito la Sonata per pianoforte in si bemolle maggiore di Sergej Prokofiev), di fronte all'apparente linearità di questa Ballata mostravo la sfrontatezza del giovane pianista di genio. La incisi per la prima volta in un 78 giri, doveva essere il 1946, o il 1947, il disco conteneva anche la Ballata in sol minore opera 23 e tre brevi Mazurche. Il disco doveva intitolarsi: Recital romantico. Proprio ieri, il mio solerte impiegato della casa discografica, che mostra una conoscenza musicale enciclopedica, e per questo asfittica, mi ha annunciato trionfante di aver ritrovato il nastro, il master originale. «Si credeva perduto», mi diceva con un misurato affetto che a volte ha la gente che vive dalle parti di Amburgo. Voleva farne un compact: «Storico». Anzi, se avesse trovato altri nastri dello stesso periodo, se ne poteva fare un cofanetto. Non gli ho risposto subito: con il pensiero sono tornato all'esecuzione di quella quarta Ballata. Ricordo che la incisi tre volte: e decisi per la seconda. La terza forse la suonai meglio, ma un improvviso temporale aveva leggermente cambiato il suono del pianoforte. Almeno, a me così sembrava; i tecnici, che sono abituati ad ascoltare attraverso lucine, levette e cifre non erano della stessa opinione, dicevano che non si coglieva alcuna differenza. Mi guardavano con disapprovazione, allora ero giovane e per nulla famoso. Oggi quegli stessi tecnici troverebbero sublimi le mie bizze, e racconterebbero con orgoglio di aver dovuto incidere una volta ancora perché il maestro non era convinto del suono, perché il maestro sentiva lo Steinway leggermente impastato, come se le note non fossero sufficientemente pulite. Ma quel giorno, in ogni caso, vinsi io: suonai la Ballata in fa minore come fosse Brahms, con incertezza e un'ombra di fredda melanconia. Per poi terminarla con un vero e proprio Presto con fuoco, tecnicamente perfetto, emotivamente nullo. Non ero ancora pronto, forse. Gli strumenti musicali sono di una perfidia senza limiti: quando sei giovane e possiedi la tecnica pianistica per suonare tutto ciò che vuoi, non hai la maturità per interpretare; quando hai la maturità per farlo, senti le dita che non rispondono più come quando eri giovane. E solo i critici possono credere che un uomo di ottant'anni possa suonare con l'elasticità e la padronanza della giovinezza. Ricordo Vladimir Horowitz. Ebbe un sussulto di popolarità nell'ultimo periodo della sua vita. Merito anche di un concerto a Mosca trasmesso in mondovisione. Fu uno dei rari casi in cui stetti per più di cinque minuti di fronte a un televisore: suonava brani un po' mondani, spiritosi. Niente di introspettivo. Horowitz è sempre stato così, il suo pianoforte rifuggiva da ogni pensiero. Il suo Liszt preferito era quello delle Soirées de Vienne. Il suo Chopin, quello delle mazurche. E si trovava a proprio agio con gli Studi di Aleksandr Skrjabin. Tutte cose che non ho mai inciso. Suonava come fosse tornato ragazzino, ma senza esserlo. Mi ricordava un mio nonno materno, che ultranovantenne corteggiava con grazia tutte le ragazze che non avessero più di vent'anni. E lo faceva davvero, non per vezzo. Mostrava meno anni di quelli che aveva, ma in casa era diventato un argomento divertente. E ricordo che mi chiedeva sempre di fargli ascoltare la TrÄumerei di Schumann. Un brano che non suono più da allora, forse, e che ho sentito sotto le dita di Horowitz proprio in quel concerto di Mosca. Con i russi che piangevano dalla commozione e io che avrei voluto capire perché il vecchio Horowitz non mi faceva ascoltare Debussy. Per saper come si potrebbe suonare a quell'età autorevole. Macché. La TrÄumerei la senti da ragazzini imberbi, assai spocchiosi, e ti perdi tutto. Dovevo essere un po' così, allora, quando incisi il Recital. Era la prima volta che visitavo Amburgo. E mi parve una città fantastica, Gli studi di incisione erano tecnicamente perfetti, anche se in Germania si respirava un'aria post-bellica assai pesante, e al tempo stesso molto concreta: capivi che c'era la voglia di buttarsi alle spalle la tragedia nazista. Più che una voglia era un imperativo kantiano: non lasciava esitazioni di sorta, né via di uscita. Alla fine tutto questo venne definito con una parola presa in prestito dalla psicoanalisi: «rimozione». Ma in quel momento c'era la voglia di poter ricominciare a viaggiare per l'Europa, e l'euforia copriva la cenere su cui avremmo camminato ancora per anni. L'euforia deve aver contagiato anche la mia mente e le mie mani, perché incisi quel brano in un modo che molti anni dopo mi avrebbe turbato. Accadde nel 1970. Ero di passaggio a New York, città dove capitavo spesso in quel periodo. Vladimir Horowitz mi fece avere un bigliettino dove mi invitava a un suo concerto alla Metropolitan Opera House che avrebbe tenuto un paio di giorni dopo. Mi fermai a malincuore: detesto New York. Quella sera andai subito a salutare Horowitz in camerino. Lui mi guardò e mi disse, ammiccante: «Suonerò per lei la quarta Ballata. Ricordo la sua prima incisione. E' la migliore interpretazione che io conosca di quel brano. Accesa, potente, si sentono tutte le pause. Oltre che le note. E' un omaggio a lei». La suonò proprio nello stesso modo. Si appropriò della mia protervia giovanile. Ed ebbi un tonfo al cuore, perché capii che Horowitz non la suonava bene: troppo veloce. Suonata con un virtuosismo che mi irritava, persino poco preciso in alcuni passaggi. E finiva come se mancasse tempo. Come se al termine dell'esecuzione lo attendesse il responso di un cronometro fermato al momento giusto. Quel giorno a Salisburgo, cinque anni dopo, volevo suonarla in un modo diverso. Volevo che fosse lenta, dubbiosa del proprio procedere. Sarebbe stato bello se qualcuno del pubblico si fosse chiesto: cos'ha? non si sente bene? Era quello che volevo: fingere insicurezza per far dell'insicurezza un cardine dell'interpretazione. Mi devo consolare: nessuno, posso giurarlo, lo ha pensato. Nessuno ha creduto che fossi insicuro. Questo è un mondo dove le opinioni procedono in fila, e tutte uguali, come gli impulsi elettrici. Quella sera a Salisburgo, quando cominciai il primo tema e tenni un istante di più il terzo dito su quel do che fa da cerniera nel passaggio da do maggiore a fa minore, bene, in quel momento tutto il pubblico avrà pensato che stavo esprimendomi al meglio, che avevo di fronte a me tutta la Ballata e la dominavo con il pensiero, prima che con le mani. Niente di più falso. Forse fu una grande interpretazione, ma il pubblico (e questo accade spesso) pensa delle cose giuste, ma per ragioni sbagliate. Si può cioè arrivare a un risultato esatto attraverso calcoli errati. E' sconcertante, passare una vita a studiare dettagli che nessuno può cogliere. Il mondo della musica non è misurabile con nulla, è incommensurabile, un'altra dimensione. Vai a spiegare che un compositore è passionale e un altro è freddo, che la musica di Bach si riconosce da quella di Scarlatti, e quella di Beethoven è diversa da quella di Wagner! Ma se dobbiamo raccontare la musica di Bach a chi non l'ha mai sentita, non possiamo che rifarci a termini generici: geometrico, preciso, rilassante, orditore di trame armoniche simili ad arazzi pregiati. Oppure entrare nei tecnicismi musicali, viaggiare dentro l'arte della fuga, distinguere le singole voci del Clavicembalo ben temperato, e rifarci al Barocco, e al Seicento; svelando parallelismi, usando come sfondo la filosofia, scomodando la matematica del tempo. O ancora regalandosi, e penso questa volta a Wagner, una lettura di Nietzsche pronta a mettere in crisi tutti i luoghi comuni sul Tristano o sul Parsifal. La storia della musica (ma che dico, ma quale storia!) è un continuo accumularsi di riferimenti e citazioni che cercano di supplire a quel vuoto descrittivo, a quell'impossibilità di narrare una partitura. La storia della musica è un continuo stratificarsi di citazioni dotte, una sopra l'altra, utili a dire quello che per molti sembra indicibile. Perché un accordo in tonalità minore è più triste dello stesso accordo in tonalità maggiore? Chi può spiegarlo? Forse quelli che ti raccontano che la diminuzione di un semitono sulla terza di un accordo di quinta porta a una diminuzione del proprio stato d'animo, e dunque intristisce? Sciocchezze. Nessuno riesce a dare una spiegazione accettabile. Eppure è vero, la tonalità minore è più triste di quella maggiore. Ma ora sto divagando. Non è di Johann Sebastian Bach che qui devo raccontare, e neppure di Parsifal, Nietzsche e Wagner, né tanto meno della tonalità minore o di quella maggiore. Ma devo raccontare, se mi riuscirà, di come il ritrovamento di un manoscritto che si credeva perduto ha cambiato la mia vita. Se solo sapessi narrare con un po' d'ordine questa storia, che comincia in un giorno di giugno, meno di vent'anni fa. Un giorno di sole talmente afoso che persino la Senna, esausta, sembrava volesse smettere di scorrere, o almeno così pareva dalle finestre della mia casa sul Quai d'Orléans. Capitolo secondo. Le finestre che davano sulla Senna erano tre: ampie e altissime. Non entrava solamente la luce da quei vetri. Molto di più, era come se il cielo avesse un'anima; meglio, un motore che guidava nuvole, che accendeva colori, e subito dopo li sfumava, facendo del blu prima un azzurro, poi un grigio tendente al cerùleo, per virare sempre di più e divenire perlaceo, intenso e luminoso. E poi nero, senza bagliori, di uno scuro che trasformava il fiume quasi in un Acheronte e rendeva ancora più bianche e perturbanti l'abside e le due torri di Notre-Dame. E, a volerlo, anche la Tour Saint-Jacques. Lo spettacolo di questo cielo del nord mi ha sempre accompagnato nelle ore che stavo seduto al pianoforte. E quando suonavo a memoria mi capitava spesso di perdermi a guardare quello scorcio che cambiava come fosse guidato dalla mia musica, e devo ammettere che alle volte ero proprio io a scegliere le pagine più simili al mio stato d'animo e al colore del cielo. La mia casa era a due numeri civici di distanza dal museo Adam Mickiewicz e dalla biblioteca polacca. Lì si conservano cimeli, autografi di Chopin e persino la sua maschera funeraria, ma, ironia, non ci sono mai stato. Quegli autografi non mi interessano, e Mickiewicz, poeta polacco amico di Chopin, ebbe troppa grazia dalla storia e dal destino. Curioso personaggio, Mickiewicz: visse in Russia e fu amico di Puskin. Passò quasi l'intera vita in esilio. E con Chopin arrivò a Parigi nel 1831. Il suo antizarismo divenne fastidioso persino per Luigi Filippo. Fu espulso anche da Parigi e passò i suoi ultimi anni a Roma, in una sorta di misticismo poetico e nazionalista: credeva che alla Polonia, «Cristo delle Nazioni», toccasse il compito storico del sacrificio in nome del trionfo dello spirito nazionale. Naturalmente fu un cantore mediocre, le sue opere fuori dalla Polonia sono quasi dimenticate, le sue idee oggi suonerebbero a dir poco ridondanti, ma la fortuna volle che Chopin dichiarasse di essersi ispirato ai suoi versi per scrivere le quattro Ballate. Forse è vero solo per la prima, quella in sol minore, dell'opera 23. Riguardo alle altre, penso che fu più un complimento di Chopin. Dal museo Mickiewicz non si vedevano uscire troppi visitatori, si doveva chiedere un appuntamento, e una guida accompagnava il pubblico tra cimeli e autografi polacchi. Ma certamente la musica del mio pianoforte arrivava fino lì, e poteva colpire più di un visitatore, specie quando finivo per suonare proprio Chopin, e magari qualche Ballata. In quel periodo, ricordo che si era alla fine degli anni Settanta, avrei dovuto incidere proprio la Ballata in sol minore e alcuni Notturni, in particolare il Notturno op. 48 n. 1, che Chopin pensò, elaborò nella chiesa di Saint-Germain-desPrés, dove aveva trovato riparo durante un violento temporale. Almeno questa è la leggenda. Una leggenda datata 1841: Chopin ha trentun anni, è nel periodo più fertile; in quell'anno scrive anche la sua terza Ballata, in la bemolle maggiore, la Polacca in fa diesis minore, il Preludio in do diesis minore. I suoi rapporti con George Sand sono ancora tollerabili, la sua salute, tra alti e bassi, gli permette di lavorare e dare concerti affollatissimi, e l'estate a Nohant lo aiuterà ad attraversare con maggior vigore i faticosi inverni, anche se di lì a pochi anni la malattia lo debiliterà sempre più e lo condurrà alla morte. Ho pensato spesso a questa leggenda di Saint-Germain: come molte storie che si riferiscono a Chopin è quasi priva di ogni fondamento. Ricordo la fatica che feci in quel periodo per trovare un modo di raccontare quel Notturno, e di come poi decisi di non inciderlo. Se ci penso, sono davvero troppi i brani che ho rinunciato a incidere. Questo Notturno poi mi irritava: difficilissimo da interpretare, e tecnicamente poco appariscente, nascondeva una parte centrale adatta a mani grandi e grande forza. Un inizio lento e cantabile lascia il posto a un crescendo di doppie ottave, assolutamente imprevedibile, corale, con grandi accordi come se il brano fosse scritto per organo. Forse è per questo che si racconta di Chopin in chiesa, del temporale, del rifugio che diventa fonte di ispirazione. E con un finale agitato, inquieto, che si conclude con tre accordi, gravi e pianissimi di do minore. Come dire: era il Notturno meno Notturno di Chopin, ma rispecchiava meglio di ogni altro il mio stato d'animo di quel periodo, fuggito dall'Italia perché l'aria era torbida, perché temevo che accadesse qualcosa di irreparabile. Ero disgustato, da tutto. Ebbi il colpo di grazia, capii di essere arrivato al massimo dell'irritazione quando fui fermato da quattro agenti di non so quale servizio d'informazione. Aldo Moro era nelle mani delle Brigate Rosse, una formazione terroristica italiana di quegli anni. Era d'aprile, nel 1978. Milano era presidiata. Io tornavo a casa, quando in via Manzoni venni fermato dagli agenti. Mi fu puntato il mitra all'altezza del mento. E dovetti consegnare la borsa che avevo con me. Non avrebbero potuto, erano documenti personali, ci voleva un mandato di perquisizione. Le mie proteste non servirono a nulla, non bastò nemmeno che dicessi chi ero, che garantissi amicizie importanti. Sogghignavano. Aprirono la borsa, trovarono fogli in tedesco. Erano contratti e lettere del mio editore discografico: Deutsche Grammophon. Fu scambiato per materiale propagandistico, che proveniva, per di più, da un paese straniero. Tre dei quattro agenti erano giovani e arroganti, un po' rudi, mi dissero di allargare le gambe, e di appoggiare le mani sul tetto della loro auto. Chiamavano attraverso una radio ed era tutto un gracchiare con un sottofondo di voci confuse. Il quarto agente mi guardava, mi fumava sul viso, e voleva dimostrare di saperne più di tutti. Strappò di mano i miei documenti all'agente più giovane, e disse con fare sprezzante: «Questi li prendo io». Pensai che leggesse il tedesco e mi sentii rincuorato. Avrebbero capito, tutto si sarebbe spiegato di lì a poco. Invece no, le cose andarono peggiorando. Fu deciso che mi avrebbero portato via, per radio continuavano a dire il mio nome e ad aggiungere: «Un tipo sospetto». Ero spaventato, ma ancor di più scandalizzato. Perché mi rendevo conto che volevano terrorizzarmi, che non pensavano affatto potessi essere un pericoloso terrorista. Forse non avevano capito che ero un pianista, certo non conoscevano il contenuto dei miei documenti e la mia etichetta discografica, ma sapevano che quel modo arrogante di parlarmi, di puntarmi le armi, di rivoltarmi le tasche non doveva portare a nulla, solo alla glorificazione del loro misero potere. Ripetevo il mio nome, avvertendoli che ero un famosissimo pianista, e ricordo lo scherno, il ghigno supponente di tutti loro. Così subii anche l'oltraggio di passare una notte in carcere. Di dover togliere la cintura (non porto mai cravatte), di imprimere, debitamente inchiostrati, i miei polpastrelli sulla carta per lasciare le impronte digitali (e di tanto in tanto mi chiedo: diventeranno una rarità per collezionisti?). Il giorno dopo fui liberato, con le scuse del prefetto e del capo della polizia. Non esitai oltre. Il tempo di sistemare le cose, di avvertire le pochissime persone a me più vicine: e avrei lasciato, forse per sempre, l'Italia. Scelsi l'esilio di Parigi. E non rimpiansi Milano, città frivola, modaiola e opportunista, che mi definiva un reazionario, un elitario. In tutta fretta mi fu trovato quel meraviglioso appartamento sul Quai d'Orléans, uno dei luoghi più amabili di Parigi, e naturalmente uno Steinway, modello CD 318, costruito nel 1938. Quando lo suonai la prima volta ebbi un sussulto, volevo che fosse abbassato il punto di appoggio del tasto, in modo che il pianoforte reagisse a un tocco più pesante, e Dio sa quanto ne avevo bisogno in quel periodo. I tecnici mi risposero che era un pianoforte perfetto. Io non lo suonai per venti giorni, tanto bastò a convincerli, e il mio suggerimento poté esser preso per buono. Il CD 318 è tuttora il mio pianoforte preferito. Ed è l'unico che continuo a suonare, qui, in questo esilio noioso. Per il tempo che non toccai lo strumento, in uno di quei bracci di ferro insensati a cui sovente non so resistere, passeggiai molto: la sera per Saint-Germain, a guardare le donne sedute nei caffè. Poi ripresi a suonare con un'intensità nuova, che mi sorprese. Per la verità un pianista come me non studia mai in modo tradizionale. Quasi non studia, ma ascolta sé stesso, guarda le sue mani muoversi, decide una diteggiatura diversa da quella scritta, per capire se il suono che poi ne deriva può dirsi più efficace. Un concertista non studia, ma interroga il pianoforte; chiede suoni più limpidi, calibra le dita perché esca quel timbro che a lui sembra il più giusto, il migliore. E poi magari sbaglia, si rende conto che ancora qualcosa non funziona, che il pedale è troppo duro, non risponde come si dovrebbe, e ricomincia daccapo, e daccapo ancora, se crede sia necessario. Quel Notturno di Chopin, che i visitatori del vicino museo dovevano ascoltare con stupore, mi teneva lontano dalla Ballata in sol minore che continuavo a rimandare; e naturalmente (ma ancora non lo sapevo) dalla quarta, quella in fa minore. Una notte conobbi una ragazza, in uno di quei soliti caffè parigini che finiscono per esser tutti uguali; è curioso quanto gli scrittori amino descriverli, distinguerli, dare loro un nome. Quella sera non ero da Flore, o ai Deux Magots, o in un anonimo locale del boulevard Saint-Michel, ma in un caffè a rue de Rennes, un po' dopo l'incrocio con boulevard Raspail. Mi spingevo spesso fin verso Montparnasse, un quartiere dove non vedi gente che guarda per aria mentre cammina. E i visi degli uomini e delle donne sono quelli di chi sta vivendo la propria routine. Mi fermavo la sera tardi, a leggere in quel locale che aveva, come accade spesso, i tavolini appoggiati ai grandi vetri finestra che danno sulla strada. Quella sera, forse era quasi notte, vagavo con ancor meno decisione del solito. Incrociavo sguardi complici e curiosi. Mi è sempre accaduto; ho sempre pensato che la gente mi riconoscesse, quella che incontravo per strada, all'aeroporto, persino all'edicola. E non perché avesse tenuto a mente la copertina di qualche mio disco, dove spesso il mio viso appare in primo piano, ma perché mi si legge negli occhi che vivo in un mondo sospeso, in un mondo non verbale, dove le parole non riescono a entrare, girano attorno, assediano la musica, cercano di trovare un varco, ma poi devono desistere. Quella notte sembrava che i miei pensieri si leggessero attraverso i miei occhi, e tutti, in quel locale dove mi ero seduto, ne stessero discutendo. Proprio tutti, dalla cameriera alla vecchia signora che stava poco distante da me. Non ebbi il solito moto di fastidio, tutt'altro: cominciai a pensare che non mi sarebbe dispiaciuto se, per paradosso, tutto il caffè si fosse impegnato in una pubblica discussione sul mio talento pianistico. Accendevo una sigaretta dopo l'altra, una passione che ancora oggi mantengo, e mi resi conto che qualcuno mi fissava. Fu come un presentimento, lei non sedeva esattamente di fronte a me, ma di lato, e io non stavo neppure guardando in quella direzione, ma un sesto senso mi disse che due occhi mi osservavano. Mi voltai, lentamente, e non abbassò lo sguardo. I capelli biondi e gli occhi di un colore indefinibile davano al suo viso una strana luce. Il libro aperto sul tavolino e la tazza di tè sembravano disposti come se avessi dovuto cogliere un equilibrio delle forme. E per di più il suo volto mi ricordava quello di una ragazza che portava un grande cappello in un quadro di Eugène Delacroix, un piccolo olio su tela che avevo visto a casa di un collezionista. Era un'ossessione, ancora una delle mie ossessioni, il pensare a Delacroix proprio in quel momento? C'era un legame con il fatto che il grande pittore fosse tra gli amici più assidui e sinceri di Frédéric Chopin? C'è sempre un legame. Mentre pensavo a questo la ragazza con il cappello (ma sono io a chiamarla così, come il quadro, non portava cappelli, naturalmente, e l'abbigliamento era quello di una giovane qualunque) mi sorrise e la invitai a sedere al mio tavolo. Portò con sé il libro, guardai la copertina. Era il Voyage au Congo di André Gide. Gide? Un caso, un destino, che significato poteva avere, e che rapporto aveva con me una ragazza che assomigliava a quella di un quadro di Delacroix e leggeva un libro di André Gide? Avevo letto il Voyage. Ma forse il libro di Gide che conoscevo meglio era un'esile plaquette intitolata Notes sur Chopin. Mi guardò, vaga, e sorrise: non sapeva che Gide era anche un modesto pianista, che aveva scritto una serie di considerazioni sull'arte di Chopin. E di certo ben poco doveva sapere di me, anche se il mio nome doveva dirle qualcosa. Molto più delle considerazioni di Gide dedicate a Chopin. Però una di queste si addiceva alla bizzarra situazione che si era creata quella notte: «E' ovvio», scriveva Gide, «che numerose composizioni di Chopin comportano andature di fantastica rapidità, ma, in generale, ogni virtuoso suona indifferentemente quasi tutte le composizioni di Chopin il più presto possibile, ed è ciò che mi sembra mostruoso». Aveva ragione Gide. E' mostruoso il pianismo circense: l'eccessiva rapidità turba gli animi, impedisce di vedere i contorni. Ho sempre avuto orrore della velocità. E persino quella notte, di fronte alla ragazza con il cappello, temevo la rapidità della seduzione, quel modo di saltare i passaggi, quel linguaggio sensuale che talvolta attraversa le volontà e impedisce di darsi regole, comportamenti, un'etica insomma. Ma come poteva sottrarsi a tutto questo un uomo abituato alla sensualità della musica, romantica e post-romantica; uno come me, capace di eseguire un Preludio di Debussy decine e decine di volte finché i suoni non diventavano una variante stessa del proprio sistema nervoso. Non ricordo, e forse qui non lo voglio neppure ricordare, se mi chiese a ora tarda di portarla a casa mia. E, certo, non interessa riferire di ciò che accadde. Però la mia mente era occupata a bilanciare i sensi della musica con l'erotismo di un uomo che, d'un tratto, aveva cambiato gli scenari quotidiani, e forse anche quelli mentali. Neanche a dirlo, il mattino dopo le parlai di quel Notturno: la mia punizione, il mio girare in tondo, il mio inferno dantesco. Non sapevo cosa sarebbe accaduto di lì a qualche giorno, ma sentivo che dovevo soffrire per qualcosa; e non certo della ragazza che mi aveva chiesto di passare la notte nel mio letto. Capiva esattamente di cosa stessi parlando. Chissà, forse aveva studiato musica, forse anche pianoforte. Io volevo liberarmi del Notturno a tutti i costi. Chiamai persino Amburgo. Volevo inciderlo. Mi chiesero: maestro, verrebbe fin qui solo per lasciare sul master quattro minuti scarsi di musica? Dovevo averli sconvolti, sapevano che ero eccentrico, ma ogni buona volta si ostinavano a dimenticarlo. E facevano assai bene; in realtà non capivo neppure io cosa mi stesse accadendo. Quella mattina continuavo a parlare, le raccontavo che il tema della prima parte è malinconico ed esitante, quasi Chopin volesse rimproverare a sé stesso tutte le sicurezze giovanili di un uomo consapevole del proprio fascino e del proprio successo. Tutto è capovolto, gli abbellimenti della composizione diventano struttura portante, mentre le note portanti vanno suonate quasi fossero abbellimenti. Il fascino del Notturno è nei colori del buio, nelle note blu, come le chiamava Delacroix. E per tutte le prime ventiquattro battute si ascolta un tema dove sembra dominare l'indecisione, quasi che la nota successiva debba rinnegare quella precedente, ma, come in un perfido gioco tra amanti, alla fine questo non avvenga mai. Parlavo senza quasi prendere fiato. Io poi, che detesto proferire parola sulla musica e odio tutti i musicisti che scrivono libri sul perché hanno suonato quel tal brano o quell'altro. E allora perché? Forse un perché c'era, c'era un'analogia tra quel brano di Chopin e il mio modo di sfiorare e spogliare quella donna. In qualche modo avevo scelto lo stesso ritmo, la stessa indecisione, persino la stessa tonalità. O magari non è così, magari la musica è davvero un mistero che nessun parallelismo, nessuna ripetizione, e nessuna analogia potrà mai sfiorare. Per tutta la vita la musica mi è parsa chiara, spiegabile e luminosa; ma anche l'opposto: ambigua, misteriosa, talvolta demoniaca. Non raccontavo alla ragazza con il cappello, citazione vivente di Delacroix, dei miei dubbi sulla musica, e neppure che il mio piacere quella notte assomigliava a degli accordi potenti e corali. E che ero affascinato da lei almeno quanto dal tema del Notturno che tornava, in do minore, dopo tutta quella parte in do maggiore, persino violenta per forza e determinazione come fosse una grande Sonata di Beethoven eseguita da Liszt. E tornava con la forza di un pianissimo agitato. Facendo riaffiorare il tema iniziale ma in modo diverso: la malinconia lasciava spazio alla consapevolezza, l'indecisione si trasformava in qualcosa di molto simile a una timidezza sfrontata. Non mi chiese di suonare quelle note. Fui grato di quella delicatezza. Credevo che non l'avrei più rivista, ma il destino a volte gioca scherzi curiosi. Da quel giorno non pensai più al Notturno: come se avessi risolto un nodo interpretativo senza dover sfiorare il pianoforte. Mi confortava che la musica, la mia musica, avesse qualche rapporto con la vita, ma era un conforto apparente, forse. Quella sera stessa mi sarebbe accaduto qualcosa che ai musicisti càpita assai raramente. Forse mai. E dovevo anche ringraziare la ragazza che leggeva Gide, e conosceva quello che Gide aveva scritto su Chopin, e la vicinanza con il museo Mickiewicz. Anche se spesso eventi come questi accadono per caso, e non per un destino, una necessità, o una volontà superiore. Ma cercherò di procedere con un qualche ordine, per quanto mi sia possibile e, debbo ammetterlo, sopportabile. Anche perché Parigi è una città che mi ha sempre dato l'inquietudine dei Preludi, come se non fosse risolta, come se mi lasciasse incompiuto: è una città che non riempie la tua vita, che non ti assorbe completamente, come potrebbe essere New York o Berlino. E' una città che vive attraverso grandi vetrate: un po' come quando stai seduto in quei caffè, e guardi la città attraverso i vetri, e ne senti i rumori leggermente attutiti e gli odori smorzati, e le luci restituiscono riflessi inaspettati; e dopo un po' non sai più quanto sia tu a esser dietro un vetro oppure se invece sia la città dentro un tuo acquario immaginario. Non pensavo di certo a queste cose in quei giorni, lo faccio ora, che vivo in una casa con pochi vetri, pochi specchi, e troppe protezioni, vittima di una nevrosi che allora non si era ancora del tutto rivelata, ma correva sul fondo, come un ostinato, o un basso continuo, o la mano sinistra del terzo movimento dell'Appassionata di Beethoven, presago e incessante, persino fascinoso nel suo ripetersi oltre misura. Quando ero ragazzino lo abbreviai, quel terzo movimento dell'Appassionata. Avevo la sensazione che Beethoven lo avesse scritto per farla durare più a lungo, ripetendosi. E feci di peggio: a un saggio mi rifiutai di suonare la parte finale com'era scritta, bensì la rallentai, in modo esasperato e provocatorio. Perché l'originale mi pareva un'inutile esibizione di velocità pianistica; buona per gli applausi degli incompetenti, che vedendo volare le mani sulla tastiera credono di trovarsi dinnanzi a un pianista virtuoso ed entusiasmante. E dire che poi magari sentono suonare la quarta Ballata, e non si impressionano allo stesso modo. Sembra un giochetto la quarta Ballata (almeno all'inizio) e invece tu studi, tremi per la tensione, per la paura che non si senta tutto come dovrebbe. Ai saggi di pianoforte, dovevo avere nove anni, dieci forse, ma con le idee ben chiare, c'è sempre un pubblico di insegnanti e genitori, amici degli studenti. Quel che si dice un pubblico di esperti. L'Appassionata non è Sonata che io abbia mai amato. Ma fui quasi costretto a eseguirla. Quando nel finale tutti si accorsero che non acceleravo, sentii prima l'incomprensione, poi il gelo della sala. Applaudirono, applaudirono comunque, quasi con calore, ma non capivano. E provai il disagio della superficialità, del giudizio inconsistente: ma anche una sorta di onnipotenza, per la prima volta ero padrone dei miei compositori, li giudicavo; per la prima volta seppi che con la musica si poteva osare. Da allora ho lottato con il mio perfezionismo, e più ero rigoroso nel mettere a punto le mie note, i miei toni e semitoni, e dunque le mie convinzioni e la mia visione del mondo e della vita, più facevo attenzione che la cassa armonica restituisse un suono che io ritenevo perfetto, più sapevo che quella era una strada che mi avrebbe lasciato solo, sempre più solo. La perfezione voluta, l'ossessione del più piccolo dettaglio, portano alla solitudine; di certe cose parlo ancora con il mio accordatore: dei risvolti tecnici, intendo. Ma della musica, delle differenze che io sento non trovo più interlocutori disposti non tanto a seguirmi (molti lo farebbero, se non altro per moda), piuttosto a capirmi, a comprendere, a vedere con il mio stesso occhio, con la mia stessa acutezza. Ma non c'era bisogno di una vista acuta per capirlo: quel signore che stette per più di cinque ore sotto la mia finestra, a guardare in alto, ascoltando la mia musica e sperando di vedermi affacciare, aveva un morboso bisogno di parlarmi e - in più - sapeva assai bene chi fossi. Di certo non poteva chiamarmi da giù, anche se sull'île-Saint-Louis è possibile, non sembra Parigi ma un borgo di campagna della Loira, ma poi basta che passi il ponte e sei sulla rive Gauche, tra odori greci, frotte di turisti e studenti svogliàti; e cambia tutto. Non mi chiamò, dunque, ma avrebbe voluto farlo. Io incrociai il suo sguardo un paio di volte. La prima con distrazione, senza capire. Molti si fermano ad ascoltare il pianoforte, passando dal Quai, e ci ho fatto l'abitudine. Trovano che suono bene, ma certo non possono immaginare che molti fanno file di ore per avere un biglietto che dia la possibilità di ascoltarmi in una sala da concerto. Non avevo nulla di che stupirmi se un signore con i baffi, e l'aspetto un po' sciatto, certo modesto, guardava in direzione di una finestra da cui proveniva una musica assai bella: stavo rivedendo la Suite bergamasque di Debussy. Ma ebbi come un'intuizione: quel signore sembrava ansioso, di più, angosciato, persino impaurito. Non godeva della mia musica, ma fremeva, come fosse in una posizione di stallo da cui avrebbe voluto uscire. Aspettai ancora. Gli ascoltatori casuali, quei tanti che passano sotto la mia finestra, se il pianoforte tace si allontanano in fretta. Lui no. Pensai che attendesse nuova musica, ma dopo un'ora era ancora fermo, lì sotto, come aggrappato a una speranza: forse aveva bisogno di soldi. Fu allora che decisi di affacciarmi, di appoggiare i gomiti sul davanzale, sporgermi e dal mio primo piano, tre metri di altezza o poco più, guardarlo a lungo negli occhi per capire se cercasse qualcosa da me. Ma stavo per scoprire che in verità ero io a cercare qualcosa da lui. «Eppure lei, maestro, l'aveva detto. Eppure lei aveva fatto balenare che quella partitura poteva essere un lavoro non definitivo. Come se Chopin volesse ancora ripensare il finale del brano, come se non lo convincesse. Accadeva spesso. La seconda Ballata, ad esempio, pare finisse in la minore, non in fa maggiore. Ricordo una sua intervista di molti anni fa. Lei diceva: "Non mi stupirei di trovare una versione della quarta ancora diversa da quella che conosciamo".» Non lo ricordavo, per la verità: i tuoi ammiratori tengono a mente ogni parola, ogni nota incisa, come qualcosa di memorabile. Pensano alla tua vita come fosse sotto teca: tutta illuminata da luci così risplendenti da far sembrare scintillanti anche pietre preziose false, diamanti sintetici. No, non ricordavo, devo ammetterlo, di aver parlato a un giornalista russo venticinque anni prima, né tantomeno di aver messo in dubbio la partitura della Ballata in fa minore. Però lo trovavo plausibile, era convincente. Il mio interlocutore non aveva perso la sua agitazione: anzi, mi pareva ancora più sudato di prima; come se in quel caffè all'angolo tra rue Dante e rue Domat avesse la sensazione di esser seguito, braccato da qualcuno che non voleva parlasse con me. D'un tratto glielo chiesi, sorrise, e mi spiegò che un russo, con pochi denari, fuggito da Mosca, ha sempre la sensazione di esser braccato, sente sul collo il fiato freddo della storia. Parlava un francese con un accento tedesco, diceva di conoscere il polacco ma di conoscere ancor meglio me, e di avermi ascoltato suonare tre volte nella sua vita: una a Leningrado e due a Mosca. Gli chiesi le date, e devo dire che non le ricordavo neppure io. Volevo capire se diceva il vero. Me le disse di seguito, come un ragazzo che si è preparato agli esami e vuole dimostrarlo rispondendo con prontezza: «16 dicembre 1958, 6 giugno 1962, 19 aprile 1971». Mi guardò, come a cercare conferma, io abbassai lo sguardo. Lui poteva ricordare. Io per nulla. Era vero: nel 1958 suonai a Leningrado, e doveva esser dicembre. Nei primi anni Sessanta tornai più volte a Mosca, e tenni molti concerti. La data del 1971, la più vicina, curiosamente mi appariva come la più estranea. Era vero che nel 1971, e di aprile, ero a Mosca? Chissà, probabilmente aveva ragione il mio interlocutore. Mi disse che era un violinista fuggito a Parigi. Il suo sguardo, gli occhi chiari, le mani nervose me lo rendevano sospetto. E non mi era mai accaduto che un uomo mi dicesse, come fosse una parola d'ordine, un tacito patto tra me e lui: «Maestro, sa cosa vuol dire in polacco zaginiony? Le sto parlando dell'autografo della quarta Ballata». Sapevo bene che zaginiony voleva dire «disperso». E dunque sapevo che quell'autografo della quarta Ballata non esiste, che nessuno lo ha mai visto. Come sapevo d'altronde che della quarta Ballata non esiste un manoscritto integrale; solo due, e parziali: uno alla Bodleian Library di Oxford e uno alla collezione R.F. Kallir di New York. Sapevo anche, e non era certo un segreto, che il manoscritto della Bodleian ha 136 misure soltanto, mentre quello di New York, sebbene in 6/4 e non in 6/8, ne aveva 79. Poco. Alfred Cortot mi raccontò molti anni prima che le pagine della quarta Ballata conservate a New York gli sfuggirono di mano per poco. Fu nel 1933 a Lucerna, e destarono sconcerto perché Chopin le scrisse in 6/4, solo dopo le cambiò in 6/8. Il russo mi guardò: «Lo sa da dove veniva quel manoscritto? Da Berlino. Berlino era un luogo tragico e misterioso, specie dopo il 1935. Circolavano fogli preziosissimi. Spesso erano suonati in appartamenti privati e non venivano mai pubblicati. Si racconta di manoscritti di Beethoven sconosciuti, ma anche di Mozart. Leggende, maestro, nessuno ci credeva. Quando però i russi entrarono a Berlino, portarono via molte casse da una stanza della Deutsche Staatsbibliothek, e anche intere collezioni private di alti ufficiali del Reich. Lei conoscerà la Deutsche Staatsbibliothek? Son sempre circolate leggende sui suoi manoscritti musicali. Sono sessantamila: c'è tutta la storia della musica, quella conosciuta e quella sconosciuta. Perché non tutto era schedato, non tutto si poteva vedere. Se ne parlava a Mosca, subito dopo la guerra. Mio padre che morì qualche anno dopo la fine della guerra, nel 1952, in qualche lager staliniano, insegnava violino all'Istituto Gnesin e raccontava di questo tesoro arrivato in Unione Sovietica che veniva passato di mano in mano e mai pubblicato. Massimo privilegio del potere. Così tra noi studenti, io ero allora al quinto anno di violino, cominciò a circolare la voce di una decima Sinfonia di Beethoven. Questo era davvero uno scherzo, una burla di ragazzi. Ma il Kgb si preoccupò, e ricevemmo delle minacce. In ogni scherzo c'è sempre un fondo di verità, lei capisce vero, maestro: la decima Sinfonia no, proprio non poteva esistere. Ma chissà, era possibile ci fosse altro. Smettemmo subito di inventarci storie che sembravano fatte apposta per rovinare la nostra vita. E accaddero cose che avrebbero sconvolto la mia esistenza e quella di amici molto cari che qui non posso raccontarle. Anche se dalla scomparsa di mio padre io ebbi una sola idea fissa. Fuggire dall'Unione Sovietica. E ci riuscii». Chi era questo signore che si era presentato con un nome qualsiasi? Un fuoriuscito, un dissidente, magari una spia. Come sapeva dove abitavo? Solo la mia casa discografica conosceva il mio indirizzo. Ma in quel momento era inutile tentare di fare chiarezza su questi aspetti. Personaggi così possono raccontarti tutto, e il suo contrario. Disse che più volte andò alla Biblioteca polacca per vedere certi autografi di Chopin. E che lì era stato quasi avvolto da una musica, dal suono di un pianoforte abbastanza vicino. Prima non ci fece troppo caso. Poi riconobbe la Ballata in sol minore, e intuì che non poteva essere uno studente qualsiasi. Così tornò per alcuni giorni cercando di capire da dove potesse provenire quel suono. E fu colto da un'emozione fortissima; l'interpretazione, lui dice, era di una sapienza non comune. Non gli ci vollero molti giorni per vedermi uscire di casa e riconoscere («ma solo un po' invecchiato») quel pianista che aveva applaudito a Mosca e a Leningrado. Reggeva il racconto? Reggeva. Ma poteva anche essere falso, e non mi importava. Quel che importava era altro. Capire cosa volesse da me. Certo del denaro; bastava guardarlo per accorgersi che aveva bisogno di denaro, e anche molto. Ma in cambio di cosa? «Ricorda la battuta 211 della Ballata in fa minore? Certo che la ricorda.» No, non l'avevo presente. I cultori di musica credono che i pianisti, i violinisti, abbiano in mente i brani per numero di battuta. Una cosa folle. Certo, avevo capito che si trattava della fine della quarta Ballata. Ma non potevo stabilire il punto esatto a cui si riferiva. I pochi tavolini accanto a noi erano occupati da avventori casuali, che cominciarono a guardarci. Dovevamo rappresentare un bizzarro spettacolo. Io in maniche di camicia, lui vestito con una giacca di cattivo taglio, verde petrolio, senza un bottone ma con il filo che ancora pendeva, e con dei pantaloni di lino grezzo stropicciati e consunti. Nonché vecchi mocassini senza calze e le mani bianche bianche. Si guardò attorno, più di una volta, poi mi disse: «Usciamo, stiamo dando nell'occhio, non vorrei ci avessero seguito». Non credevo a una parola di quanto mi diceva. E potevo sospettare che fosse un impostore. Però sapeva la musica, parlava il mio stesso linguaggio, mi guardava ansioso, cercando da me conferme, comunicazione, solidarietà. Come potevo non comprenderlo? Pagai la sua insalata e uscimmo. Pochi passi a piedi e subito mi voltai indietro: nessuno sembrava seguirci. Non riuscivo a vedere personaggi ambigui con occhiali scuri. Tutto sembrava normale, una bella giornata d'estate a Parigi. Il mio interlocutore appariva più tranquillo. Io diventavo via via più nervoso. Entrammo alla libreria Shakespeare and Company. Sfogliai un'edizione dei Collected Poems di T.S. Eliot. Lui sorrise. E mi disse che certo era un onore passeggiare con me, che sarebbe stato emozionante per lui potermi vedere suonare (si espresse proprio così, «vedermi suonare»), ma che era lì, con me, per ben altro. Lo guardai, i suoi baffi chiari erano poco folti e irregolari, una lieve cicatrice gli attraversava il sopracciglio sinistro, i capelli non cercavano di nascondere l'incipiente calvizie, ma la esaltavano, dritti sulla testa. I suoi occhi ammiccavano. Io posai il libro di Eliot, con calma, e lo fissai con indignazione: «Signore», ricordo di avergli detto, «vogliamo scoprire le carte una volta per tutte? E' troppo tempo che la sto ascoltando». Sorrise, in modo esagerato: «Se lei solo sapesse cosa possiedo, non si preoccuperebbe del tempo perso a parlare con me. Sarebbe felice di avermi incontrato». Ho passato la mia vita a suonare il pianoforte e non ho mai trattato alcunché con nessuno; ho passato un'infanzia ricca tra precettori e il parco della villa di casa. Giovanissimo sono diventato una celebrità, un ragazzo protetto dal mondo, affinché il mondo godesse e gioisse delle mie doti e del mio talento. Non saprei comprare il prosciutto, affittare una casa, risolvere un problema pratico. Sono nato molto ricco, e negli anni sono diventato ricchissimo. E ho usato la mia ricchezza per non farmi distrarre dal mondo, come fosse un dono del destino: così potevo pensare a Beethoven ogni giorno, e a nient'altro. Un bel privilegio. Ora, per la prima volta nella mia vita dovevo sopportare un russo volgare e mellifluo e un po' untuoso che cercava di vendermi il genio di qualcuno in valuta pregiata. E lo faceva coi tempi che lui stesso aveva stabilito. Come fosse un adagio un po' estenuante. Poche note, sempre le stesse, e una facile melodia. Facile facile. Volevo il colpo di scena, volevo l'accordo risolutivo, quello che mi introduceva al tema vero. Ma non doveva essere ancora il momento, mi disse che no, che non si era spiegato bene. Sì, le pagine le possedeva ma non era certo il tipo da portarsele dietro. «Lei non ha idea di quanta brutta gente giri per Parigi. Magari non sanno leggere la musica, però hanno un fiuto per gli affari che non si può neppure immaginare.» Dunque il russo aveva orchestrato la sua trappola con una sapienza che mi irritava, ma di cui comprendevo tutti i passaggi. Parlavamo la stessa lingua. Lo sapevo che non potevo sottrarmi, e misi a fuoco la battuta 211. Certo, lì inizia la coda della Ballata. E' uno dei momenti più intensi tra tutte le composizioni di Chopin. Preceduto da un pianissimo di cinque accordi: do maggiore il primo, do maggiore l'ultimo. Aggiunge persino una settima all'accordo maggiore, il grande Chopin: rivoluzionario. Ho sempre pensato che lì, quella Ballata potesse finire. In do maggiore come era iniziata. Con un pianissimo che mette a tacere l'inquietudine di quel tema in fa minore, che assomiglia a una fuga di impostazione romantica. E invece, colpo a sorpresa, quando sembra che la composizione sia finita - e quante volte accade ai pianisti di sentire qualche sprovveduto che accenna all'applauso, convinto di ascoltare le note finali del brano -, in quell'accordo di do maggiore che si perde verso il silenzio inizia un concitato gioco di specchi, una corsa attraverso un labirinto musicale, affannosa e lucida, una fiammata di romanticismo, una rabbia risolutiva che termina un'opera, trattenuta e controllata per pagine e pagine, in una sorta di esplosione di passione, come un temporale atteso da tempo, e per questo ancora più violento di quanto si potesse immaginare. Eppure non riesco a trovare parole per descrivere quello che accade in quelle pagine finali. La forza della similitudine si stempera se messa di fronte alla grandezza di quella musica e anche alla sua difficoltà. Come gettare dell'alcool sulla brace ardente, una brace che ha scaldato l'ascoltatore per nove, dieci minuti; e che sembra rassicurante, non pericolosa. Oppure, meglio, come fosse un amore trattenuto, contenuto, volutamente controllato, un gioco mentale intelligente che alla fine non riesce a trattenersi ed esplode in un fuoco d'artificio dei sensi tale da stupire e quasi spaventare. Si dice che Cortot abbia portato all'esame di diploma proprio questo brano, con un'esecuzione indimenticabile: suonando queste ultime battute con una velocità strabiliante e una grande potenza di suono. Non saprei dire se questo fosse giusto, però devo ammetterlo: quel russo che mi stava di fronte aveva la stessa agitazione della battuta numero 211 e della 212, e di tutte le altre, le successive. Anche quando si congedò da me, quasi correndo, e dicendomi un attimo prima: «Maestro, non me ne voglia, non posso più restare. Mi farò vivo ancora. E tornerò con qualcosa che lei sta cercando da tempo, e non se n'è mai reso conto. Con qualcosa che oggi solo lei potrà suonare, e saprà farlo, questo sì, in modo perfetto. Non le costerà troppo, mi creda; intendo dire che il suo prezzo è irrisorio se si tiene conto del valore - come direbbe lei? estetico? - di ciò che le farò vedere. Addio, maestro. A proposito, era bella la ragazza che ha accompagnato oltre il pont de l'Archeveché questa mattina. . . ». E così dicendo, con un ultimo sguardo d'intesa, mi lasciò a Saint-Étienne-duMont, correndo impacciato verso rue Descartes. Capitolo terzo. C'è un modo della curiosità che vuole attesa. Così tentai di mantenere un distacco verso le mie stesse passioni: mi volevo sospeso, privato del giudizio. Mi ritrovai come se fossi all'inizio di una strada che non credevo di poter prendere. Temevo di dover continuare a suonare musica di cui sapevo tutto, per averla ascoltata da altri, per averla prima studiata e poi suonata io stesso, per poi magari lasciarla da parte, e meditarci sopra, leggere libri che mi potessero, per analogia, far suonare meglio, cambiare quella che i profani chiamano «interpretazione» (e io sapevo che la parola interpretare significa nulla). Mi vedevo vicino ai sessant'anni, a far impazzire tutti i miei collaboratori per due Preludi di Debussy, che a loro sembravan sempre perfetti, e a me quasi banali: la loro miopia contro il mio cannocchiale. Io non vedo le note; di più, riconosco ogni frequenza come se fossi una di quelle macchine, gli oscilloscopi, che vibrano in onde meravigliose a ogni rumore che produci. Loro, i miei ingegneri del suono, le note le sentono a grappoli, almeno tre alla volta. Quelli che vengono ai miei concerti, è già tanto se riconoscono il brano intero. E quelli che stanno fuori, quelli che non vanno ai concerti, non fanno testo. Ero a Parigi anche per finire di preparare Debussy: il secondo libro dei Preludi. Non ci potevo impiegare meno di dieci anni. Dieci anni per 38 minuti di musica e dodici brani. Ci sono pianisti, come Rubinstein, che ci mettono due giorni a incidere tutti i 24 Preludi di Debussy. Io no. In questo, con Gould mi sono sempre trovato bene. Un giorno a Toronto mi diceva divertito che ero persino più lento di lui; anche se per le Invenzioni di Bach Gould impiegò un po' meno di vent'anni. Perché era un uomo insopportabile, lavorava sui frammenti: pezzettino per pezzettino. Gould in sala di in cisione ha costruito sempre dei Frankenstein di sé stesso. Il brano viene ripetuto, risuonato decine di volte, poi i passaggi migliori vengono montati assieme fino a completare l'incisione. L'ascoltatore, anche il più smaliziato, non si accorge di nulla: è tutto perfetto. Non l'ho mai fatto. Mi sono sempre rifiutato. Io sono il mio pianoforte, io sono in quel momento, nel momento in cui interpreto quel brano, quel giorno, a quell'ora, e non voglio spezzoni. So che il futuro non è questo. Ma in quel momento il mio futuro assomigliava già a un passato da ricostruire. E dunque cosa fare? Immaginare di essere al centro di un complotto mondiale: con spie russe, servizi francesi, pianisti americani avidi e pronti a tutto per una semicroma scritta con troppa solerzia? Sapevo bene che non poteva essere; e non mi sentivo neppure seguito: da chi, poi? Da un russo con l'alito cattivo che, cercando di far soldi con la mia celebrità, tentava di vendermi qualcosa di cui poco sapevo, ma che sarebbe costato comunque moltissimo? Se poi, mentre rimuginava sul mio virtuosismo, e lo faceva sotto i miei balconi, abbia visto una ragazza uscire dal portone, be', aveva solamente visto ciò che era e non poteva non essere. Già, ma perché ha detto: quella ragazza con il cappello? O non l'ha detto? Qui sta il dubbio, non può averlo detto perché la ragazza, il cappello non l'aveva; ero soltanto io ad accostarla al personaggio di quel dipinto minore; e solo perché Delacroix era il miglior amico di Chopin. Ma l'aveva detto, o l'avevo sognato? Deliravo: pensavo persino di non aver neppure incontrato il russo. Quel giorno ebbi una sospensione della credulità, un collasso temporale, e un'allucinazione muscolare. Cominciai a sentire fastidio alle mani, meglio, alle singole dita: all'anulare della mano destra, ma anche all'indice e al mignolo della mano sinistra. E sentivo le dita colpite da un'improvvisa pigrizia, quasi addormentate, come un formicolìo, un torpore che non mi avrebbe mai permesso, io credetti allora e ne son certo oggi, di accostarmi a una tastiera. In una parola: mi venne come un'angoscia che sedendomi al piano non sarei più stato capace di suonare; si ripeteva nella veglia di un tardo pomeriggio d'estate uno dei miei sogni ricorrenti, e dei più mostruosi. Sono bambino, nella mia casa di campagna. All'inizio sembra un sogno dolce: sono nella mia stanza, al secondo piano, con le finestre che sfiorano gli alberi di olmo. Sto leggendo un libro, e di tanto in tanto guardo fuori per capire se è ora di cena; alle sette i giardinieri smettono di lavorare. Dalla mia finestra li vedo dirigersi verso il cancello della villa. Allora so che sono atteso a tavola. Ma quella sera i giardinieri sembra che non finiscano mai di sistemare le siepi di alloro che ornano lo spazio di fronte alla villa. D'un tratto quella giornata d'estate con la luce che sfuma lentamente si fa aspra, sembra d'esser passati dall'estate all'inverno in un attimo: fuori si crea una nebbiolina, il buio circonda la casa, lascia intravedere solo la luce lontana che illumina il cancello, in fondo al parco. Guardo fuori, spaventato, mi sembra che nevichi. Ma lo spettacolo non è piacevole, m'accorgo che non è la neve che ho sempre amato, è una neve che sembra sintetica, che non si scioglie, ma seppellisce la natura come una cappa bianca soffocante. Mentre faccio questo pensiero entra mia madre, in silenzio, vestita di bianco, sto per chiederle qualcosa ma con uno sguardo mi lascia capire che non è il caso di parlare: ha un'aria corrucciata, irrigidita, va verso le finestre e chiude gli scuri per proteggere la camera dal gelo. L'atmosfera è come soffusa, i rumori attutiti, meglio rallentati, come dei suoni ritenuti. Tutto è pianissimo, ppp si scrive in musica. Mia madre, bellissima nel suo abito lungo, mi indica il pianoforte, un pianoforte che per la verità non ho mai visto se non in quel sogno, un vecchio strumento della metà dell'Ottocento, intarsiato e dalla coda lunga. Un pianoforte fragile e prezioso: inadatto alle mani forti di un giovane pianista. La guardo e non oso sedermi alla tastiera, ma dall'espressione del suo viso capisco che è un ordine. Più che sedermi mi appoggio, quasi sospeso sullo sgabello, e mi accorgo che non so leggere quelle note. Mi sembra un affresco confuso di segni di cui non riconosco nulla, che mi paiono tutti uguali, se non fosse che son disposti in altezze diverse rispetto a quelle righe sottili e orizzontali. Nel sogno appoggio le mani sulla tastiera, quasi impacciato, come un ragazzino che non sa suonare e si atteggia a concertista. Mia madre è immobile, alle mie spalle, sento la sua presenza fisica come qualcosa che mi opprime. E quelle mani che avevo appoggiato a caso sulla tastiera rimangono ferme, rigide e doloranti; comincio a tremare per dover ammettere che non so più suonare, che non ne sono capace; anzi, forse non ne sono mai stato capace. Mi alzo umiliato e offeso. Senza guardare il viso accusatore di mia madre mi appoggio alla parete, come se avessi fatto uno sforzo enorme. Lei, indifferente, con un sorriso enigmatico siede al pianoforte, poi mi guarda, ma di traverso. E, come un fulmine che si scarica su una casa, percuote quel fragile strumento con un accordo potente. Fortissimo. Secco come il vento che sentivo fuori della casa: perfetto. Lo riconosco, è l'accordo iniziale dello Studio n. 12 op. 10 in do minore di Chopin. Il cuore mi batte fortissimo, in modo irregolare, come fossero (oggi lo so) continue extrasistole. Ma non faccio in tempo a prendere fiato che subito la mano sinistra di mia madre scende sulla tastiera verso le note gravi a una velocità impressionante. Non avevo mai sentito suonare quello Studio in quel modo. E nel sogno lo ricordo eseguito a una velocità impossibile, molto più veloce (e molto più preciso, ed è quasi inverosimile) di come lo suonava Alfred Cortot. Solo Franz Liszt avrebbe potuto suonarlo così. C'è una lettera di Chopin che mi ha sempre colpito. Credo scrivesse a George Sand, o forse a Delacroix. A un certo punto dice: «Ora devo interrompere, di là, nell'altra stanza c'è Liszt che sta suonando i miei Studi, e mi fa uscire di senno». Nel sogno mia madre suona nello stesso modo, da farmi uscire di senno: e suona con rabbia, come fosse allo spasimo, e violentasse, oltre le dita, i tendini e i muscoli delle braccia, costretta a uno sforzo estremo che accompagna tutto il suo corpo dalle caviglie fino alle tempie. Non ho mai osato suonare in vita mia quello Studio. Provavo dolore alle mani solo al pensiero di avvicinarmi a quella partitura. E non ho mai inciso l'opera 10 con le scuse più diverse. (Quanto mi sono poi innervosito nel leggere i critici che discettavano sul fatto che avessi inciso così bene gli Studi dell'opera 25 e non quelli dell'opera 10! E perché mai non l'opera 10? Nessuno aveva mai inciso metà degli Studi, soltanto io. E in un saggio si sostiene che la mia interpretazione degli Studi dell'opera 25 «nega» quelli dell'opera 10. Che io considererei minori. Dio mio!) Quel giorno a Parigi ebbi la stessa sensazione, e ripensai a quel sogno che nessun analista avrebbe potuto capire meglio di me. L'angoscia volle il suo tempo, se lo prese volentieri mentre passeggiavo tra i bouquinistes, mi guardai bene dal dirigermi verso casa per non trovarmi di fronte a un pianoforte; l'ansia mi divorava, temevo di vedere il mio Steinway suonare da solo, quasi fosse uno strumento a rullo, con sopra inciso quel maledetto Studio. Temevo che le mie mani si sarebbero fermate per sempre, e la memoria non mi avrebbe più consentito di leggere la musica con la stessa naturalezza di un attore che recita versi per la prima volta, e lo fa come se li conoscesse da sempre; e temevo che proprio quella mia dote prodigiosa sarebbe svanita. Per non pensarci, passando per i bouquinistes, mi aggrappavo ai primi libri che mi capitavano tra le mani, leggevo qua e là, morsicavo frasi di romanzi sconosciuti, di testi famosi, di poesie dimenticate. Guardavo stampe di poco valore, e persino incunaboli dalle pagine incollate dall'umidità. Tutto costava poco, meno di quanto valesse. Anche la musica che suonavo - credevo - costava meno di quanto valesse; persino le mie mani erano pagate meno di quanto fosse opportuno. Ma non ho mai avuto passione per il denaro, Già nel maneggiarlo sentivo una sorta di sporcizia, di sciatteria, di volgarità. Mio padre mi ha insegnato che un gentiluomo non parla di denaro, e non tratta con nessuno, il denaro è roba per banchieri: a suo avviso, individui a cui non si deve concedere troppa confidenza. Mio padre era un eccentrico: talvolta i banchieri sono uomini di qualche raffinatezza. Ma in sostanza è vero: credono che il mondo si possa comprare, che tutto sia in vendita. Ricordo un'amica di mia madre, voleva mettere sotto stipendio una medium, una vecchietta di origine boema che terrorizzava i presenti raccontando di aver passeggiato con Johann Sebastian Bach e Claude Debussy, per carpirle i misteri della composizione musicale. Naturalmente la vecchietta si dileguò in men che non si dica: aveva pochi segreti da vendere; però si diceva che nelle sedute spiritiche sapesse parlare con la voce di un uomo, e si diceva fosse quella di Bach. Storie di una vecchia Europa bizzarra che non esiste quasi più, e per nessuno; neppure per me, che per la verità mai mi son curato di queste cose, contrariamente a molte altre menti eccelse, e uomini talentosi, capaci di rovinarsi per un raro trattato di alchimia, o di spiritismo. Ma in fondo anch'io ho cercato il mistero: l'ho scacciato e l'ho inseguito, e ancora l'ho scacciato. E in questa altalena nevrotica, ho studiato le sue pieghe, nelle mie mani, nelle mie unghie troppo curate, nello sfiorare quei tasti, quelli neri, quelli in avorio, nel comandare la mia gamba destra a ogni sfumatura del pedale di risonanza. Volevo che la mia interpretazione, la capacità di far rivivere i secoli, di far risuonare fogli muti in bianco e nero, coincidesse con il mistero della vita. E le mie mani si muovevano come obbedendo a una regola di cui non conoscevo che un principio flebile, un inizio di spiegazione. Nulla se si pensa al mistero di un suono che non aveva dimensioni, e insieme tutte le aveva; e si insinuava in ogni luogo: persino nelle parti più seducenti di un corpo teso, pronto a godere di ogni minima modulazione sonora. E mi tornava in mente la notte prima, e la ragazza con il cappello, la ragazza del caffè di rue de Rennes. Pensavo a lei, al modo in cui muoveva il corpo, come a voler capire in anticipo i miei desideri, attraverso un codice che ho sempre stentato a riconoscere, perché ogni volta diverso. Mi fermai: colto dalla paura di spingermi oltre, di pensare alla musica ancora una volta come analogia, non come volontà. Raccontare il sesso attraverso la musica? Non volevo farlo. La musica è Volontà, non Rapresentazione. La musica non ha legami con il mondo, non lo spiega, semmai genera il mondo, cambia le forme, modifica gli umori. Non dovevo tornare a cercare brani musicali per dare un senso ai miei turbamenti e alle mie passioni. E mi chiedevo (dovevo farlo) se il mondo non fosse l'effetto di una disarmonia universale; figlio di una quantità di suoni casuali, sovrapposti, irriconoscibili, di frequenze musicali ordinate a intervalli irregolari, discontinui, come fossero gruppi di nuvole che si scontrano e provocano temporali improvvisi, scatenano fulmini, danno bagliori, infuocano il cielo per poi lasciare tutto come se nulla fosse accaduto, a parte un persistente odore di bagnato. E quel mondo, quella disarmonia, finivano per essere riordinati dalle mie mani, dal mio udito, come fossi un abile giardiniere. Sapevo trovare la tonalità delle cose? O forse era una follia, il delirio di un uomo malato di sensazioni, abituato a tal punto a pensare con l'udito, a leggere con l'udito, che non gli riusciva quasi più di riordinare gli eventi secondo un ordine, una logica. In che tonalità era il mio incontro con la ragazza al caffè di rue de Rennes? Era in mi bemolle, in fa diesis minore, in do maggiore? Sciocchezze di un pignolo musicista, si potrebbe dire. Ma non è così, ho rivissuto, in quel dialogo, in quel modo di parlarsi, l'andamento del primo Preludio di Chopin, quello in do maggiore, ho avuto la sensazione che quella fosse la tonalità e non un'altra. Un incontro in do maggiore è diverso da un incontro in la bemolle minore; non ha pieghe ambigue, non lascia aperte possibilità, non obbedisce a regole sconosciute. Un volto in do maggiore non ha sguardi sorprendenti, non vuole lasciare capitoli aperti: è lì, indubitabile, compiuto. Solo che il primo Preludio, trentaquattro battute in tutto, non è semplicemente in una tonalità rassicurante, è agitato. E per di più è in 2/8. Brevissimo come un raggio di sole che illumina a stento qualcosa che è in movimento, in rapido movimento. E quel giorno ripensavo a quanto mi era accaduto, e mi chiedevo se desideravo ancora quella donna; e sapevo che la risposta era forse in una manciata di note in tonalità do maggiore, agitate, e in 2/8. Non so dire ancora oggi che rapporto ci fosse tra il mio corpo e un'allucinazione acustica che mi faceva ascoltare non più il solo Preludio in do maggiore, ma tutti i 24 Preludi dell'opera 28, uno di seguito all'altro, mentre i bouquinistes diventavano sempre più rari per il Lungosenna, e lasciavano il posto a marciapiedi sgombri. Certe volte sembra impossibile che la memoria possa sopportare una quantità di dettagli che si muovono per la mente, ma non si riescono a comunicare, come fossero un peso troppo grande. Non avrei potuto cantare il Preludio in fa diesis minore, in 4/4, Molto agitato, eppure lo risentivo come in un nastro perfetto, nel mio cervello che sfuggiva dall'emozione del proprio corpo, dal ricordo che si mescola al desiderio, e il mio passo accelerava, e mi portava sempre più lontano dal centro della città. Avevo superato sulla riva destra il ponte della Tour Eiffel e mi ricordai della clinica per malattie mentali: l'Hôtel-Lamballe, a rue d'Ankara, una vecchia strada di quello che nell'Ottocento fu il villaggio di Passy. Lì nel 1845 il dottor Sylvestre Esprit Blanche aprì una casa di cura che divenne subito famosa. Il 12 ottobre 1853 il figlio Émile, che era succeduto al padre, scriveva: «Oggi Gérard de Nerval è stato condotto qui in stato di delirio furioso». Rimane per molti mesi in clinica, e la terapia sembra guarirlo, al punto che decide di partire per un viaggio di convalescenza in Germania. Ma, al suo ritorno, Nerval ha avuto una ricaduta e l'8 agosto 1854 viene nuovamente internato. Quest'ultima crisi è stata meno lunga delle precedenti e il 19 ottobre dietro sua richiesta viene affidato alla zia. Gérard de Nerval morirà tre mesi più tardi suicida. Impiccato a un'inferriata. Lasciò un biglietto: «Ne m'attends pas ce soir, car la nuit sera noire et blanche». Portava ancora un dignitoso cilindro, quando lo trovarono senza vita. Ho letto Sylvie di Gérard de Nerval più volte, proprio nell'età del mio sogno, quello dove non riesco a suonare lo Studio di Chopin. Era una fuga in un mondo senza tempo dove il passato e il presente si fondono, e persino il desiderio è qualcosa di indefinito. Mi deliziavo a pensare che in quel libro fossero contenuti segni oscuri, messaggi cifrati, figli di una mente ormai malata in modo irrimediabile, come quella di Nerval. Per anni molte letture mi erano proibite: appartengo a una generazione che non poteva leggere tutto, nella mia casa una parte di biblioteca mi era interdetta, e amo i libri anche per questo, perché talvolta li ho desiderati troppo. In quei tempi, quando ebbi, ormai giovinetto, il permesso di entrare in quel piccolo studiolo la cui finestra dava sul labirinto di siepi, scoprii non soltanto Orazio e Marziale. Ma anche le cose migliori, quelle che accendevano davvero la mia fantasia: Giordano Bruno e Girolamo Cardano, Giacomo Casanova e persino Plotino, che mio padre curiosamente riteneva una lettura pericolosa per un ragazzo (e ancora oggi, solo in parte mi spiego il motivo di tale divieto). Tra i libri certo non vietati, ma neppure troppo tollerati, c'era Nerval, in varie edizioni. Forse mio padre non si accorse mai, veramente, che quel libro non stava più nello scaffale dei romantici francesi, vicino alla traduzione, sempre di Nerval, del Faust di Goethe. Quell'edizione di Les filles du feu l'ho ancora qui, nella piccola libreria accanto alla mia poltrona, proprio vicino alla finestra che dà sulle montagne bianche della Jungfrau. Era curioso, mi si permetteva (poiché era musica) di leggere e suonare senza turbamenti le sonate per pianoforte di Skrjabin, la decima in special modo: dichiaratamente demoniaca e perturbante, capace di privare di ogni stabilità chiunque la ascolti, e molto, molto di più di certi tormenti mahleriani. Così Skrjabin, quasi ai limiti della musica, oltre ogni equilibrio armonico, mi era concesso: perché era musica, e secondo i profani la musica non parla, non dice, non conduce al ragionamento. E pensavo all'impressione che ebbi, io, che ho sempre ascoltato nella mia vita musica colta, quando mi ritrovai in America latina e potei sentire la bossa nova. E un corto circuito mentale mi fece tornare alla mente mio padre, che mi censurava le letture e non sapeva quanto può essere sensuale, e persino indecente, certa musica. La bossa nova turbava il mio corpo, scopriva i miei nervi, metteva in movimento i miei muscoli, e non ne ero più padrone; e me ne vergognavo, sapevo che quella era soltanto sensualità, che lì non ritrovavo le carte della mia cultura, che non avevo codici, tutt'altro. Ancora oggi non so se era la forza di quella musica a trascinarmi oppure ero io stesso a sentirmi libero da mille condizionamenti, e lontano da un'Europa di cui avevo assorbito tutto, e di cui, come già allora si diceva, ero uno dei rappresentanti più «inquieti e geniali». Ma tutto questo lo avrei scoperto dopo; a quei tempi, ai tempi delle mie letture proibite, non dovevo farmi troppo notare se, nelle pause, rileggevo l'incipit di Sylvie; così tra la musica che avevo ascoltato fino ad allora e quel modo vago di scrivere di Nerval finivo per non saper più dove fossi, e in quale mondo: «Je sortais d'un théatre où tous les soirs je paraissais aux avant-scènes en grande tenue de soupirant». Je sortais, quando, però? In che tempo? Ero affascinato dalla dimensione temporale di Nerval, debole, vaga, quasi esoterica nel suo correre incerto e contraddittorio; almeno quanto mi affascinava quella dei Preludi di Chopin, che sembra non vogliano mai iniziare, frammenti di racconto musicale sospesi proprio come Sylvie. Ho sempre pensato che l'animo romantico fosse figlio di un equivoco temporale, fatto di attese, di vuoti, e di accelerazioni improvvise. E' un tempo elastico, quello dei romantici. E ti sorprende sempre. Da ragazzo, come fossi Nerval, finivo per tornare con il pensiero nel Valois, a ritrovar riti arcaici, canti sconosciuti, ambigue rappresentazioni, a celebrare la mia passione che non aveva una sola immagine, ma vagava in un ideale fatto di più donne, e dunque mi offendeva, da giovane e puro romantico quale ero non perdonavo a me stesso di amare più di una donna alla volta: e quindi mi domandavo se vivevo attraverso l'amore l'ambiguità del tempo, o attraverso la vaghezza del tempo l'ambiguità dei miei amori di ragazzo (ma anche dei miei amori di tutta una vita). Quanto potevo rubare dell'incanto di un libro che ancora non sai se è già figlio della follia di Nerval oppure l'ultimo sprazzo di lucidità, l'ultima visione geniale di un uomo infelice che non sapeva più opporsi a un'anima che stava per spegnersi? Ma perché ero arrivato fino a rue d'Ankara, al numero 17? Cercavo il luogo dove Gérard de Nerval soffrì delle sue ultime crisi? O forse sarei dovuto andare in rue de la Vieille Lanterne, alla cancellata del numero 4? Pochi giorni fa è venuto proprio qui, in questa valle dimenticata, un amico scrittore; che ha con me due cose in comune, il giorno di nascita e l'amore per Sylvie. Stava preparando delle lezioni: una dedicata a Nerval. Il mio amico scrittore si vanta di saper sopportare i miei visi scuri e i miei sbalzi di umore: credo che ci riesca bene soltanto perché mi vede assai poco. E' un uomo famoso, forse ancora più di me. L'altro giorno, qui in questa valle svizzera depurata dal mondo, il mio amico era allegro, più del solito, stava partendo per gli Stati Uniti con le sue lezioni in tasca. Avevo stappato una bottiglia, Chateau d'Yquem, lui non beve vini rossi. E sorrideva, caustico e sospettoso di tutti quelli, turisti e pallidi giovinetti, che vanno a Parigi per sostare in silenzio dinnanzi all'inferriata dove si impiccò Nerval, a rue de la Vieille Lanterne. Non gli dissi che molti anni prima anch'io ebbi la tentazione di farlo, e con partecipazione, quasi dolore. E mi chiedevo se Chopin e Nerval si fossero mai incontrati: Nerval nasce nel 1808 e muore nel 1855. Frédéric Chopin nasce invece due anni più tardi, nel 1810, e muore sei anni prima, nel 1849; ed è a Parigi dal 1830. Avrebbero potuto incontrarsi: avevano diciannove anni di tempo. E invece pare di no. Si sa che Nerval incontrò Liszt a Vienna, nel 1839, assieme alla pianista Camille Pleyel. Ma non Chopin. Probabilmente Nerval sapeva chi fosse Chopin, ma è più probabile il contrario. Nerval era una celebrità a Parigi, nel mondo letterario, mondano e teatrale. Chopin, un giovane polacco in cerca di qualcosa di stabile. Però Sylvie era un racconto che avrebbe fatto impazzire Chopin, perché irrisolto: con le vaghezze che furono spesso dello Chopin più affascinante, e che talvolta è anche lo Chopin più semplice, quello dei Preludi per esempio. Ma cosa c'era in Sylvie che mi rimandava a Chopin, e in Chopin che mi faceva tornare a Nerval? Quel sentimento romantico che non si dovrebbe avere né verso Nerval né tantomeno verso Chopin. Allora chi stavo cercando quel giorno? Nerval o i suoi personaggi? Aurelia, strana attrice di cui il protagonista del racconto si innamora? O Adriana, biondissima e lontana nella terra del Valois; o ancora Sylvie, in lacrime quando il narratore fanciullo offre ad Adriana una corona intrecciata? E quale di queste tre donne il narratore insegue davvero? No, non riuscirei a raccontare questa novella oggi, che sono più vecchio; e non sarei stato capace allora, in quel momento di totale confusione. Troppo oscuri sono i tempi narrativi, troppo profondo l'abisso che ci mostra Nerval. E quel giorno mi chiedevo se la mia passeggiata fino a rue d'Ankara fosse casuale, lo sfogo di un uomo ansioso che ha bisogno di stancare i propri muscoli, o se invece fosse qualcosa di più profondo. Avrei avuto un passaporto per la terra del Valois, per quel castello turrito, rosso di fuoco, dove Nerval immagina che al tramonto le fanciulle danzino e cantino? Pochi giorni fa il mio amico scrittore mi guardò con aria diffidente, colto di sorpresa da una mia domanda diretta. Poi rispose, come parlasse a sé stesso: «Lo sai, il testo di Sylvie ti chiede di diventare malato come Nerval e ti vuole incapace di distinguere tra sogno, memoria e realtà». Lo sapevo allora, in quel giorno di giugno, a Parigi? Forse no, pensavo semmai alla combinazione che mi aveva portato fin lì, alla ricerca di un equilibrio che non potevo trovare. Pensavo che mi ero spinto a rendere omaggio a uno scrittore di cui mia madre mi aveva parlato da bambino, e che mi fece leggere, e ho amato, anche troppo. Così, mentre tutto questo turbava i miei pensieri, in un'altra parte della memoria, la più profonda e misteriosa, correva il cantabile del Preludio in si bemolle maggiore. E avrei voluto fermare quel nastro mentale che mi impediva di muovermi, di guardare, persino di pensare, senza tornare a quelle note. Di chi era l'interpretazione della musica che ascoltavo dentro me stesso? Sarebbe stato curioso capire se io suonavo allo stesso modo quelle note che correvano nella mia testa, o se invece quei Preludi li ricordavo di Rubinstein, o forse di Cortot. Solo dopo molti anni, oggi, qui, tra questo panorama che mi ostino il più possibile a non guardare, so che la musica di Chopin che ascolto nella mia mente, e non come una colonna sonora del mio modo di leggere la vita semmai come un contrappunto dei miei pensieri, e dunque contrappunto del mondo, è quella di Claudio Arrau: l'unico pianista che posso dire di aver davvero invidiato, che ho spiato, verso cui ho espresso ammirazione; l'allievo dell'ultimo degli allievi di Franz Liszt, Martin Krause. Arrau è stato il più misterioso tra i pianisti che abbia mai ascoltato; più misterioso di me, anche se forse meno celebrato. Quando lui morì, un amico mi portò un ritaglio di giornale (io non leggo giornali): c'era uno spazio pubblicitario comprato dalla Philips, la casa discografica di Arrau. Con la grande foto di un pianoforte, su un palcoscenico. Sul seggiolino non sedeva nessuno. Sotto quest'immagine, due sole righe: «Claudio Arrau, 1903-1991». Nient'altro. Non so dire se fu lui a chiederlo in punto di morte (e mi piacerebbe fosse così), oppure fu un'idea di qualche discografico. Certo ebbi un brivido nel vedere quello strumento, in attesa, in una sala deserta; un gran coda senza nessuno assieme a quella data di nascita e morte. Ma quel giorno, tra rue d'Ankara e il pont de Bir-Hakeim, non potevo capire che quei Preludi che correvano a spegnere la mia ansia di vivere, a dissolvere il mio incubo ricorrente di trovarmi paralizzato di fronte a una tastiera, non erano i miei (che ho suonato più volte in concerto ma non ho mai inciso), ma quelli di Claudio Arrau. Ci volle tempo perché tornassi indietro, era già sera quando mi apparve l'île-de-la-Cité, e mi sentivo di una stanchezza profonda, ero esausto. Solo in quel momento capii che potevo tornare: tornare a casa e tornare a studiare; aprire l'armadio a vetri dove tenevo tutte le partiture, ordinate per compositore, e scegliere, quasi a caso, in libertà, senza pensare ai doveri, ai dischi che avrei dovuto incidere. Capii che l'ansia era svanita, l'avevo vinta per stanchezza, senza esorcizzarla, ma permettendole di mettermi all'angolo, di minacciarmi. Vincendo su di lei con l'arma della pazienza, perché sapevo che l'ansia corre sui tetti, è un male collettivo che passa da uno all'altro, senza conoscere troppo chi colpisce, chi minaccia. Ma la stanchezza mi fece pensare a quel russo. Dove l'avrei ritrovato? Sotto casa? Guardai con attenzione prima di salire, cercavo di capire se poteva essersi nascosto da qualche parte, mi sentivo spiato, come lui si sentiva seguito da fantomatici e strani individui. Mi sembrò di vedere un uomo sul ponte che unisce la Cité con l'île-Saint-Louis: mi stava osservando. Credetti di riconoscerlo: mi avvicinai deciso, pronto a chiedere se avesse con sé quelle misteriose pagine che mi aveva promesso. Anzi, mi ero convinto che era tornato apposta, che tutto fosse più semplice di quanto credessi. A pochi metri da quell'uomo capii che il russo doveva essere da ben altra parte. Quell'uomo mi guardò, con un certo timore. Tornai sui miei passi, con una delusione che mi bruciava come un dolore acuto. Erano molti anni che non provavo un desiderio così forte verso una musica misteriosa e una donna altrettanto enigmatica. Se poi quella musica, che non aveva un nome, e quella donna, che un nome aveva ma non osavo neppure pronunciarlo (e qui, ancora, non oso scriverlo, perché troppo si spiegherebbe, anche a me stesso), fossero legati assieme solo nella mia mente ormai malata, o invece erano uniti da qualcosa che mi sfuggiva, da fatti di cui non ero a conoscenza, non potevo ancora dirlo. E non avrei neppure voluto saperlo, almeno in quel momento. Capitolo quarto. Quando oggi ripenso al modo in cui venni ancora in relazione con il musicista russo, ho un moto di rabbia; detesto le lettere, le buste chiuse, non sopporto le notizie, tollero solo quelle che provengono dal passato. Il presente è chiacchiericcio: discorsi senza senso, cose che svaniscono nel nulla e di cui mai si sentirà ancora parlare in qualche futuro. Anche la musica ha subìto lo stesso destino; non c'è mai stata epoca così affollata di musica: senti musica ovunque, per strada, nei negozi, sugli aerei, persino dal dentista. Musica di ogni tipo: qualche volta musica classica, spesso ritmi moderni, canzoni. Da qualche anno ci sono anche cuffie per ascoltare musica dove si preferisce, anche sulle cime della Jungfrau. Si può spezzare il silenzio in qualunque luogo si voglia, eppure mai come in questa epoca la musica non si ascolta: sono luci di mille fari, senza che ci sia una sola nave a coglierli, a farsi indirizzare. Passa tutto attraverso i timpani senza che ne rimanga memoria. Dovetti aspettare molti giorni prima che quel signore si decidesse a farmi sapere qualcosa di sé. E furono giorni inquieti; di sonni interrotti e di pomeriggi passati a vagare per casa, e ad affacciarmi, di tanto in tanto, alla finestra. Una sera, era già molto tardi, tornai in quel caffè di rue de Rennes per vedere se avevo la fortuna di rivedere la ragazza con il cappello. E immaginavo di incontrarla ancora, certo, ma accompagnata al russo; assieme per strada, quasi di corsa, come volessero nascondere qualcosa non soltanto a me, ma anche al mondo. Per quei giorni non feci altro che pensare a situazioni che puntualmente non si verificarono; comprai un'edizione dell'opera di Nerval, e ricominciai a studiare i Preludi di Debussy. Come inciderli? Gli uomini della mia casa discografica mi tempestavano di lettere, alcune formali, altre più accattivanti: volevano sedurmi; ma soprattutto avrebbero evitato volentieri di far uscire un disco dei Preludi di Debussy ogni dieci anni. L'avevo promesso, non mi sarei dedicato altri dieci anni ai Preludi di Debussy, non volevo: e poi molti dubbi li avevo già sciolti nel primo disco. Allora ne ero convinto. Oggi so che non andò così, che impiegai altri dieci anni per incidere il secondo volume: 39 minuti e 4 secondi di musica divisi in un decennio. Il mio amico scrittore un giorno mi guardò da dietro le spesse lenti degli occhiali e mi disse: «Se tu avessi inciso un secondo, un solo secondo di Debussy al giorno, in dieci anni ci avresti lasciato almeno un'ora di musica. Ma hai fatto di meglio, solo 39 minuti, e qualche spicciolo». Il mio amico scrittore ama i paradossi, ed è per questo che mi piace frequentarlo. Io, che non ho il minimo senso dell'umorismo, in vecchiaia scopro di amare più di quanto prevedessi gli uomini spiritosi. Ma qui preferisco non dilungarmi oltre. In un moto indispettito di precisione posso dire che il mattino del 24 giugno 1978 mi arrivò una lettera. Per la verità fu portata a mano. Il mio indirizzo non era noto a nessuno, e il postino non avrebbe potuto leggere il mio nome nella cassetta delle lettere: visto che non c'era. La busta era appoggiata sopra il banco della portineria di un palazzo che aveva rinunciato al portiere ormai da molti anni. Ero tornato da una delle mie consuete passeggiate svogliate. Mi ero spinto fino a Saint-Germain, per veder passare la gente seduto in un caffè. La giornata era scura e ventosa, a tratti faceva quasi freddo per essere estate. Mi accadeva spesso in quei giorni di trascurare il lavoro e lo studio passeggiando senza meta, ma in me non c'era più quell'ansia: quell'angoscia che mi aveva sorpreso subito dopo l'incontro con quell'uomo. Neppure cercai altre donne, anzi le evitai. Ma più di tutto cancellai dalla mia vita ogni contatto mondano; non aprivo neppure gli inviti che mi arrivavano attraverso la mia casa discografica. Quando il camino era acceso finivo per bruciarli, ancora sigillati dentro le buste. Quella lettera non era di certo uno di quegli inviti. La busta gialla, senza francobollo, non aveva indirizzo; c'era scritto solo il mio nome, con calligrafia incerta, e il tutto era un po' gonfio, come se dentro la busta quei fogli fossero stati piegati male e in fretta. Non l'aprii subito, mi presi il tempo di salire le scale, e persino di prepararmi un tè. Il mio orrore per ogni tipo di lettera, specie quelle senza mittente, era stemperato da una curiosità morbosa: finalmente avevo in mano la soluzione del caso, avevo trovato le pagine che mi avrebbero chiarito il mistero. Se c'è stato un solo momento nella mia vita dove ho avuto una completa sensazione di euforìa, deve esser stato quello. Perché tutto mi sembrava perfetto, e non mi venne neppure in mente che ancora non sapevo cosa cercassi. E perché mai fossi felice di quanto non sapevo. Parigi, 23 giugno. Egregio maestro, perdonate se non avete avuto mie notizie fino a oggi. Molti sono i motivi. E credo di avervi annoiato moltissimo già l'unica volta che avete avuto la grande generosità di dedicarmi del vostro tempo. Vi posso soltanto dire, perché voi abbiate un'idea di che mondo ci è toccato di frequentare e vivere, che sono seguito. Proprio così. Più di una volta mi sono accorto che un uomo, e poi una donna, mi stavano quasi addosso. Io allungavo il passo, cambiavo direzione improvvisamente, ma già sapevo che non sarebbe servito a nulla. E devo anche confessare che qualche giorno fa, mercoledì per l'esattezza, rientrando a tarda notte nella stanza della mia pensione ho trovato la camera sottosopra; tutti i miei indumenti (pochi, per la verità) erano in disordine. La mia unica valigia aperta e poi sventrata con una lametta, per vedere se nascondevo qualcosa. Tutto questo mi ha molto turbato. Anche se posso dire di essere abituato a questo genere di cose. A Mosca accadeva spesso che agenti della polizia suonassero nella notte e svegliassero me e mia madre per controllare se tenevamo documenti in casa e se facevamo attività sovversiva: ma dovevano rassegnarsi, nella nostra casa c'erano soltanto partiture, di ogni genere, e loro non sapevano neppure leggerle. E spesso mentre quell'umile appartamento veniva rovistato dappertutto, io e mia madre dovevamo aspettare sulle scale, dove il freddo era pungente e intollerabile. Da allora, maestro, la mia salute non è buona, e quella di mia madre, molto anziana, ancora peggio. Un fastidio ai polmoni mi costringe spesso a cure per me troppo costose, e di poca efficacia. E dire che qualche franco in più potrebbe essermi utile. Mi hanno parlato di un ospedale non lontano da qui, nel Valois, dove c'è uno specialista che potrebbe fare qualcosa... Perdonate il mio francese, maestro, quando è scritto è anche peggio di quando è parlato, mi consolo pensando che il grande Chopin parlava e scriveva un cattivo francese anche dopo 18 anni di vita parigina, e per questo preferiva presentarsi di persona piuttosto che rispondere per lettera. Io però non posso presentarmi di persona, come potrete capire. Voi stesso rischiereste, e di molto. Qui non ci si può fidare di nessuno. Per cui, permettete una raccomandazione (e non me ne vogliate): non parlate a nessuno di questi nostri rapporti. Non capirebbero, e poi tutto potrebbe andare in fumo. E, dovete credermi, per me sarebbe un evento luttuoso, vorrebbe dire perdere l'unica ricchezza che possiedo. E sapete che vita può fare un uomo povero in una città come questa. Dovevate vedere la mia pensione quella notte che fu visitata da ignoti... Ma tant'è. Un esule russo non ha di che lamentarsi se a Parigi riesce a campare con qualche lavoretto. Umile, s'intende. Niente a che fare con voi, maestro; ho visto, per quel poco che mi era dato di capire, che possedete un bellissimo appartamento. Ho sentito il suono del vostro pianoforte, e so che deve essere uno Steinway, un suono dolce, un'accordatura perfetta. Dal basso, dalla strada, credetemi maestro, ho ammirato i soffitti e gli stucchi della vostra casa. Si vedono da giù, lo sa? E sono proprio belli. Un musicista ha gusto. Gusto sempre, senso dell'armonia, senso delle proporzioni. A proposito dell'armonia e delle proporzioni: spero che i vostri studi procedano come si deve, che potremo avere presto i secondi dodici Preludi di Debussy. Che disco meraviglioso il primo! Amici mi dicono che se ne parla anche a Mosca, e molto. Ebbene, maestro, vi devo confessare una cosa: l'altro ieri sentivo parlare di voi in un negozio di musica. Erano due signori, dall'aria distinta, uno mostrava di saper molto sulla vostra vita; diceva che voi avevate lasciato da poco l'Italia, ma che nessuno sapeva bene, per la verità, dove vi eravate nascosto, che il vostro rifugio era segreto a tutti, ma che sareste tornato assai presto a tenere concerti. Io gli credo, e spero sia vero. Ascoltarvi forse mi aiuterebbe a rendere più sopportabile un'antica ferita. Permettetemi, maestro, se oso chiedervi già sin d'ora un biglietto per quel giorno, sperando che sceglierete la città di Parigi: uno come me, naturalmente, non si muove agevolmente. Ma se così fosse, vorrei tanto sapere cosa suonerete. Posso confessarvi che un'idea me la sono fatta. So che suonerete Debussy, sicuramente. Alcuni dei Preludi. Poi suonerete Brahms. E qualche Mazurca di Chopin. E poi ascolterò Liszt. E così sarebbe già un grande concerto. Vi prego di scusare questa inopportuna divagazione. Ma che dico, ho dimenticato un altro brano che suonerete sicuramente, penso alla quarta Ballata, in fa minore, che mi avete mostrato di amare così tanto. A proposito, maestro, perdonatemi ancora, forse sto osando troppo, ma anni di privazioni fanno perdere un po' il senso della misura: la mia promessa di alcuni giorni fa, quella sul manoscritto della quarta Ballata, è sempre valida, ma, vedete, mi è molto difficile muovermi, e poi con quei fogli tra le mani sarebbe un rischio assai grande. Vi chiedo pazienza, dunque, la pazienza che ci vuole per le cose che si amano. D'altronde capirete presto che non è un problema di denaro. E Dio non voglia che questa lettera finisca nelle mani di qualche malintenzionato, sapeste quanti ce ne sono qui a Parigi... Mi farò vivo, ancora. Con ammirazione. P.S. Quanto è delizioso ciò che è rimasto del vecchio villaggio di Passy, non vi pare? Fui colto da un sentimento di disprezzo, poi di rabbia, infine di inquietudine. Una lettera miserabile e leziosa, divagante, come una brutta variazione su di un tema assai banale. Quella lettera, su carta color paglierino, era scritta da un uomo furbo ma poco intelligente. Aveva un andamento allegro e ossequioso, come un minuetto di maniera, buono per il ballo, non certo per la storia della musica. Ma l'ossequio portava con sé una minaccia oscura. Tutta la lettera era costruita con sapienza; non era scritta di getto, ma dimostrava che l'autore era abituato alla pratica del ricatto. A un certo punto, ma solo alla fine, mi diceva le due cose più importanti: che possedeva un manoscritto, e per la prima volta lo ammetteva senza giri di parole e senza ammiccamenti. E che io ero seguito, e per di più con una certa solerzia. Sapeva che la ragazza con il cappello era uscita dalla mia casa quella mattina. Sapeva inoltre che mi ero spinto quel giorno stesso fino a quello che fu il villaggio di Passy. Dunque ero seguito. Perché? Per quale motivo un russo che vuole diventare ricco con i miei soldi decide di non vendermi ciò che cerco, ma invia sottili lettere? E perché, ancora, vuole farmi sapere che sono seguito? E da chi, poi? Da lui stesso o da altri? E se lui fosse soltanto un uomo mandato da qualcuno, un semplice emissario? No, non ho mai creduto alle storie troppo complicate. In realtà il russo vuole alzare il prezzo. Per farlo ha bisogno che la mia bramosia di leggere ciò che lui possiede aumenti, divenga sempre più forte. Non c'è che l'attesa, dunque: ma anche qualcosa in più. Il russo è furbo, sa bene che il sentirmi seguito mi procura angoscia e paura: sa dove abito, non è difficile conoscere le abitudini di un uomo solo, che fa vita ritirata. Seguire un uomo come me è fin troppo facile; anche perché sono molto distratto, e di troppe cose tendo a non accorgermi. La mia passeggiata fino a Passy, a rue d'Ankara, non era certo segreta. Dunque la ragione ha sempre la meglio. Ma solo per poco. Perché alla logica preferivo il mistero, alla banalità di una storia che poteva anche essere di ordinaria miseria anteponevo, proprio così, qualcosa di molto più intenso, qualcosa che potesse sconvolgere la vita di un vecchio pianista, certo di straordinario genio e talento, ma condannato a convivere con la propria musica in un rapporto che prima o poi diviene ossessivo, e persino terrorizzante. Avrò suonato Beethoven con il necessario colore? Di più: il mio Beethoven, quello che esce dalle mie dita, è un compositore più vicino al Settecento, oppure già in viaggio verso il Romanticismo, senza quella strana allegria e leggerezza che alcuni pianisti riescono a dargli? Sono domande per pochi, rimangono per pochi, e mi chiedo che senso possa avere porsi interrogativi simili, in un mondo di sordi che sentono musica da mattino a sera. E vai poi a spiegare loro il valore delle pause, e di come i silenzi possano riempire la musica! Non son discorsi da farsi, un vecchio pianista deve saperlo che un mondo è finito, e per sempre. Pochi giorni fa mi è arrivato per posta, qui, in questa mia casa di cemento che contrasta con una delle valli più belle del mondo, un pacchettino. Era un compact disc di un pianista americano. Non mi è possibile ascoltarlo, mi dicono però che questi giovani pianisti suonino tutti nello stesso modo: buona tecnica e nessuna coscienza degli uomini e delle epoche che stanno interpretando. Forse non è molto democratico dirlo, ma la mia musica è elitaria, non conosco, e neppure capisco, il termine «cultura di massa»: è un ossimoro ideologico, e niente più. Il cammino verso la comprensione è complesso, lungo, quasi iniziatico, nulla può essere dato, ogni cosa va assimilata con calma, con fatica, con attenzione. E, prima di ogni cosa, con rigore. Chi suona sa che la fantasia è figlia del rigore; meglio: è il rigore stesso portato a livello di perfezione, esagerato fino a raggiungere dettagli impensabili. Quanto è diversa l'interpretazione se solo si cambia dito sul pianoforte, o si muove addirittura una falange in un modo particolare? Quando stavo a Parigi ero ormai una leggenda vivente. Eppure molte cose le ho riscoperte in quest'eremo svizzero dove mi sono ritirato. Ad esempio ho imparato a legare le ottave, scivolando con il pollice da una nota all'altra. Riuscendo ad appoggiare la seconda falange sul tasto bianco mentre la prima scivola sul tasto nero. Sono tecniche che ho ritrovato dopo tanti anni, figlie di un modo di suonare che credo sia perduto, ormai. Ma bando ai tecnicismi, non è di questo, ora, che mi interessa parlare. La ferita di quella lettera mi brucia ancora: non riuscivo a tollerare che un uomo volgare potesse tenermi in scacco, bloccare la mia vena creativa, mettere in subbuglio un mondo che avevo voluto perfetto, come fosse uno Studio di Chopin eseguito come si deve; entrando dunque nella mia vita privata, spiandomi, minacciandomi, promettendomi, chiedendomi di sopportare attese che si annunciavano troppo lunghe per non essere studiate ad arte. E tutto questo con i metodi spiccioli degli impostori. Che poi un individuo simile possedesse un manoscritto così importante era uno di quei controsensi che la vita ci riserva di tanto in tanto, e che vanno comunque tollerati. Il russo doveva saper bene quanto poteva valere un testo di quel genere. Nessuno possiede il manoscritto completo di quella Ballata. Se poi era diverso da quello che conosciamo, da quello stampato, be', allora la cosa si faceva davvero seria. Ma quanto diverso? Il russo quel giorno mi parlò della battuta 211, dunque della parte finale: perché lì inizia la coda della Ballata. C'è qualcosa in quella coda che lascia perplessi; ho passato la giovinezza a interrogarmi su singoli frammenti di partiture; speravo che ingrandendoli in modo esagerato, quasi a cercare degli atomi musicali, o particelle infinitesimali, si potesse sentire il mistero, si potesse capire qualcosa di un mondo di cui facevo parte ma con una certa ritrosia, e che guardavo da lontano: protetto da mille filtri, da genitori ricchi e comprensivi, da istitutori rigidi ma dolci, da tate efficienti e curiose, e poi giardinieri, e tutto quanto si può immaginare per un fanciullo di famiglia agiata. Anche quando mi era concesso di viaggiare (e il più delle volte mi fu imposto), venivo separato dagli altri a tal punto che il mondo mi appariva come uno spettacolo teatrale, dove alla fine della giornata calava il sipario e non si poteva andare a parlare con gli attori in camerino. La coda della quarta Ballata era uno di quei frammenti su cui fantasticavo da giovinetto. Aveva tutte le caratteristiche per stimolare le fantasie di un giovane pianista molto dotato. E ricordo che spesso la suonavo in modi diversi, alcuni non consentiti dalla partitura, perché così mi sembrava di smontare le note e vedere dove era il segreto di quel finale drammatico. Dopo aver passato quasi dieci minuti a suonare la prima parte della partitura di Chopin, continuando a variare su due temi diversi che si rincorrono, e spesso si incrociano, arrivavo al momento dell'attesa, agli accordi che preludono a quella sorta di tempesta, a quella forza di colori dati sulla tela quasi casualmente, con la ferma intenzione di colpire l'occhio, saturandoli oltre misura, rendendoli spessi, fino a far diventare la tela qualcosa di simile a una scultura: il colore diventa denso, assume una dimensione fisica, si può toccare. In quella Ballata avviene la stessa cosa: le mani si agitano, con la foga di qualcuno che cerca di aprire dei cassetti il più veloce possibile, perché non c'è tempo, perché il pericolo incombe; ma quei cassetti cigolano, alcuni sono chiusi da anni, e fanno resistenza, non scorrono. Poi di scatto invece si aprono, e bisogna rovistare, guardare più a fondo, spostare indumenti, lanciarli per aria. E fermarsi un attimo, per capire se quello che si sta cercando magari è lì, davanti agli occhi, e non si riesce a vedere; perché è vero: le cose che si cercano più affannosamente spesso sono proprio di fronte a noi. E magari senti il ticchettìo del bastone sulla strada gelata del pirata Pew, che con gli avanzi della ciurma che fu del vecchio Flint torna per sgozzarti; o forse no, stai fuggendo da una casa in cui non puoi più vivere, e devi farlo presto, perché l'ansia ti chiude la gola, e mentre porti via le tue cose, d'un tratto ti accorgi che non sai più quali scegliere, che devi attribuire importanza a oggetti che non valgono più nulla, o poco o niente. E ti fermi, e acceleri, e ti fermi ancora, e ti distrai, come fosse una piccola variazione, magari a guardare un vecchio orologio di nessun valore, che non sai se merita la tua scelta (e poi magari non la merita). E chiudi tutto, per nulla fiero di te stesso, perché ancora una volta non hai scelto, e ancora una volta stai fuggendo. Cosa faccio, divago? Ebbene divago. Ma come dovrei raccontare il mistero di quelle pagine? Come fanno i musicofili: «Tema III, in fa minore, battute 211239. Impetuose». Cosa avrà pensato Chopin quando scriveva quella coda? E dov'era? A Nohant, certamente, un paesino della Francia del sud. Con George Sand che fumava il sigaro e gridava: «Frédéric, del fuoco!». In quella casa di campagna Frédéric passava le estati: un grande edificio senza pretese, adagiato fra il verde dei prati e i fiori, in mezzo ad alberi e arboscelli, somigliava a una di quelle case della campagna inglese, un po' trasandate. Ricordo quando andai a visitarla, giovane e romantico: tutto era rimasto più o meno com'era. Mi turbò: non era il tipo di luogo dove la mia immaginazione avrebbe potuto mettere Chopin a comporre quella musica. La casa era su due piani, più una mansarda. Il pianoforte, verticale, stava nel salone, dove si riunivano tutti: la famiglia Sand, ma anche gli amici. Come Chopin riuscisse a lavorare in quel vai e vieni, è davvero incomprensibile. Le estati passate a Nohant erano un modo per curare la sua tubercolosi. Ma dovette servire a ben poco: nel 1842 la salute di Chopin era decisamente compromessa, i concerti stavano diventando difficili per lui, non aveva la forza fisica per suonare la musica che scriveva. Quell'estate del 1842, l'estate in cui scrisse quella Ballata, passò qualche giorno a Nohant anche Eugène Delacroix, grande amico di Chopin. Ho sempre pensato che tra la quarta Ballata e i colori, i grandi quadri di Delacroix, ci fosse più di una corrispondenza, un dialogo. Quando scrisse quella Ballata? In una di quelle tante estati chiassose passate a Nohant, con George Sand e un gruppo di individui che Chopin mal sopportava, e che potevano avere il privilegio di ascoltare le composizioni più importanti, senza capirle, forse. «Il mio piccolo Chopin», lo chiamava George Sand. Donna insopportabile: il mio piccolo Chopin, a un uomo che aveva rivoluzionato buona parte della musica dell'Ottocento, scrivendo capolavori come i Preludi. Quanto ha sofferto la fama di Chopin per colpa di personaggi come George Sand: mediocre scrittrice, e incapace di distinguere una nota da un latrato. Pronta però a prodigarsi in consigli e opinioni non richiesti. Delacroix no, lui era diverso, lui capiva: «Abbiamo conversazioni interminabili con Chopin, a cui voglio molto bene e che è un uomo fuori del comune: è l'artista più autentico che abbia incontrato nella mia vita; appartiene a quel piccolo numero di artisti che si possono ammirare, stimare». Sì, ma poi quanto? Quanto restituisce Delacroix del genio di Chopin, con espressioni del tipo «artista autentico»? Povero Delacroix, lui intuiva, ma non sapeva spiegare di più. Non poteva immaginare quanto era importante per la storia della musica quella Ballata, che lui e gli amici che frequentavano Nohant devono aver ascoltato a pezzi, a frammenti, poi ripensati, interrotti, ricostruiti in modo diverso; e poi devono averlo sentito Chopin quando si decideva a suonarne dei brani un po' più lunghi, per capire se tutto si teneva assieme, e magari nell'esecuzione di qualche battuta si interrompeva per cambiare una nota, una soltanto forse, un abbellimento, un accordo della mano sinistra, magari una quinta che diventava settima. Chopin amava Delacroix, lo considerava un vero amico, ma non credo che l'uno abbia capito qualcosa dell'arte dell'altro. Fu soprattutto Chopin a non capire i quadri di Delacroix, pare che al vederli si rabbuiasse, che non avesse sensibilità per altre arti. E fosse capace anche di qualche gaffe: una volta disse (o almeno così viene riferito) a Delacroix che ai suoi quadri preferiva quelli di Ingres. Dimenticando che tra i due pittori c'era un odio profondo, e Delacroix riteneva Ingres un perfetto imbecille. E forse aveva ragione: Ingres non mi suscita alcuna emozione, Delacroix mi accende i pensieri. Mi piace perdermi in quei colori saturi e in quelle grandi tele, che dico, immense tele, come La morte di Sardanapalo, venti metri quadrati a metà tra la retorica e il fumetto, con quei visi contratti, quegli occhi fissi, quei muscoli tesi dell'uomo che accoltella una delle donne: e lei, morbida nel corpo e lasciva nel ricevere il pugnale intarsiato e prezioso almeno quanto i suoi anelli e il suo bracciale. I colori di Delacroix sono porpora e marrone scuro, i corpi muscolosi e plastici, gli indumenti morbidi e soffici. Ma oltre le grandi tele, al Louvre c'è anche il quadro dimezzato di Delacroix, il famoso, piccolo e continuamente riprodotto ritratto di Chopin. Forse la sua immagine più nota. Se penso a Chopin, lo penso come lo ha voluto Delacroix: ben pettinato, pensieroso, dal naso adunco e lo sguardo intenso. E' un perfetto ritratto romantico, di tre quarti, vitale, e allo stesso tempo irrisolto. Ogni muscolo del suo viso sembra che vibri, tutto è in movimento. Nulla è dato per certo. Non è veramente un ritratto, semmai è un'espressione. Quel piccolo quadro ha una storia curiosa, era parte di un'unica tela che raffigurava anche George Sand. Forse il tutto doveva entrare a far parte di una composizione più ampia. Ma quell'unico quadro, con George Sand e Chopin, non uscì mai dall'atelier di Delacroix. Solo dopo la sua morte passò alla collezione Dutilleux, e i due ritratti vennero divisi. La Sand venne ceduta nel 1887 al prezzo di 500 franchi; poi nel 1919, per 35 mila corone danesi, finì in un museo di Copenaghen. La parte di tela che ritrae Chopin, un po' più piccola, ha avuto meno passaggi. Fu venduta nel 1874 per 820 franchi e poi nel 1907 arrivò al Louvre attraverso il lascito Marmontel. Se conosco e racconto tutta questa storia, è perché mio nonno, grande collezionista, cercò di aggiudicarsi questo quadro all'asta del 1874, e perdette per pochi franchi. Mio padre raccontava che per il nonno questo fu uno dei dispiaceri più grandi, e che cercò di comprare ancora quel quadro ma senza successo: si rassegnò soltanto quando venne esposto al Louvre nel 1907. Mio nonno era pianista dilettante, si vantava di aver suonato in presenza di Franz Liszt, e fu amico di Claude Debussy, ma la sua passione era Frédéric Chopin. Nato nel 1830, fece in tempo ad ascoltare un concerto di Chopin al salone Pleyel, il 16 febbraio 1848, l'ultimo che diede a Parigi. Non conobbi mio nonno, morto vecchissimo nel 1916, quattro anni prima che io nascessi: mio padre si sentiva ripetere, specie negli ultimi anni, il racconto di quel concerto, dei dieci biglietti comprati dal re, del duca di Montpensier, del fatto che Chopin quella sera non suonò solo musica sua, ma anche un Trio di Mozart per pianoforte, violino e violoncello. Quando gli fu mostrato per la prima volta il ritratto di Chopin fatto da Delacroix, mio nonno si convinse che con quello sguardo Frédéric lo aveva fissato per un attimo prima di sedersi al piano. Quello fu lo Chopin che gli si era impresso nella memoria, e quel ritratto voleva avere. Non gli riuscì perché, diceva, l'influsso della Sand era negativo. L'altra metà di quadro che la raffigurava rendeva giustizia a quell'unione: lei è cinica, leziosa e prevedibile. Dove Chopin è elegante e spirituale, la Sand è fredda; le mani, lo sguardo, la bocca mostrano un carattere autoritario ed esibizionista. Dal raffronto dei due quadri si capisce quella tormentata relazione, e quanto Delacroix conoscesse i suoi due amici: i difetti di George Sand, e la grandezza e il genio di Chopin. Eppure Chopin non capiva Delacroix, anche se amavano passare a discutere interi pomeriggi nella casa di campagna di Nohant. Proprio lì, in quell'ambiente, nasce quella straordinaria Ballata. Un giorno, a Milano, Arturo Toscanini mi disse che l'unico paragone possibile era con la Gioconda di Leonardo, con il sorriso della Gioconda, per esser più precisi. La quarta Ballata è un brano ineffabile, un velo di Maya squarciato a tratti per far intravedere l'anima, qua e là, una continua deriva, suonarla è un po' come andare a vela, vuol dire dosare ogni movimento, mai essere bruschi. Anche nei passaggi più intensi, più rapidi, di virtuosismo trascendentale, ci vuole attenzione. Amo quella Ballata perché è un po' come me, un insieme di controllo e passione, ragione e follia, e alla fine mistero. Ma sotto, sotto quel mare di note che si sovrappongono e viaggiano per correnti oscure di maree tonali, finisci per scoprire anche la linearità barocca, il contrappunto, senti il compositore che portava sempre con sé le partiture di Bach, e ovunque, anche a Maiorca, al convento di Valldemosa, dove alcuni anni prima Chopin aveva ultimato i Preludi dell'opera 28. Per lui fu una delle esperienze più angosciose. Trascinato da George Sand in un'isola inospitale, dove gli indigeni non gli volevano affittar casa, e questo perché Chopin era malato: tossiva, sputava, aveva la febbre alta, nonostante i 18 gradi di temperatura, i fichi e gli aranci. Trovarono un convento abbandonato, un enorme edificio del XV secolo, tutto di pietre, con finestre gotiche. Oltre molte celle per novizi, c'era una parte del convento più recente, un chiostro dove si sistemarono la Sand, con i figli, e Chopin. Ma il luogo era impervio, il convento stava a cavallo di due rocce scoscese, c'erano pochi mobili e il cibo costava tre volte il suo prezzo, perché gli indigeni si erano accorti che Chopin e la Sand non andavano a messa. E li minacciavano: se lui fosse morto a Maiorca, non lo avrebbero seppellito in terra consacrata. Ma poi arrivò il pianoforte, un piccolo Pleyel, dal suono argentino, e Maiorca divenne un incanto. Il 28 dicembre Chopin scrive al suo amico Fontana che finalmente il pianoforte è arrivato, lo aveva noleggiato a Marsiglia ed era guardato dagli abitanti dell'isola come fosse una sorta di mostro che avrebbe fatto saltare in aria tutti. Ma subito dopo, e per 28 giorni, dal monastero si cominciarono ad ascoltare le composizioni che Chopin doveva ultimare. I Preludi innanzitutto, e la Ballata n. 2 in fa maggiore, un altro di quei brani che non sono mai riuscito a suonare come si dovrebbe. Dove l'impeto, il dramma, va restituito con una tecnica pianistica che non credo di possedere. Dove la forza e l'ansia, la fretta e le note ritenute diventano un tutt'uno: per cui è impetuosa e lucida al tempo stesso, possente e infuocata, ma a tratti anche esitante, come un bagliore di indecisione negli occhi di un coraggioso soldato che sta per correre disperato all'assalto: cose da pianismo di Arthur Rubinstein. Come fu suonata quella Ballata da uno Chopin che sputava, tossiva, e che scriveva agli amici di esser pallido e stanco? A giudicare da quello che accadde a Maiorca, Frédéric Chopin impressionava, e molto. Persino i contadini dei dintorni con vari pretesti si arrampicavano per i muri, spiavano attraverso le fenditure, per ascoltarlo suonare. E mi viene una sorta di malinconia verso quei pianisti di un tempo capaci di suscitare impressioni fortissime, mentre oggi tutti noi, malati della fobia dell'imperfezione, non oseremmo mai sedere a uno strumento e improvvisare. E a queste cose non posso pensare, perché mi fanno soffrire: per la mia inadeguatezza, e l'inadeguatezza di quelli come me. La nostra lingua, le nostre mani, la nostra musica non arrivano più da nessuna parte. E' dove è sempre stata: tra le élite; e in fondo non è cambiato nulla. Forse i villici di Maiorca, i contadini che si arrampicavano per i muretti, avranno sognato quella musica. Oggi la nostra musica non la si sogna più. Per Frédéric il viaggio a Maiorca fu l'inizio della fine. Da quel momento, complici un tempo infernale fatto di pioggia e vento continui e passeggiate per nulla adatte a un malato di tisi, la malattia non gli avrebbe lasciato scampo. George Sand diceva di Chopin che era un «malato detestabile»: era nervoso, impressionabile, demoralizzato. E soprattutto vedeva fantasmi, spiriti ovunque. Soffriva di allucinazioni, parlava di processioni di monaci trapassati, di cortei funebri, si metteva al pianoforte e improvvisava. Talvolta aveva anche momenti di esaltazione, e si ritrovava con la fronte cosparsa di sudore, i capelli irti, lo sguardo spaventato. Sarà stato vero? O si tratta di una rivisitazione romantica? Tutta la vita è lastricata di continui dubbi sulla verità delle cose; sempre si è di fronte alla paura - di più, all'angoscia - di non cogliere, di non capire, e finire per pensare come tutti. Chopin? Il candore romantico, il poeta del pianoforte. Liszt? Il grande virtuoso, il diavolo. George Sand? Premurosa e oppressiva; parole piene di «r». Nerval? Pazzo e grande al tempo stesso. La prigione romantica ha sbarre forti e spesse, celle piccole, e poca luce. Molti ne sono usciti, negando il Romanticismo stesso, ripudiandolo fino all'essenza, suonando Chopin come fosse Bach, o Richard Strauss, o Luciano Berio. Hanno sostenuto che il Romanticismo è un accidente dell'interpretazione, una bella storia scritta in una tonalità sbagliata. Ho ascoltato, da certi giovani e promettenti pianisti, gli Studi e mi sono reso conto che non sembravano nulla di più che degli studi. Ho sentito dei Preludi freddi, scintillanti di precisione, ma senza colori; e senza le probabili e assai vere disperazioni di Chopin, che moriva tossendo ogni giorno di più. Non si possono suonare i Preludi senza i fantasmi dei monaci che camminano nella notte. Perché anche quelli ci sono. E se i Preludi vanno suonati in quel modo, che allora la tecnica, la grande tecnica pianistica sia al servizio delle ossessioni, e non viceversa. E' quello che ho sempre rimproverato a Glenn Gould: la sua ossessione era al servizio della tecnica, e non il contrario, come invece dovrebbe essere. Per questo suonava Bach ma non suonò mai Chopin: a Toronto non ci sono monaci e dèmoni, soltanto meravigliosi paesaggi che si addicono di più alle Fughe di Bach. Ma il mio pensiero, più che a Toronto, andava a un'altra città, per me ben più interessante, perché dalle ossessioni di Glenn Gould tornavo alle mie ossessioni: a Mosca. I paesaggi russi portano a tutto. Anche se i russi non hanno mai capito Chopin fino in fondo; in questo sono stati molto più bravi i francesi e forse anche gli italiani. Le Ballate si ispiravano ai versi di Mickiewicz, poeta romantico e nazionalista. I russi erano invasori, e gli invasori non potevano capire lo spirito polacco delle Ballate, anzi potevano perfino esserne infastiditi. La Polonia sotto l'oppressiva dominazione russa fu motivo di sofferenza per l'acceso nazionalista Chopin (che però aveva un cognome francese, e si allontanava da Parigi malvolentieri). Era quindi bizzarro che proprio un russo potesse conservare il prezioso manoscritto della quarta Ballata. Ma perché andò perduto? E quando fu ritrovato? Se oggi ripenso a come riuscii a ricostruire quella storia, ho un moto di nostalgia profonda. Ero preso come da una febbre gioiosa: scoprire, trovare nessi, collegamenti, mettere i tasselli mancanti di un puzzle di cui conoscevo soltanto i contorni fu per me una sfida inedita ed eccitante. Tornai giovane, e tutte le mie stanchezze, le mie nevrosi, svanirono. Io che evitavo di compiere qualunque sforzo fisico, che dovevo riposare moltissimo, non camminare troppo, perché le mie mani, terminali di un corpo che viveva per loro, che si muoveva per dare a loro sicurezza, forza ed elasticità, quelle mani esigevano riposo e freschezza. Per la prima volta nella mia vita non mi preoccupai neppure di questo. E coltivai la mia voglia di mistero, con un entusiasmo che oggi quasi mi imbarazza. Prima di ogni cosa dovevo parlare ancora con quell'uomo. Incontrarlo, e chiedere il manoscritto, vederlo. Ma prima dovevo essere sicuro che fosse autentico. E per farlo avevo bisogno di incontrare un vecchio amico, a Londra, che di Chopin sapeva tutto, ma ancora di più dell'inchiostro che usava, della consistenza dei suoi pennini, della carta che acquistava, e di tante altre cose. Non era propriamente un musicista, ma un collezionista famoso, consulente per i manoscritti musicali delle più prestigiose case d'asta del mondo. Ma nonostante lui sia scomparso ormai da due anni, preferisco ancora tenere riservata la sua vera identità. Capitolo quinto. «No, no, questo era della Bates & Sons. Quasi dell'epoca, attorno al 1850. Guardi, maestro, una meraviglia, il pianoforte meccanico con il più prodigioso congegno a orologeria che ci fosse. Si poteva anche suonare senza rulli, ma il miracolo stava nel meccanismo, perfetto. Li facevano non distante da qui, a Ludgate Hill, al numero 6. Devo dire che l'ho comprato con poco, troppo grande, pesante e voluminoso.» Guardavo quel pianoforte immenso, verticale, tutto di legno di noce. Brutto, per certi versi. Mentre il cameriere di James (lo chiamerò così, ma non è il suo vero nome) versava del whisky. In quel salone c'era la più grande collezione di macchine musicali che avessi mai visto: alcune prodigiose, altre quasi inquietanti. Conoscevo James per motivi innanzitutto familiari. Era un americano, di Boston, trasferitosi con il padre, ambasciatore, alla fine degli anni Venti a Londra. Non se ne andò più, e divenne cittadino inglese. Un mio zio materno era addetto culturale a Londra nello stesso periodo, e conosceva assai bene suo padre. Era più vecchio di me di soli quattro anni, ma ne ha sempre dimostrati di meno: la corporatura forte e muscolosa, l'abitudine di andare in bicicletta per chilometri, lo rendevano atletico anche a sessant'anni. La sua casa, una grande villa dalle parti di "...", sembrava un museo bizzarro e insieme prezioso. Non c'era solo la collezione di macchine musicali: pianoforti meccanici, organetti di Barberìa, pianole a gettone; e poi veri e propri armadi musicali che si chiamavano Symphonion, e poi pendole con boîte-à-musique, e suonadischi di ogni genere, anche per bambini; e ancora orologi da tavola con carillon, e macchine meravigliose, come quella appena vista o un Hupfeld-Sinfonie-Jazzorchester, un particolare tipo di Orchestrion destinato al jazz, dove dentro un mobile c'erano: triangolo, sassofono, piatti, batteria, banjo, e non so quale altra diavoleria. Per non dire poi dell'Orchestrion «Ohio», dove dentro un armadio alto più di tre metri e pesante una tonnellata c'erano banjo, mandolino, violino, violoncello, sassofono, batteria, e veniva reclamizzato come la migliore orchestra jazz meccanica mai costruita. Quanto aveva speso James per comprare in America, in Germania, in Italia e in tutto il mondo macchine che poi andavano finemente restaurate? Moltissimo. Ma quanto guadagnò come esperto di manoscritti musicali? Naturalmente molto, molto di più. Lui non leggeva la musica, guardava oltre, per i suoi occhi un foglio di partitura era un quadro, un dipinto che andava analizzato con la competenza di chi sa di grafologia, ma anche di musica, storia e persino sentimenti. Come iniziò tutto questo non saprei; so che fu un giovane e assai promettente pianista, e che incise anche qualcosa; deve esserne rimasta documentazione negli studi di Abbey Road. Ma d'un tratto smise di suonare, come se il pianoforte non gli interessasse più. Mio zio sosteneva che a poco più di vent'anni doveva averlo colto un forte esaurimento nervoso, che lo allontanò dalla musica. Ma non tutti erano di questa opinione: si dice che fu un tèndine della mano sinistra lacerato dopo una caduta in montagna a precludergli la carriera di concertista, e per sempre. Uno di quegli incidenti che per chiunque non significano nulla, e non lasciano strascichi, tranne che per un pianista. Non gli chiesi mai, naturalmente, quale fosse la verità: James non è tipo da grandi confidenze (e oggi, che è morto ormai da un paio d'anni, mi rimprovero di non avergli dato mai del tu, forse in quel modo avrei avuto accesso a un suo mondo ancora più segreto, che valeva certo la pena di conoscere). Però ho sempre creduto che fosse bizzarro, curioso, che una grande promessa del pianoforte finisse poi per innamorarsi di tutti i riproduttori di suono, degli strumenti meccanici, e a deliziarsi nel mostrarmi i rulli di carta con cui funzionava il Bechstein Welte Mignon Reproduktions Fliigel. Un vero pianoforte a coda della Bechstein, che però, attraverso un sofisticato sistema pneumatico e dei rulli di carta, registrava alla perfezione anche la più leggera sfumatura dell'esecuzione pianistica. Era, agli inizi del secolo, lo strumento più raffinato che si fosse mai ascoltato. Al punto che anche Richard Strauss, Grieg, Saint-Saens, Skrjabin, Mahler, Busoni, lo provarono. Lo suonò anche Claude Debussy, che lasciò su rullo di carta due Preludi. James possedeva, oltre al pianoforte, anche questo prezioso supporto tecnico: era in grado di far suonare il fantasma di Debussy. E io sperai che non gli venisse la tentazione di farmi ascoltare il compositore che suona sé stesso: mi impauriva, subivo l'autorità di chi ha scritto, di chi può stabilire, per tutti, la giusta lectio. Mai come in quel momento temevo e sentivo i limiti di un mestiere, il mio, che alla fine non crea, ma se vogliamo commenta all'infinito pagine date, immodificabili e scritte da altri. Il Bechstein era un altro degli orgogli di James, che è tipo dai grandi entusiasmi; e quel giorno, solo il fatto che avessi preso un aereo per raggiungerlo a Londra lo riempiva di gioia, e si sentiva onorato. E mentre magnificava ancora una volta il suo ultimo acquisto, il pianoforte meccanico della Bates & Sons («entrai in quel magazzino a Ludgate Hill quasi per caso, guardi, c'era di tutto, di tutto: robaccia arrugginita, da farsi male. Ma sapevo che quel mobile impolverato non era un semplice e vecchio pianoforte...»), mi osservava, quasi a prepararsi a una mia domanda, che di solito con lui era precisa, dettagliata. Sapevo che potevo fidarmi, e ne avevo davvero bisogno. Mi sentivo alla deriva, a tal punto che sfidai la mia proverbiale pigrizia e partii da Parigi in meno di quanto non si dica, e di quanto io stesso potessi immaginare. Trovai Londra diversa da quella dove per qualche mese ero vissuto: depressa, sporca e consapevole del proprio declino (mi dicono che oggi è meglio, che sta tornando a essere una città piacevole), ma quel giorno, se non fosse stato per James avrei detto al tassista di tornarsene indietro. Tutto mi dava angoscia, persino quel tempo grigio, caldo e umidissimo non mi rassicurava, e prevedevo qualche mal di gola dei miei, capaci in altri tempi di farmi saltare all'ultimo momento un concerto. Arrivato da James ritrovai una certa serenità, specie nel vedere quella strana biblioteca che teneva dietro una piccola scrivania Impero. Erano un centinaio di volumi, tutti uguali, rilegati in marocchino. Di formato grande, in quarto. Lì c'erano tutte le fotografie e i fac-simili (ma anche originali) dei manoscritti dei compositori da Bach a Stravinskij. Con quei volumi, che in realtà erano preziose cartelle porta fotografie e documenti ma sembravan libri, il mio amico James lavorava. Oltre a questi, poteva vantare una bibliografia degna della British Library, che occupava un'altra ampia parete, l'unica non consacrata all'esposizione degli strumenti musicali meccanici: le macchine parlanti, come lui amava chiamarle, con perfetto e ostinato accento londinese, vezzo di un americano che si sentiva inglese, e guai a ricordargli che era nato a Boston, e aveva studiato a Harvard negli stessi anni del futuro presidente John Fitzgerald Kennedy. «Maestro, ricorda quella vecchia storia della prima Ballata? L'opera 23? Aspetti, aspetti, le faccio vedere il catalogo...» James di fronte a un whisky e a un manoscritto diventava serio e amabile al tempo stesso, cauto ma anche curioso. Si alzò, e trovò con sicurezza, come se lo consultasse di continuo, un piccolo fascicolo, che stava su uno scaffale alto. Sicuro e stabile sulla scaletta che gli consentiva di prendere i libri disposti più in alto, sfogliò rapidamente l'opuscolo. Poi, senza smettere di leggere, venne verso il salottino in cui eravamo seduti. Tolse gli occhiali da miope, avvicinò il foglio e mi fece leggere: Lettres Autographes et Manuscrits de Musiciens - Marc Loliée,Paris: Chopin - Pièceautographemusicale.2 portées sur une page d'album in 12 oblong. Sous passe-partout. 75.000 fr. C'est le début de la magnifique Ballade en sol mineur. (De la collection G. Sand.) Rarissime. «Era il 1957? Sì certo, il 1957», James cercava tra i ricordi. Il prezzo era altissimo. Due pagine, solo due pagine, ma autografe della Ballata in sol minore: «Si conosceva un manoscritto autografo di quella Ballata. E' a Los Angeles: quello che servì per l'edizione a stampa di Schlesinger. Ora spuntavano due pagine, ancora autografe. Dalla collezione Sand. Davvero curioso. Un compratore inglese, un vecchio amico che colleziona manoscritti di ogni tipo, avrebbe speso volentieri quei 75 mila franchi per quelle due pagine. Chiesi di vederle: non ero convinto. Da dove potevano uscire? Vidi la partitura. E solo a guardarla capii che era falsa. E sa perché?». Lo guardai con ammirazione. Sapevo che non mi avrebbe dato una spiegazione tecnica, che pure aveva. James voleva dirmi che per riconoscere ci vuole una capacità di interpretare veramente ciò che è scritto. «Guardi, maestro, guardi questa fotografia.» La pausa gli era servita per andare dietro la scrivania e prendere una di quelle cartelle porta documenti che erano rilegate come fossero libri: «Vede, maestro, ecco l'incipit: Largo», Poi cominciò a cantarlo: do mi la si do mi la si do mi... «Ma non faccia caso alla scrittura, potrebbe anche esser quella di Chopin. Guardi però come son disposte le note. Perfettamente, larghe, come provenissero da una partitura stampata. Con gli stessi equilibri di spazi tra le note. Vede, maestro? Non legga questa partitura come fosse musica, la guardi come se si trovasse di fronte a un quadro, a un'opera grafica. Questa non è la cifra di Chopin. Aspetti, aspetti.» Prese un altro volume, tirò fuori altre fotografie: «Guardi qui, è l'autografo della Mazurca op. 59 n. 3. Questo è autentico. Faccia caso a quanto è impreciso tutto, ai ripensamenti, all'inchiostro che macchiava troppo il foglio, perché il pennino usato sul leggìo del pianoforte sta quasi in posizione orizzontale, scrive male, e si deve premere con più forza; e il foglio si macchia, con irregolarità: non come queste due pagine, che nell'imprecisione sono uniformi. Figlie di qualcuno che ha letto troppe partiture a stampa, e di musica ne ha scritta poca». Così mi piaceva James. Preciso e creativo: «Poi, comunque, spiegai anche perché storicamente si poteva considerare un falso. Se lei va a leggere il Rekopisy Utworow Chopin Katalog, vedrà che la mia analisi ha fatto scuola: il manoscritto è indicato con il numero 278, e c'è scritto in polacco: "falsyfikat". Ma queste son storie vecchie. Mi dica, piuttosto: mi sembra di capire che qualcuno le ha offerto il manoscritto della quarta Ballata». Qualcuno. Era difficile esser troppo precisi. Eppure con James la precisione era necessaria, perché lui era come un medico: stetoscopio e silenzio. Si accese un sigaro di pessima qualità, qualche volta anche gli uomini più raffinati hanno cadute di gusto. Poi mi guardò con aria ambigua: «Be', la storia dei manoscritti di Berlino Est è nota. Forse esistono pagine sconosciute di Handel, di Bach, sono pronto anche a pensare che qualcosa di Mozart non sia pubblicato, e forse persino di Beethoven. Ma per Chopin non saprei: mi sembra un compositore di cui si conosce tutto, anche le opere disperse, alcune giovanili. Però c'è qualcosa che mi incuriosisce in questa sua storia, caro maestro. Può darsi che qualcuno voglia venderle un banale falso. E per questo non si preoccupi, appena potrà vedere il manoscritto la raggiungerò a Parigi. E non ci sbaglieremo, né io e né lei. Ma qui c'è qualcosa di più, che mi affascina: perché mai il falso dovrebbe esser diverso dall'edizione a stampa che conosciamo. Chi potrebbe mai inventarsi un falso Chopin, chi ne avrebbe la capacità? E poi, c'è un altro aspetto importante: perché offrire un falso così rischioso proprio a lei? Diamine, se volessi guadagnare dei soldi saprei come fare: andrei da qualche collezionista che non distingue un tetrarigo da un pentagramma e gli venderei la copia esatta e manoscritta della quarta Ballata. Ma non verrei da lei, che è un raffinatissimo interprete, che conosce ogni nota di Chopin, che ha amici esperti in ogni parte del mondo, e saprebbe riconoscere un falso Chopin con sicurezza. E le dirò ancora una cosa, maestro: ci pensi bene, proprio la quarta Ballata, forse l'opera per pianoforte più importante mai scritta in tutto l'Ottocento, la più complessa, proprio quella era il caso di falsificare? Non potevano offrirle una bella Mazurca? Breve, semplice, qualche nota struggente, e via. Magari come ultima composizione scritta, oltre quella dell'opera 68. No, maestro, qui dobbiamo vederci chiaro. E' possibile, poi, che un russo disperato conosca uno degli indirizzi più segreti d'Europa? Neppure io, caro maestro, sapevo che lei ormai vive a Parigi. A proposito, è proprio sicuro che i miei sigari non le piacciono? Guardi che sono molto meglio di quanto lei possa credere: li provi, li provi». Lo guardai divertito, era un suo modo abituale di scherzare. Sapeva benissimo che quei sigari non potevano piacere a nessuno, tanto meno a me: accanito fumatore di sigarette, e di nient'altro. Mi alzai dalla poltrona perplesso, e andai verso i suoi scaffali, a guardar meglio quei dorsi, ordinati per compositori: c'erano tutti, anche molti che non ho mai suonato, come Richard Strauss, o come Kalkbrenner. Lui taceva e continuava a riempire l'ambiente di fumo puzzolente, poi mi guardò vago, come parlasse tra sé: «Guardi che la storia della quarta Ballata è davvero strana: perché non esiste il manoscritto? Non si sa molto bene. Ma non è importante. Sono molti i manoscritti di Chopin, e di tanti altri, che sono andati perduti. Di solito però ci sono un paio di regole: è più facile che si perdano quelli giovanili; mentre la Ballata viene scritta nel 1842 a Nohant, Chopin è già una celebrità e pubblica le sue opere contemporaneamente in Inghilterra da Wessel, in Germania da Breitkopf & Hartel, e a Parigi presso Schlesinger. Accanto a lui ci sono amici che gli fanno da copisti, compresa George Sand. Qualcuno ha mandato ai suoi tre editori il manoscritto. Ma non c'è più. E non è tutto. Di questa Ballata esistono due manoscritti, lei lo sa bene, maestro, uno conservato a New York e uno qui vicino: alla Bodleian Library. Entrambi incompleti, fortemente incompleti. Mentre però quello di New York, comprato a Lucerna da Rudolf Kallir nel 1933, è curiosamente in 6/4 e proviene da Dessauer, un amico di Chopin, quello della Bodleian apparteneva addirittura a Cécile, la moglie di Mendelssohn. Perché è incompleta? Dove sono le tante pagine che mancano? Per quale misterioso motivo un amico di Chopin conserva un manoscritto incompleto e pure sbagliato? Ed è credibile che un grandissimo compositore come Mendelssohn riceva uno stralcio di Ballata e non tutta? E se - ancora - l'avesse ricevuta per intero, come si può mai pensare che l'abbia persa? Un'opera così, poi...». Mentre lo ascoltavo mi fermai a leggere una curiosa partitura, manoscritta. Poggiata su di un leggìo e fermata da due graffe. Sotto c'era un rullo che ruotava sotto una fila di aghi, o di chiodini. James mi raggiunse: «Non gliel'ho mai mostrata? Curiosa, vero? E' la macchina tracciatrice per rulli della fabbrica di pianole di Giovanni Bacigalupo, un cognome italiano, genovese mi dicono, ma la sua fabbrica era berlinese, è assai rinomata. E' morto proprio quest'anno, lo sa?, molto vecchio. E questa macchina tracciatrice me l'ha regalata proprio lui, con questo spartito. Lo legga, lo legga, riconoscerà il brano: è l'aria di Mackie Messer. Nel 1928 Kurt Weill e Bertolt Brecht avevano scritto apposta quello spartito in occasione di una visita che avevano fatto alla fabbrica di Bacigalupo, in modo che la canzone potesse essere riprodotta su rullo. Anche quello è un manoscritto, maestro. Ma è completo». «Certo», obiettai, «ma la Ballata comprata da Kallir ha un senso, così incompleta. Chopin inizia a scriverla in 6/4, poi decide diversamente, si ferma e ricomincia a scriverla in 6/8. Quei fogli rimangono da qualche parte, forse abbandonati. Poi un amico li prende, e li tiene in qualche cassetto. Un manoscritto di Chopin è per lui ancora un testo affettivo: ci vuole tempo perché i manoscritti diventino qualcosa di veramente prezioso. Ma di quella copia non doveva esistere una sola pagina di più. Per il manoscritto conservato alla Bodleian Library la storia è diversa. Perché lì non si spiega che il testo si fermi alla battuta numero 136. E il resto non sappiamo dove sia.» «Se fossi un raffinato truffatore? Intelligente, molto intelligente, sa cosa avrei fatto?» James parlava con compiacimento, fiero della sua limpida ragione, un misto di senso pratico americano e di ironia inglese: «Be', mi sarei falsificato la parte che manca del manoscritto della Bodleian, e naturalmente senza varianti. Tecnicamente era però molto più difficile, si doveva trovare una carta identica, un inchiostro invecchiato allo stesso modo. Roba da professionisti. Anche se qualcuno riesce a fare questi lavori, e molto bene». Dunque non c'era un solo elemento che potesse farmi pensare a un gioco grossolano, a una truffa volgare. E James senza affermare nulla, con molta cautela, mi confermava che la faccenda era seria, e che andava approfondita. Ma la sorpresa vera me la riservò per la seconda parte della serata. Dopo che aveva esaurito tutte le congetture logiche, cominciò a mettere in comunicazione, come fosse un investigatore, tutte le notizie che aveva su quella Ballata: ovvero tutte quelle che aveva raccolto nel corso degli anni. D'altronde non era un mistero che persino un collezionista come Kallir, che acquistò il manoscritto nel 1933, chiese, un anno dopo, a James di esaminarlo, per essere definitivamente sicuro della sua autenticità. E James non espresse dubbi. Devo dire, ripensando oggi a quel lungo e amabile colloquio, che James fu molto cauto all'inizio, come se temesse qualcosa da me. Argomentando e ragionando prendeva tempo, forse voleva capire se avevo altri scopi, se possedevo già quel manoscritto. Poi come un lampo, quando ormai la notte si avvicinava, e per le abitudini londinesi l'ora era inconsueta, mi chiese: «Lei ha mai sentito parlare di Franz Werth? No, credo di no. E' vissuto molti anni a Santiago del Cile, dopo il 1945 naturalmente. Era un criminale nazista, un criminale medio, intendiamoci: di quelli che se potevano stavano defilati, e che neppure gli israeliani perdevano tempo a cercare. Ma nelle SS ci stava benissimo. Bene, il maggiore Franz Werth aveva studiato al conservatorio di Berlino, era un ottimo pianista: solo un po' matto, eccessivo, pensava che il demonio e la musica romantica avessero più di un rapporto. Un giovane brillante che diventa nazista nel nome della geometria di Bach. Le pare possibile? No, maestro, non le pare possibile. E invece è così. Tutto può essere capovolto, anche le Toccate di Bach. Il maggiore Werth doveva sapere abbastanza delle misteriose partiture di cui le ha parlato il suo amico russo. Sembra che fosse molto popolare tra i gerarchi del Terzo Reich; e che a Berlino fosse amato, e non solo dalle donne, che lo trovavano bello e fascinoso. Ma pochi sapevano che in realtà lui si vantava di non essere affatto nazista, e di avere un debole per il denaro, il potere e la cultura: quella cultura a cui aveva accesso solo attraverso certe frequentazioni privilegiate. Nel maggio del 1945 il maggiore Werth si imbarcò clandestinamente, assieme a un'amante polacca, su una nave: destinazione Cile. Norimberga rinunciò a lui. «A Santiago si faceva chiamare Bauer, e lì nessuno sapeva che era stato uno dei tanti lacchè del regime nazista. Ma cominciò a dar lezioni di pianoforte, e a tenere concerti senza troppe pretese. Piccole sale. Si vantava di essere stato un allievo di Claudio Arrau. E invece, forse, Arrau lo ascoltò a Berlino una volta sola, quando era ancora studente. Pare che fosse colpito dalle doti tecniche, ma non lo volle come allievo: "Troppo rigido, poco espressivo". Ora, maestro, si chiederà perché io sappia tutto di questo signor Werth, alias Bauer? Non ci crederà: me ne parlò per la prima volta Simon Wiesenthal. Girava una strana voce su questo signore: che, di tanto in tanto, nei concerti suonasse brani fuori programma, cose mai sentite da nessuno. Sosteneva l'esistenza di una Partita in sol diesis di Bach: Johann Sebastian, intendo. Ora lei sa che non risulta che il grande Bach abbia mai composto una Partita in sol diesis. Ma lui, il maestro Franz Bauer, la suonava. Santiago del Cile è assai lontana, ma certe informazioni girano, e negli anni Cinquanta c'erano più agenti israeliani a Santiago o a Buenos Aires che a Tel Aviv. Insomma, si venne a sapere. E allora cominciarono a tornare alla mente quelle strane storie, di partiture nascoste, suonate per pochi, sottratte agli studiosi. Vede, maestro, lei potrebbe ritrovare una sonata di Beethoven anche in un libro di partiture di Lehar, rilegata in mezzo, così magari per sbaglio, o perché la preferita di una nobildonna a cui veniva dedicata, messa tra i brani del suo album e lì rimasta, per molti anni. I manoscritti musicali non sono libri, due fogli di musica si possono perdere in una biblioteca di manoscritti, passano inosservati a tutti. Lei può immaginare cosa accadde. Tutti i collezionisti del mondo, antiquari, gente senza scrupoli, cominciò a convergere verso il Cile. Tutti in vacanza a Santiago, in qualunque stagione dell'anno. A cercar cosa? A cercare mister Bauer, pianista di ottimo livello tecnico, in grado di suonare con sicurezza anche brani molto difficili, ma per nulla in cerca di notorietà, perché comunque a Norimberga assieme a molti altri era stato condannato a morte in contumacia, e qualche rischio lo correva a mostrarsi troppo. Ma vede, a quei tempi si cercava ancora il dottor Mengele, altro che il maggiore Werth! un gagà che di notte partecipava a riti celtici, il giorno lo passava nei bordelli di lusso, e la sera si esprimeva al pianoforte a casa di vari gerarchi, e incantava le fanciulle per la sua avvenenza». Ho ancora qui davanti quelle poche pagine, ingiallite e un po' sgualcite: carta sottile, quasi velina. Macchina per scrivere imprecisa con le «o» piene di inchiostro e le «s» un po' più alte. E una scheda dedicata a Franz Hans Werth, mi arrivò pochi giorni dopo il mio colloquio con James; fu proprio lui a spedirmi quei dati che era riuscito a procurarsi: nato il 3 luglio 1915 a Frankfurt an der Oder. Il padre, mai tornato dalla prima guerra mondiale, era un modesto funzionario dello Stato; la madre, dopo la morte del marito, viveva di lezioni di pianoforte. Poi, il trasferimento a Berlino: si iscrive al conservatorio nel 1927. Si diploma nel 1933. In tempo per l'ascesa del nazismo. «Intelligenza vivace e visionaria», leggo sul foglio, «ha forti interessi rivolti all'esoterismo, allo spiritismo e alla magia. E da questi trae una filosofia perversa di vita che lo avvicina, da subito, all'ideologia nazista». Ma la sua carriera è compromessa: ricattabile, avido di denaro, millantatore, debole. Passa quasi tutte le notti in due bordelli di Berlino, è spesso ubriaco. Poi, nel 1937, la svolta. Werth cambia vita, ritorna a studiare con solerzia. Abbandona certe amicizie, va sempre meno frequentemente nelle case di tolleranza («in tutto l'anno 1938 è segnalato non più di quindici volte», recita il mio precisissimo foglio). Che accade? Nell'informativa si dice che ha finalmente accesso ai salotti buoni, quelli «più raffinati» e quelli «che contano». Si dice abbia suonato anche di fronte al FÜhrer, e un paio di volte almeno. Werth, di fatto, è il pianista di corte, e stringe amicizia con tutti gli uomini più importanti del regime nazista: Joseph Goebbels, innanzitutto, ma anche Baldur von Schirach, con cui passava molte delle sue serate, prima del trasferimento di Schirach come Gauleiter di Vienna, e Franz von Papen, che sembra avesse una certa simpatia per quel giovanotto. E qui sul foglio c'è una curiosa reticenza. Si parla troppo vagamente di serate medianiche, dove la concentrazione di Werth al pianoforte è totale e inquietante. In realtà, il mio foglio dice che «si trattava di modeste messe in scena, di un uomo privo di scrupoli». Parla di trance, di musica che proveniva dal profondo, e altre diavolerie da baraccone; sembra persino che Werth fingesse svenimenti alla tastiera, per lo sforzo mentale e fisico. Cosa accadeva veramente? Quella sera James fu molto, molto più preciso su questo punto. «Le esibizioni di Werth furono dapprima sottovalutate: se ne parlava a Berlino; lo chiamavano il medium del pianoforte. E non ci credeva quasi nessuno, naturalmente. Werth suonava pagine di grandi compositori, dettate dalle anime trapassate di Bach, di Beethoven, di Debussy, di Schubert. Lo faceva in un'atmosfera studiata nel dettaglio: candele accese dappertutto, incenso che bruciava. Esigeva dei pianoforti a coda neri (allora non erano così frequenti), e lui appariva vestito in divisa da SS, perché - sosteneva - gli dava più forza, ma era opportunismo. Nel 1938 un caro amico in missione diplomatica a Berlino ebbe la possibilità di ascoltare uno di questi concerti. Il mio amico londinese amava la musica, la conosceva e sapeva ascoltarla: ne fu turbato. Perché le sedute spiritiche al pianoforte stimolavano il suo humour e lo divertivano. Credette di assistere a una grottesca buffonata per pochi eletti. Però, man mano che Werth suonava si accorse che qualcosa non tornava. Mi disse: "Per essere pagine inesistenti, è un buon imitatore, in qualche caso davvero eccellente. Se anziché inventarsi giochetti patetici si dedicasse alla composizione, forse avrebbe qualche chance". «Cosa succedeva veramente in quelle serate? Oggi lo so: Werth aveva avuto accesso a dei manoscritti segreti. Qualcuno glieli mostrò, forse addirittura Baldur von Schirach, con molta più probabilità Hans Fritzsche, commentatore alla radio e uomo ombra di Joseph Goebbels, e Hugo Fischer, una sorta di consulente culturale, un uomo basso con lenti spesse che aveva l'incarico di fare ordine tra quelle carte portate via, forse, dalla Staatsbibliothek. Nulla di voluminoso, intendiamoci, pare fosse una semplice scatola di cartone assai pesante, ma non troppo grande. Con manoscritti strappati via da album rilegati, spesso proprio album che contenevano pagine insignificanti di compositori di cui non ci importa nulla. Sembra ci fossero almeno dieci pagine di Mozart, Liszt, alcune cose di Mendelssohn (bandite, e mai suonate, perché era ebreo), e poi: Johann Sebastian Bach, Handel, molto, mi creda, davvero molto. Ma poi era tutto vero? Maestro, ancora oggi non so quanti di quei manoscritti inediti fossero autentici, e quanto fosse messa in scena, ma le aggiungo un dettaglio: tra questi manoscritti c'erano anche molte pagine di Chopin. E forse quelle della quarta Ballata. Come arrivò tutto questo a Berlino, è difficile dire. Credo da Vienna. Ma qualcosa anche da Parigi, e dopo l'occupazione nazista trasferite a Berlino. Naturalmente i concerti di Werth, sempre meno frequenti, continuarono anche durante la guerra; e se il manoscritto della quarta Ballata era veramente arrivato a Berlino, certo doveva essere dopo il 1940. Ma tant'è, caro maestro, la verità non si può sapere: perché intanto quei manoscritti nessuno li ha mai visti. Qualcuno disse che Werth se li portò con sé a Santiago del Cile. E lì continuò a dare concerti.» James sapeva molto, ma non abbastanza. Oggi conosco la verità. Franz Werth e Krystyna Puszynska fuggono da Berlino all'alba del 7 aprile 1945. Hanno documenti falsi. Un passaporto svedese. Arrivano in Danimarca, a Copenaghen. Poi da lì a Oslo, dunque a Londra. A Londra si fermano per qualche giorno. Come si muova Werth per tre giorni nella capitale inglese, chi vede, chi incontra, non sappiamo (meglio, non sapevo). Poi arriva a Dublino, e da lì, con una nave mercantile, varca l'Atlantico il 23 aprile. Alla fine di maggio, viene già segnalato in un modesto appartamento di calle Diego de Almagro (al civico 5). Ma lì rimane poco, cambia appartamento una prima volta, ma non se ne conosce l'indirizzo. Poi si stabilisce non lontano dal quartiere di Bellavista: tre stanze senza riscaldamento in calle Blas Canas (sul civico il mio foglio è ambiguo, sembra un 3, ma può essere un 8). Dice di chiamarsi Bauer, e di essere un pianista tedesco. Krystyna fugge dopo sei mesi con un ricco latifondista argentino, e lui rimane solo. Qui c'è il nodo: Werth, naturalmente, viene visitato da ogni tipo di gente, spiritisti nazisti che come lui sono scappati in Cile, faccendieri di ogni tipo, anche gente di grande qualità, uomini che potevano ricavare molti soldi da quel tesoro che Werth voleva far credere di avere (perché, con la fuga in Cile, la trance pianistica cessò da subito; non c'erano più fanciulle e uomini potenti ammaliati dalle sue qualità medianiche, c'era innanzitutto bisogno di soldi). Ma sostiene che quei manoscritti non li ha più, che Krystyna, perfida e traditrice, li portò via con sé, e che dunque sono andati perduti. In realtà Krystyna Puszynska muore molto povera nel 1976 a Buenos Aires dopo varie disgrazie che qui non interessano, e ha sempre detto di non aver mai visto nessun manoscritto. Ad alcuni amici argentini confessò che Werth partì da Berlino con una grande borsa di cuoio, che portava sempre con sé come fosse preziosissima; e che però era vuota. Cosa succede, dunque? Il tesoro della musica dov'era rimasto? Mentre guardo questo manoscritto, in cui cerco ancora un senso superiore, il centro, il punto profondo che tutto spiega e tutto giustifica, mentre mi compiaccio di queste note, di queste semicrome, e di questa carta preziosa e perfetta, penso che il mio amico James quella sera doveva avere il cuore in gola. Perché lui aveva passato gli ultimi vent'anni della sua vita a cercare la borsa di Werth, che a suo avviso era a Londra, o in Inghilterra; a non trovarla, e dunque forse a consolarsi con gli strumenti parlanti. Secondo James, ma allora si guardò bene dal dirmelo, Werth stette a Londra i giorni necessari per vendere in blocco il suo tesoro. A quante sterline? A poco, troppo poco, ma in Cile se vuoi vivere bene e sei un criminale nazista, devi avere molti soldi. Però James si sbaglia. Werth, ormai lo so bene, non vendette proprio nulla a Londra, o meglio non vendette certo dei manoscritti musicali, che non possedeva. Semmai sedicenti documenti compromettenti sui rapporti tra alcuni uomini del Terzo Reich e diplomatici inglesi. Documenti falsi, forse, che gli fruttarono poche sterline da alcuni gruppi filonazisti inglesi che si ispiravano, oltre che a Hitler, anche a Lawrence d'Arabia, e sostenevano che Lawrence non fosse morto per un banale incidente di motocicletta, bensì assassinato dai servizi inglesi perché voleva mettersi in contatto con i nazisti e stringere una segreta alleanza. In realtà, Werth poteva suonare molte di quelle pagine, ma solo perché era stato costretto a impararle a memoria. Non gli fu mai permesso di conservarle, né tanto meno di copiarle. E' vero che poteva scriversele ugualmente, ma come avrebbe dimostrato poi la loro autenticità? Così teneva a memoria, dagli anni berlinesi, molti autori, e a memoria naturalmente suonò anche quando fuggì in Cile. Si seppe poi che il suo carattere poco costante, e i suoi eccessi, gli impedirono sempre più di ricordare, e negli ultimi anni della sua vita a quei pochi che ormai lo andavano ancora a trovare - con la speranza di avere qualcosa che mai c'era stato - eseguiva dei frammenti mescolati a musica sua, con effetti immaginabili. Finché il morbo di Parkinson cominciò ad aggredirgli le mani, e allora oltre la memoria si perse anche quel poco di tecnica pianistica che gli rimaneva tra le dita. Franz Werth morì solo, povero e alcolizzato qualche anno fa, nessuno si ricordava più di lui. Neppure quelli che dovevano cercarlo perché fosse fatta giustizia. Quella sera James mi fece pensare che il manoscritto della quarta Ballata poteva essere ovunque: a Londra, a Ginevra, forse in Russia, ma soprattutto che quell'offerta era sensata, e andava presa in seria considerazione. I manoscritti c'erano, ma furono portati via da Berlino e arrivarono a Mosca, dove diventarono un vero oggetto del desiderio che sfiorava il morboso. E venivan confidati, nota per nota, come fossero dei romanzi proibiti, da uno studente a un altro, e tra i concertisti, fino a creare delle stralunate leggende. Dunque il russo non mentiva: trafugato il manoscritto a Parigi, fu portato dai nazisti a Berlino, e da Berlino l'Armata Rossa lo trasferì a Mosca; il russo chiudeva il cerchio riportando ancora a Parigi quei fogli preziosi. James, quella sera, pensava che io fossi arrivato al momento giusto, per risolvergli un mistero, e invece glielo complicavo. Quella sera si fumò più del solito: io le mie solite sigarette, lui quei sigari insopportabili. Ci fu un momento in cui mi resi conto, capii, che non c'era altro da dire, che io ero soddisfatto, e lui anche. Gli occhi di James non lanciavano più interrogativi, non completavano in modo perfetto le sue parole, aggiungendo significato, come fossero un plusvalore al ragionamento, all'intelligenza. Doveva essere stanco, e in quell'ora tarda, tardissima, lo colse una sorta di malinconia inconfessabile. Eravamo passati dal grande salone dove teneva tutti gli strumenti parlanti, prodigi tecnici meravigliosi e senz'anima, a un altro studiolo, pieno di libri, e con un pianoforte, uno Steinway a mezza coda, americano, degli anni Venti, probabilmente. Mi guardò appena: «Di tanto in tanto suono qualcosa, ma è come se un giorno mi avessero strappato l'anima, lasciandomi solo la sua ombra. E così inseguo suoni già dati, impressi su rulli, o altro, e pagine mute che mi illudo possano rivelarmi misteri che persino ai pianisti risultano inestricabili, anche ai più bravi». Mi sedetti al pianoforte, senza dire una parola; cosa che non facevo quasi mai. Guardai la partitura sul leggìo. Era Chopin, un'edizione dei Notturni aperta alla pagina dell'opera 9 numero 1 in si bemolle: il primo dei Trois Nocturnes dedicati a Camille Pleyel. Mi sorpresi di un sorriso non voluto. I Notturni di Chopin sono a un tempo sublimi e intollerabili; dipende dai pianisti, non dai Notturni. Persino l'opera 9 numero 2 in mi bemolle, forse il brano in assoluto più famoso di Chopin, storpiato da generazioni di fanciulline alle prime armi, ha un suo fascino profondo. Questo Notturno, aperto sul pianoforte di James, mi imbarazzò, perché non riuscivo a capire a quale categoria James potesse appartenere. Se ai sublimi, che sanno quanto Chopin amava i suoi Notturni, e dunque sanno come possono diventare misteriose le note più semplici; o se invece James era un uomo che apparteneva all'altro lato del mondo, agli intollerabili. E magari scoprivo che il mio raffinato amico, in grado di capire tutto dei fogli della musica, ma anche della pittura olandese del Seicento, si dilettava la sera a suonare piccoli Notturni giovanili di Chopin. Quello che teneva aperto sul leggìo, poi, era un Notturno molto particolare: tecnicamente assai semplice, e dunque pericoloso, perché tutti i brani che si suonano con facilità possono esser eseguiti male, nascondeva passaggi di grande intensità, allitterazioni di note, scale lievemente imperfette, abbellimenti e ornamenti da rendere con esitazione, ma senza esser leziosi. Cominciai a suonarlo, di fatto a memoria, non avevo bisogno certo di leggere un Notturno così famoso. Ma lo feci pianissimo, come se temessi il silenzio fermo che quella notte portava con sé. Lui era partecipe, rispettoso, qualche passo indietro il mio seggiolino. Non accese neppure il sigaro che teneva spento da un po' di tempo tra le labbra. Il pianoforte era stato suonato molto, i tasti erano davvero morbidi; il suono marcava lievemente le note gravi e rendeva particolarmente squillanti quelle acute: si sentiva che quel pianoforte era uno Steinway costruito in America, sono leggermente diversi da quelli che fabbricano ad Amburgo; morbidi nella tastiera ma decisi nel timbro. Cercavo di suonare quel Notturno nel modo più cantabile possibile, senza troppe esitazioni, sottolineando gli ornamenti, perché il pianoforte, per nulla lezioso, me lo consentiva senza un effetto eccessivamente dolciastro. Era bellissimo, devo ammetterlo, e mentre passavo al secondo tema in re bemolle mi rendevo conto che a volte Chopin riesce a trovare soluzioni geniali con molto poco; a creare attese solo con la ripetizione di una nota più del necessario; a rendere la malinconia con quelle crome ostinate della mano sinistra, sestine che si muovono come un ricordo martellante e sommesso. Poi, quando suonai gli accordi delle battute finali, e lo feci più forte di quanto avrei dovuto, di come fosse scritto, mi accorsi che James si era avvicinato, quasi sfiorava le mie spalle. Si creò un curioso silenzio, che altre volte mi era accaduto di ascoltare: pianisti come me, o suonano da soli, oppure in sale da concerto. Quando finiscono un brano, spesso sentono applausi, oppure - quando studiano o incidono - l'accordo o la nota finale è l'inizio di un processo di ripensamento, è uno scorrere il brano appena suonato, come a sentirne un'eco impossibile, e in quest'eco trovare la cifra per giudicare se stessi. Ma quella era una situazione ancora diversa: l'applauso era decisamente inopportuno, tra due uomini abituati al mondo i complimenti non sono richiesti, specie per un notturno di quella semplicità. E allora si creò un fertile silenzio, teso, e compiaciuto: da parte mia e da parte sua. Solo che James, quel silenzio lo spezzò quasi subito: poggiò il dito sulla carta, facendo persino rumore. E sottolineò la quindicesima battuta, scorrendo il dito per tutta la riga. C'era un forte appassionato e poi crescendo... con forza. «Sa cosa vuol dire perdere l'anima dalle mani? Non riuscire a dare la giusta interpretazione di questo forte appassionato, di questo crescendo con forza. Non riuscire a entrare in queste quattro battute, in modo che... come lo chiamerebbe lei? lo spleen, forse? Sì, diciamo così... in modo che lo spleen ti possa attraversare la mente e il corpo in un tutt'uno, come un incendio improvviso. Suonavo i Notturni in modo eccellente, era come se tra queste note, apparentemente semplici, io riuscissi a trovare la complessità, vedessi meglio degli altri. In qualche studio di registrazione, proprio qui a Londra, ci devono essere ancora le incisioni dei miei Notturni: non le ho mai risentite. Ogni tanto provo a suonarli ancora, ma sono come una bellissima donna, molto bella, con una cicatrice sulla guancia. Una cicatrice quasi invisibile, niente di impressionante: ma tutti faranno caso quasi solo alla cicatrice. Ma no, maestro, non è l'ora giusta per parlar di queste cose, e poi forse mi esprimo come un dilettante, da domani pensiamo al nostro manoscritto.» Fece cenno di accompagnarmi quando notai uno strano marchingegno che non avevo mai visto: un oggetto di legno pieno di sofisticati meccanismi, poco profondo, largo come una tastiera di un pianoforte, con due pedali del tutto simili a quelli di un harmonium. Tra i meccanismi c'era tutta una parte fatta di bacchette di legno allineate come fossero dei tasti di un pianoforte. James vide che quell'arnese aveva stimolato la mia curiosità: «E' un pianista meccanico ad aria aspirata», disse, «vede quelle bacchette di legno? Sono in realtà delle dita meccaniche. Quell'aggeggio si accosta a una tastiera, poi si muovono i pedali, l'aria passa attraverso un cartoncino di Manila come fosse un'armonica a bocca, e attraverso un complicatissimo sistema pneumatico muove quelle 88 dita di legno, che percuotono i tasti del pianoforte, con tutte le sfumature possibili. Anche per questo strumento ho molti rulli, forse anche lo Studio op. 10 n. 12 in do minore di Chopin». «No, quello proprio no!», mi lasciai sfuggire, ma a bassa voce: mentre guardavo sconcertato quel mostro meccanico senz'anima. E pensavo a quelle parole del mio amico James: «E' come se un giorno mi avessero strappato l'anima, lasciandomi solo la sua ombra. E così inseguo suoni già dati, impressi su rulli...». Non si esprimeva come un dilettante, James, e lo sapeva. Capitolo sesto. Avrei voluto pensare alla musica come fosse un gesto magnanimo, un regalo del buon Dio nei sette giorni della Genesi: la musica frutto della creazione, assieme agli animali, alle piante, al sole, alla luna, alle stelle. Se c'è un buon motivo per pensare che Dio non esiste, è in questo universo muto, profondo, insopportabile. Da bambino guardavo le stelle e non pensavo solo che erano belle, che riempivano di luccichii tutta la volta del cielo; pensavo a quelle palle di fuoco, lontane miliardi di chilometri, mute, senza suono: perché il vuoto non diffonde musica, solo l'aria, gli oggetti, le cose che vibrano, hanno un loro suono. Studiavo i pianeti e immaginavo le loro rivoluzioni, lente, in quel mare di nulla e di buio, acceso soltanto da lontani bagliori, e pensavo che nessuna musica avrebbe potuto interrompere quel dramma del silenzio che doveva durare da milioni, miliardi di anni. E allora forse mi poteva consolare l'esistenza di un Artefice, o magari un Dio, un motore immobile capace di spezzare questo orrore. Sì, era meglio che un Dio esistesse, e fosse come una voce, meglio una nota, magari grave, che interrompeva per qualche secondo quell'eterno universo muto, quel silenzio siderale. Oggi comincio a credere a un Dio che sta da qualche parte, me lo hanno insegnato gli astrofisici, ultimi sacerdoti di questa fine millennio: mi hanno fatto sapere che esiste un suono dell'universo, un rumore di fondo, che si può udire e immaginare soltanto attraverso sofisticati radiotelescopi (e pensare che un tempo le stelle si vedevano, oggi pare che si ascoltino), ma non riesco ad abituarmi: per tanti anni le mie stelle e i miei pianeti si muovevano in un mondo senza suono, come la geometria piana si spiega senza una terza dimensione. Mi sentivo come un triangolo equilatero sbattuto d'imperio in un mondo di solidi: poliedri, coni, cilindri, piramidi. Però ci ho pensato, e assai spesso, a quel suono: meglio, a quel rumore di fondo. E mi sono chiesto da quale strumento uscisse: non da un pianoforte, neppure da un'arpa, e da nessuno strumento che produce suoni attraverso vibrazioni di corde. Allora forse un tamburo di pelli tese, un rullìo incessante? No, nemmeno quello; credo di essermi fermato a qualcosa di molto simile a un corno, o magari persino un sassofono basso. Una sola nota, grave e bassissima, lunga, e persino lenta, come una macchia d'olio che avvolge densamente l'universo, ma senza spezzarsi in rivoli o diramazioni, rimanendo costante, come una valanga vista al rallentatore. Quello è il mio suono dell'universo, la giustificazione che un Dio c'è, e non perché ha creato i pianeti, le stelle e l'uomo; ma perché, geniale e razionale, dopo essersi compiaciuto di quello che aveva fatto, e di tutte le sue meraviglie; dopo che la sua mente aveva concepito l'infinito, ed era riuscito anche a riempirlo, quell'infinito, aveva sentito il bisogno di dare un suono a tutto questo, uno solo, indistinguibile, ma esistente: semplice, primitivo, come un essere vivente unicellulare, un'ameba sonora, un miracolo e un sollievo per tutti. Qual è la nota di Dio? Un do, un re, o forse un mi bemolle, un fa diesis. E se non fosse una nota sola, e neppure un rumore, ma qualcosa di più complesso? Un accordo di quinta, di settima, o persino un passaggio vero e proprio che si ripete all'infinito, ruotando anche lui su sé stesso, come se la partitura di quel passaggio assomigliasse a certe scritture musicali contemporanee, che hanno talvolta il pentagramma circolare, che sembra un disco, e non ha un inizio e una fine, ma può essere suonato partendo da qualunque punto. E allora l'universo avrebbe una sua tonalità: eterna, fissa e costante, e scoprire la tonalità dell'universo vorrebbe dire accordarsi con il mondo, con la totalità delle cose. Mi deluderebbe un universo in do maggiore: troppo definito. E non mi piacerebbe neppure che fosse in una tonalità minore, notturna, melanconica; sarebbe un universo triste, quello in minore. Forse preferirei che l'universo suonasse come un accordo: e allora vorrei un accordo musicale di quinta eccedente. Un suono formato da queste note, assai semplici: do, mi, sol diesis. La nota più alta, il sol diesis, apre l'accordo, lo estende all'infinito, e fa pensare a un universo sempre più concavo. Provo a suonare questo accordo sul mio pianoforte, lo suono sull'ottava centrale della tastiera: do, mi, sol diesis; poi riprovo, con più leggerezza sulle dita: tengo il do e il mi premuti e con il quinto dito suono prima il sol diesis, poi passo al sol naturale. Sento ancora la differenza tra un do maggiore eccedente e un do maggiore naturale: è un intervallo di un semitono, un mezzo spostamento di frequenza, e già cambia tutto. Il mio universo si apre, si chiude: passo dal sistema tolemaico a quello copernicano, dal cielo dei greci e dei romani, al mio cielo, dal loro mondo compiuto e solare, al mio, impreciso, inquieto, fatto di mille citazioni, attraversato dalle opere di Spinoza e di Nietzsche; e mi compiaccio di tanta potenza in un solo semitono, in un piccolo intervallo, in una differenza di vibrazione. Il sol naturale sulla tastiera è un tasto bianco, il sol diesis è un tasto nero: è il giusto contrasto tra i due mondi, che sto scorrendo nella mia memoria in questo momento. Ci fu chi arrivò ad abbinare i suoni e le qualità dei suoni a ogni pianeta; lessi già adulto il De occulta philosophia di Cornelio Agrippa, ne trovai una prima edizione del 1533 da un antiquario viennese, subito dopo la guerra, e mi sorpresi a scoprire curiose annotazioni sulla musica: Saturno ha suoni tristi, rauchi e gravi, lenti e come raggruppati e concentrati; Marte ha suoni rudi, acuti, minacciosi, risoluti e come improntati d'ira; la Luna ha suoni misti tra gli indicati. Questi tre pianeti hanno in comune la caratteristica di possedere voci o suoni piuttosto che accordi. Gli accordi contraddistinguono invece Giove, il Sole, Venere e Mercurio. Giove ha accordi gravi, costanti, intensi, soavi, gai e piacevoli; il Sole accordi venerabili, forti, puri, dolci e graziosi; Venere accordi lascivi, lussuriosi, molli, voluttuosi, dissoluti e dilatati concentricamente; Mercurio accordi multipli, allegri, piacevoli per una certa vivacità. Avevo sempre cercato una consonanza tra pianeti e musica, tra il mio universo interiore e quello vero, quello che stava fuori di me. Quel libro prezioso era arrivato tardi, in un periodo della mia vita successivo, quando credevo di aver risolto molte delle mie inquietudini. Mi sono però sempre chiesto, ogni volta che mi accostavo al pianoforte, dove finissero le onde musicali che il mio strumento produceva, se la grande musica aveva il potere di cambiare l'ordine dell'universo, le architetture che aveva predisposto il grande Artefice, in una parola: se potevo influire sul rumore dell'universo. Quali sono gli accordi lussuriosi e voluttuosi? Forse potrei arrivare a identificare quelli piacevoli e allegri: un accordo mozartiano di sol maggiore è certo vivace, mentre il suono di un accordo di settima di do diesis si può pensare come venerabile. C'è stato un momento in cui ho creduto veramente di aggiornare Agrippa, di andare oltre, di trovare corrispondenze, analogie, di trasferire il mondo dentro l'essenza della musica. Ma dovetti soccombere, non potevo che accettare il contrario: lasciare che la musica fosse incurante del mondo e delle sue analogie. Come scrive Schopenhauer: «La musica non si assimila mai alla materia». I miei pianeti avrebbero dovuto continuare a girare senza i miei accordi, i miei do diesis e i miei sol maggiore, o meglio, quelli dei compositori che sceglievo per avere un'idea plausibile del mondo. Ma in questi suoni primordiali, in questi accordi alterati di un semitono e in questo lieve intervallo capace di suscitare in me deliri teoretici, non avevo messo in conto tutta quella musica che Cornelio Agrippa non avrebbe potuto conoscere, e neppure Bartolomeo Ramis de Pareja, di cui mi ero comprato, proprio a Parigi nel 1956, un incunabolo del 1482, De musica practica. Ero condannato (ma poi quale condanna?) a vivere dentro la musica romantica: perché era quella che meglio suonavo, e perché era quella che amavo di più. E non c'era Richard Strauss che tenesse, per non dire di Schonberg, che suonavo come fossi un dilettante della tastiera. Persino Ravel, di cui mi ero immaginato come un possibile interprete in gioventù, mi sfuggiva dalle dita, come la molla di un orologio che non riesci a incastrare, e ti fa rabbia, perché sai che funzionerebbe solo se quelle due estremità piccolissime andassero nel posto loro assegnato. Non so se Dio è un accordo di do diesis settima maggiore; so però che l'armonia del mondo è solo una pallida imitazione dell'armonia musicale. Lo giuro, lo posso assicurare: alcune notti ho creduto di impazzire, esercitandomi a suonare lo stesso accordo di due sole note in cento modi diversi, e in questi cento modi immaginarne altri cento, lievemente differenti, eppure da me distinguibili perfettamente. La partitura di un Walzer, il più semplice tra quelli di Chopin, non è fatta di un accordo di due note, ma di centinaia di combinazioni, che sfociano in altre combinazioni possibili, come gli occhi di mille uomini e donne incontrati per strada; e in quegli occhi intravedi drammi e malinconie di cui non sai distinguere i contorni: sono languori, talvolta felicità, sguardi distratti, di attesa, assopìti in pensieri lontani; occhi che si distinguono dal corpo, occhi profondi in corpi magri e scattanti, oppure occhi mobili, che sembrano ancora giovani, in uomini e donne anziani, e affaticati dal peso degli anni. Spesso la musica è fatta di contrasti come questi, interruzioni, bagliori, o solo un passaggio, brevissimo, che ti risuona in testa per tutta la vita. Come i contadini che ricordo io, i nostri contadini, che si toglievano goffamente i cappelli di paglia quando si passava per i tratturi e fischiettavano per tutta la vita un solo motivo, e lo facevano sempre nello stesso modo. E per loro la musica era quel motivo fischiato, che forse avevano sentito dai loro padri o dai loro nonni; e spesso non sapevano neppure il nome di quel motivo, perché si era perso nella memoria: i figli uccisi dalla spagnola, le sorelle piegate dalla fatica, o magari finite a lavorare nelle risaie; le madri rassegnate nei campi, con le schiene ingobbìte dai dieci figli allevati come si poteva, sperando che nascessero maschi, e dunque braccia da lavoro. Li sentivo fischiettare, i nostri contadini, quando tornavano dai campi, sudati e per nulla felici di una vita d'inferno, che faceva dei loro occhi vere e proprie fessure. Li sentivo fischiettare e pensavo che c'era la mia musica, ma c'era anche quella musica, semplice, acuta, a volte stonata: l'unica musica che avevano. Nell'Italia degli anni Venti, l'Italia di quando ero bambino, gli uomini fischiettavano anche nelle città, dove non c'erano auto, e le biciclette strofinavano con discrezione i loro copertoni sulle strade acciottolate: così fischiando ci si faceva ascoltare, e spesso un motivo particolare, udito da lontano, annunciava l'arrivo a casa. Fischiettavo anch'io, e da ragazzino canticchiavo, specie quando suonavo al pianoforte motivi molto semplici, li accompagnavo con la voce. Ho perso l'abitudine. Come si è persa l'abitudine di chiedere a un amico pianista di suonare un solo passaggio di un brano musicale, poche battute che possono risvegliare un ricordo, un'emozione. Un tempo accadeva, e nessuno se ne vergognava: sentivi che la musica era ancora viva, maneggiabile. Ricordo che una cara amica voleva che suonassi più volte il tema iniziale del Walzer in la minore, chiedeva che io lo ripetessi. Accettavo volentieri, tutto si teneva insieme: la grande musica, l'espressione, l'interpretazione, e poi il ricordo, l'emozione di riascoltare, e persino di stordirsi con le stesse note che si ripetono come un tedioso argomento, quasi all'infinito. Oggi non ci si permette più un lusso del genere, tutto è monolitico: i brani sono capolavori intoccabili, perfetti. Variare, suonare prima una parte, poi un'altra, scherzarci sopra, cambiare il modo di eseguire un passaggio non interessa più nessuno, perché nessuno è più capace di capire cose del genere, di maneggiare gli strumenti. Come dice il mio amico scrittore: «Nessuno possiede più le grammatiche». E' un'espressione un po' fredda, ma rende bene l'idea. Sono poco mondano ormai, anche se può accadere che accetti un invito; e spesso gli inviti sono accompagnati da un pianoforte: suono raramente e, quelle poche volte, mi trattano come una reliquia di cui non capiscono nulla. Potrei suonare qualunque cosa e loro mostrerebbero fieri la beatitudine dell'ignoranza: tutti, senza distinzione di ceto, censo, classe sociale. Certo, i miei commensali non chiedono il Notturno op. 9 n. 2 di Chopin (e almeno avessero il coraggio di farlo), semmai Eric Satie o Beethoven, con cui non ci si sbaglia mai. E allora sarei tentato di suonare l'Appassionata, e non la Tempesta, più alla moda. E cancellerei dal repertorio Johann Sebastian Bach, che peraltro le mie mani suonano sempre peggio. Ma tutto quanto non è Romanticismo, non è passione dell'anima, va molto di moda, come se le passioni dell'anima fossero un sentimento disdicevole, da tenersi ben nascosto, come un'inopportuna scenata di gelosia a un pranzo di gala. E trovo persino qualche signore che finge di saper tutto di Wagner, e mi chiede, con tatto e cortesia, come io possa aver trascorso quasi una vita nel leggere ed eseguire un compositore come Frédéric Chopin: lezioso, romantico, minore per non aver mai composto una Sinfonia, un'opera per il teatro musicale. E tu a fissarli negli occhi, senza rispondere: a pensare che se Dio esiste, e forse esiste, non poteva che dare un solo rumore, una sola nota, a quest'universo di cialtroni, incapaci di distinguere un suono da uno stridìo. Allora che sia un rumore! Un solo rumore per tutti: e che si senta in ogni luogo dell'universo, con la stessa intensità, e accompagni la nostra vita di poveri sordi: un rumore che tentiamo inutilmente di scacciare dalla nostra mente, dalle nostre orecchie che si illudono di non udirlo più, coprendolo con altri suoni di ogni genere: sublimi, meravigliosi, insopportabili, lenti, forti, veloci, acuti e gravi, metallici e morbidi; e poi ancora cristallini, e drammatici, e strazianti come il trillo di un violino, o evocativi come un lontano oboe e le note più basse di un flauto dolce. Forse ci siamo affannati e ci affanniamo tutti, i miei contadini che fischiettavano, i miei maestri compositori, i miei amici musicisti: tutti impegnati ad allontanare da sé quel rumore che forse sentiamo di notte, quando le difese del nostro io si abbassano e la nostra psiche si apre al suono primordiale. E siamo soli, non possiamo suonare, cantare, accendere la radio, neppure sentire il rombo del motore di un'automobile, forse l'unico rumore concesso è quello dello sferragliare dei tram, giù in strada. E allora era forse meglio quel silenzio che tanto orrore mi faceva quando ero bambino e guardavo le stelle, quei pianeti muti, disegnati sul mio libro di astronomia, come palle perfette, dalle strisce colorate, su un fondo nero disperante, come fossero attori in scena, e risplendessero di una luce spot. Come la mia figura ai concerti, dove tutto è nero: è nero il mio frac, nero il mio Steinway, nero il seggiolino, neri (ancora abbastanza neri, debbo dirlo) i miei capelli, ma chiarissima la pelle del mio volto e delle mie mani. E quando comincio a suonare si vede solo la tastiera, le mie mani e il mio volto. Tutto intorno è il buio, che la luce concentrata su di me non può rischiarare: ed è come aggiungere significato a una musica che di per sé ha già abbastanza significati. Com'erano i concerti di Chopin? Mio nonno diceva che erano per metà circenses, per l'altra riunioni di amici. Nulla era al buio, il pianista era vicino al suo pubblico, spesso lo conosceva. L'emozione c'era, ma non la scenografia. E allora tutto cambia se la quarta Ballata la si suona con persone vicine al pianoforte, se l'equilibrio delle luci non è studiato, ma è quello della vita quotidiana. Il concerto, in questo secolo bisognoso di rituali laici, è l'esteriorizzazione del genio, qualcosa di unico che si ripete sempre uguale, ma con dettagli diversi; che siano figli di un'intuizione particolare o invece di un banale mal di denti, poco importa. Alle volte è il pianoforte a suggerirti un modo di suonare diverso, acceleri perché la tastiera risponde meglio alle sollecitazioni, perché i pesi che regolano l'abbassarsi dei tasti son calibrati in modo più felice; altre volte è meglio non arrischiarsi in un virtuosismo che potrebbe risultare imperfetto: e basta pochissimo, può dipendere da vaghi dettagli, la notte prima in cui hai dormito male, qualche sigaretta di troppo, un bicchiere di whisky, e cambi il modo di leggere il brano, cerchi di far di necessità virtù. Partendo da un lieve svantaggio, lo trasformi, quando è possibile, in un punto di forza. Ma questi scherzi della casualità non sono contemplati in un mondo che vuole la cultura, il genio e il talento dentro schemi rigidi. Perché un pianista come me dovrebbe suonare un poco più lenta la Polacca-Fantasia di Chopin, per un mal di testa improvviso? Giammai, perché «la sua lettura di Chopin sta diventando più saggia, più meditata, anche l'uso del pedale di risonanza si fa persino timido, incerto, esitante, come a voler entrare dentro le pieghe di un compositore, di cui non ha ancora esplorato tutto, che lascia spazi ambigui...». Non risposi a questo critico illustre che recensiva un mio concerto berlinese: bastava che venisse ad ascoltarmi sei giorni dopo a Monaco di Baviera, per sentire che quella Polacca-Fantasia diventava veloce come prima, e che entrambi i modi di suonarla mi erano congeniali. Mi tornava in mente questa recensione perché l'avevo trovata casualmente in mezzo a un libro, mentre facevo ordine tra quei pochi volumi che avevo deciso di portar con me a Parigi: odio le biblioteche immense, fatte di migliaia di dorsi che non si leggeranno mai, buone per riempire scaffali, per non vedere pareti bianche. Avevo scelto un centinaio di libri per la casa di Parigi, quasi tutti classici, quasi sempre letteratura. Nessun libro sulla musica, nessun discorso intorno a essa: sulla musica parlano le partiture, e quelle, di certo, non mancavano. Anche perché leggevo continuamente partiture: quelle che stavo studiando, e altre ancora, che non avevo mai suonato, ma che amavo sfogliare, come si legge un racconto che poco ci interessa, e lo si fa meccanicamente, perché è pur sempre uno svago, è pur sempre narrazione, storia, intreccio. Mentre leggevo e riponevo quel foglietto più volte ripiegato, con quell'articolo ingiallito scritto in tedesco (credo che fosse della «Zeit»), mi tornò alla mente la ragazza con il cappello. Il perché di questa associazione non so spiegarmelo. Era la Polacca-Fantasia a evocarmela? Non credo. O forse il fatto che io, quel giorno, non riuscivo a suonare come avrei voluto? Neppure questo, credo. Penso che il mio viaggio a Londra di qualche giorno prima mi aveva lasciato una forte voglia di andare avanti. Ed era una voglia frustrata. Il russo non si faceva vivo. Ma la ragazza con il cappello, invece, potevo cercarla. E tornare in quel caffè: per sedermi magari allo stesso tavolino, attendendo con pazienza, un giorno, due giorni, tre giorni, persino una settimana. Perché mai in quel tempo lontano avrei dovuto perder dei giorni ad aspettare? Tanto più che quella ragazza sapeva dove abitavo, com'era la mia casa, e persino quanto fosse morbido il mio letto. In quale racconto potevo aver preso questa fantasia romantica? Eppure, oggi che il massiccio della Jungfrau ha i colori rosso fuoco di un sole che illumina la neve, come fosse davvero un quadro di Delacroix, un colore della sua tavolozza, so che feci bene ad andare per quattro giorni di seguito in quel caffè per intere serate a leggere libri diversi, ma anche con un occhio attento a tutti quelli che passavano. Fu in quei giorni che cominciai a elaborare un'ipotesi che prima di allora non avevo mai fatto. Perché la quarta Ballata è diversa? Non sapevo, non sapevo ancora voglio dire, cosa avesse composto Chopin in quella parte finale. Però credevo di capire il motivo di quel ripensamento. E dico ripensamento perché non posso negare la versione ufficiale della quarta Ballata. Quando fu pubblicata, Chopin era vivo e nel pieno delle sue facoltà mentali (quelle fisiche peggioravano sempre più). E se vado a ripensare a quella lettera che manda all'amico Grzymala sui diritti da riscuotere per quella Ballata, mi rendo conto sempre più di quanto Chopin tenesse alla composizione, e si reputasse un autentico professionista, al punto da pretendere ben 600 franchi per la pubblicazione: Ti ho detto che t'avrei pregato di mandare una lettera ai miei genitori, e un'altra a Lipsia coi manoscritti. Non ho altri che te di cui fidarmi. I miei manoscritti non valgon nulla, ma rappresenterebbero un enorme lavoro per me se andassero perduti. Mi ripetevo questa frase, continuamente: «I miei manoscritti non valgon nulla, ma rappresenterebbero un enorme lavoro per me se andassero perduti». Se andassero perduti... Non andò perduto quel manoscritto, arrivò agli editori e fu stampato. Ma forse Chopin ci ripensò, ne scrisse un altro, e così pensava di ripubblicare quella Ballata con la variante, ma non fece in tempo. Già, potrebbe essere andata così. Potrebbe darsi che Chopin abbia deciso negli ultimi mesi della sua vita di rivedere il suo capolavoro, e di rivedere solo la parte finale. Ma ne avrebbe parlato con qualcuno: Jane Stirling, per esempio, la persona che si occupò di Chopin negli ultimi anni della sua vita, con uno zelo e una determinazione che più volte lo avevano infastidito. Jane Stirling non era propriamente una donna piacente, e neppure discreta, ma dopo la rottura con George Sand fu l'unica che si occupò di un uomo ormai malato, allo stremo delle forze. Senza la Stirling, Chopin sarebbe morto prima e sicuramente non sarebbe riuscito a far ordine in tutte le sue composizioni. Fu lei quasi a costringerlo a un lavoro che facesse chiarezza su tutta la sua opera. Lei lo amava di un platonico amore, e lui scriveva a un amico che era gentile «ma così noiosa». Dopo gli eccessi con George Sand, quell'epilogo affettivo, in un momento drammatico, sembrava paradossale: Chopin in balìa di una zitella inglese, ancorché solerte e disponibilissima. Nelle carte di Jane Stirling c' era la sistemazione completa di ogni sua opera. La quarta Ballata porta il numero 52. Si dice che la scrittura sia dell'amico Franchomme. Ma secondo James è invece un incipit autografo di Chopin. Niente di più che un inizio. Quale Ballata aveva in mente quando, come fosse un veloce appunto, segnava in pochi tratti l'incipit dell'opera 52? Quella che bramavo (ormai sì, bramavo) di possedere, o quella stampata e pubblicata che tutti abbiamo suonato in concerto? Qui la scrittura di Chopin, per quel poco che se ne può dedurre, è assai decisa, non sembra mostrare esitazioni. Cercavo in quelle due sole misure un tratto, un'esitazione del pennino che potesse dirmi di sì, che il mio dubbio era fondato; che l'opera 52 era stata rivista, e dunque che forse avrebbe dovuto cambiar di numero, essere datata in un altro modo. O forse no, per pochissime pagine non si poteva post-datare l'opera: sarebbe stata una sproporzione. Ma cos'era tutto questo? Ero pazzo? Certo, era come se avessi una sorta di collasso mentale, una tensione a cui non sapevo far fronte; stavo a spiare due sole misure, a immaginare se l'inchiostro era più denso, o magari no: se il grande Chopin, ancor giovane, ma probabilmente con i tremori di un vecchio, avesse fatto qualche fatica nello scrivere anche solo queste poche note. E pensare che il rivedere quella Ballata deve essergli costato molto, anche fisicamente: visto che negli ultimi mesi della sua vita il comporre gli era diventato difficile, e aveva bisogno di molto riposo. In quel tempo, in quelle sere che mi facevano sentire affetto da una febbre che mi infuocava il corpo e la fronte oltre il tollerabile, continuavo a frequentare quel caffè di rue de Rennes, al punto che cominciai a pensare che ci fosse una relazione tra la mia Ballata op. 52 n. 4 in fa minore e quella donna, somigliante a un ritratto di Delacroix, che avevo incontrato, e con cui avevo passato una delle mie prime notti a Parigi. Di più, nella mia natura nevrotica, sapevo (senza ammetterlo neppure a me stesso) che di certo non avrei mai ritrovato quella partitura senza incontrare ancora quella donna; e non perché io facessi di quella ragazza una complice oscura del russo, né tantomeno perché io la volessi legata in qualche modo a quella strana e contorta vicenda. Semmai per una magia, per un effetto di senso che mi piaceva: volevo che quella calligrafia delle passioni che stavo cercando avesse una relazione con unapassione dei sensi che mi turbava in un modo che non avrei immaginato. E non solo: mi piaceva pensare a lei come alla donna che mi avrebbe aperto la porta di un enigma per me insolubile. Insomma mi ero convinto che la mia ragazza con il cappello doveva entrare nella mia vita, anche solo come puro concetto. Forse soltanto perché mi piaceva, e mi piaceva al tempo stesso quel manoscritto: e non volevo scegliere. E le mie poche forze non riuscivano a tenere sotto controllo entrambe le cose. Allora ero io a collegare la calligrafia delle passioni con una passione della mente, a riportare nel mondo, in un mondo fatto di gesti e carne, di sguardi e movimento, pagine di musica scritte nel secolo scorso, e non per ridare vitalità a quelle ceneri del Romanticismo, ma per accendere di passione una storia che nella mia mente rischiava di trasformarsi in qualcosa che troppe volte avevo già visto e già conosciuto. E in questo il mio Dio musicale non mi aiutava, e non mi aiutava neppure Schopenhauer; rischiavo di perder la mia partita: la musica non ha bisogno della materia e io, per farla uscire da quella cassa armonica di legno, per far suonare le note come si deve, proprio con la materia dovevo avere a che fare, bestemmiando sui fruscii dei miei martelletti, sentendo le dita sudate nelle giornate troppo umide e calde, accorgendomi che le notti passate a leggere mi davano minor elasticità alle mani. Io ero quella materia che doveva poi scomparire, io che avrei voluto vivere per sempre dietro i suoni che producevo. Pensavo a Gould che canticchiava mentre incideva: nei suoi dischi si sente la sua voce sotto le note di Bach. E tutti credevano fosse una bizzarria, mentre non capivano che era la paura folle di non esserci, di lasciare ai posteri soltanto il suono, lui poi, che da quando aveva poco più di trent'anni si era ritirato e non teneva più concerti. Lui che voleva concentrarsi unicamente sulle incisioni e lasciare a quelli che sarebbero venuti dopo soltanto i nastri della sua musica. E perché lui, perfezionista più ancora di me, permetteva che si pubblicassero dischi mirabili nel missaggio e disturbati poi dalla sua voce? Solo per un'eccentrica bizzarria? Proprio no: era un modo per ricordare a chi ascolta che lui esisteva, che lui c'era, che quella musica veniva da un signore che si chiamava Glenn Gould, e che non è solo il signore ritratto sulla copertina del disco: è nel disco. Ci sono le sue mani, i muscoli stanchi, c'è il sudore di un uomo che si sforza di elevare la musica oltre la materia. E chi ascolta i dischi di Gould sa che lui c'è, per sempre, là dentro. Anch'io fui tentato di incidere facendo ascoltare di tanto in tanto la mia voce che accompagnava qualche nota. Ma non ho mai osato: sono un vecchio pianista educato al suono come fosse un'emissione sacra. Di tanto in tanto si ascolta nelle mie incisioni il respiro, lieve, e si sente in particolar modo quando suono i pianissimi, perché le sale di incisione trattengono tutto, come fossero spugne. Ma in quei giorni in cui inutilmente tornai al caffè di rue de Rennes a cercare ancora una persona che nulla poteva sapere delle mie trame mentali, dei fili che legavo assieme, avvertii per la prima volta che la soluzione del mio enigma doveva essere vicina, molto vicina. Capii che il tempo era dalla mia parte, e che tutto sarebbe andato a posto, perfettamente, come fosse una Fuga del Clavicembalo ben temperato, dove ogni voce è perfetta, ogni nota insegue l'altra, e si inizia cauti, in modo abbastanza semplice, per arrivare poi alle ripetizioni del tema, incrociate, approdando a una ricchezza tematica che dà stordimento e piacere, per poi giungere a un finale che tutto risolve e restituisce una sensazione di benessere e di pace. Mi sarebbe piaciuto che l'andamento di quella storia fosse simile a quello di una Fuga di Bach. Avrei voluto fosse così: era la lingua che meglio conoscevo, non mi avrebbe spaventato. Ma anche se non fosse stato Bach, anche se avessi dovuto muovermi per composizioni più infide, meno geometriche, avrei provato comunque un senso di comprensibile felicità. Una Sonata di Beethoven, o ancora lui, Chopin, magari uno Scherzo, imprevedibile, virtuosistico, eclettico: anche questo mi avrebbe dato una sensazione di sicurezza, allo stesso modo dell'alpinista che non ha paura di una parete aspra ma di cui conosce ormai tutti i segreti, anche quelli che potrebbero fargli commettere un passo falso, che potrebbero farlo cadere. Attraverso quale partitura si poteva leggere la mia vita di quei giorni? Né Bach, né Beethoven, e per quanto riguarda Chopin, se lui era il più vicino a me, doveva esserlo in qualche pagina che ancora non conoscevo. Al punto che mi accorsi un pomeriggio in quel caffè, da solo, che cominciavo a fantasticare sulla storia della quarta Ballata. E se le vicende di cui ero protagonista non fossero state altro che il contrappunto di quelle pagine? E se fossi stato io a decidere, come fossi l'Artefice del suono, come un Dio del rumore universale, cosa avrei trovato in quella scrittura che ormai volevo incerta, persino morente, dello stremato Chopin? Io, la mia vita, le mie passioni, parti integranti, voci di quella partitura? Era rivelatore pensare che tutto ciò che mi accadeva nella vita in quel periodo avesse un corrispettivo in fa minore che ancora non conoscevo. E allora non c'era più la possibilità di pensare a un rumore dell'universo, feroce e terribile, come il Dio dell'Antico Testamento, e neppure a quell'intuizione di Schopenhauer sul rapporto tra materia e musica, e dunque tra Rappresentazione e Volontà. Per non dir poi della musica in Cornelio Agrippa, che cercava nei suoni una corrispondenza dell'ordine universale. No, ora capivo che la mia quarta Ballata con quella variante finale stava aspettando me, e da centocinquant'anni. Era passata da amici di Chopin troppo distratti, ad altre persone di cui nulla sapevo, ed era arrivata a Berlino, suonata da uomini che di questa musica nulla avrebbero potuto cogliere; per poi giungere a Mosca, eseguita forse da qualche vile e sublime pianista, nel segreto di casermoni staliniani. Infine, tornando ancora a Parigi attendeva me. Come attendeva me, in un caffè di rue de Rennes, una deliziosa fanciulla di nome Solange, Rappresentazione di quella Volontà in forma di musica a cui stavo consegnando il mio grande virtuosismo, e forse la mia esistenza. Capitolo settimo. Solange Dudevant era una ragazza molto capricciosa che da bimba non ebbe grandi attenzioni dalla madre, troppo impegnata a scrivere libri e a condurre una vita romantica e mondana. Così venne cresciuta da balie e nonne, assieme al fratello Maurice; e quelle poche volte che la madre andava a trovarla la vestiva da maschietto. Eppure Solange crebbe con una carica sensuale e femminile che quei vestiti da maschietto non riuscirono a cancellare: montava a cavallo con grande eleganza e possedeva un carattere difficile e mutevole. Solange Dudevant era la figlia di George Sand; di lei la madre diceva: «E' bella, e cattiva». Proprio per questo prima viene mandata in convento, poi affidata a un'istitutrice: Marie de Rozières. E Marie ha un incarico preciso, sottrarre Solange alla compagnia degli uomini. George Sand le scrive: «Giunge sempre il momento in cui le ragazzette non sono più tali e in cui bisogna vegliare sul significato che, nel loro spirito, possono assumere tutte le parole che esse sentono. Non una parola, anche indifferente, sul sesso maschile: ecco tutta la prudenza che vi raccomando». Le parole della Sand servono a poco. Solange rimane impertinente e molto interessata agli uomini, forse troppo. Nel 1845 Solange ha diciassette anni e il suo rapporto con Chopin diviene più intenso. Lui scrive: «Mi sento immerso in un'atmosfera strana quest'anno. Vivo in spazi immaginari. Non so perché, ma non faccio nulla che abbia valore e tuttavia lavoro, non vagabondo da un posto all'altro. Trascorro intere giornate e serate in camera mia. Devo tuttavia portare a termine certi manoscritti prima di rientrare, perché durante l'inverno non posso comporre. Ieri Solange mi ha interrotto mentre lavoravo chiedendomi di suonarle qualcosa; oggi ha voluto farmi assistere all'abbattimento di un albero: torno da una passeggiata con lei, mi ha voluto portare in carrozza scoperta». Quel rapporto tra Chopin e Solange non è mai stato chiarito da nessun biografo: accenni timidi, e troppe preoccupazioni di lasciar fuori Chopin da storie poco chiare e un po' morbose. Ma ci fu un momento in cui a Parigi si diffuse la voce che lui avesse chiesto la mano di Solange alla madre. E la Sand fu costretta a smentire quella che venne considerata una notizia senza fondamento. Certamente, tutti i biografi ci dicono che furono i figli di George la causa della rottura tra il compositore e la scrittrice. E' vero che Chopin mostrava un grande affetto per Solange, ma aveva anche pessimi rapporti con Maurice, l'altro figlio, che lo detestava e pretendeva di essere un artista, un pittore. Solange si prese cura di Chopin quando a Nohant George Sand cominciava a stancarsi di lui, a sopportare sempre meno la sua malattia, e Chopin cercava di proteggere la fanciulla dai dispetti della madre e di suo fratello Maurice, Tutto avveniva in un quadro che doveva essere fertile e creativo, e in realtà era assai piccolo e meschino. Maurice, un giovane violento e viziato, iniziò una relazione con Augustine Brault, una lontana cugina che divenne figlia adottiva della Sand: vivace come la polvere da sparo, si diceva. La relazione era dunque scandalosa, e per quanto la si volesse segreta, cominciava a dare imbarazzo. George Sand fingeva di non saper nulla, ma in fondo quella storia non doveva dispiacerle. Chopin invece disapprovava, e Solange si indignava, anche perché considerava Augustine una plebea. Si crearono due fazioni: da una parte, Chopin e Solange; dall'altra, Maurice e la madre. E non bastava. Di lì a poco Solange si fidanzò con uno scultore, tal Auguste-Jean Clésinger, un uomo intelligente e senza scrupoli che si impose a Solange con grande sfacciataggine. George Sand acconsentì al matrimonio, ma Chopin non amava affatto Clésinger, lo considerava un avventuriero. E la Sand lo sapeva, al punto che in una lettera al figlio dove annunciava il suo consenso al fidanzamento di Solange, scriveva: «Non una parola a Chopin: tutto ciò non lo riguarda, e una volta varcato il Rubicone i se e i ma fanno solo male». Cosa accadde davvero in quell'estate del 1846? Oggi sappiamo che fu l'ultima estate a Nohant, l'anno dopo Chopin non sarà più invitato. George Sand lo tratta con freddezza, Maurice gli è apertamente ostile, e Solange ha ormai il suo Clésinger. Solo che tra Solange e Chopin rimane un rapporto forte e affettuoso. I biografi dicono che, dopo il matrimonio con Solange, Chopin inizierà a stimare Clésinger. Ma nessun biografo mette in dubbio che l'amicizia affettuosa e protettiva tra Solange e Chopin possa mai essere stata qualcosa di diverso. Chopin è uomo ineccepibile, di grandi princìpi, che prese a considerare i figli della sua compagna come figli propri. I biografi tendono ad accreditare di continuo un'immagine di Chopin fortemente filtrata da un certo moralismo. In realtà, molti lati oscuri rimangono. In una lettera piuttosto ipocrita di George Sand all'amico di Chopin Grzymala, si legge: Per sette anni ho vissuto come una vergine con lui e con altri, son invecchiata prima del tempo, tanto sono stanca di passione, e incredula che essa ritorni. Se una donna al mondo avesse dovuto ispirargli completa fiducia, quella avrei dovuto essere io, ed egli non ha mai capito. So che molte persone mi accusano, le une di averlo esaurito con le violenze della mia passione, le altre di averlo ridotto alla follia con le mie pazzie. Credo che voi sappiate come stanno le cose. Egli si lamenta ch'io l'abbia ucciso rifiutandomi a lui, mentre io son certa che l'avrei ucciso se avessi agìto altrimenti... Sono stata una martire; ma il cielo mi si è mostrato inesorabile, come se avessi dovuto espiare grandi crimini: perché in mezzo a tanti sforzi e a tanti sacrifici, colui che io amo di amore assolutamente casto e materno, muore vittima del suo insensato affetto per me. Ho sempre sospettato che il rapporto tra Solange e Chopin non fosse soltanto amichevole, nonostante fiumi di inchiostri ipocriti. Al matrimonio di Solange Chopin non fu invitato, e l'episodio lo irritò fortemente. Cambiò opinione sul marito quando ormai si era rassegnato, ed era anche molto stanco. E preferì rivedere e scrivere a Solange da buon amico piuttosto che perderla del tutto. Forse è un'illazione, ma Chopin doveva scrivere a Solange cose davvero inconfessabili. In una lettera del 9 settembre 1848, quando ormai lei è sposata con Clésinger, Chopin scrive, piuttosto spaventato: Mi è capitata una strana avventura mentre stavo suonando la mia Sonata in si bemolle a degli amici inglesi. Avevo eseguito pressoché correttamente l'Allegro e lo Scherzo; stavo attaccando la Marcia, allorché, improvvisamente, vidi levarsi dal coperchio semiaperto del pianoforte le creature maledette che, in una lugubre sera, mi erano apparse alla Certosa. Dovetti uscire un attimo per riprendermi: poi mi sono rimesso a suonare senza dir niente. Questa lettera è rimasta per molto tempo inedita. Me ne parlò per la prima volta Bernard Gavoty che la comprò a Londra e stava per pubblicarla in una sua biografia di Chopin. Non sapevo dove, neppure quando, ma il manoscritto della quarta Ballata doveva passare certo dalle mani di Solange Clésinger. Forse ha l'ordine di bruciarlo, dallo stesso Chopin. Solange è una delle poche persone davvero amiche che sono al capezzale di Frédéric in place Vendome. Qualche mese prima, nel maggio del 1849, quando con l'esplodere di una primavera calda Chopin ebbe un periodo di miglioramento del suo stato di salute, finirono bruciati nel camino moltissimi manoscritti che voleva distruggere; sapeva che non gli rimaneva molto tempo e raccolse le forze per non lasciare pagine inedite che non approvava. Rimase qualcosa, quelle che oggi conosciamo come opere postume, e che pubblicò Julian Fontana. Ma ancora poco prima di morire Chopin si raccomandò di non far stampare più nulla, di distruggere ciò che era rimasto. Con ogni probabilità si può datare la revisione della Ballata attorno ai primi mesi del 1849. Chopin cambia la dedica a Madame Solange Dudevant. Poi la consegna a Solange. Meglio, la regala. Pensa di pubblicarla? Probabilmente no: è un gesto d'amore, di passione; e per questo deve rimanere discreto. Cosa fa Solange di quel regalo inconsueto? Forse subito non capisce, vede che la Ballata è stata dedicata a lei, e le fa piacere, ma non si accorge delle ultime pagine. Non ci sono lettere che accompagnano il manoscritto; dunque quello che si son detti Chopin e Solange non lo sapremo mai. Sappiamo che Solange non fu una pianista, per quanto avesse avuto come maestro persino Chopin, in grado di suonare quella partitura. E allora? Cosa fa di questi preziosi fogli? Mi sarebbe piaciuto chiederlo alla mia fanciulla, che di nome faceva Solange, ma di cognome certo non Dudevant. E che il destino mi aveva mandato la notte prima di incontrare il russo. Cos'era questo, il gioco del caso? O un avvertimento del mio Dio musicale, che mi voleva interprete di un mistero che si svolgeva in fa minore? Allora non potevo sapere che Solange era qualcosa di più della figlia di George Sand, e buona amica di Chopin. E quando la ragazza di rue de Rennes pronunciò il suo nome ravvisai solo un effetto, un gioco, una musica di idee. Poi capii che a volte nella vita accadono cose che hanno attinenza con il romanzesco. Per sapere che Solange era stata la prima a possedere il mio gioiello musicale ci volle tempo. E ci volle un russo che non si chiamava Frédéric, per fortuna, e che aveva un nome che non avrebbe turbato nessuno. E sapevo che prima o poi sarebbe riapparso sotto la mia finestra, e come un dilettante del mistero avrebbe cercato di imbrogliarmi. Ma sapevo anche un'altra cosa: lo avrebbe portato con sé, quel manoscritto. Non poteva abusare della mia pazienza. Non lo fece. Quattro giorni dopo la mia ultima sortita al caffè di rue de Rennes, in un pomeriggio davvero caldo, mi affacciai alla finestra e si alzò il sipario sulla commedia di quel frammento della mia vita. Lui stava giù, immobile, appoggiato a un muro, non guardava verso le mie finestre, e ansiosamente, come aveva fatto la prima volta. Sembrava sapesse che sarei stato io il primo a vederlo, che io avrei attirato la sua attenzione, perché questa era la regola. Stringeva tra le braccia una vecchia e consumata borsa di cuoio. Guardai proprio la borsa, e prima di ogni cosa, come a voler giustificare la mia relazione con quell'uomo solo attraverso un oggetto o, meglio, ciò che quell'oggetto doveva contenere. Non cercai la sua attenzione da subito, mi tirai quasi indietro dalla finestra, come d'istinto volessi proteggermi da quanto sarebbe accaduto. Lo temevo, temevo che non ci fossero manoscritti, che potesse rapinarmi, obbligarmi a consegnargli del denaro. Ebbi paura che questa volta fosse armato, e in me tornarono tutti i timori fisici che avevo da bambino, quando lo studio eccessivo del pianoforte mi rafforzava le mani, i polsi, le braccia, ma mi rendeva goffo e meno forte fisicamente degli altri ragazzi (che peraltro non frequentavo). Fu solo un lampo, un timore che venendo da lontano se ne tornava lontano: feci un passo in avanti, ma non mi piegai coi gomiti sul davanzale, volevo che la mia figura, che il russo a quell'ora doveva vedere in controluce, fosse più dritta e più ieratica possibile; che il mio corpo avesse l'autorevolezza dell'attimo prima di sedere al pianoforte in un concerto. Volevo che lui sapesse chi aveva di fronte, e non solo: che mi temesse, e subisse quell'autorità e quel carisma che doveva aver sentito nei miei concerti a Mosca e Leningrado. Chi può dire se ci riuscii? Mentre pensavo a tutte queste cose, rigido, di fronte alla finestra, lui mi guardò, alzando di scatto gli occhi verso di me. E quasi senza volerlo feci un cenno del capo, che voleva dire: sì, puoi salire. Sapevo che un manoscritto di Chopin non si consulta in un caffè, o su di una panchina. «Maestro, finalmente...», mi disse tendendomi la mano, quando ancora non aveva salito per intero la rampa della scala. Mostrava sicurezza, e forse imbarazzo, di fronte al mio fare gelido e trattenuto. Sapevo che avrebbe cominciato con infiniti complimenti: sul mio appartamento, sull'arredamento della casa, e la posizione, e non so che altro. Però mi sbagliai: entrò senza dire una parola, quasi senza guardare neppure l'ingresso, si voltò un attimo prima che chiudessi la porta, per vedere se qualcuno lo aveva seguito per le scale. Ma cercò subito di giustificarsi: non temeva nulla, che stessi tranquillo, era solo un'abitudine antica e radicata. Guardò soltanto il pianoforte nel salone, girandogli attorno fino ad arrivare alla tastiera: si piegò sulla partitura aperta sul leggìo: «Scrive molto sulle partiture: che bello sarebbe pubblicare questi appunti, per giovani pianisti; gli studenti del conservatorio di Mosca fogli come questi se li strapperebbero di mano». Non badai a quelle parole: gli appunti sulle partiture erano per me un'antica abitudine. Segnavo ai margini anche pensieri che non c'entravano nulla con la musica, come fossero fogli per scrivere aforismi casuali, impressioni. Non badai a quelle parole, e mi affrettai a chiamarlo, dopotutto quelle annotazioni erano molto personali, e mi infastidiva che qualcuno potesse leggerle: «Si accomodi, signore», dissi indicando il divano di fronte alla finestra. Il racconto entrò subito nel vivo: «Dunque la prima persona che ha in mano questa carta è una donna: la figlia di George Sand. A lei è dedicata la Ballata. E dire che la baronessa di Rothschild fu donna assai vicina a Chopin, fino alle sue ultime ore». Gli feci notare che mostrava di conoscer bene la vita di Chopin, e mi rispose che avere in mano un documento affiorato dall'oblio porta a saper tutto su ciò che gli sta attorno, a capire il mondo che lo ha generato. Un po' come il voler conoscere proprio ogni cosa del passato di una nuova amante: «Così, maestro, ho cominciato a legger libri e lettere, biografie, diari. Non doveva sfuggirmi nulla e non solo di Chopin, ma anche di George Sand, e Delacroix, e Liszt, e Mickiewicz, e Julian Fontana, e più in generale del gruppo che ruotò attorno a Chopin per tutta la sua vita». Seppi così del perché quella Ballata rimase per molto tempo in un cassetto, nascosta: era la prova di un rapporto che qualcuno poteva pensare quasi incestuoso. Certo, Chopin non era il padre di Solange, e di fatto neppure l'amante della madre. Però era vero che Chopin conobbe Solange quando era ancora bambina, ed ebbe all'inizio atteggiamenti paterni; poi, lei cresciuta, si mostrò più volte geloso e si oppose al matrimonio con Clésinger; fino a rompere i rapporti con George Sand proprio a causa della figlia. «Dunque, nei primi mesi del 1849 Chopin decide di cambiare la coda della Ballata. Sembra lo faccia piuttosto rapidamente, e probabilmente è l'ultimo lavoro importante che porta a termine. Persino lo scrivere una lettera di sole due pagine lo mette in ginocchio, gli toglie ogni forza.» «Come può sapere che furono i primi mesi del 1849 e non ancora prima? E come fa a dire che è autentico?», chiesi impaziente. «Un momento, maestro, non abbia fretta. Le pare che sarei qui se possedessi un manoscritto falso?» Sorrisi sconfortato: «Niente di più facile. Il mondo è pieno di manoscritti falsi». «Non il mio», disse il russo, con l'aria di chi vuole chiudere un discorso che l'annoia profondamente, che credeva di non dover più fare. «Maestro, avrei preferito che lei discutesse con me di altre cose. Non sull'autenticità di un testo. D'altronde, credo lei sappia bene che quel manoscritto può esistere, e che qualcuno lo ha perfino suonato, negli ultimi cinquant'anni, assieme a molte altre partiture segrete.» «Franz Werth...», dissi sottovoce. «Non so chi sia questo signore, so di alcuni pianisti sovietici che poterono copiare e suonare molta di questa musica. Ma gente minore, di cui lei certamente non avrà mai sentito parlare. Ma la Ballata no, quella fu suonata da una sola persona...» Il dubbio però era forte: perché queste pagine sono rimaste nascoste, e nessuno ha mai pensato di pubblicarle? Tenterò qui di sintetizzare un po' di quanto il russo mi disse. Secondo lui, ma anche secondo quanto mi raccontò alcuni anni dopo un antiquario di Amsterdam specializzato in manoscritti musicali, fino ai primi anni del Novecento non c'era l'ansia di pubblicar tutto. E non erano in molti a occuparsi di dettagli musicali così marginali. Poi arrivò il momento della gelosia morbosa: l'imperativo era di possedere qualcosa di unico, che nessuno poteva avere, e nessuno poteva suonare, se non per la concessione di un privilegio. Chi era Werth? Un mero esecutore, una pianola meccanica come quelle del mio amico James, a servizio dei suoi amici nazisti, pronto a usare le mani come fossero un rullo musicale. Chi erano i fantomatici pianisti di cui mi si parlava? Mestieranti pronti a far udire qualcosa di raro e prezioso solo perché schiavi di un regime che dava questo privilegio, e poteva toglierlo in qualunque momento. Sorta di eunuchi musicali. Per quanto ne sapevo, nessun pianista di quelli che potevano leggere correttamente quella variante ne aveva mai sentito parlare. Ma se questa era storia quasi recente, quella che la precedeva, e andava da Solange fino a Franz Werth, come si poteva spiegare? Perché quella Ballata non arrivò mai a qualcuno che potesse suonarla? Secondo il mio amico russo il cambio di dedica poteva creare problemi a Solange, che conosceva assai bene la baronessa di Rothschild. E non solo: George Sand, già inferocita verso la figlia, avrebbe sospettato una relazione tra Solange e Chopin se solo avesse saputo di quella dedica, di quella partitura, di quella variante. Dunque, fino alla morte di Solange, nel 1899, quelle pagine rimangono certamente in un cassetto. Come ne escono? Arrivano nel 1906, assieme a libri e ad alcune lettere che Chopin le scrisse, a un piccolo collezionista che comprava e vendeva (assai a poco) e che abitava proprio a rue Pigalle, un centinaio di metri di distanza da una delle abitazioni di Chopin a Parigi. Lì, tutto viene smembrato, ma senza capirci più di tanto. I libri si ritrovano vent'anni dopo in vari cataloghi antiquari di Parigi. Delle lettere nulla si sa. Tranne forse di una, quella comprata da Bernard Gavoty a Londra, dove si racconta degli spiriti maligni che escono dal coperchio del pianoforte. Il resto è mistero, vero. «Caro maestro, mi permetta di parlarle con la confidenza che si conviene: quelle lettere forse dicevano la verità sul rapporto tra Chopin e Solange. Ma non ci sono: come non ci sono neppure le lettere di Chopin a George Sand, tutte bruciate dalla signora. Perché? I biografi danno una spiegazione troppo semplice: riconducono tutto alla crudeltà della scrittrice, ai suoi sbalzi d'umore, al suo egocentrismo. Niente affatto: George Sand era furiosa, troppo furiosa; mentre Chopin era distrutto, avvilito, e non solo per il suo stato fisico...» Ma cosa c'era in quelle lettere? Solo la prova del rapporto tra i due? Chopin si rivelava uno spirito ben diverso da quello che conosciamo: meno puro, meno romantico, certo più tormentato e contraddittorio? Quell'unica lettera ritrovata da Gavoty starebbe a testimoniarlo. Fu l'unica visione, l'unico delirio di Chopin? O c'era di più? Secondo il russo, che si permetteva di chiamarmi «Caro maestro», c'era di più. Ma, per quanto mi affascinassero, si trattava di fantasie eccessive, buone forse per rendere ancora più densa la storia del manoscritto. Eppure, in quel pomeriggio troppo caldo capii che - e non c'erano più dubbi - il suo manoscritto era autentico. Da un dettaglio: dal modo in cui teneva la sua borsa, senza abbandonarla mai, quasi fosse lui a temere qualcosa. Poteva portargliela via un vecchio pianista come me? Non era credibile. E allora c'era qualcosa di irrazionale, un'affezione del cuore che gli impediva di lasciare sul divano quella borsa, e lo costringeva a tenerla tra le mani mentre mi parlava. Mani che osavano toccare la borsa quasi con voluttà, ma che poi vidi timide, tremanti, esitanti mentre accompagnavano le sue parole. Un uomo si tradisce particolarmente con i gesti: le mani parlano, hanno linguaggi che altri non conoscono, vanno spiate, osservate, seguite nei loro movimenti, morbidi, violenti, prepotenti. C'è un linguaggio fatto con le mani, che vive dietro le parole, e le sorregge. Più di una volta mi sono sorpreso a immaginare come avrebbe suonato un mio allievo (ne ho avuto qualcuno, ma per un breve periodo) osservando come muoveva le mani durante il colloquio preliminare. E debbo dire di non essermi sbagliato quasi mai. Le mani del russo a guardarle bene erano forti, passionali e rispettose. Sentivano la forza musicale di quel manoscritto, e al tempo stesso erano legate a esso da una malattia possessiva. Forse lo aveva tenuto con sé molto tempo. E chissà, l'avrà magari nascosto in qualche anfratto della sua casa di Mosca, senza che nessun poliziotto se ne potesse accorgere (e che ne sanno poi, gli aguzzini totalitari, di calligrafie delle passioni). Il mio amico (e qui mi sorprendo a chiamarlo per la prima volta in questo modo) proteggeva la sua borsa come fosse una creatura fragile, come un messaggio in una bottiglia da gettare in un mare in burrasca, al punto che mi allontanai da lui: mi alzai, e presi a passeggiare per la stanza, come a rassicurarlo. Anche il mio era un messaggio, ma lui continuava a parlare: «Non mi chieda troppi dettagli, maestro, sui passaggi di questo manoscritto. So da dove partì, e so come arrivò dalle mie parti. Nel 1946 si sentì parlare di un pianista del conservatorio di Mosca, uno che scomparve tre anni dopo, e non se ne seppe più nulla. Non fuggì in un'isola incontaminata, maestro, dalle mie parti si andava al freddo per non tornare più. Bene, si diceva che questo pianista suonava le Ballate di Chopin in un modo strano. All'inizio si parlò delle Ballate, in un modo generico. Ma le informazioni in ambienti come quello si fecero subito morbose. Come suonava quelle Ballate? In un modo normale, le prime tre. La quarta, alla fine cambiava. Assomigliava un po' alla parte finale della seconda, con un Molto agitato, o meglio, pareva un Presto con fuoco, ed era diversa da quella che conoscevamo tutti. Lei può capire come queste notizie circolino in ambienti così ristretti. Perché proprio lui ebbe il privilegio di leggere quella partitura?» Dopo la caduta dell'impero sovietico, ho potuto sapere qualcosa di più di quel fantomatico pianista. Dagli archivi del Kgb risulta che il suo nome era Andrej Charitonovic, era nato il 6 marzo 1928 nel paesino di Zovnin, non lontano da Kiev, in Ucraina. Virtuoso e promettente concertista, fu arrestato nella notte tra il 16 e il 17 febbraio del 1949 e spedito in un lager probabilmente perché la sua omosessualità, vissuta in modo troppo esplicito, infastidiva. Neppure le carte del Kgb mi hanno saputo dire quale fu il suo destino. Morì probabilmente in un campo di lavoro siberiano nell'inverno del 1957. Nel foglio si davano informazioni anche sulla sua famiglia: tutti deportati, tra il 1950 e il 1952, e tutti morti sul finire degli anni cinquanta, madre, padre e due fratelli più grandi di lui. Ma il mio amico russo mi spiegò che tra il 1947 e il 1949 Charitonovic ebbe un ruolo importante al conservatorio di Mosca, dove fu l'amante di un vecchio professore di pianoforte. Probabilmente fu lui a fargli leggere il manoscritto di quella Ballata. E forse il suo entusiasmo giovanile gli aveva fatto commettere un errore, non doveva suonare quelle note in presenza di altri. Chi lo denunciò? «Non saprei, maestro, è passato troppo tempo. Io lo conoscevo bene, molto bene e sentii suonare quel brano per la prima volta proprio da lui una notte in cui ci eravamo riuniti in molti ad ascoltare e suonare Chopin, che noi leggevamo come un compositore per metà polacco e per metà francese, che odiava i russi invasori. Doveva essere nel gennaio del 1949. Mio padre era fortemente contrario a quelle mie amicizie, forse sapeva i rischi che si correvano, e certamente non gli piaceva che uno di noi potesse suonare anche solo un frammento di quel materiale che era arrivato da Berlino, in un baule piombato al seguito dell'Armata Rossa. Ma non subito, sembra che quel materiale fosse trasportato a Mosca solo nel novembre del 1946. Prima fu esaminato con attenzione, e rimase fermo ancora a Berlino.» Quanti erano a conoscenza di quelle partiture? E di che cosa si trattava? Oltre a Chopin, cosa c'era? Più o meno il repertorio di Werth a Berlino e a Santiago, ma anche qualcosa di più. Nessuna Sonata di Beethoven sconosciuta però, certo molte pagine di Handel, Mendelssohn, Clementi, e soprattutto Bach, Liszt, e alcune pagine oscure di Debussy, pagine che lui non volle mai pubblicare. Erano partiture arrivate a Berlino per vie diverse, e provenivano - diciamo così - da collezioni private di mezza Europa. Alcune da Parigi, altre da Londra, e altre ancora da Vienna, naturalmente. Molte furono requisite ai legittimi proprietari, specie quelle di Parigi e di Vienna. Ma furono anche regolarmente comprate. Non si può dire che non sarebbero mai state pubblicate, ma si aspettava: non c'era fretta di far conoscere quelle pagine a tutti. Nessuna fretta. «No, nessuna fretta. Questo manoscritto ho deciso di offrirlo a lei da quando lo possiedo», il mio amico russo era quasi emozionato, forse si aspettava da me qualcosa di simile a un sorriso compiaciuto. Ma non venne, sebbene mi accorgessi che le sue mani e i suoi modi, che in un primo tempo mi parevano intollerabili, cominciavano a convincermi. E quel senso di repulsione si allontanava sempre più: «Ricorda quando le dissi che solo lei avrebbe potuto suonare in modo meraviglioso quel finale, frutto di una passione inconfessabile di Frédéric Chopin? Sono trent'anni che non lo sento più.» Qual era la passione che il mio amico riteneva davvero inconfessabile: quella di Chopin per Solange Dudevant? O forse la sua per Andrej Charitonovic? Non potevo che esser io a mettere assieme suoni che si univano in accordi o procedevano per arpeggi, per scale, e scale ascendenti e discendenti di terze, di quinte e seste, io che avevo tra le mani qualcosa che assomigliava a una storia e nello stesso tempo mi si chiedeva di completarla in un solo modo. Mi sentivo un predestinato. Sarei stato il primo pianista (un pianista che Liszt e Chopin avrebbero di certo apprezzato) a suonare veramente quelle pagine. Certo anche Werth e Charitonovic avevano potuto eseguire quel finale. Ma il primo era un mestierante, e il secondo era offuscato dai ricordi passionali e confusi del mio amico russo per lui. E non potevo esser sicuro che fosse un grande virtuoso come mi era stato detto. Anni dopo cercai di capire meglio che pianisti fossero quei due signori, uno russo e uno tedesco, che in quegli anni di blocchi contrapposti, guerre e dittature feroci, cercavano attraverso la scrittura di un polacco esule e nostalgico un sollievo da quel mondo che forse entrambi detestavano. Ma era come se quella tecnica fosse rimasta imprigionata nelle loro esistenze bizzarre, e per certi versi drammatiche. Non potevo sapere come fossero le mani di Werth e Charitonovic. Di Werth seppi qualcosa di più; di Charitonovic le notizie sfuggivano. La famiglia fu distrutta in pochi anni. E non c'erano altre informazioni. Ucraino, certo, ma quando iniziò a suonare il pianoforte? Molto giovane, come tutti. E quando arriva a Mosca? Probabilmente alla fine del 1945, con la famiglia. E termina gli studi nel 1947. L'attestato di diploma non è mai stato ritirato. Poi non si sa cosa accade, come nasce la relazione con il vecchio professore. E perché quel giovanotto alto, biondo e spavaldo viene in possesso di una copia (certo non dell'originale) di quella Ballata: la Ballata dedicata a Solange. Dove la suona, per la prima volta? E a chi? A un vecchio amante disprezzato che però gli permette di accedere a quel tesoro? E' molto probabile. Come è probabile che fu proprio il vecchio insegnante a denunciarlo quando capì che l'oggetto del desiderio di Andrej non era lui, ma ciò che lui possedeva. Doveva esser stata una rabbia sorda, e tremenda, una rabbia impetuosa quella che fece arrivare una lettera anonima, o qualcosa di simile, alla polizia sovietica. Attività sovversiva, omosessualità, un individuo che cercava di corrompere e di inquinare il sano ambiente socialista della scuola. E poi strane partiture, notti passate a suonare o a fare altro? Ce n'era abbastanza per un viaggio verso il mare di Bering. Per lui solo, però. Si dovevano evitare scandali in un luogo per molti aspetti sacro come il conservatorio di Mosca. Sparì solo Andrej, o forse - nel tempo - anche qualcun altro. Certo il mio amico russo, che fu il suo amante, da quel momento cominciò a pensare di fuggire. E in quel periodo dovettero iniziare le perquisizioni notturne, fino all'arresto del padre. E fu proprio Andrej Charitonovic ad affidargli quelle pagine. «Andrej mi consegnò una borsa, proprio questa borsa che lei sta guardando da quando sono entrato nella sua casa, me la diede tre giorni prima di finire in un campo di concentramento. Mi disse poche parole: "Non aprirla, per ora, ma nascondila dove puoi". Il suo viso era segnato, strappato il colletto della camicia. Sembrava che avesse avuto una colluttazione, ma non era spaventato, solo un po' affannato. Pensai che avesse rubato qualcosa, ma non gli feci domande: presi la borsa e la nascosi. In vari posti: ogni giorno la spostavo da un'altra parte. Poi lui scomparve, e non ci volle molto tempo per capire cosa doveva essere accaduto. Allora aprii quella borsa e vidi quello che c'era. Il manoscritto stava in una cartellina color amaranto, con il dorso e i lacci di cuoio. Maestro, sapevo bene di cosa si trattava. Fu un'emozione assai forte, non era solo il valore di quelle pagine scritte da Chopin, e neppure il fatto che alcune fossero inedite, diverse da quelle che si conoscevano. C'era un'altra emozione... sapevo che non sarebbe tornato, ne ero certo. E capii subito che quel manoscritto era stato portato via a qualcuno. La persona che si era vista sottrarre quelle pagine le avrebbe cercate in tutti i modi; e avrebbe sospettato di me, perché ero la persona più vicina ad Andrej, e si sapeva. Dunque ero in pericolo.» Forse non era in pericolo. Certo, Andrej era stato arrestato, ma per miopia e moralismo. I regimi totalitari sono stupidi, non sono in grado di costruire complotti su varianti di una partitura. Non capiscono quanto possa essere pericolosa una partitura di Bach, più ancora di un libro che inneggia alla libertà, contro le dittature del proletariato. Nessuno cercò il mio amico russo. O almeno così risultò anni dopo. Il suo nome non compariva tra le persone controllate dal regime. Solo il padre era considerato un individuo pericoloso, e fece una brutta fine. Ma lui perse molto del suo tempo a guardarsi da strani figuri che a suo avviso lo seguivano, e volevano portargli via quella partitura, e dunque quel poco di anima che sembrava essergli rimasta. La partitura rimase salda nelle sue mani, assieme a quella borsa che stringeva con voluttà, e ormai sapevo il perché. «Lei ricorda, maestro, quando ci incontrammo per la prima volta? Le dissi che la mia idea fissa era quella di fuggire dall'Unione Sovietica. Mio padre fu arrestato il 16 marzo 1949. Lo vennero a prendere che si faceva ancora la barba. Non disse nulla, non finì neppure di radersi; appoggiò il rasoio nel bacile, pulì alla meglio il viso dal sapone e prese a vestirsi lentamente. Mia madre, in silenzio, tentò di riempire una piccola borsa. Io guardavo la scena dal fondo di un breve corridoio. Mio padre mi lasciò il suo violino, quello che ho ancora adesso, ma non gli fu permesso di salutare, né me né mia madre. Morì nel 1951, o almeno così ci dissero, di tubercolosi. Ci spiegarono che fu curato, ma il suo fisico non poté reggere. Io dovetti aspettare altri venticinque anni per andarmene da Mosca. Fu nel 1976, suonavo in un modesto quartetto d'archi. Fummo invitati a Glasgow per un festival: per la prima volta nella mia vita potevo uscire dall'Unione Sovietica. A Glasgow non ci arrivai neppure. Scesi dall'aereo a Londra, arrivai in aeroporto e cominciai a correre. Salii su di un taxi e mi feci lasciare all'ambasciata americana. Mi presentai dal poliziotto all'ingresso e dissi, un po' goffamente: "Chiedo asilo politico". Un addetto all'ambasciata, un'ora dopo, mi guardò con aria interrogativa, e persino divertita: "Ma se lei vuole vivere in Inghilterra, perché è venuto a chiedere il permesso all'ambasciata americana?". Non seppi rispondergli.» Nel 1976, dunque, il mio amico russo ottiene asilo politico in Inghilterra, ma l'anno dopo è già a Parigi. Non è mai stato un grande violinista in Unione Sovietica, e non lo sarà neppure in Occidente. Per di più ha poche possibilità di entrare a far parte di un'orchestra. Finisce per vivere di espedienti. E quando lo conobbi credo si guadagnasse da vivere suonando in qualche orchestrina. Beveva molto, e la sua salute non era delle migliori. Probabilmente non lo cercava più nessuno. E il suo manoscritto fu dimenticato: erano passati trent'anni. Dunque, quelle del mio amico dovevano essere le fantasie di chi aveva perso un po' la ragione. «Come potrei avere il suo manoscritto?», chiesi a un certo punto con impazienza. «Non il manoscritto, maestro: la borsa. Io non le darò il manoscritto, io le darò la borsa che Andrej Charitonovic mi consegnò quel giorno. Quella sera lontana, tanto lontana che persino il suo viso mi appare come offuscato, e ormai non riesco più a ricordare l'espressione dei suoi occhi. In questi anni ho ascoltato molti pianisti. Li ho ascoltati tutti: a parte Horowitz che non ha più suonato in Unione Sovietica. Ma nessuno assomigliava a lui. Se Andrej avesse avuto il tempo per far conoscere il suo grande virtuosismo, ma anche la sua maturità interpretativa, ci si sarebbe accorti che suonava un po' come lei, maestro. Lo capii già nel 1958, quando riuscii ad ascoltarla a Leningrado. Lei certo non lo ricorderà, ma in quella occasione suonò proprio la Ballata in fa minore, la quarta Ballata di Chopin. Iniziò il tema d'esordio ed ebbi come un tremore, inspiegabile, mi sembrava di riascoltare Andrej. Quel giorno seppi a chi avrei dato questa borsa. E provai a fargliela avere le due volte successive che venni ai suoi concerti. Senza riuscirci. Non potevo neppure avvicinarmi al suo camerino. Oggi io so che se per ogni uomo c'è un destino, il mio è stato quello di consegnarle questa borsa. Perché è lei che deve possedere queste pagine. Il prezzo lo faccia lei, fossi ricco non chiederei nulla, ma ormai vivo a fatica di espedienti. Così mi affido alla sua generosità.» Forse mi aveva raccontato una storia completamente falsa, e ben architettata. Forse mi lasciai convincere, affascinato dalle simmetrie di quella vicenda, da quei destini di uomini così diversi, ma in quel momento contò ancora di più sentirmi il terminale di tutto: molte persone erano esistite perché quei fogli arrivassero fino a me. Cominciavo a diventare pazzo? Probabilmente. Certo che in quel delirio musicale dovevo starci bene, al punto che decisi di non aprire neppure la borsa, di farmela dare senza controllare: poteva non esserci nulla dentro, essere una truffa. Ma io sapevo che a volte la vita vale un gesto arrischiato. Lo avvertivo confusamente, ma ero arrivato a 58 anni per vivere quel momento; e non potevo rovinare ogni cosa andando a controllare, come un qualunque acquirente di salumi, se stavo per essere ingannato, o se invece era tutto vero, come il destino voleva che fosse. Non guardai, e mi fidai della mia fierezza, e del fatto che la storia era troppo perfetta per esser stata inventata. Fui generoso e non chiesi altro. Le sue mani lasciarono quella borsa, ancora con qualche esitazione, probabilmente rimase colpito dal fatto che non controllavo il contenuto. Non so cosa pensò, ma prima di congedarsi mi disse: «Forse quando la suonerà, io sarò lì sotto, sotto queste finestre, ad ascoltarla». Non risposi, non avrei mai fatto per lui un concerto privato, e poi era giusto che mi spiasse ancora mentre suonavo, lui, che era entrato in modo così prepotente nella mia vita. Una sola cosa gli chiesi, prima che scendesse i gradini delle scale: «Mi scusi, Evgenij, ma perché lei quel giorno disse che la ragazza uscita dal mio portone aveva un cappello?». Mi guardò perplesso, poi rispose: «No, maestro, non aveva nessun cappello, forse ricorda male...». Capitolo ottavo. C'è un punto in cui l'anima si congiunge alla materia. E' marginale, piccolissimo, e non sono molti i pianisti che lo conoscono. In termini tecnici viene denominato, assai freddamente, «coordinatore fra l'azione del tasto e quella della meccanica». A vederlo sembra una normale vite, molto piccola, conficcata nella parte finale del tasto, quella che non si vede più perché sta dentro il pianoforte. Il coordinatore sposta in alto il talloncino del cavalletto e, attraverso un sistema di montanti, di rullini, di leve e di molle, quella piccola vite aziona il martelletto che percuote la corda. Ma «l'azione del tasto» è la mia azione, è il riflesso delle mie dita, è il mio pensiero della musica: affidato a una piccola vite che quasi non si vede. Se tocco il tasto con più morbidezza, quella vite deve trasmetterla alla meccanica, e la meccanica deve suggerirla al martelletto che andrà a colpire la corda tesa al punto giusto, secondo un carico ben preciso. Quando mi dicono che l'universo è insieme semplice e complesso, penso al mio pianoforte e capisco esattamente cosa si intende con questa espressione. Quando inizio a suonare la quarta Ballata, e suono le prime note sul mio strumento, accade qualcosa di terribilmente complesso, che qui accenno, sapendo che queste parole potrebbero risultare incomprensibili: premendo il tasto il movimento viene trasmesso tramite il pilota alla leva intermedia; il montante agisce in seguito sul rullino del martelletto, il quale si alza in direzione della corda... Eppure il suono di quell'ottava di sol, l'inizio di quella Ballata, è qualcosa di straordinariamente aereo, impalpabile, perfetto. Quei due sol, figli di anni di studi sulle meccaniche pianistiche, sembrano venire da un prodigio, non da assicelle di legno ben costruite, neppure da sistemi di leve complessi e perfetti. Ma è tutta materia, tutta tecnica costruttiva. Più volte mi sono chiesto quanto potevo influire su quella vera e propria tecnologia; quanto potevano fare le mie mani, e quanto proveniva invece dal mio Steinway. Non so ancora dirlo oggi, a distanza di anni. E se guardo il pianoforte di questa casa, il mio, lo vedo perfetto nella sua tastiera di tasti giallo avorio, che variano lievemente di sfumatura uno dall'altro, e di tasti neri; perfetta nell'intreccio delle corde, nel nero brillante degli smorzatori che sembra vogliano proteggere quelle corde; e ancora nelle chiavi d'acciaio lucente, infisse perfettamente nel telaio giallo-oro. Sembrano forme classiche, antichissime, pensate da sempre in quel modo. E invece sono figlie di uno studio incessante, che ha cambiato l'aspetto degli strumenti di continuo. I pianoforti che suonava Chopin erano molto diversi: le corde erano fino a cinque volte più sottili di quelle di un pianoforte costruito oggi, e dunque il suono più debole e più intimo. Più volte ho pensato di dare un concerto con uno strumento concepito nella prima metà dell'Ottocento. Ma non ci sono mai riuscito: sono nato nel 1920, ho suonato pianoforti sempre diversi, e via via sempre migliori. Quelli di Pleyel, per esempio, erano strumenti che richiedevano ancora di esser perfezionati. E Chopin era costretto a suonare strumenti che oggi considereremmo non all'altezza della sua musica. Allora quella grandezza è testimoniata dai segni che tracciava, che scriveva sui fogli, più che dal suono dei suoi strumenti. Solange avrebbe potuto suonare quelle pagine? Forse. Ma ora dovevo essere io a leggerle con attenzione, Perché ciò che è scritto non è sufficiente a dare il carattere di una partitura: va suonata, e suonandola viene completata, si chiudono le parti lasciate bianche, risuonano persino le pause e le esitazioni delle mie mani. E il merito è anche di questa piccola vite, l'anima del pianoforte, che registra ogni mia rabbia musicale e ogni mia pacatezza. Evgenij (ora potevo usare il suo nome, ora che sapevo non essere quello di un volgare truffatore) lasciò la casa quasi sollevato, dalla mia finestra lo vidi dirigersi verso la rive Gauche, verso Saint-Julien-lePauvre. Poi guardai la borsa, ma non la toccai subito. Andai al pianoforte e suonai per un po': alcuni Preludi di Debussy, poi due Studi di Skrjabin. Infine decisi di stancarmi per bene, andai alla libreria, presi il secondo volume del Clavicembalo ben temperato, e lo suonai tutto, tutti i Preludi e le Fughe. Era qualche anno che non tornavo a Bach, e mi sorprese la capacità di non sbagliare anche di fronte a pagine che non eseguivo da tempo. Alla fine ero stanco, la schiena mi doleva quanto bastava. Andai alla finestra, per controllare che Evgenij non fosse lì, ad aspettare che io suonassi le note che ben conosceva. Mi accorsi che da quando era iniziata quella storia non avevo mai suonato la quarta Ballata, forse attendevo la versione definitiva, forse non lo feci per qualche pensiero scaramantico. Non so. Invece so che presi la borsa consumata e la aprii. Dentro c'erano due scomparti: uno era vuoto, l'altro conteneva la cartellina color amaranto, con dentro dei fogli dai bordi smangiati, non erano molti. Li presi con delicatezza e li sfilai, poi senza guardarli mi andai a sedere alla scrivania. Accesi la lampada, ma non c'era bisogno di altra luce, e guardai la prima pagina. La carta era di color avorio. I bordi avevano disegni in rilievo, decorazioni che facevan da cornice al foglio, fatta di motivi vagamente floreali, ma anche tratti che evocavano strumenti musicali dell'antichità, come la cetra o il flauto. Quella cornice in rilievo dava eleganza ai fogli. L'inchiostro era di color nero (James, poi, mi corresse: «Grigio nero»), ogni foglio conteneva tre righe musicali solo sul fronte del foglio, e non sul verso. Ogni riga, cinque misure. Contai le pagine, ma evitando di guardarle: erano sedici. L'ultima aveva il bordo inferiore particolarmente rovinato, e l'angolo strappato, quasi a lambire l'accordo finale di fa minore (e, a guardar bene, la nota del fa basso dell'accordo di ottava della mano sinistra mancava assieme al lembo tagliato). Tornai alla prima pagina, era di un avorio più sporco delle altre, e c'era qualche macchia di umidità. A sinistra, sopra la prima misura, quasi appoggiato al quinto rigo della partitura c'era scritto: «Ballade», sopra ancora, al centro, quasi a intestazione del foglio: «dédiée à Madame Solange Dudevant». A destra, a matita, c'era scritto: «op. 52». Mi fermai, guardai la scrittura di quelle poche parole della prima pagina, la stessa che continuo a guardare oggi, a distanza di anni. La «B» di Ballade era più grande e in basso non si chiudeva; la «e», quasi accennata, sembrava una «i». Mancava la dizione: «pour le Piano forte». Mancava anche: Andante con moto. Prima indicazione del brano. Una dimenticanza? Forse. Cominciai a sfogliare le pagine, rapidamente, poi andai a prendere la mia partitura. L'edizione delle Ballate curata da Ewald Zimmermann per la Henle Verlag di Monaco, del 1976. Ed ecco le prime lievi differenze: all'inizio del tema principale, all'ottava battuta, l'annotazione mezza voce diventava ppp. Ma erano dettagli. Chopin stesso non era molto rigoroso in queste cose: per esempio scriveva al suo copista Julian Fontana di guardar bene se aveva contato in modo giusto, e «in caso contrario, di correggere». Era come fossi trattenuto dall'arrivare alla battuta 211, ovvero alle ultime due pagine, la 15 e la 16. Quasi a temere una delusione. E mi accorgevo che giravo attorno a quei fogli come se il mio leggerli fosse un libero contrappunto al contrappunto stesso di Chopin. Guardavo e confrontavo, leggevo e mi ripetevo i motivi nella mente, ma poi mi fermavo e tornavo indietro, di due, tre misure, forse a riprendere qualcosa che prima mi era sfuggito o, se non mi era sfuggito, non gli avevo dato importanza. Che scrittura era quella di Chopin? Mi pareva un manoscritto piuttosto ordinato. Vergato in bella copia da Chopin per Solange affinché fosse il più leggibile possibile. La diteggiatura, nelle parti più complesse, era segnata in modo molto dettagliato. Se fu scritta nei primi tre mesi del 1849, le forze di Chopin erano ridotte a nulla, e per lui deve essere stata una fatica mortale portare a termine questo regalo per Solange. E si vede da una scrittura che a volte ha l'orgoglio di chi non vuole soccombere ed esser schiavo della malattia (le parti più marcate sul foglio) e subito dopo si perde come un capogiro, diviene accennata, quasi Chopin, consapevole dello sforzo, si lasci andare a pochi tratti leggeri (o, come avrebbe scritto lui, leggieri) quasi a risparmiar altre forze per il dopo. Ero ammirato da quel cromatismo intenso e lieve di un inchiostro che qua e là macchiava il foglio di piccole gocce che ingannerebbero chi non è musicista, e potrebbero persino esser scambiate per note, ma non da chi conosceva assai bene quella partitura come Solange; alla quale era destinata come fosse una lettera privata, una dichiarazione d'amore impossibile, perché musicale: e la musica non è un modo per parlare di passione, non è un romanzo sentimentale, è essa stessa passione, una relazione pericolosa a cui non devi cedere mai del tutto, perché ti acceca, ti impedisce di vedere il mondo, ti costringe a parlare di cose di cui nessuno sa nulla. Ti obbliga insomma a inseguire le note con le parole, e per quanto anche le parole possano avere un suono, un ritmo, possano essere melodia, non riusciranno mai a ripetere quelle armonie che cerchi di raccontare, di descrivere; e non solo in pagine come queste, anche in un colloquio, semplice e banale, con il tuo accordatore. A cui cerchi di spiegare perché hai bisogno che il pianoforte diventi più leggero, meno impetuoso; perché non suonerai Beethoven, ma Debussy, e Debussy vuole suoni mescolati e morbidi, e pedali impercettibili. Solo i falsi romantici pensano che si possa dedicare musica al posto di parole. Il rapporto tra Solange e Chopin doveva essere molto più sfumato e contraddittorio per credere che quei fogli fossero dettati da una melanconia dello spirito, o soltanto dalla coscienza di un amore impossibile. No, per quello poteva bastare una qualche Bourrée o una Valse Mélancolique, non c'era bisogno di scomodare quello che è da tutti considerato uno dei massimi capolavori mai scritti per il pianoforte. E allora perché esitavo ad andare a quelle due pagine finali? Perché non le scorrevo subito, per capire almeno una cosa: se era vero che erano diverse da quelle che conosciamo? Le mie mani esitavano, quasi a voler ritardare all'infinito quel momento; ed esitavano mentre nella mia mente risuonava il mondo in fa minore, e tutto nella mia stanza era diventato in fa minore: oggetti, quadri, poltrone, sedie, divani, orologi, tappeti. Sentivo che tutto era marcato da quattro Bemolle sulla chiave della mia vita. Ed era come se una scala di fa minore mi corresse tra una tempia e l'altra di continuo, come fosse un'onda costante, ed insopportabile. A mezza voce, che diventa pianissimo. Una pausa a corona che si sposta di una nota e accentua le esitazioni. C'è più trasporto romantico in questa versione o invece, come comincio a sospettare (e con sollievo, debbo ammetterlo), una lucidità quasi classicheggiante? La risposta sarà nelle pagine 15 e 16, ma intanto continuo a guardare quella scrittura volutamente elegante e precisa. Forse questo manoscritto non è una copia di lavoro, ma fu scritto in bella da Chopin successivamente. E in questo caso ci dovrebbe essere ancora un manoscritto, un altro, precedente, con le correzioni, le esitazioni, le frequenti cancellature. Allora forse dovrei cercare ancora altre pagine che mi svelino quello che ora sto leggendo; e sarebbe troppo, non riuscirei più a tollerare questo gioco di rimandi. Ma se il manoscritto è questo, allora debbo dire che Chopin non ebbe grandi esitazioni. Che la scrittura appare decisa in molti punti, e sembra decisa in particolar modo quando invece è la partitura a sembrare esitante, quando le note vanno interpretate, quando non basta scrivere a mezza voce oppure crescendo, dolce, fortissimo, ritenuto, con forza. Quanto ho discusso con i miei maestri su queste annotazioni agogiche! Com'era un crescendo per Paderewski? E per Rubinstein? E per lo stesso Chopin? I biografi raccontano che spesso lui stupiva, perché in concerto poteva variare a suo piacimento: decidere un pianissimo, al posto di un fortissimo. Eppure era un rigoroso esecutore, anche di sé stesso. Una sera Franz Liszt suonò alcuni Notturni in sua presenza, e li fioriva con mille piccole e leziose variazioni. Chopin si irritò: «Se vuoi eseguire i miei Notturni», disse, «ti pregherei di suonarli come li ho scritti». Liszt si offese e lasciò a Chopin l'onore di suonarli lui stesso. Dunque, niente abbellimenti inutili, niente languori romantici eseguiti a sproposito. Lo vedo anche da queste pagine, precise, lineari, eppure così accese in un tormento lucido, appassionato e rigoroso. Un uomo che aveva messo assieme quello che viene chiamato il trasporto romantico con il Cours de Contrepoint et Fugue di Cherubini. E qui si sente, dalla battuta 58, dopo alcune note tenute inizia il contrappunto libero del tema. Il grigio nero dell'inchiostro si fa più saturo, quasi il metodo compositivo prevalesse sulla malattia e sul senso della perdita; perché Chopin di certo sapeva, in quei primi mesi del 1849, che quel male non gli avrebbe lasciato più scampo, e affidava, lui mondano come pochi, a una partitura destinata a rimanere segreta il suo testamento musicale. La scrittura della battuta 58 e delle seguenti è meccanica, precisa, non lascia dubbi, non apre spazi di interpretazione. Le gambe delle note di tanto in tanto tremano, come fosse colto, proprio mentre il pennino era appoggiato sul foglio, da un colpo di tosse improvviso e violento, che lo costringeva a smettere, quasi lo soffocava. Più di una volta in queste pagine la penna vola altrove, e l'inchiostro traccia segni che assomigliano a cancellature discrete, come se la tubercolosi si beffasse non solo del suo corpo, ormai neppure in grado di salire una sola rampa di scala, ma anche della sua mente musicale, e delle sue mani e, in una parola, delle sue composizioni. Si dice che negli ultimi concerti, l'anno precedente, gli capitasse spesso di svenire tra un tempo e l'altro per la debolezza. E che Chopin eseguisse la sua musica con molti pianissimi non certo per scelta musicale, e neppure perché la maturità lo avesse indotto a ripensare la sua musica con maggior levità, ma solo perché le sue forze non reggevano un pianismo più vigoroso. Forse fu vero anche questo. Ma non mi basta, ora che questa carta lanosa non sfugge più ai miei polpastrelli, ma posso accarezzarla fino a sentire i lievi solchi, le leggère incisioni del pennino; e se la studiassi al microscopio vedrei fiumi e gole e alture, e oltre le note scoprirei un paesaggio invisibile che potrebbe corrispondere alla musica da cui nasce, una natura di carta che si trasforma in pura musica. Per merito mio, e delle mie piccole viti in fondo ai tasti, nascoste come fossero tante ipofisi dell'armonia, che danno l'ordine meccanico a quella grande macchina perfetta, il mio Steinway. Tutto torna come in una perfetta geometria della volontà e delle emozioni. Persino le lettere tr che indicano i trilli sembrano vivere sotto la penna di Chopin, come se nel gesto di scrivere quelle due lettere vibrasse tutto il corpo. In un punto, sotto la battuta 116, vedo una macchia assai piccola, amaranto, forse color seppia, mi chiedo se sia sangue, quello che gli usciva dai polmoni quando tossiva, o se invece si tratta di una macchia successiva, di non so chi: Solange forse, o tutti gli altri che avranno maneggiato quelle pagine. Eppure sembra vecchia, seppellita da quella leggera polvere di 130 anni, che non si vede più ma uniforma gli inchiostri, crea uno strato che si stende impercettibile sulle pagine. Nessuno ha mai legato assieme questi fogli, li sfoglio uno per uno, e mi accorgo che le decorazioni sono diverse, cambiano di pagina in pagina, seppur leggermente. Alla battuta 164 il tratto è leggermente più spesso, forse Chopin cambiò pennino; guardo bene: nel passaggio del cambio di pennino c'è un piccolo foro, uno strappo della carta che quasi non si vede, nascosto in parte da una biscroma di sol bemolle. Sotto quelle note Chopin ha scritto: accelerando. Alzo il foglio fino a metterlo in controluce, contro la lampada, e mi accorgo che ormai si è fatta sera, la luce passa da quello strappetto, riaggiustato per bene, ma non troppo. La luce illumina il mio foglio, passa attraverso come uno spillo fastidioso, e in fondo, in penombra, c'è il mio pianoforte. Mi alzo, e vado a sedermi alla tastiera: portando con me i fogli, deciso a suonare tutta la Ballata e - a prima vista - le ultime pagine. Non voglio essere come il mio amico James, che degusta i manoscritti come fossero uno dei suoi whisky raffinati, o una delle sue macchine per riprodurre musica. Io posso suonare tutto questo, anzi, è mio dovere. Alzo il leggìo, riordino i fogli dalla prima pagina e li allineo bene uno con l'altro. Manca la dicitura Andante con moto, ma non importa, lo suonerò ugualmente così. La mia mano destra comincia a far risuonare la stanza di ottave di sol, legate, come voleva Chopin. E mi accorgo subito che non sto leggendo le note, che peraltro conosco a memoria, alla perfezione. Ma quello che nella pagina c'è oltre le note. Le mani procedono agili, e più lente di quanto si dovrebbe. Se il taglio di una croma è più incerto, la mia nota diviene più incerta; se marcato con più forza, a intingere nell'inchiostro il pennino e macchiare quasi il foglio, be', allora tendo ad accentuare la forza delle mie mani sulla tastiera. Anche i manoscritti hanno un'anima, non solo i pianoforti. Alla nota che dà inizio al tema della Ballata (uno dei temi della ballata), al do che qui Chopin indica con ppp, quasi mi fermo, come a voler calibrare l'attesa delle note successive sullo spazio bianco che separa quel do dal successivo re bemolle. Stavo prendendomi delle libertà inaccettabili. Davo un valore a quelle note secondo criteri che non esistevano, eppure sapevo che se esiste una calligrafia delle passioni, quello era il modo di renderla al meglio. Se volevo capire quella partitura, dovevo cominciare daccapo, e non con quella fretta che toglie ogni chiarezza, che non si compiace dell'attesa, che cede inutilmente alla curiosità. Suonai le prime pagine come se avessi una lente di ingrandimento, anzi desiderandola. Avrei ingrandito quelle note che conoscevo da decenni fino a trasformare quei tratti di inchiostro in segni misteriosi, non più note, dèmoni sensuali che ordinavano alle mie mani di suonare quella musica. Come avrei suonato quel piccolo strappo sul sol bemolle? No, ora stavo esagerando, la musica non può essere letta in questo modo. Eppure sapevo che dietro quei segni non c'era la casualità di un uomo che scriveva come poteva, stremato dalla fatica e dagli attacchi di asma: c'era un disegno, c'era una volontà. Ed era la volontà di chi sapeva comunicare oltre le semplici note, la volontà di un grande compositore a cui non bastava più mandare alla donna che mai avrebbe confessato di amare una partitura in dono, ma aveva bisogno di aggiungere qualcosa, e di certo non a parole. Guardavo quei fogli, quell'inchiostro indeciso, quei tratti prima sottili e poi spessi, quei segni che talvolta sembravano delle cancellature, e capivo che dovevo imparare a leggere la musica, e in un modo diverso da quello che avevo sempre conosciuto. Dovevo trasformare gli stati d'animo in musica, non basarmi soltanto su un canone, un insieme di regole codificate da molti secoli; regole che non lasciavano spazi, che soffocavano tutto. Cominciavo a capire cosa intendesse il mio amico James quando sosteneva che per lui un manoscritto musicale era come un quadro di Paul Klee o di Kandinskij, che c'era un altro modo di leggere quei fogli, un modo che spesso i musicisti ignoravano. Ora, io cominciavo a scoprire quel modo, che mi portava a fare un passo in più rispetto al mio amico James, che poteva goderne solo con la vista e con il pensiero: potevo trasformare tutto questo in musica, in pura musica. E il solo pensarlo mi riempiva di una gioia che non provavo da tempo, e che mi sorprendeva allora, come mi sorprende oggi. Da quest'eremo svizzero, dove ho scoperto che la noia è fatta anche di numeri, e si può scandire con le ore della giornata, ho per me stesso un sentimento simile alla tenerezza se penso al mio entusiasmo di quei giorni. Oggi so che quando un uomo crede di possedere l'intuizione del tutto, e si convince che solo dal particolare si possa risalire a Dio, allora vuol dire che ha fatto un solo passo, un solo gradino, di una scala infinita. E l'entusiasmo sta nel sentirsi al sicuro, superiore alle cose, quando invece non è così, perché tutto ci sovrasta. Credevo di possedere il mondo in una nota indecisa, e invece ero entrato in un mondo che mi ero sempre rifiutato di considerare, io: protetto dai filtri del mio talento, della mia ricchezza. E solo allora capivo che le mie mani avrebbero avuto molto da fare per trasformare quelle note ambigue in qualcosa che, come in un perfetto microcosmo, mi restituisse il senso della mia esistenza e, con quello, il senso di tutto ciò che mi aveva circondato fino a quel momento. Capivo che ognuno di noi era chiamato a contribuire all'ordine dell'universo, ad arricchire quel rumore di fondo di suoni riconoscibili, di tonalità più sofisticate, per trasformare il Dio pneumatico, che soffia musica nelle nostre anime, in qualcosa di comprensibile e definibile. E a me serviva Chopin: lui, la sua Ballata, per arrivare a questo. Mi serviva un russo romantico. Un raffinato collezionista e una donna che portava lo stesso nome di una passione segreta del mio Chopin, al punto da dedicare a essa una partitura importante. Solange fu l'inizio di quella storia: per me, come per Chopin. Solo che la mia Solange sarebbe riapparsa dopo, con la forza della casualità che tutto spiega, e a tutto dà un senso. C'era un progetto divino che mi faceva unire le due Solange per poi farmi suonare quella partitura? Il mio Dio che suona una nota, un accordo di quinta eccedente in fondo all'universo può mandarmi una Solange al caffè di rue de Rennes? No che non può. Sono io a dare un senso agli eventi. Posso cercare mille Solange, e non trovarle, eppure sentire ugualmente quella frequenza infinita, quella radiazione fossile, quella nota che viene dai confini dell'universo nel freddo buio che nessuna partitura mai scritta potrà squarciare, quasi fosse un fondale sbagliato, che non ti lascia possibilità. Ma allora ero salito all'origine dei miei suoni, ero arrivato al manoscritto, lo stavo suonando, e mi bastava; meglio, credevo fosse tutto quanto potessi desiderare. Mi avvicinavo lentamente alle due pagine finali, di cui ancora non sapevo nulla; e volevo che mi apparissero come un bagliore, un'emozione fortissima. Volevo essere come un pellegrino che arriva alla cattedrale di Tours, o di Nôtre-Dame, e prima cammina per viuzze tortuose, fiancheggiate da case basse, da vicoli strettissimi dove il sole penetra come una lama, e per poco; ma poi, come d'improvviso, esci in una piccola piazzetta, volgi la testa verso l'alto e trovi, quasi all'altezza di Dio tanto sembrano alte, le torri campanarie del gotico francese. Ed è un effetto strabiliante. Perché vorresti vedere tutto l'insieme con la calma della prospettiva e invece sei costretto quasi a sfregare la schiena contro la casa più lontana dalla facciata (che poi è sempre troppo vicina) senza che tu riesca in nessun modo a cogliere il tutto di quell'evento visivo. Volevo insomma che il passaggio dalla pagina 14 alla pagina 15 fosse così, come la visione improvvisa della facciata di un capolavoro gotico: folgorante, paralizzante, da fermare almeno per un attimo quelle mie mani ormai agilissime, mio malgrado, incapaci di fare ordine su quelle note, che sapevo già intense, e probabilmente molto difficili. E man mano che procedevo, lentamente, sapevo che quelle due pagine mi sarebbero apparse d'un tratto, perché la battuta numero 211 era la prima della quindicesima pagina. Quindi l'effetto emotivo che avevo previsto era facilitato: avrei girato pagina e avrei visto quelle note, e tutte assieme. Ma prima dovevo arrivare a quegli accordi sospesi che fanno pensare a una conclusione della Ballata, e invece preludono al finale. A quel punto mi fermai: potevo farlo, non ero a un concerto, neppure in sala di incisione. Guardai quelle note, quei cerchietti sovrapposti, come direbbe qualcuno che non ha mai visto una pagina di musica: così irregolari che taluni non si chiudevano neppure. Mi sembrava che Chopin avesse voluto evidenziare le legature che stavano sopra gli accordi. Come se fossero state rimarcate in un secondo tempo, con un pennino più spesso e un inchiostro più granuloso. Ma forse esageravo. Voltai pagina e mi ritrovai in un mondo che non conoscevo più. E non riuscivo quasi a leggere, mi venne come un'angoscia. La stessa del sogno, la stessa che mi prese quel giorno sul Lungosenna. Ebbi paura. E mi alzai dal pianoforte per andare alla finestra come a scacciare un lieve malore. Respirai profondamente, più di una volta. Ma tutto attorno a me continuava a girare, e la Senna sembrava una cascata d'acqua, e le due torri di Nôtre-Dame parevano le pale di un mulino che pescavano acqua dal fiume. Persino la Tour Eiffel oscillava come un gigantesco pendolo d'acciaio, e le stelle correvano come fossero astronavi lontanissime. Sapevo che tutto questo sarebbe passato, che anche il mio cuore avrebbe rallentato i battiti, che ogni cosa sarebbe tornata normale; così mi sarei seduto al pianoforte per guardar meglio quella pagina. Avevo visto subito: quella non era una partitura ricopiata, non c'erano segni più leggeri, più forti, note più intense, e gambe più tremolanti, crome più o meno svolazzanti; lì c'erano le note che Chopin doveva scrivere appoggiato faticosamente sul leggìo del pianoforte, con entrambi i gomiti, la testa appoggiata al braccio, la mano alla tastiera a riprovare gli accordi, gli arpeggi, le note. Prima la sinistra, poi la destra, poi entrambe, e dunque subito dopo a correggere i passaggi che, provati a mani unite, potevano non convincerlo. C'erano battute cancellate quasi con violenza, e sostituite da altre scritte ai margini del foglio. Sembrava un campo di battaglia, non una di quelle meravigliose partiture, una delle tante, che avevo imparato ad amare quando bambino, piccolissimo, sfogliavo quei fogli stampati, grandi, dalle note perfette, distanziate una dall'altra con la regolarità che ci vuole. E solo quello per me era il mondo: equilibrato, rassicurante, anche quando le note diventavano tante, troppe; ed erano accordi, ricchi di alterazioni, di diesis e bemolle, e doppi diesis e doppi bemolle; e ancora trilli, e notine più piccole, quelle che noi chiamiamo abbellimenti, e note acciaccate. Eppure, in questo universo di cinque righe, io scoprivo un ordine, anche nella passione, un ordine sensuale. E tutto quell'ordine mi trasmetteva una sicurezza: la musica, la mia musica, quella che io sceglievo di suonare era lì, stampata con precisione, con gli intervalli, le pause e le parole scritte in corsivo. Con quell'eleganza tipografica un po' antica che ancora oggi mi affascina. E per di più era in bianco e nero, un'immagine in bianco e nero che parlava quanto un'incisione di DÜrer. Sapevo cos'era un manoscritto. E non solo: conoscevo anche la differenza tra un manoscritto copiato e uno di lavoro. Ma per quanto fossi davvero abituato agli sgorbi di un compositore ottocentesco, quelli mi coglievano impreparato. Cosa avrà pensato Solange di quelle note? E non sarà stato poco gentile inviare a una donna un testo non ricopiato, inconprensibile per chi non aveva grande consuetudine con la musica? Ragionavo come uno sciocco pianista che pensava al passato come alle sue partiture di bambino. Come se l'ordine, la calligrafia delle passioni, passasse da regole precise, da convenienze, da educazioni. Come se il mio universo di note si potesse estendere a chiunque. Non era così, e lo stavo imparando: anche a spese della mia testa, che ora girava un po' di meno. Tornai allo Steinway. Quasi lo accarezzai andando dalla coda verso la tastiera. Poi di nuovo seduto davanti al leggìo, guardai quel foglio, il quindicesimo, e quello successivo, l'ultimo: trattenendo il fiato. Da dove cominciare? Intanto l'indicazione diceva: Presto con fuoco, la stessa indicazione che compariva in un tema della prima, e poi della seconda Ballata. Presto con fuoco. Ogni pianista sa come suonare un Presto con fuoco. Come il pianoforte si deve trasformare in un oggetto incandescente, di cui però non bisogna aver paura. E le dita scappando da una parte all'altra della tastiera, salendo e scendendo, debbono dare l'impressione di non fermarsi e al tempo stesso di maltrattare i tasti, di farsi sentire. Come uno spadaccino pronto a saltare ovunque con agilità in un duello, capace però di colpire con forza, facendo sentire la lama che risuona contro quella dell'avversario. Le mani saltano, con grande agilità: eppure i tendini sono forti, le dita percuotono i tasti con vigore e si alzano dalla tastiera più del solito. Gli studenti faticano moltissimo a imparare una tecnica come questa; richiede forza, precisione e velocità, molta velocità. Dopo il 1841, Chopin non suonò più in concerto i passaggi delle sue composizioni che avevano dei Presto con fuoco. In particolare la seconda Ballata, di cui eseguiva soltanto la prima parte, quella più lenta. Le sue condizioni fisiche glielo impedivano. Queste pagine furono scritte invece nel 1849, sei o sette mesi prima di morire, e di certo non poteva suonarle. Dunque le scrisse, e mai le suonò. Certo dovette ascoltarle da Solange. Perché nessuno avrebbe dovuto conoscere queste pagine. Dunque Solange prese lezioni da Chopin sul come eseguirle, perché non era una pianista di straordinario livello tecnico, quello che ci vuole per suonare questo Presto con fuoco. Guardai l'ultima pagina, c'era una data: 17 febbraio 1849. Esattamente otto mesi prima della sua morte. Due giorni prima, il 15 febbraio, Pauline Viardot, amica di Chopin, scriveva a George Sand: Mi chiedete notizie di Chopin. La sua salute declina lentamente con giorni passabili nei quali può uscire in carrozza e altri nei quali ha sbocchi di sangue e accessi di tosse che lo soffocano. Non esce più di sera. Tuttavia egli può ancora dare alcune lezioni e, nei giorni favorevoli, gli càpita anche di essere allegro. Ecco l'esatta verità. Del resto è molto tempo che non lo vedo. E' venuto tre volte a farmi visita senza trovarmi. Sappiamo che in quei giorni di febbraio Chopin è stremato. Sa bene cosa gli accadrà: già da qualche mese ha fatto testamento e dettato «alcune raccomandazioni circa quel che si dovrà fare della sua vecchia carcassa quando renderà l'ultimo respiro». Prima di ogni cosa: distruggere i manoscritti. Quelli non ultimati, e non sono pochi: lo farà lui stesso quando le forze glielo concederanno. In una mattina di maggio accenderà il camino e manderà a fuoco un patrimonio straordinario. L'umore di Chopin di quel periodo non lo aiutava: nel foglio in cui dettava le sue ultime disposizioni, disegna una bara, delle croci, un cimitero e alcune note musicali. Il medico che lo aveva curato per anni, l'unico di cui Chopin si fidava, era morto. Quelli chiamati a sostituirlo capivano ben poco, davano rimedi approssimativi e avevano onorari alti: «Sono tutti d'accordo sul clima, la calma, il riposo. Il riposo lo avrò comunque un giorno e senza di loro. Brancolano nel buio e non mi danno sollievo». Oltre a questo, Chopin è anche povero. Metà dell'affitto della sua casa viene pagato da un gruppo di amici, ma Chopin non lo sa, le sue condizioni non gli permettono di dare le necessarie lezioni e i concerti, le uniche sue fonti di guadagno. E non c'è più Madame Sand a risolvere tutti i problemi pratici. In questo clima Chopin vede Solange e le scrive. E di tanto in tanto frequenta Delacroix con cui mantiene un rapporto di grande affetto. Lo si capisce dai diari del pittore: 29 gennaio 1849. Questa sera sono andato da Chopin e sono rimasto con lui fino alle dieci. Caro uomo! Abbiamo parlato di Madame Sand, di quello strano destino, di quella mescolanza di qualità e vizi. Parlavamo a proposito dei suoi Mémoires. Egli mi diceva che sarebbe per lui impossibile scriverli... 14 aprile. La sera da Chopin. L'ho trovato prostrato, che non respirava. Dopo qualche tempo, la mia presenza lo ha risollevato. Mi diceva che la noia era il suo tormento più crudele. Gli ho chiesto se prima non avesse mai provato quel senso di vuoto insopportabile che talvolta provo io. Mi ha detto che sapeva sempre dedicarsi; per quanto poco importante sia, un'occupazione riempie certi momenti e dissolve quei vapori. Altro sono i dolori... In tutto questo dove nasconde Chopin il suo segreto? Forse in qualche lettera non ancora ritrovata? Oppure distrutta? In queste pagine che hanno viaggiato per un'Europa indifferente? O ancora altrove? Non è facile capire. Quegli anni restituiscono tutto come filtrato da una patina romantica talvolta insopportabile. E in una sorta di continuo e collettivo ritratto oleografico, fatto da amici, conoscenti, testimoni, alla fine ti sfugge chi fosse veramente un uomo come Chopin. Mondano e geniale, ma anche malinconico e annoiato, e persino capace di odii profondi e inconfessati. Tutti si sforzano di dire una sola cosa: chiese di Madame Sand fino alle ultime ore della sua vita. Che non tornò a trovarlo neppure in punto di morte. Ed è uno sforzo collettivo che non vuol lasciare dubbi ai posteri. Ma non solo: Chopin è uomo sempre perfetto («Che uomo squisito!», scrive Delacroix), capace di grandi generosità, sofferente, morente, eppure solare. Guardo ancora questa calligrafia, oggi, e mi rendo conto che non è così, che non è solo questo: che la patina mondana in cui è stato avvolto Chopin ci ha tolto molto. Perché questa non è la calligrafia di un uomo che, come un bravo amante respinto, chiede sempre dell'amata, anche in punto di morte, e con sua figlia mantiene un rapporto di correttezza. Ma è la calligrafia della sensualità, la sensualità di Chopin; e non quella sensualità data dalle ombre, dai colori tenui, dagli accenni: ma semmai dal suo opposto. Voglio Chopin perso in una febbre di passione che non ha nulla a che spartire con quel Romanticismo lezioso della sua epoca. Guardando queste pagine capisco ormai bene quale tormento insopportabile doveva cogliere Chopin in quel gruppo di individui senza alcun talento. E comincio con il dar ragione a Baudelaire quando di George Sand scriveva: «Non è mai stata artista. Essa possiede il famoso stile fluente caro ai borghesi. E' stupida, pesante, chiacchierona; le sue concezioni morali hanno la medesima delicatezza di sentimento di quelle delle portinaie e delle mantenute. Il fatto che alcuni uomini abbiano potuto invaghirsi di questo cesso, costituisce la dimostrazione dell'abbassamento degli uomini di questo secolo». Tra quegli uomini c'era anche Chopin? Chi può dirlo. Certo quel giorno avevo intuito che il mio enigma andava svelato attraverso una donna che viveva a Parigi e portava lo stesso nome della figlia di George Sand, e una vecchia storia familiare: più che una calligrafia, una strategia delle passioni che fino a quel momento avevo come rimosso e dimenticato. Anche se non ricordo a cosa pensai quando quella notte cominciai a suonare quelle due pagine. Capitolo nono. Dubito che James avesse mai agìto così rapidamente in vita sua. Telefonai di giovedì, prima di cena: alle 23 e 52 minuti era già a casa mia. Un posto sul primo aereo per Parigi non fu difficile da trovare e il taxi aveva corso forse più di quanto potesse. Dubito che James di fronte a un manoscritto abbia mai avuto in vita sua così poche esitazioni. Le pagine probabilmente erano autentiche, ma doveva fare dei confronti, controllare ancora alcuni dettagli per dirmi con piena certezza che quell'inchiostro grigio nero proveniva dalla penna di Chopin. Lo trovai calmo e rapido al tempo stesso: rapido nei ragionamenti, calmo nel modo di esporli. Volle sapere come ero riuscito finalmente a venirne in possesso, e io lo raccontai volentieri, omettendo alcuni particolari che ritenevo ormai privati. James non era uomo a cui avrei confessato di sentirmi predestinato a suonare quelle pagine: avrebbe capito troppo bene, e questo mi metteva in imbarazzo. La sera prima ero riuscito a suonare quelle due pagine con una certa fatica: e cercai di risolvere una serie di scogli tecnici studiando una diteggiatura appropriata, ma in molte parti la composizione sembrava inafferrabile persino dalle dita di un virtuoso. Come poteva Solange suonare questi salti nel vuoto: fatti di intervalli discendenti di terze, sovrastati da scale ascendenti di seste rapidissime? Mi ricordava per molti versi le parti più impetuose della seconda Ballata, ma anche lo Studio op. 25 n. 11. Tutto forte, in qualche caso fortissimo, e legatissimo. Sembrava una parete impossibile, e non avevo né chiodi né corde; dovevo arrampicarmi a mani nude, sapendo quanto grande fosse il rischio di cadere. Mi chiedevo quella notte come avesse fatto Solange, ma anche come avrebbe potuto lo stesso Chopin suonare note così faticose. Domande che era meglio non pormi: non potevo ragionare come un qualunque virtuoso del pianoforte. La partitura era quella, molto più impetuosa, della coda alla Ballata che già si conosceva. Chopin la scrisse quasi a violentare quei delicati fogli che aveva scelto, e poi non la ricopiò, così nel manoscritto si genera un contrasto, tra una scrittura bella e ordinata e le pagine finali, difficili da leggere e interpretare. Non le ricopiò perché Solange le voleva così, voleva vedere il congegno che le aveva create: non poteva ascoltare da lui quelle note, perché il fisico non avrebbe retto, e non gli rimaneva altro che leggere in quei segni il tormento che le aveva generate. Così gli impedì di ricopiarle, e le volle così, come io le vedo ora. Ma anche questa lettura non mi basta: troppo romantica, troppo facile, forse. I detrattori di Chopin godrebbero di un uomo che scrive, nel tormento, la coda di una Ballata. Quando invece Chopin era compositore di grande lucidità, un uomo nato nel cuore del Romanticismo che amava Bach. E persino quella coda, ossessiva nel suo ostinato virtuosismo, aveva un geometrico rigore, era come una brillante soluzione di un problema matematico; talmente brillante da emozionare, però talmente matematica da non lasciare illusioni sulla sua logica sfolgorante. Passai una notte a trovare un modo di suonare quelle note. Intorno alle quattro del mattino, accaldato, perché la musica mi costringeva a tenere le finestre chiuse, seppi che quella partitura sconosciuta ora aveva una forma, si poteva cominciare ad ascoltare. E capii quanto doveva essere straordinaria la tecnica pianistica di Werth e Charitonovic. Non erano pagine pensabili per un mestierante del pianoforte; anche perché non c'era un modo più semplice o più lento di suonarle, come non può esistere un modo diverso per raggiungere la cima di una montagna se l'unica strada è una parete impraticabile. Allora capii che impressione avrebbe potuto fare al mio amico Evgenij sentire quelle note suonate con spavalderia. Ma c'era un modo giusto di suonare quelle note, o forse si trattava dell'ultima beffa di Chopin? Guardavo quelle pagine e non riuscivo a scrollarmi di dosso un senso di frustrazione: doveva essere soltanto tecnica e passione, fuoco e velocità? Questo era il desiderio di Chopin verso Solange? E questo era ciò che Solange Dudevant chiedeva a Chopin? Un labirinto di note disposte in un modo che solo apparentemente poteva assomigliare a quello tradizionale delle partiture, ma che era altro, altro che non capivo. Pensai ad Arrau, Claudio Arrau, e mi chiesi cosa avrebbe pensato di quelle pagine; fui persino tentato di chiamarlo, poi mi convinsi che le proprie ossessioni si risolvono da soli, senza il parere di nessuno. Oggi mi sono pentito di non averlo cercato, scioccamente pensavo che non ci si può perdere in due in una stessa passione. Con James era diverso, anche se mi turbava quella calma competente che non lasciava trasparire emozioni: non era una vera e propria consulenza la sua, era una confessione tra due uomini innamorati della stessa donna, a tarda notte. Ma se lui cercava di mantenere una fredda consapevolezza, io vivevo l'angoscia di dover trovare un filo, un bandolo, dove non c'era nulla da scoprire. Non mi rimaneva che leggere quelle due pagine come una calligrafia delle passioni: anche se Chopin fu vittima forse di un compromesso che voleva mettere assieme, come un tutt'uno, il Clavicembalo ben temperato e lo spirito romantico. La sua passione non era solo figlia di un passaggio da una tonalità maggiore a una minore, come se quel minore in musica fosse una privazione, una diminuzione della propria razionalità. E poi cosa dico ora? Perché su queste pagine devo trovare Cherubini a tutti costi, mentre quando a Buenos Aires ascoltai i tanghi di Carlos Gardel ebbi un sentimento che mi sorprese: ero ammirato da una musica che avevo sempre ritenuto non adatta alla mia cultura, al mio rigore musicale. Mi accadde la stessa cosa quando un amico pianista jazz mi insegnò a suonare alcuni passaggi di Ragtime, e capii d'un tratto che c'era più Bach in Scott Joplin che in molti virtuosi di fine Ottocento e Novecento. E ora, che potevo leggere musica scritta da un uomo che già con i pensieri non era più nel mondo, mi spaventavo: dimenticavo la mia indecente bossa nova, i miei tanghi, e persino il mio Ragtime, e ricominciavo a pensare come avevo sempre fatto, come uno cresciuto con il Gradus ad Parnassum di Muzio Clementi. A giudicare attraverso il principio della difficoltà, alla lente del virtuosismo, e ricordarmi d'un tratto, come svegliato da un sogno per entrare in un incubo, di non esser altro che un sofisticato artigiano, una macchina musicale pensante, di quelle che colleziona il mio amico James (che guarda il mio manoscritto prima con la lente, poi quasi lo allontana, a perdere i dettagli e vedere il quadro generale dei fogli). Solo che al posto dei rulli, dei chiodini, dei motorini, ci sono tendini, ossa e muscoli. Le mie mani sono macchine programmate, educate per anni a suonare un certo repertorio: che poi è molto ristretto. Forse avrò interpretato 500 brani musicali in tutta la mia vita: solo 500, in 70 anni di pianoforte. E non odiavo forse il mio destino che mi costringeva a leggere quelle note così come erano, decise da altri? Il mio amico scrittore un giorno mi disse divertendosi di questa mia disperazione: «La verità è brevissima. Dopo è solo commento. Tu sei destinato come tutti a commentare all'infinito quelle "verità" che leggi sulle tue partiture. Tutti facciamo così. Non c'è via di uscita. Questo è il secolo del commento infinito». Potevo dire queste cose a James, quella notte in cui sembrava non dovesse arrivare l'alba? Lui, ossessionato di non poter interpretare nulla, perché un piccolo congegno dentro la sua mano (o, secondo altri, dentro il suo cervello, ma fa lo stesso) per un caso fortuito aveva smesso di funzionare. E dire che ogni macchina musicale che comprava per il mondo dopo sapienti restauri diventava perfetta. Con quelle si poteva sostituire un pezzo, magari con un altro materiale. Ma un cattivo memorialista romantico avrebbe detto che non si può riparare l'anima, e forse non avrebbe avuto torto. I Preludi di Debussy incisi su rullo erano la sua vendetta contro tutti. Il suo modo di leggere le partiture, la sua vendetta contro sé stesso: c'era qualcosa che superava lo strumento, qualcosa che andava oltre la musica. E qualcosa che andava oltre l'analogia. Io mi sforzavo di descrivere quelle pagine come fossero pareti scoscese, picchi inarrivabili, strapiombi di note, come un paracadutista in caduta libera. Tentavo di costruire un mondo di immagini e di movimenti che assomigliavano a quella musica che non sapevo e non potevo descrivere (a meno di uniformarmi al linguaggio tecnico dei musicologi, che è vuoto). E lui leggeva ciò che non era più musica, era altro: qualcosa a metà tra la critica d'arte e la grafologia. «Guardi queste note. E' come se Chopin avesse voluto disegnare una passione, le guardi bene. Sono accordi di terza che scendono per tre ottave in modo furioso. E sembrano al tempo stesso il disegno di chi non le vuole nitide e precise, ma le scrive con irregolarità, come se il movimento delle mani, il vento che la forza di questa musica potrebbe produrre, spostasse anche le note di questa partitura. Verrebbe voglia di rimetterle a posto, di chiudere la finestra, perché questa scrittura sembra alterata da un forte temporale.» Sognava, e godeva della sua rivincita, James. Sapevo vedere queste cose, io, abituato a partiture educate e stampate con cura? No. Ero in grado soltanto di affermare che una nota che sta sul primo rigo in basso del pentagramma è un «mi», sul secondo è un «sol», e via dicendo. Questo mi era stato insegnato. Un giorno anche i computer sapranno farlo (o forse sono già in grado di farlo). «Ah, come non aver pensato a Solange Dudevant», ripeteva James tra sé: «E' curioso. I biografi hanno sempre trattato questa vicenda con una delicatezza assoluta. Come se Chopin fosse un loro parente, e vivo ancora oggi. Dopo 130 anni il tabù resiste. Persino noi non ci avevamo mai pensato. Però vede, maestro, gli elementi c'erano tutti. Lei era una donna di una sensualità irresistibile. L'esatto contrario di sua madre. Era provocante. Era dispettosa, esibizionista. Allegra e leggera. E questo a Chopin doveva piacere molto. Gli scrollava di dosso quella noia che ormai lo imprigionava. Cosa succede tra loro forse non lo sapremo mai, qualcuno ha fatto sparire ogni documento possibile. Però da queste pagine capisco che Chopin è turbato e disperato, forse addirittura sconvolto, da quanto può essere accaduto». Quelle due pagine mi confondevano, io quella passione non riuscivo a leggerla. O forse non volevo. Se fosse stata solo una costrizione? Se Chopin non fosse riuscito a scrivere quelle pagine in modo più ordinato? Se avesse perso, di fronte alla sua malattia che lo consumava, gli atrofizzava i muscoli e cancellava ogni passione vincendola con la stanchezza e la consunzione? Tutto poteva essere più semplice, allora. E io avrei vissuto con più tranquillità il resto della mia vita. Ma neppure questa poteva essere una spiegazione. Avrei potuto fare come Gould: dedicare una vita a Handel e Bach, rifiutare i romantici, affermare, quasi sprezzante, che la musica finisce nel Settecento e ricomincia nel Novecento, e in un sol colpo cancellare ogni paura, orientare i miei timpani dentro i prodigi barocchi delle Suites e delle Fughe. Per non dire di Nerval; meglio Laclos forse, che tutti hanno letto con il senno di poi: come un romanzo di un amore non realizzato, e per questo struggente; quando invece era il romanzo dell'impossibilità dell'amore. E per questo tutti pèrdono la loro partita: perché i personaggi di Laclos non hanno scampo. L'amore non c'è, esiste solo il gioco. Per Laclos, Valmont non è un vero innamorato, e neppure un uomo nobile: è uno sciocco. Lui e la sua marchesa di Merteuil. Per questo è difficile capire Mozart, e intendo tornare a suonarlo. Perché Mozart sbeffeggia il Settecento, ci gioca, e guarda i suoi ascoltatori con gli occhi di chi sa che ormai non c'è via di uscita. Che quella leggerezza, quei ricami, quei merletti che avevano incantato gente senz'anima sarebbero stati spazzati via da quel gigante scontroso che di nome faceva Beethoven. E lui, Wolfgang Amadé, genio dell'equilibrio, a guardare con un occhio alla musica che fu di Bach e con l'altro a ciò che dopo Beethoven sarebbe avvenuto. Unico a poter sorridere dei suoi antenati e dei suoi posteri: equilibrista straordinario su di un filo dorato teso sull'abisso del genio. Leggero e consapevole, solare eppure esoterico. Pietra nera misteriosa, impossibile da smontare, monade musicale unica e staccata da tutto. Dentro Mozart non entri e non esci, in Chopin puoi, e puoi con Beethoven, e con Bach, e con Wagner e Schonberg e Berg. Ma non Mozart: Mozart lo circumnavighi, come un'isola che puoi ammirare in tutta la sua bellezza, ma senza poter sbarcare, perché non c'è una via, o è introvabile. Chopin amava Mozart e amava Delacroix, perché conosceva alla perfezione tutta la musica che Mozart aveva scritto. Chopin suonava Mozart, spesso, nei suoi concerti. Ma erano diversi, in tutto. Anche in questi segni che vedo qui e che James mi mostra con aria vittoriosa. Segni che ti entrano fin dentro il cuore, dice il mio amico James. Segni che scompaginano la mente, dico invece io, pauroso di usare per qualunque cosa la parola cuore: insulsa e sminuente; che il cuore pompi il suo sangue, e non si interessi dei sentimenti, e lo faccia con precisione, come un orologio della vita a lunga carica. Sono i neuroni che mi turbano, i crocevia dei neuroni, non gli orologi, i procedimenti meccanici. Forse è giusto: James è un uomo che ha fatto della meccanica, dei carillons un motivo di esistenza, io invece preferisco muovermi tra corto circuiti, effetti di senso, logici e musicali, l'unico verbo della mia esistenza. Lui pensa coi rulli sonori delle sue macchine musicali, io metto in controluce le note e, se non combaciano una con l'altra, mi invento dei disegni nuovi, che forse mi piacciono. James gode del rullo che gira, della perfezione meccanica, del movimento, del pensiero perfetto. Io del pensiero sfalsato, di ciò che non funziona, e non funzionando produce senso, e mi conduce ad altre storie. James ha una sensualità in crescendo, come l'inizio della settima Sinfonia di Mahler, riempie il suo recipiente di piacere fin quasi a colmarlo, ma è incapace di pensare al piacere se non in forma di accumulazione continua: un oggetto dopo l'altro, ad ammassarsi in quella grande casa, un manoscritto dopo l'altro, per stiparli tutti in quelle grandi cartelline rigide; io ho una sensualità interrotta da mille rivoli, come un delta frastagliato di un fiume, e assomiglio a Chopin che cerca nell'attesa, nella pausa, negli intervalli e nelle frange del tempo la possibilità del piacere estetico. Ho una sensualità incompleta, che gode delle proprie mancanze, fatta di luci e di ombre, di vuoti e di pieni. Era così anche per il mio manoscritto: passionale e insieme rigoroso, fatto di cancellature, di note tremule e di segni fortissimi, rabbiosi e impotenti. Preso quasi da un senso di soffocamento cominciai a copiare in bella la prima delle due pagine inedite. Mentre James leggeva la seconda con attenzione, presi un grande quaderno per la musica e una matita, e segnai la chiave di violino e la chiave di basso. Misi i quattro bemolle in chiave, sulle note di si, di mi, di la, di re, e segnai il tempo: 6/8. Ero pronto, scrissi quasi emozionato: Presto con fuoco. E presi a segnare le note, gli accordi, tentando di esser più preciso possibile; di più, costringendo ogni nota, ogni cerchietto annerito, ogni taglio delle crome e delle semicrome, alla loro neutralità. Togliendo a quelle pagine ogni significato ulteriore, qualsiasi cosa potesse andare oltre la musica, qualsiasi esitazione e forzatura che giungesse a somigliare in qualche modo a una scrittura delle passioni. Lo feci con la mia calligrafia perfetta, ordinata, precisa, come quella di un progettista: se la partitura di Chopin era un olio alla Delacroix, e un dipinto che andava interpretato, la mia copia era invece un disegno; in qualche modo opposto, preciso forse, leonardesco (per paradosso) nella sua esattezza, nelle sue linee sottili che si ripetevano simili, e mi davano sicurezza, tranquillità, pacatezza d'animo. James mi guardò, e per un po' stette in silenzio. Attese che la mia matita mostrasse la seppur minima esitazione, per interrompermi: «Maestro, anche la sua è una calligrafia, una calligrafia di chi teme - forse - le passioni; o di chi le vuol vivere in un modo diverso, ma non creda di cancellare, di ridurre a sola musica, e solo perché lo sta ricopiando, questo portento. Non è possibile, ne siamo entrambi prigionieri. Io perché mi ha gettato di nuovo in un prato verdissimo del Massachusetts, nei primi anni Trenta. Lei per motivi che ancora non conosco. Guardi, gliela voglio raccontare la storia del prato. Forse l'aiuterà a sopportare meglio tutto questo. Doveva essere il 1930. Ero tornato a Boston in primavera, fu una delle ultime volte, credo, che lasciai l'Inghilterra (a parte gli anni di Harvard). La casa dove aveva sempre abitato la mia famiglia era una grande villa, costruita intorno al 1865: a due piani, con molte torrette. Sembrava uno di quei castelli francesi che si incontrano tra Orléans e Tours. Non so dirle chi era il progettista, ma spesso si scherzava in casa su come fu costruita quella strana dimora. Sembrava un castello leggero, senza torrioni, e muri invalicabili, senza finestre o saloni imponenti. Non c'era neppure il ponte levatoio o il fossato, ma un prato, pianeggiante, immenso. Sarà stato quasi un chilometro, mi creda, un chilometro di prato: curato da un esercito di giardinieri. Un mare di verde interrotto da grandi querce e qualche acero. «Quella primavera tornai portando con me un frammento di malinconia. Quel viaggio negli Stati Uniti mi dava una sorta di agitazione: non avrei voluto tornare, e insieme desideravo vedere ancora quella casa, fatta di corridoi interrotti continuamente da scale, da stanze piccole che si aprivano su camere più grandi; una casa dalle pareti rivestite in legno, che cigolava tutta, dove la luce entrava come fossero serpentine, e illuminava solo dettagli delle stanze, mai tutto l'insieme. In una stanza c'era il mio pianoforte: uno strumento a coda di marca inglese della fine dell'Ottocento, il pianoforte su cui studiavo. E poiché la stanza aveva grandi finestre che guardavano quell'immenso prato interrotto dagli alberi, io mi esercitavo al pianoforte e mi perdevo a guardare fuori, a vedere come il sole illuminava le cime degli alberi a spicchi, cambiando di continuo i suoi disegni di luce. Ormai non ero più un bambino, anzi, cominciavo a sentirmi grande, e probabilmente il mio sviluppo fu assai precoce e rapido. Non avevo torto ad atteggiarmi a giovane intellettuale malinconico. Sapevo di greco, di latino, parlavo tedesco sin dalla più tenera età, e - non sorrida, maestro - potevo dirmi un eccellente giovane pianista. Ma quel giorno, quel ritorno a Boston, quel ritorno in quella casa, e in quella stanza, furono per me qualcosa di sconvolgente. Ricordo che entrai in quell'ambiente che, specie le estati, consideravo mio; guardai i libri, ricordo un dorso di Tennyson, un altro di Blake, queste erano le buone letture di un giovane colto, e c'era un esile libro dalla copertina decorata e dal dorso color sabbia: il saggio su Dante di T.S. Eliot. Ma quello che ricordo ancor meglio è la sensazione che ebbi nello spostare lievemente quei libri, aprire quasi con delicatezza il coperchio del pianoforte, senza toccare neppure i tasti, e guardare d'un tratto fuori della finestra. D'un tratto, maestro, proprio così: come avessi avuto la sensazione che in quel momento esatto io dovevo guardare un punto preciso del prato che avevo di fronte. «Passava una ragazza, poco più grande di me, aveva i capelli biondi, come fossero colorati dal sole. Camminava abbastanza lontano attraversando tutto l'arco delle mie finestre. E camminava lentamente, quasi esitando, la testa bassa, gli occhi a guardar l'erba, e un vestito a fiori, molto semplice, che si fermava sopra il ginocchio. Non so dire quanto fosse bella, forse neppure lo pensai. Ebbi solo un sentimento di perdita. Fu la prima volta, maestro, che provai qualcosa di molto simile alla passione, forse all'amore. Ero ragazzino, non potevo ancora sapere cosa fosse la sensualità. Cominciai a capirlo da quel giorno: per la prima volta vidi una donna, una ragazza che già desideravo come passato. Una donna il cui movimento su quel prato grandissimo mi generava quasi una nostalgia verso quel corpo che si muoveva e quel ciuffo di capelli che si spostava leggermente. Ho conosciuto la passione attraverso la nostalgia della perdita, come se vivessi in ogni momento l'angoscia del gesto che si dissolve anziché il piacere del gesto che si coglie. Non godevo dei suoi movimenti perfetti, come da manuale di portamento, soffrivo di quel passo che non potevo più veder ripetersi. E tutto questo mi sconvolgeva, mi sorprendeva, e mi agitava.» Si fermò, mi chiese il permesso, e poi accese uno di quei sigari che odiavo, e che quel giorno trovai stranamente sopportabili. Io avevo posato la mia matita, e mentre lui parlava passeggiavo lentamente per la stanza. Ora ci eravamo seduti, uno di fronte all'altro. «No, no, non creda che quello che le ho raccontato finora sia la cronaca di una struggente storia d'amore, neppure i turbamenti di un giovane di buona famiglia. Non è questo: il mondo vive di turbamenti, dei più diversi, e ogni quindicenne potrebbe raccontare assai bene il languore dell'innamoramento quando arriva inaspettato. e non si è imparato ancora a riconoscerlo. No, maestro, questa è un'altra cosa. Questa è letteratura, questa è la nostra cultura. Volevo quella fanciulla, non avevo fatto altro che leggere dei libri che mi avrebbero preparato a quell'incontro. Non avevo fatto altro che suonare dei brani musicali che avevano la stessa armonia di quella caviglia che si sollevava dall'erba. Non avevo fatto altro che leggere poesie - poesie che si pubblicavano allora - dove si parlava di ragazze dei giacinti, dove si raccontava il desiderio, con mille mediazioni. Volevo la mia epifania, e l'ho avuta. «Chi era quella ragazza? Ancora oggi non lo so. Scomparve dalla vista delle mie finestre e le mie gambe non reggevano per seguirla, per capire dove stesse andando. Chiesi poi a mia madre, ma non ricordava nessuna mia coetanea dai capelli biondi che vivesse in qualche parte della casa in quel periodo. Fu un'apparizione, forse un fantasma. Ma doveva essere la stessa malinconia che dovette provare Chopin scrivendo con questa calligrafia delle passioni, e forse lo stesso turbamento che prova lei di fronte a queste pagine. Per questo non serve ricopiarle, per questo non le sarà molto utile trasformare queste note in qualcosa di educato e perfetto. Non potrei cancellare l'immagine di quel giorno lontano; anzi, da quel giorno per me fu sempre così. Non può negare questa musica, e dimenticare la mano che l'ha scritta. Non tutto può essere riordinato dentro un'architettura perfetta, e rassicurante. Esistono dei luoghi dove la natura cresce così rigogliosa e irresistibile che non si fa in tempo a tracciare un breve tratto di strada in terra battuta che il giorno dopo si vedono già ciuffi d'erba, piante e altro ancora. Non abbiamo la forza per vincere questa battaglia, maestro. Io non l'ho, e neppure lei. Ma forse sto parlando troppo. A lei che importa di quella ragazza bionda apparsa ai miei occhi un pomeriggio di cinquant'anni fa? Forse non ha senso raccontare la malinconia delle passioni, e della vita, in un modo così trascurabile, laterale. E dire che nella mia vita le passioni non sono mancate, e dire che ho amato molte donne, e veramente. Ma ogni volta che riflettevo tendevo a perderle. Cosa pensò Chopin della sua Solange? Che non l'avrebbe mai avuta? Forse. Ma guardi qua: un ostinato, su una scala di fa minore nella chiave di basso. Un ostinato continuo, come un sordo rancore, o meglio come un rimpianto. Un tema che ricorre e che sposta verso il basso, come un'àncora, come una pietra pesantissima, le scale di accordi discendenti di terza sui tasti acuti della mano destra. Diceva qualcuno che la nota grave è più pesante di quella acuta. E sbilancia di molto il suono...» Analogie, e ancora analogie. Certo che il suono grave sbilancia quello acuto. Una corda spessa due centimetri vibra molto di più di una corda sottile quattro millimetri. E' un fatto fisico, non filosofico. Però è vero che queste due pagine sono imprigionate dal destino. Come se neppure dentro la musica Chopin riuscisse a liberarsi del suo dolore, da un mondo che lui vedeva allontanarsi, e suo malgrado. Però James mi turbava: l'avevo visto a Londra e mi aveva raccontato di quel Notturno, e di quel passaggio che non riusciva a suonare. Ora mi raccontava una storia un po' magica, che mi vedevo passare davanti agli occhi con il ritmo di un Satie. Guardavo il suo viso, quello di un uomo ormai vecchio, cercavo di spostare la mia immaginazione su quegli stessi lineamenti, ma con cinquant'anni di meno. Gli zigomi forse erano più duri, più squadrati, il naso più sottile, la fronte liscia e meno aggrottata, ma gli occhi azzurri, che con il tempo dovevano essere diventati lievemente più acquosi, erano vividi e mobili come allora. Non era un uomo curvo nelle spalle, James, tutt'altro, e la sua corporatura era ancora atletica, ma quel giorno lontano il suo corpo doveva apparire più incerto, forse (per quanto James fosse alto quasi un metro e novanta) persino più fragile. Perché mi raccontava quella storia? Che rapporto c'era tra Solange Dudevant e la sua ragazza del prato? E tra il languore della perdita e la calligrafia delle passioni? Non riuscivo a difendermi da quei rimandi continui, da quei paesaggi della mia memoria, o della memoria di altri che arrivavano fino a me per vie che non conoscevo. Pensai al suo languore della perdita e alla mia ossessione per la carne; alla mia Solange, conosciuta in una notte, e niente di più. Pensai che non c'erano epifanie per me, neppure apparizioni, ma attraversamenti dolorosi. Lui impiegava il suo tempo per soffrire del tempo che passava. E mi sarebbe piaciuto fare altrettanto. Invece io la ragazza l'avrei seguita, a ogni costo, non avrei atteso, non le avrei permesso di scomparire dallo specchio della mia finestra. E oggi saprei forse il suo nome, e magari cosa fa, dove vive. Ho un'ansia di possesso: amo possedere le cose e le persone, soffro dell'abbandono, del distacco e della separazione, almeno quanto James soffre del passato più vicino, di quello ancora fresco di presente. «Dell'immediato passato, maestro, non di quello più lontano», mi disse, cogliendomi di sorpresa, quasi che in quel silenzio avessi proceduto assieme a lui nei pensieri con una sintonia stupefacente: «So elaborare il passato più lontano. Ma non riesco a controllare quello vicino a me. E' come un treno che parte: ti dà più nostalgia vedere l'ultimo vagone che si allontana, più ancora che il binario deserto con il treno ormai lontano. Forse anche questo è un modo per sopportare i vuoti dell'esistenza». Guardai i vuoti della mia pagina, a spiare le pause, o le note lunghe nella partitura che avevo ricopiato. Mi accorgevo che lì non c'erano vuoti. Che quelle pagine non chiedevano silenzi, ma attimi di brevissima inquietudine preludevano a una grande musica di un'intensità senza pari. E più le note correvano, più sembravano andare in una direzione; così per la prima volta capii cosa significasse leggere una partitura con un metodo diverso. Era qualcosa di molto simile a una tecnica impressionista. Dovevi allontanarti dalle note per vederle, non c'era narrazione in quelle due pagine. O meglio: c'era, ma si doveva pensare a quelle pagine come un tutt'uno. Come a un qualcosa che cresceva, e finché non raggiungeva un compimento non avrebbe svelato il suo senso. Era un monolite a cui girare attorno come molte pagine di Mozart? Forse. Ne sarebbe stato felîce James, che amava godere dello stordimento sensuale. Ma anch'io potevo compiacermi di quei fogli. Per quelle pause brevissime, letteralmente incastrate tra una semibiscroma e l'altra, a generare un'interruzione neppure udibile con l'orecchio esterno, ma forse solo con l'orecchio interiore. C'era tutto quello che volevamo; e c'erano quelle note, pennellate in modo imprevedibile, quasi confuso, eppure, lette tutte assieme, perfette e necessarie. «Ricopi, maestro, perché le chiederò di farmi ascoltare la musica di tutto questo. Ma potrebbe già bastarmi quello che ho visto e che ho letto finora», disse James ancora una volta soddisfatto del proprio intùito e della propria competenza. E io pensai a Evgenij, e mi chiesi se il caso e il destino lo voleva proprio in quel momento sotto la mia finestra. Ancora oggi non so dire se quella mia interpretazione della Ballata, per intero, con il finale per Solange aveva avuto il suo spettatore privilegiato. E neppure quanto avesse capito di quelle pagine Evgenij. Se erano solo figlie di un ricordo a cui era legato, o se anche lui aveva cercato un senso del mondo in quelle poche righe. Credo che per Evgenij fosse diverso, che il suo mondo stesse da ben altre parti, e non nelle partiture. Qualche tempo dopo credetti di vederlo mentre scendeva a una fermata del metrò, a Rambuteau. Fu l'unica volta che mi spinsi fin nel ventre di questa città, e quasi di corsa scesi le scale che portavano ai treni. Non sono sicuro fosse lui. Feci appena in tempo a vedere un uomo di spalle che saliva su una vettura e correva via assieme alla luce dei finestrini. E non saprei dire neppure se fosse lì sotto quando suonai per James la ballata. Mi affacciai subito dopo alla finestra e guardai con attenzione dappertutto. Mi sembrò di intravedere un uomo che camminava svelto oltre il ponte che collega la Cité con l'île-Saint-Louis. Mi sembrò. Per quanto avessi desiderato con grande intensità che il destino lo portasse proprio lì quella notte, non credo che Evgenij abbia mai potuto ascoltare quelle note. Di lì a poco avrei lasciato Parigi. E per di più quella fu una delle ultime volte che suonai quelle due pagine. Da quel giorno l'ho fatto sempre meno. Anche se ho continuato a frequentare queste pagine: a leggerle e a spiarle. A usarle come una lente per la mia anima, e per le mie ossessioni. Non diedi a James copia della mia partitura. E lui, debbo riconoscerlo, non mi chiese nulla. Aveva preso solo una serie di appunti su molte cose: carta, inchiostro, scrittura. Mi disse che la conferma dell'autenticità del manoscritto mi sarebbe arrivata assai presto. Ma senza trattenere il manoscritto, almeno per un certo periodo sarebbe stato difficile esserne certi: «Ma non le chiederò di lasciarmelo, maestro. E non perché penso che lei sia geloso di queste pagine. So quanto sappia fidarsi di me. Capisco però che io non la potrò privare di questa scrittura, appartiene solo a lei, meglio: è destinata a lei, quasi fosse un regalo di Chopin. In fondo lei sa meglio di qualunque esperto quanto questi fogli siano autentici, lo sente, lo capisce. La mia risposta sarebbe tecnica e inutile. Pochi minuti fa, mentre la ascoltavo suonare queste pagine ho avuto un'idea, poi l'ho buttata via. Possiedo una macchina che incide rulli per uno dei miei pianoforti meccanici. Avrei voluto chiederle se poteva incidere per me, naturalmente su rullo, una partitura che ormai so bene lei non suonerà mai in pubblico. Ma poi ho capito che non potevo. Come in quel giorno lontano in cui non seppi fermare la ragazza bionda che attraversava tutte le mie finestre e spariva fuori scena. Anche questa Ballata per me è uscita di scena. A suo modo anche un ascolto musicale può essere un'apparizione. Va bene così, maestro: non si può chiedere di più». E' curioso, ma quando uscì da casa lo vidi per la prima volta stanco e provato. Lo guardai dalla finestra. E, chissà perché, ebbi la sensazione che i suoi passi fossero come trattenuti da qualcosa, come di chi dovesse fare ogni sforzo per non tornare indietro. Camminava con una fretta ansiosa, risolutiva: ogni passo era qualcosa di molto simile a una vittoria sulla tentazione. Pensai che fosse così, che la sua educazione e la sua intelligenza gli impedissero di chiedermi veramente di suonare ancora una volta la Ballata per il suo rullo meccanico. Ma che per lui fosse uno sforzo intollerabile. O forse fu semplicemente quella malinconia dell'attimo appena passato, di cui tanto mi aveva parlato fino a poco prima. Lo lasciai allontanare, senza guardare oltre. Di lì a poco sarebbe scomparso alla mia vista, nascosto dai palazzi parigini e dalle vie strette del Quartiere Latino. Era ormai l'alba, e la luce della lampada che illuminava la scrivania sembrava invecchiata: pallida, fioca, inutile, persino malata. Andai a spegnerla con un moto di rabbia. Guardai quel che restava dei suoi sigari. E quel che rimaneva di una notte senza sonno. Il manoscritto era ordinato con cura, un foglio sull'altro, i bordi che combaciavano. Pensai che sarebbe stato bene in un museo, o forse sotto una di quelle teche della British Library, assieme a quelli di Beethoven, di Bach, di Stravinskij. E fui sorpreso di provare rabbia. Capitolo decimo. Da tempo non riesco più a suonare Chopin con la frequenza dei miei giorni migliori. E non c'è alcun motivo plausibile. Più divento vecchio, meno comprendo le cose che accadono attorno a me. Così in questa vecchiaia fatta di solitudini che gli altri chiamano «splendidi isolamenti» perché non sanno che c'è una forma di solitudine anche per i privilegiati come me, inseguo Mozart e mi consolo con Bach: che è come un problema matematico già risolto e dà la sensazione che la vita abbia un senso, che l'universo risponda a congegni barocchi collaudati e garantiti. Il Dio di Bach è un Dio che crea l'universo, le stelle e i mondi, e poi ti dà un certificato di garanzia, qualora qualcosa non funzionasse. Quello di Mozart fa tutto ciò che gli compete e poi non ti dà le chiavi per entrare. Fatti tuoi, se non capisci come si apre quella porta. Il Dio di Chopin non c'è. In questa mitologia musicale è un parente lontano, ombroso e geniale, ma soprattutto incompleto. E' un frammento di tempo: straordinario per la sua incompiutezza, ma pur sempre imperfetto. C'è una genialità nell'imperfezione, e Chopin fu genio dell'imperfezione. Oggi la mia stanchezza non mi permette di tollerare quell'imperfezione che devi completare di continuo con pezzi della tua vita, intervalli della tua sensibilità. E' per questo che suono Bach, e lo suono male, come a voler violentare gli ingranaggi di quel grande orologiaio, e con rabbia. Tornare a Bach è una malattia senile di molti pianisti, esausti da un repertorio che ti toglie l'aria, e ti soffoca, anche se hai di fronte un panorama grandioso come questo. Là in fondo nevi eterne, qui invece prati verdissimi che non osi neppure sfiorare. I giorni successivi a quell'incontro con James, al ritrovamento del manoscritto, furono i più difficili della mia vita. Mi prese una forma di depressione che non avevo mai conosciuto. Era come una paura: la paura che la mia vita potesse cambiare, che quelle pagine avessero scardinato tutte le mie nevrosi, e un fiume di passione in piena se le portasse a valle come misere reliquie di un uomo che proprio su quelle nevrosi aveva fondato la sua esistenza e il suo talento. Temevo di uscire, e di scoprire che il mondo era muto ed era arrivato il momento di imparare il linguaggio dei gesti. Dunque ero un uomo che doveva ricostruire tutto. Mi sentivo arido come una di quelle macchine sofisticate di James, null'altro. Altro che i Preludi di Debussy. A che servivano le mie mani se poi un rullo qualunque avrebbe potuto annullarle? Cominciai a pensare che era tutto inutile, che forse l'unica soluzione era fare le valigie e scappare ancora, andare altrove, dove nessuno avrebbe potuto raggiungermi. Non pensavo a Solange Dudevant, e neppure a Chopin: pensavo alla mia di Solange. E dovevo trovarla, fosse l'ultima cosa da fare a Parigi. Anche se capivo che non serviva a nulla. Perché il mondo non funziona come una Partita di Bach, semmai come un Preludio di Chopin. Non ha numeri definiti, geometrie comprensibili; ha pause, e note irrisolte. Come quella notte in cui mi addormentai accanto a lei. Le palpebre vibravano come sentissero il movimento rotatorio della terra e le voci dei suoi guardiani, che mi chiedevano conto del mio talento: di come ne fossi entrato in possesso, e perché. E di che uso ne avrei fatto. E quando. Il mio privilegio aveva un prezzo, forse era arrivato il momento di pagarlo. Ma nessuno mi spiegava come. Pensai persino che doveva essere arrivato il momento di abbandonare il mondo, di chiudere la mia esistenza terrena. E pensai che avevo avuto tutto dalla vita, ora anche quelle pagine lanose su cui Chopin aveva scritto il suo testamento passionale. Ma io non avevo lasciato nulla, a parte qualche incisione. Io non avevo passioni da regalare ai posteri, lettere da mandare alle mie amanti, figli con cui condividere le proprie amarezze. Pensai che anche il mio Steinway sarebbe finito in qualche studio discografico, e non certo in un museo. Provai rabbia per me stesso. Ero un esecutore, un mero esecutore. Soltanto in musica questa parola ha un valore positivo, anzi, è indice di talento, genio, raffinatezza. Altrove si usa per esseri volgari, individui mediocri. Altrove gli esecutori sono degli incapaci al servizio di menti pensanti, manovalanza. I killer sono esecutori, per esempio. Per questo provavo rabbia, e mi ero inventato che quel manoscritto andava letto come fosse un codice cifrato. Perché i codici cifrati possono essere capiti soltanto da menti pensanti, gli esecutori comprendono soltanto gli ordini chiari, il pentagramma tradizionale. Poi pensai anche a un'altra cosa. Quasi volevo convincermi (e per qualche ora ne fui persuaso veramente) che quelle pagine erano false, che ero oggetto di un piccolo complotto, ordito da non so chi. E risi di me stesso, del come fossi stato capace di cadere in quella trappola, fatta di note troppo indecise, troppo intense. E non volli fermarmi neppure a questo, andai oltre: Solange? La mia Solange? Un'affezione della mia sensibilità. Volli ricordare quella donna con quel nome, e non con un altro. Malato di parallelismi, figlio di un mondo che amava giocare con i nomi, con gli eventi e con le parole. Dunque, perché cercare al di fuori di me un sogno che avevo costruito nel mio cervello malato? Perché soffrire? Non c'era bisogno di tornare in quel caffè, semmai dovevo chiudere ancora di più le porte della mia vita, sprangarle dall'interno e passeggiare per le mie stanze lussuose, sentirmi suonare, e capire perché fossi vittima di quella follia. Pensavo che nulla era esistito, e dunque che non avevo altra scelta: dovevo liberarmi la testa, i pensieri da quella storia eccessiva e perfetta, troppo perfetta. Durò qualche giorno, oggi non so dire quanto: due, tre, forse quattro. E per fortuna tornai in me, e mi imposi di uscire per cercare Solange. La mia Solange. Non dovevo far altro che aspettarla ogni giorno al nostro caffè. Dovevo radermi, tornare alla mia eleganza discreta e ricominciare a suonare (soprattutto questo), con la frequenza che mi conoscevo; tornare al mio Debussy, interrotto per un tempo che cominciavo a reputare intollerabile. Così scelsi dei libri che mi avrebbero tenuto compagnia nelle sere da passare al caffè. E scelsi primo fra tutti Sylvie, sicuro che anche i libri influenzano gli eventi, fanno accadere le cose. Fu come in una partitura con Canone e Variazioni. Ogni sera, puntualmente, attorno alle otto mi presentavo al caffè: un libro sotto il braccio, il solito tavolino. Rimanevo fino a mezzanotte, a volte anche più tempo. Leggevo e guardavo fuori, ma non manifestavo alcuna ansia: sapevo che se lei fosse entrata mi avrebbe avvicinato; sapevo di non doverla cercare, e dunque non era un'attesa spasmodica, ma lenta e persino compiaciuta. Di tanto in tanto mi incuriosiva un avventore e mi piaceva guardarlo, e allora la variazione del mio stato d'animo somigliava a quegli intrecci di note che solo Bach sapeva restituire: veloci e fieri della loro precisione, come una collezione di orologi dotata di coscienza meccanica, e dunque orgogliosa nel saper procedere con un ritmo preciso. Ma erano brevi digressioni, poi tornavano le variazioni più adeguate al mio animo, e dunque lente e meditate; qualche volta con un passaggio o due più allegri. In quelle sere bevevo di tutto: caffè per iniziare. Poi i miei whisky, e persino Pernod. Accadde talvolta che tornassi indietro con andatura malferma, e accadde persino che, salito in casa, mi sedessi al pianoforte per suonare, forse male ma con tecnica più sciolta, brani che in stato di lucidità non avrei mai voluto ascoltare, tanto meno da me stesso. Accaddero molte cose in quelle sere, in quelle notti cominciai a guardare il mondo con un occhio che non avevo mai avuto; osservare la gente che entrava e usciva. Ebbi una sorta di ebbrezza che a volte coglie gli artisti, quando per un caso fortuito hanno la possibilità di entrare nel mondo, e ne gioiscono, come fossero alle giostre: godono delle luci colorate, ridono delle montagne russe, che sanno per nulla pericolose. Sembrano bambini felici. Credevo di poter cancellare per un po' quei tratti aristocratici di cui mi ero fregiato con orgoglio per tutta la vita. Credevo. E allora una sera mi accompagnai (ma ormai era notte inoltrata, e Solange non sarebbe più arrivata) con una piccola pattuglia di musicisti a suonare in un locale del Marais. E io che stavo quasi in disparte, perché quella loro musica che amavo, non sapevo per nulla suonarla. E ascoltavo loro, invece, il pianista innanzitutto, che faceva alla tastiera tutto quello che a me non era mai stato permesso, e suonava benissimo. E ricordo che, era quasi l'alba, mi misi al pianoforte io stesso, e vidi i loro volti stupefatti nel sentirmi eseguire con prevedibile sicurezza lo Scherzo in si bemolle di Chopin, e qualche Studio di esecuzione trascendentale di Liszt (e forse, come fossi un giovinetto, mi compiacevo di stupirli con la mia tecnica). E quando fu mattino, e l'ora della stanchezza che coglie gli insonni si poteva dir passata, svanita assieme ai colori violacei che hanno le città quando arriva l'alba, mi ritrovai proprio in quello stesso caffè in un gioco di seduzioni con una ragazza di cui ancora una volta ho rimosso il nome, un gioco che non sapevo fare, di cui non conoscevo le regole. E lei a guardar divertita un uomo quasi anziano che le piaceva e che aveva sentito suonare, ma da cui era separata da una distanza incolmabile. Fu forse quella volta, proprio quella, in cui mi accorsi che non potevo attendere oltre, che non c'era più niente da aspettare, e non mi rimaneva che cominciare a vedere anch'io, come Chopin, i dèmoni e le creature infernali che lo avevano sorpreso in Inghilterra, e di cui aveva scritto a Solange. No, non potevo sfuggire a quella Ballata, a qualunque costo. Pensai persino di inciderla, idea folle che abbandonai ancora prima di chiarirla a me stesso. Pensai che non sarei più andato in rue de Rennes, che non mi interessava più nessuno. L'ultima volta che venne a trovarmi il mio produttore di Amburgo, non potei fare a meno di notare il suo sguardo perplesso e il suo sopracciglio esitante ai miei discorsi. Forse pensò che fossi impazzito. Non mi chiese quasi nulla, e andò via più presto del solito. Neppure cercò di convincermi a ripubblicare alcune mie vecchie incisioni che non volevo più sentire. Forse era lui a non star bene. Ma credo che quello, interrotto da momenti di breve euforia, sia stato uno dei momenti più cupi della mia vita. Credo anche che il modo di suonare ne abbia risentito. Poi, quasi d'un tratto, tutto cambiò. E dovevo aspettarmelo, capire che spesso le cose accadono, non si attendono come fosse un autobus. Era un martedì, e non saprei dire di che mese. Credo fosse già settembre, perché le strade di Parigi a settembre hanno un altro profumo. Sanno di pioggia e dello zucchero delle crêpes; lo zucchero bruciato dalle piastre che si mescola all'uovo, forse alla farina, e prende un odore caldo. Se posso dirlo: doveva essere anche un settembre inoltrato, perché il cielo aveva colori più saturi e il pomeriggio sembrava leggermente più scuro, lasciando alle vetrine illuminate dal neon il predominio delle strade. Rue du Cherche-Midi, quasi all'incrocio con rue du Four. Giravo attorno al mio caffè di rue de Rennes, senza entrare. Un meccanismo nevrotico della mia mente diceva che non potevo farlo. Pena: non avrei mai più trovato la mia Solange. Dunque, come un vecchio folle giravo per il quartiere, intimorito dai divieti che io stesso mi imponevo. Il mio viso doveva essere quanto mai pallido. Una vetrina che esponeva prodotti di erboristeria mi dava un colorito giallognolo, lo vedevo nel riflesso. Mi voltai, come guidato da un istinto, lo stesso di cui mi parlò il mio amico James quando a Boston prese a guardare fuori della finestra. Potrà sembrare curioso, ma talvolta nella vita le cose si possono decidere, se il momento è stato scelto con cura. Mio padre mi raccontava sempre una favola che da bambino amavo ascoltare più di tutte le altre: mi diceva che nella vita sono concessi tre desideri. Per tre volte si può chiedere una cosa, e averla proprio in quel momento. Ma bisogna sentire il vento, è il vento che dice quando arriva il momento giusto. Se no, nulla accade. E i desideri sono sempre dedicati agli incontri, alle persone, a ciò che si ama; non compare un portafogli con molto denaro. Non ci sarà mai un momento per quello. Può apparire invece una persona che non vediamo da tempo, e di cui sentiamo il bisogno, e forse non sappiamo neppure dove cercarla. O magari una persona che non conosciamo e ci porterà fortuna. Quel giorno sapevo che un terzo dei miei desideri doveva avverarsi, che il vento leggero di quel tardo pomeriggio era quello giusto. Sapevo che potevo chiedere al caso di voltarmi e di trovare Solange, immobile e distratta dall'altra parte del marciapiede. Era sola, guardava nella mia direzione, ma non me. Mi fece impressione, mi sembrava diversa; le sue gambe mi parevano ancora più sottili di quanto le ricordassi: portava dei calzoncini molto corti, e i suoi capelli biondi, lunghi, mi apparvero un po' infantili. Era sola, dicevo, immobile, e si accorse subito della mia presenza e di come io la fissassi. Per molto tempo, davvero molto, sopportò il mio sguardo e poi con calma ritrasse gli occhi dai miei quasi assentandosi. Era lei? O forse quell'attesa spasmodica di incontrarla aveva trasformato un volto in qualcosa d'altro, in un oggetto del desiderio. Volevo far diventare la prima donna che passava da quella via l'immagine delle mie inquietudini? E quale crudeltà la teneva a distanza come fosse un'estranea? E quale mia presunzione mi portava a pensare che una donna conosciuta una notte non fosse un'estranea, e solo perché vantava un nome che per la mia fantasia ormai significava tutto? Un grande scrittore direbbe che quel giorno fui chiamato ad alta voce dalla vita. Oggi non ricordo quanto durò quel silenzio, e quanto tempo dovette passare prima che quella distanza venisse colmata da qualche parola. Ancora oggi non so organizzare i tempi di quell'incontro, come obbedissero a regole che non conosco, e dunque quasi fossero fusi assieme senza un ordine. Mi venne incontro? Non mi sembra. L'avvicinai io stesso? Forse. Non mi riconobbe? Probabilmente, non subito. E più tardi, quando pronunciai il suo nome, mi guardò sorpresa e quasi intimidita: ricordavo il suo nome, come potevo? E dovetti pronunciarlo con una confidenza eccessiva, che poteva suonare falsa, ma che era figlia di un delirio musicale, non di un tentativo di approccio indiscreto. Oggi mentre scrivo queste righe ho messo sul piatto del mio giradischi le Partite di Johann Sebastian Bach. Ho bisogno di musica che possa raffreddare la mia mente. Non sopporterei di scrivere di quest'incontro con le note di Chopin in sottofondo. Sarebbe come addensare nuvole cariche di pioggia a nuvole cariche di pioggia. Anche se quel giusto vento che mi aveva permesso di avverare il desiderio preludeva a un acquazzone tremendo, come solo a Parigi ne ho visti. Come arrivammo al caffè di rue de Rennes? Prima che fosse piovuto? Mentre l'acqua scendeva a catinelle? Posso dire di non ricordarlo. Ricordo bene invece come spostò la sedia per sedersi, prima ancora che lo facessi io; e come ebbi un moto di eccitazione nel vedere quella caviglia sottile che affiorava da sotto il tavolino. E quell'espressione di stupore alla storia di Solange Dudevant, di Chopin e del mio amico Evgenij. Forse mi ero sbagliato, forse nulla sapeva di musica, e - peggio - poco le importava. Un nome è un nome è un nome è un nome. Ma era la mia paura: il terrore e il sollievo che il mondo potesse essere una mia costruzione mentale; mia, di James, di Evgenij, e persino del mio scrittore. Lo temevo ma ci speravo. Volevo che tutto fosse frutto della mia mente, delle mie mani, del mio talento. Come un buon artefice che, con il permesso di Dio, potesse inventare una storia che alla fine facesse tornare ogni cosa al proprio posto, e in modo perfetto. Volevo trasformare quella passione in una bella calligrafia, che mi rassicurasse? Oggi non saprei dire. Temevo tutto di lei, come se avessi incontrato un sosia della mia Solange, un sosia che non volevo. In che direzione la pioggia bagnava i vetri del caffè? In modo obliquo, con gocce che si fermavano per un attimo e poi scendevano, con una brusca sterzata, giù in verticale per i vetri del locale. So che dopo (ma quanto tempo dopo?) in una casa che ormai faticavo a tenere in ordine, al pari dei miei pensieri, capii quanto fosse faticoso vivere in tonalità minore. E lei mi guardava e domandava del perché mai Chopin avrebbe dovuto scrivere quelle note così male. Fu Solange a strappar di mano a Chopin quelle pagine prima che fossero ricopiate? Quasi a fuggire via da una passione terribile a cui non sapeva far fronte. Lui vittima della bellezza di Solange, oppure lei, incapace di sopportare il declino fisico di Chopin, di guardarlo morire lentamente. Le avrei fatto ascoltare quelle pagine? Mi domandavo in quel caffè, mentre la pioggia, che non accennava a diminuire, aveva trasformato il cielo in un quadro a olio denso, quasi vischioso. E non so se fu allora che mi venne in mente un episodio assai simile a quello di cui mi parlò James, avvenuto nella casa di Boston. O se invece quel cielo, ripensato qualche tempo dopo, mi aveva suggerito di quel giorno in cui portai una ragazza, Annetta, fino al garage, che stava un po' isolato ai lati del parco. E che aveva una doppia entrata: quella che dava verso la strada e quella che dava verso l'interno. E Annetta disobbediva spesso e scavalcava il cancello per venire a giocare con me. Lei doveva avere tredici anni. E mi venne a cercare per un'estate. E io la vidi cambiare, quasi di giorno in giorno, e sempre più incapace di resisterle. Ricordo solo che un pomeriggio che assomigliava al mio, quello di rue du Cherche-Midi, con l'acqua che scendeva obliqua e colpiva i vetri come fosse un proiettile, e ancora esitava per poi proseguire rapidissima, lei mi chiamò con un sorriso consapevole, e paziente. Mi fece entrare nel garage, dove ormai mio padre teneva soltanto due vecchie carrozze, mi stese a terra, con calma, con lenti movimenti, abbassò le spalline del vestitino, bagnato dall'acqua, e sentii che era nuda: e prima che potessi capire, con una grande agilità mi imprigionò tra le sue gambe, mentre il bacino si muoveva come se stesse avvitando la mia vita dentro un desiderio da cui non mi sarei più liberato. E quell'acqua che scendeva, quasi con fretta, da quei vetri del caffè allontanava il mio piacere perché volevo Solange come fosse allora: dentro un garage. Andammo verso casa: rue d'Assas, rue de Vaugirard, rue Cassette, a girare subito per rue de Mezières, per place e rue Saint-Sulpice, e l'Odéon e poi a destra, come per gioco, per rue Monsieur-le-Prince e su per rue Racine, attraversando il boulevard per rue des Écoles, tagliando rue Saint-Jacques per rue Thénard, su fino a rue Dante e Saint-Julien-le-Pauvre, passando il pont de l'Archeveché e il pont Saint-Louis, quando la pioggia ci sorprese ancora, proprio mentre si cominciava a intravedere qualche stella. E di stelle quella sera non ce n'erano troppe. Ma quel giorno lontano uscii dal garage con una sensazione di sgomento e di spossatezza, mentre Annetta non diceva nulla e appoggiata al muro bagnato dalla pioggia si mordeva i capelli e si abbottonava con calma, con troppa calma, i tre bottoncini del vestito che si aprivano sul seno, per poi ripensarci un attimo dopo e sbottonarne ancora uno, quasi tornando a provocarmi, proprio nel momento in cui doveva rincasare, passando per il cancelletto basso e sparendo, come sempre, oltre la strada. Una strada certo diversa da questa, che si affaccia sul Quartiere Latino e talvolta assomiglia a un lungomare di luci, con ondate di gente che cammina piano e va su e giù. Io vedevo quella folla anche dalle mie finestre e pensavo a certi esercizi di Clementi, meravigliosamente inconcludenti, o anche ad alcuni di Carl Czerny e persino a certi Preludi di Bach. Dove il piacere è nella ripetizione, nel continuare a girare attorno, come fossero gruppi di numeri periodici dove al quinto o sesto decimale tornano uguali. Non c'erano code finali risolutive, ma simmetrie che si ripetevano. Brani circolari, come i movimenti del bacino della mia Annetta, quasi il suo corpo aspettasse ogni volta un piacere nuovo, qualcosa che potesse stupirla, mentre io, raggelato e impaurito, aspettavo quasi inerte che tutto finisse, per goderne dopo, al buio, dentro la mia stanza, o fingendo di essere assorto davanti a una partitura. Ed è quello che feci con la mia Solange quando lei, appena sveglia, dopo un'ora di sonno, mi chiese a cosa pensassi quando fissavo un punto preciso di quel vecchio foglio manoscritto. Ma Annetta, in quel tempo lontano, non avrebbe potuto domandarmi perché quella notte suonai fino a sfinirmi, guidato dall'angoscia del piacere, tutto il Gradus ad Parnassum, proprio tutto: dal primo esercizio fino al novantesimo. Una strada in salita impossibile per chiunque, come volessi restituire al mio pianoforte una sensazione vissuta altrove. Avevo quindici anni, e Annetta cambiò la mia vita per sempre. Ogni volta che toccavo il pianoforte sapevo che era soltanto un gioco di vasi comunicanti, che c'era un rovescio nella mia sensualità, che stavo sfinendo i miei sensi; e sapevo che non avevo altra scelta, che quello era il mio modo per non condurre una vita ossessionata dalla sensualità e dalla passione. Mi accorgo che non uso mai la parola amore, se non per dire: amore per la musica, per il pianoforte; mi accorgo con piacere che ancora so dissimulare, e mantenere un opportuno distacco. Passione e calligrafia delle passioni. Lo dissi a Solange, e non so più se a rue de Rennes, a rue ChercheMidi, o a casa mia; e se proprio voglio guardare, non so neppure se lo dissi a Solange, o ad Annetta, che era una donna fatta già a tredici anni. E poco importa. Perché anche Frédéric Chopin dovette scoprire il sesso in quel modo. E perché c'è un piacere nell'essere turbati da un coetaneo che non parla, ma che sa, e ti guarda. Annetta tornò più volte, e io non riuscivo a capire quanto mi desiderasse. Ed ero pazzo di lei, finché seppi che per Annetta ero un gioco, perché un pomeriggio la vidi dietro un muro di un cascinale abbandonato con un uomo adulto, lei teneva le gambe incrociate sui suoi fianchi mentre lui la sollevava da terra con le mani sulle natiche. E lei un attimo prima di mordergli un orecchio per non gridare mi guardò con disappunto, quasi rabbia per una curiosità che non dovevo avere. Non tornò più Annetta, non saltò più per il cancello, e per me fu un dolore. E ripensai a quel cancello che un bel giorno fu sostituito con un'inferriata più alta, e mi ricordai di aver giurato che alle donne non avrei mai fatto troppe domande. Con Solange non seppi resistere. In quel caffè le chiesi perché non tornò più all'appartamento di Quai d'Orléans. Ma sapevo già cosa mi avrebbe risposto. Io non le avevo chiesto nulla, dunque non volevo più cercarla. Perché mai avrebbe dovuto tornare proprio lei. Le domandai altre cose, che vita facesse, chi fosse. Dove era nata. Mi accorsi che di me sapeva tutto, che aveva comprato ogni mio disco: avrebbe fatto felice il mio produttore, convincendolo che era nel giusto, che si doveva ripubblicare ogni mia cosa. Era divertita, mi diceva che aveva capito «chi fossi veramente» soltanto qualche ora dopo essere uscita dalla mia casa. Mentre Annetta no, lei era la figlia di un fattore che viveva vicino a noi e vantava rapporti con i nostri cuochi. Mi accorsi di lei per la prima volta un giorno che passeggiavo sul retro della casa. Qualche volta scambiammo una parola o due. Poi tutto fu come un'estate troppo rapida, che brucia ogni giorno di più, e la confidenza si fece strada ostacolata da deboli indugi. Ma Annetta sapeva a malapena che io suonassi il pianoforte. Non so neppure più dove oggi sia, e cosa faccia. Ma passato qualche anno - non troppi per la verità - dopo aver letto Sylvie pensai che la mia Annetta non poteva che essere la Sylvie di Nerval, e che quei confini del parco della mia casa potevano essere la mia terra del Valois, e io potevo essere Nerval pazzo d'amore per lei, ma rassegnato. E ogni cosa tornava al suo posto. E tutto tornava anche con la mia Solange, bella e dalle caviglie sottili. Anche il suo modo di desiderarmi: diverso da quello che avevo conosciuto la prima volta. Ora sapeva, sapeva chi fossi, sapeva persino dei miei deliri paralleli: di lei Solange, e di Solange Dudevant, e di Chopin, e della quarta Ballata in fa minore. E aveva visto quel manoscritto, e mi cercava con un misto di timore e di fascinazione che la rendeva ancora più sensuale. Mi accorgevo che ora pensava, che ora sapeva, e voleva sapere ancora altro; non potevo sbagliarmi: questa volta non sarebbe andata via all'alba senza troppi rimpianti, ma avrebbe lasciato il mio portone con nostalgia. Però non mi bastava: non volevo il suo corpo, lo temevo, perché quel corpo avrebbe potuto dirmi molto di quella calligrafia delle passioni che ancora oggi ho qui sul tavolo. Non ricordo come Solange uscì dalla mia casa, se con quella nostalgia che allora le avevo previsto, o in un altro modo. Però ricordo bene come Annetta scavalcò per l'ultima volta il mio cancello, con una spallina del vestito che si abbassava e mi faceva intravedere, per l'ultima volta, quel seno che allora trovavo indecente, ma solo perché provocava ogni mio senso. La mia eccitazione scattava come le mie dita a un passaggio veloce e improvviso. Forse fu allora che pensai all'Appassionata di Beethoven e per la prima volta mi accorsi che l'ostinato della mano sinistra, nell'ultimo movimento, non era il sottofondo della disperazione, ma il ripetersi del desiderio, del mio desiderio. E del desiderio della carne, il più profondo, forse il più incontrollabile. Molti anni dopo, era una tranquilla serata d'estate, mi confortai nel leggere che Thomas Mann lo chiamava «il cane rabbioso che ho dentro di me». Guardavo Solange, intenta a curiosare tra i miei appunti musicali. Li sfogliava, leggeva, e tornava a guardare qua e là. Io stavo alla finestra e fumavo una sigaretta. Pensavo a quel periodo in cui, assai giovane, cominciai a farmi le sigarette con il tabacco della pipa di mio padre. Ero bravissimo a modellare le cartine. E non so dire se fu proprio Annetta la prima donna che me ne chiese una. «A cosa pensi?», chiese Solange, quasi sorprendendomi. Pensavo anche a James, che mi raccontò quella storia, quella della ragazza sul prato, di lui che la lasciò passare, e di quella nostalgia della perdita, del senso del passato, del provar piacere nel poter rimpiangere il desiderio. E pensavo che la mia debolezza era invece nel bruciare quel desiderio, come fosse una sigaretta che quando si fa incandescente diventa cattiva. Forse solo al pianoforte sapevo aspettare, capivo che la passione romantica era solo un complicato sistema di segni, che io sapevo leggere e riconoscere. Forse solo lì, davanti a pagine scritte, godevo del vantaggio della riflessione. Perché l'intensità musicale si smonta come un giocattolo, e diventa all'origine una sequenza di note a volte semplicissima. Mi accadde per la prima volta forse con la FantasiaImprovviso di Chopin che, giovinetto, elessi a bandiera delle mie sofferenze di adolescente. La suonavo dapprima lentissima, e non riconoscevo nulla, come fosse uno scioglilingua quasi sillabato. Poi sempre più velocemente, ma con gradualità, e mi sembrava di rifare un gioco che mia nonna mi aveva insegnato da bambino. Ordinando le caselle di un mosaico apparentemente insensato, affiorava il disegno che prima era nascosto. E dietro quella facciata perfetta, dietro quella famiglia ricca e privilegiata in cui ero cresciuto, c'erano due velocità. A me era riservata quella più lenta, quella più fredda. Ma se avessi avuto la coscienza di accelerare, come con la Fantasiaimprovviso, ogni nota della mia quotidianità, avrei capito molte cose di cui allora non sospettavo. Di mio padre tormentato da un amore non corrisposto. Di mia madre che avrebbe voluto sposare mio zio, ma non era possibile, perché mio zio Arturo non amava le donne e, in età matura, neppure più gli uomini. E allora mia madre sposò mio padre, senza amarlo, perché era l'unico modo per non perdere del tutto mio zio. Neppure la morte di zio Arturo, dopo una lunga malattia, e un mese dopo, d'improvviso, quella di mia madre, riuscirono a consolare mio padre di non essere stato amato per una vita intera. E mia nonna vigilava su quelle affezioni delle passioni come un medico impotente. Ma tutto era lento, come la mia Fantasia-Improvviso suonata in modo stentato, o meglio rallentata e ingrandita come un dipinto d'altare di cui vedi solo dettagli e mai l'insieme. Mia madre, asciutta e consumata in un dramma di cui lei stessa era stata artefice; mio padre, canuto prima del tempo e sempre nascosto nel suo studio. E io poi, che vivevo in un mondo rigido e chiuso, costretto a suonare ore e ore perché zio Arturo era concertista e primo maestro di pianoforte di mia madre. E quando morì, mia madre volle che fossi io a suonare al suo funerale i Preludi in mi minore e in si minore, proprio come accadde al funerale di Chopin, alla Madeleine. Solange doveva essere là, seduta nelle prime file. Erano le undici del mattino del 30 ottobre 1849. Tremila persone affollavano la chiesa parata con drappi neri. Il coro e l'orchestra della Società dei concerti del conservatorio eseguirono il Requiem di Mozart. Poi l'organista della Madeleine, Lefébure-Wely, suonò le trascrizioni dei due Preludi di Chopin, e improvvisò alcune variazioni sul tema di un terzo Preludio. Ma nessuno specifica quale fosse. Forse, così mi piace pensare, quello in fa diesis minore. Così mi piacque pensare anche allora, quando al funerale dello zio Arturo suonai, fuori programma, anche il Preludio in fa diesis minore. E seduto all'organo potevo vedere mia madre, distrutta dal dolore, in prima fila; eppure con una luce negli occhi che non le avevo mai visto. E oggi non saprei definire l'espressione del viso di mio padre, grigia, come fosse disegnata a carboncino, e quasi cancellata. Avevo diciassette anni. Solange, l'anno che morì Chopin, ne aveva ventuno. Avrebbe vissuto per altri cinquant'anni. Avrebbe lasciato suo marito Clésinger, e condotto - come scrivevano i biografi del tempo - un'esistenza molto avventurosa. In realtà condusse una vita slabbrata e priva di ogni freno, vittima delle sue passioni e della sua natura sensuale. Cosa pensò Solange mentre i cordoni funebri sorretti da Franchomme, Delacroix, Pleyel e i principi Aleksandr e Adam Czartoryski conducevano il feretro di Chopin fino al Père-Lachaise. Cosa provò alla Madeleine nel sentire quel Requiem di Mozart, cantato da Madame Viardot-García e Lablache, Jeanne Castellan e Alexis Dupont. Pensò alla sua quarta Ballata, scritta solo per lei? E zio Arturo suonò almeno una volta per mia madre? E Annetta mi avrà ascoltato da giù, dal quel tratturo che di là dalle mura non doveva passare molto distante dalla mia finestra (oggi non so più ricomporre le distanze)? E pensare che in quei giorni lontani suonavo quasi solo per lei, e lei di certo non mi avrà mai ascoltato. Chissà se ha mai saputo che sono diventato un famoso concertista. Solange aveva ascoltato tutti i miei dischi. Non amava Chopin, credeva fosse un compositore «inutilmente romantico». Non commentai opinioni e giudizi che non hanno un fondamento, ma si formano per continui equivoci che nessuno si premura di correggere, di svelare. Mi piaceva la sua ricerca a posteriori, mi piaceva che Solange mi avesse cercato in un modo che non prevedevo, e che non osavo sperare: seguendo le tracce che in tanti anni dovevo aver lasciato per il mondo, e che erano ormai altro da me, cose su cui avevo scarso potere. Non so dire come fece a procurarsi molti vecchi filmati televisivi, andati in onda in Italia e anche in Francia, dove suono Debussy e Chopin, ma anche Beethoven. Mi disse di averli visti. E mi parlò di una Mazurca di Chopin che interpretai con particolare efficacia: la numero 4 dell'opera 68. Non sapeva che si tratta della sua ultima composizione, dettata sul letto di morte, e non mi ero mai accorto che anche quella Mazurca è in fa minore, come la quarta Ballata. Ero turbato dal fatto che mi parlasse di quella mazurca: un brano che ho sempre suonato con una specie di timore. Come se non mi sentissi pronto a quella semplicità profonda, a quella nebulosità incerta. Quasi lo considerassi un brano da suonare quando si è adulti. E pensavo a quanta differenza ci fosse tra quella Mazurca e la coda della quarta Ballata; e di quanto fossero vicine le date di composizione. Cominciavo a capire d'un tratto quanto mi diceva James. Come la coda della quarta Ballata fosse la passione, la rabbia, l'impossibilità, persino il destino. E certamente i sensi e lo sgomento. E quella Mazurca, tutto quanto era James, la perdita, la malinconia, il piacere del non vivere l'attimo per poi rimpiangerlo, e quasi da subito: come un lieve asincronismo della sensibilità. Ora capivo anche Solange, la mia, seduta di fronte alla finestra: giovane e bella, a riflettere, a modo suo, il mio corpo magro che era quello di un vecchio, e non me ne ero mai reso conto. Capivo Solange, di fronte a me, con le gambe incrociate e la testa appoggiata al muro, e i capelli biondi mossi leggermente dal vento che la notte aveva alzato. Capivo che c'è un momento della giovinezza dove si può essere James e me: dove si può alternare malinconia e passione. Come due onde che si sovrappongono e, facendolo, si spezzano confondendo i loro disegni. Era proprio vero che quel momento della mia vita correva in fa minore. Per la prima volta, in quella serata iniziata con un'apparizione, capivo che tutto aveva una spiegazione, che nulla era lasciato al caso. Ma quel tenersi insieme di storie lontanissime era un privilegio di uomini che sapevano molte cose, che leggevano il mondo attraverso un codice che conoscevano assai bene, e inventavano una lingua e una scrittura anche là dove sembrava non esserci, e forse non c'era. E nonostante fosse persino ovvio, tornai a stupirmi, quando presi a pensare ad Annetta, alla sua sensualità quasi dolorosa, appena sentii ancora una volta il corpo di Solange che si avvicinava al mio. Capitolo undicesimo. Forse fu un caso, ma ha del romanzesco. Non mi ero mai accorto che il pianista russo Andrej Charitonovic fu arrestato nella notte tra il 16 e il 17 febbraio 1949. Esattamente cento anni dopo che Chopin terminò di scrivere la parte finale della quarta Ballata. I fogli che ho qui davanti a me dicono: 17 febbraio 1849. Ma chissà, Charitonovic doveva conoscere quella data, e deve aver sorriso sprezzante, quando in quella notte fredda, certo più fredda che a Parigi, ottusi poliziotti pensavano di agire secondo i tempi dettati dalle pratiche e dai timbri del loro sordo regime e invece obbedivano ai tempi di un dramma a cui non avevano accesso, perché non potevano capire. Con che arroganza quello straordinario pianista, il giovane Andrej Charitonovic, può aver guardato negli occhi quegli uomini? Non saprei, e certo non può saperlo neppure Evgenij, fuggito con il denaro che gli avevo dato in qualche luogo più sopportabile. Qualche biografo sostiene che il 17 febbraio sia la vera data di nascita di Frédéric Chopin. Ma nell'intreccio delle date ci si può perdere, si può uscire di senno. Preferisco pensare che non fu solo un caso, ma una volontà: Charitonovic riuscì a evitare il suo arresto, non so in quale modo, fino alla data fatidica: perché una decisione, un ordine che non aveva un senso, se non quello della cieca repressione, prendesse un significato, diventasse bello. E' straordinario come ci siano due mondi distinti. Entrambi sorretti dal caso. Ma nel mio mondo, in quello che assieme a me ha attraversato quasi tutto il Novecento, il caso è un buon materiale d'uso: per fare trame, costruire edifici, rendere significativo ciò che non ha forse grande significato. Dove potevo mettere la mia Solange? Nel caso o nella trama perfetta che fin qui avevo costruito? Non so dire. Neppure oggi, a distanza di qualche anno. Quella notte suonai per lei la quarta Ballata, e l'ultima Mazurca. Non sembrava impressionata, non era ammirata, semmai mi pareva eccitata da quella che lei chiamava la «forza leggera delle mie mani». Per la prima volta mi trovavo di fronte a qualcuno che non mi ammirava. Una persona a cui piacevo. Come Annetta, che non conosceva il mio virtuosismo, ma solo il mio corpo. E cercava soltanto quello. Ho passato una vita a sedurre le donne con la mia fama e la mia celebrità, con il carisma del grande interprete, e persino con il mio denaro. E quella notte mi trovavo di fronte una donna che non mi avrebbe mai chiesto di suonare. Che mi lasciava libero di fare ciò che volevo, una donna che mi guardò con disappunto perché nella mia casa non c'era neppure uno specchio, e non mostrava ammirazione per quella bizzarria di un vecchio nevrotico. Tutto questo mi confondeva. Suonai ancora una volta la quarta Ballata, e mi sembrava che le note fossero confuse. Arrivai a pensare che la prima versione fosse meglio, che la passione avesse accecato Chopin, che la bizzosa Solange Dudevant lo avesse quasi costretto a riscrivere una partitura che non aveva certo bisogno di revisioni. Mi sbagliavo: ero io a soffrire di quella partitura, ultima beffa di un Dio verso cui avevo sempre mostrato rancore. Domani verranno in molti da Amburgo, fin qui, in questa valle dove corre il Rodano. Ci mettono tempo, l'aeroporto è lontano. Si deve parlare del futuro. Vogliono un'edizione di Chopin, quasi completa. Alcuni brani non li ho mai incisi: gli Improvvisi, gli Scherzi, forse non ho mai fatto un'integrale dei Notturni. Sarebbe un bel lavoro, ma detesto avere dei tempi. Invece loro sono precisi: pare che in tre anni tutto possa andare a posto. Qualche volta non li ascolto, e forse loro capiscono quanto io riesca ad assentarmi anche con dieci persone sedute di fronte a me. Ma sono perdonato, e io ne approfitto. Non c'è più Arrau, non c'è più Magaloff, neppure Gould. Sono l'ultimo, con Richter, dei grandi pianisti viventi. Loro godono di quelle che chiamano bizze, e io invece amo definirle «intervalli di sofferenza»; loro pensano sia il genio, io so che di queste cose ho sofferto per una vita, e me ne sono sempre vergognato. Perché ho ricevuto una rigida educazione, e un uomo educato non fa bizze, capricci, e si adatta a tutto. Almeno così mi diceva mio padre, che in tutta la sua vita ha sempre nascosto le sue grandi debolezze. Quando morì mia madre, di crepacuore, io credo per la morte di zio Arturo, mio padre non pianse neppure una lacrima, eppure l'aveva amata, soffrendo per una vita intera. E non solo: ma aveva amato anche lo zio Arturo, più giovane di due anni e di talento straordinario, un talento che lui non aveva mai avuto. D'un tratto nella sua vita erano accadute due tragedie. Eppure lui no, le sue passioni non le aveva mai manifestate, e dopo quello che era avvenuto in quel mese funesto si erano definitivamente chiuse, come dietro una porta massiccia, dalle serrature sicure. Passai in casa altri due anni, Annetta non c'era più, e neppure il mio maestro di pianoforte, a cui non rimase altro che consigliarmi un concorso internazionale che mi rendesse famoso. Per quei tre anni, mentre preparavo il mio primo repertorio, vidi mio padre solo il mattino, e poi mezz'ora la sera. Lo guardai invecchiare, di giorno in giorno, e più i suoi capelli imbiancavano e cadevano, più i suoi silenzi si facevano lunghi e insopportabili. Una sola volta lo scoprii appoggiato, quasi nascosto, alla porta del salotto. Stavo suonando, e lui non mi aveva più ascoltato in quegli anni, quasi non sopportasse la musica che eseguivo. Ma quel pomeriggio si era fermato, muto e immobile, richiamato proprio da quella Mazurca in fa minore di Chopin, che forse mia madre, con crudeltà e sofferenza, deve avergli suonato. Mi accorsi di lui solo dopo e, forse emozionato, mi fermai per un attimo. Poi ripresi, quasi pentito di averlo disturbato. Ma tutto era già finito, il suo corpo magro e ormai curvo scivolò oltre la porta, e scomparve. Non dovevano esser passati più di due mesi da quel pomeriggio, e io mi avviavo a vincere il primo premio assoluto al concorso Chopin a Varsavia. Mio padre uscì un mattino dalla villa, e non tornò più. Di lui non si seppe più nulla. Continuò a vivere nascosto da qualche parte, oppure morì lasciandosi trascinare dalla corrente di un fiume o con una pietra al collo in qualche lago? Nessuno poté dirlo. Più di una volta mi mandarono a chiamare per riconoscere signori che potevano sembrare mio padre. Poi tutto finì. Solo una lapide nella cappella di famiglia lo ricorda. Mi piace pensare che non sia morto subito, che quel giorno, il giorno del mio concerto al concorso Chopin, lui fosse lì dietro una porta ad ascoltarmi, pronto a scivolare via alla mia prima esitazione. E sarà un caso, ma quella volta suonai anche la quarta Ballata e la Mazurca op. 68 n. 4 in fa minore. Che giorno era quando mio padre non tornò più a casa? Di solito queste date rimangono impresse nella mente, ma io l'ho dimenticata. Ricordo l'agitazione, l'inquietudine della sera che scuriva il cielo, il lampione che con il crescere dell'ansia si faceva sempre più acceso, e più quella luce rischiarava un pezzo di giardino, più io sapevo che stava accadendo qualcosa, perché il cielo passava dal blu chiaro a un colore simile al nero, in una notte senza luna, e il vento calava, e si smorzavano le voci, i domestici tornavano con le torce, ma nei loro visi io leggevo una qualche consapevolezza, discreta, per non offendermi: se lo aspettavano, anche se mai avrebbero osato farmelo capire. Non ce n'era bisogno: sapevo e intuivo quanto era avvenuto. Pochi giorni prima avevo trovato delle lettere di mia madre a mio padre, erano del 1919, un anno prima che nascessi, e lì c'era tutto: il dramma di mia madre, la rassegnazione di mio padre, il compromesso inutile di far vivere mio zio in un'ala indipendente della casa, vicino a loro, un compromesso che non lasciava vie di uscita. Erano stati vent'anni di formale convivenza, eppure terribili, per tutti e tre; anche per zio Arturo, debole e tormentato, che mai visse con chiarezza la sua omosessualità, ma il più delle volte la celava al mondo e persino a sé stesso. Solo da quel giorno, come avessi trovato il bandolo della mia infanzia e della mia giovinezza, avevo compreso cosa era stata la mia vita fino ad allora. E solo in quel momento ero riuscito a trovare la giusta velocità perché la lanterna magica facesse muovere gli attori della mia commedia. Poi fu tutto come un lampo, un Presto con fuoco. Meno di un anno dopo quella notte ero già celebre: primo assoluto al concorso Chopin, un solido contratto discografico con i tedeschi, un calendario di concerti che mi avrebbe occupato per due anni, se la guerra non avesse chiuso ogni possibilità. Lasciai l'Italia, e per tre anni vissi in Svizzera, a due chilometri da questa casa; un paesaggio che mi ha insegnato cosa sia l'attesa, il saper aspettare. Sono tornato in questo posto trentacinque anni dopo e non riesco a strappare dalla mia memoria i frammenti di una giovinezza che non ho mai vissuto. Quegli anni furono terribili, per molto tempo smisi di studiare il pianoforte. La guerra mi procurava un dolore profondo, il privilegio di essere riuscito a evitare la chiamata alle armi mi lasciava un senso di colpa fortissimo che riuscii a cancellare solo quando, dopo l'8 settembre, decisi di tornare in Italia per unirmi ai partigiani di Dionigi Superti. Passai il Sempione e vissi l'esperienza della Repubblica dell'òssola, e poi l'angoscia di veder arrivare 13 mila nazifascisti e occupare una Domodossola ormai abbandonata, e da tutti. Ma prima che ogni cosa finisse, con gli altri ragazzi ridevo di me, dei miei calli alle mani. Quell'atmosfera durò poco. Una sera capitammo in una casa dove c'era un pianoforte: uno strumento verticale, di marca tedesca, senza il pannello di legno che copriva la meccanica e le corde. Ricordo che c'erano dei coriandoli ancora attaccati ai feltri dei martelletti. Maurizio, il più anziano del gruppo, mi disse: «Dài, adesso facci sentire se sai davvero suonare». Dovevamo essere dalle parti di Iselle, a pochi chilometri dal confine, quasi nelle gole di Gondo. Mentre alzavo il coperchio mi chiesi come erano riusciti a portare quel pianoforte fin lì. Poi provai un solo accordo: di do maggiore. Era tutto a posto, la meccanica a baionetta del pianoforte aveva mantenuto l'accordatura piuttosto bene. C'erano delle ragazze che ridevano, un frastuono di pentole e odore di aceto, molto forte. Suonai senza timidezze il Walzer brillante di Chopin, qualcuno dietro le mie spalle accennò qualche passo di danza. Sentivo delle voci che chiedevano un charleston. Ma non ci badai. Erano quasi due anni che non vedevo un pianoforte, e fui quasi scortese nell'ignorare richieste confuse, accompagnate da fischiettii e da qualche strofa di canzone un po' stonata. Poi presi a suonare Brahms, una rapsodia. E mentre lo facevo mi accorgevo che i movimenti dietro le mie spalle diventavano sempre meno identificabili, fino ad avere la sensazione che nulla si muovesse, che mi avessero lasciato solo. Quando terminai di suonare la Rapsodia, mi alzai dal seggiolino e li guardai tutti. Erano silenziosi, anche le ragazze, quasi impauriti, non osavano neppure farmi dei complimenti, mi sembrava di arrivare da un altro mondo. Per la prima volta mi guardarono come non fossi uno dei loro, certo non lo volevano, ma erano imbarazzati dalla mia diversità. Cosa avevo fatto? Avevo soltanto suonato Brahms? O forse c'era un'aria diversa che il mio pianoforte gli aveva fatto percepire? Non saprei, ma ricordo che era l'alba, e il freddo cominciava a farsi intenso, l'inverno era alle porte. Si capiva che tutto stava finendo. Il 14 ottobre saremmo scappati, la Repubblica dell'òssola finiva la sua storia e io seguii Superti, assieme ad altri trecento uomini, in val Divedro. Da lì passammo il confine, e me ne scappai in Svizzera. Solo molti mesi dopo tornai a Milano, nel giugno del 1945. Ma per riandare a quella sera, si capiva che in un futuro vicino, con gli abiti civili, nulla sarebbe più stato uguale. E quella notte mi dovetti accorgere che non si cambia, che può anche accadere di viaggiare per strade parallele, ma poi tutto torna al suo posto. Io nelle mie ville, tra i miei Steinway, sempre a metà strada tra New York, Londra e Parigi. Loro tutti un po' diversi, chi a fare il giornalista, chi a tentare la carriera politica; molti però tornarono a esistenze dignitose, e con il piacere di farlo. Cosa aveva scatenato quella musica, in quella notte? Certo, doveva apparire estranea, difficile, ma non bastava: c'era qualcosa di più, che divideva; avevo lasciato un portone aperto, e svelato la mia anima, il mio spirito, il mio talento. L'avevo fatto in buona fede, ma bastava, e ancora una volta, ad alzare quel muro: un muro dietro cui ho vissuto sempre, e con rimpianto. Persino mio padre era imbarazzato dal mio talento quando si nascose dietro quella porta. Solo mia madre riuscì a sopportarlo, perché nel mio genio vedeva la sconfitta di zio Arturo, pianista e grande virtuoso, ma perdente. Io lo avevo annientato: a soli dieci anni suonavo assai meglio di lui. Quella dovette essere la vendetta di mia madre su zio Arturo, che l'aveva rifiutata, e più di una volta. E lo fece con una sorta di dolore, con una rabbia che rivelava quanto fossero contraddittori e confusi i suoi sentimenti. Si scrissero delle lettere, un pacchetto ritrovato pochi giorni dopo che morì mia madre nel doppio fondo di un cassetto, assieme a un cofanetto di gioielli che lui forse le regalò. Fu una zia particolarmente solerte a bruciare quelle lettere, che avrei voluto leggere, e che arse dal fuoco del caminetto spargevano un profumo di gelsomino. E io vidi quel fuoco, e quella carta che stava bruciando, e non potevo sapere che qualcosa del genere doveva essere avvenuto molti anni prima, dopo la morte di Chopin. Siamo nel 1851, Alexandre Dumas figlio scopre a Myslowitz, in Slesia, le lettere di George Sand a Chopin. Sono molte. Dumas è entusiasta, sa di aver trovato qualcosa di prezioso. Come sono finite in Slesia quelle lettere? Furono affidate da George Sand a Luisa Chopin, la sorella, perché le portasse via da Parigi. Luisa prende queste lettere e le porta in Polonia, poi le affida ad alcuni amici. Perché? Non si riesce a capire. George Sand vuole liberarsi di qualcosa di scomodo, ma come è che decide di affidarle alla sorella di Chopin? Non erano le lettere di Frédéric, bensì le sue. Cosa contenevano quelle lettere? Forse un segreto che avrebbe potuto mettere in cattiva luce Chopin. E chi meglio della sorella, dell'amatissima sorella, poteva garantire discrezione? Ma c'è di più: Luisa non tiene con sé quelle lettere, neppure lei. Perché? Non c'è una risposta. Prende il pacchetto e lo consegna, sigillato, ad alcuni amici di Myslowitz. Lì arriva Alexandre Dumas figlio, che non cerca esattamente quelle lettere ma nel trovarle ha un moto di entusiasmo. Legge quello che c'è scritto e poi, pensando di far cosa gradita, mette al corrente la Sand della scoperta. Finalmente quelle lettere potranno tornare a Parigi. Il 7 ottobre 1851 George Sand scrive poche gelide parole a Dumas: «Poiché avete avuto la pazienza di leggere il pacco di lettere, piuttosto insignificanti a causa delle ripetizioni e che mi pare abbiano interesse esclusivamente per il mio cuore, sapete ora quale materna tenerezza abbia riempito nove anni della mia vita. Certo in esse non vi sono segreti e dovrei piuttosto glorificarmi che arrossire per aver curato e consolato, come un figlio, quel nobile e inguaribile cuore...». E' vero che non ci sono segreti? Non si direbbe. George Sand ci ha lasciato nove volumi fitti di epistolario, e quasi tutte le lettere della sua vita per migliaia di pagine. Ma quelle che mandò a Chopin le fece bruciare. Un po' come fece mia zia con quelle che mia madre inviò allo zio Arturo? Non posso dire se anche quelle di George Sand profumassero di gelsomino, ma ho sempre associato i due episodi in modo strettissimo. Al punto che oggi non so più dire se ho letto di quelle lettere profumate in qualche biografia di George Sand o se invece era la carta da lettera di mia madre. Tutto è sempre stato talmente fuso assieme che il ritrovar la quarta Ballata, e il conoscere una Solange, doppio e sosia di Solange Dudevant, ha definitivamente sconvolto la mia vita, mi ha sorpreso affacciato, per quel poco che si può tollerare, alla finestra della follia. Avrà capito la mia Solange tutto questo? Avrà saputo, intuito dalle mie parole, che quei suoi capelli che si muovevano leggeri per la stanza erano, persino loro, tasselli di un mosaico sensuale di cui conoscevo ogni dettaglio, come fosse un romanzo scritto da me. Tornava quella sensazione di gelo, quel silenzio che avrei voluto spezzare, in quel giorno lontano, quando Maurizio, e Johnny, e Alberto, tutti i nomi di battaglia dei miei compagni partigiani che erano con me in quella casa, capirono che non c'erano più strade da percorrere assieme; che le uscite erano diverse, e dunque le destinazioni. Mi guardarono, quella notte, con rispetto e disagio, neppure per i complimenti si sentivano adeguati, temevano di sbagliare; soltanto Johnny mi chiese che musica era, e io non osai neppure dire il nome del compositore. E mentre tornavo a sedermi, e le ragazze continuavano a ridere e a bere del vino rosso, una mi guardò, era tutta accaldata: «Sei bravo», mi disse quasi per togliersi un peso, e sfiorandomi il ginocchio con la mano. Solange quella notte non si avvicinò al pianoforte. Stava un po' distante, e io potevo vederla con la coda dell'occhio: in piedi, la schiena contro il muro, e una posizione del corpo che sembrava naturale, morbida. I suoi occhi fissavano le mie mani, ma senza ammirazione, nonostante quasi volassero per la tastiera e le dita sembrassero a tratti dei congegni perfetti capaci di percuotere i tasti con una precisione che si faceva eleganza. Quando terminai di suonare, neppure si avvicinò, rimase distante: in un atteggiamento di attesa, quasi di rispetto. Ma sapevo che in quel rispetto c'era già un congedo, in quell'atteggiamento discreto e sensuale potevo leggere la stessa distanza di quel giorno lontano, di quel «Sei bravo» della ragazza scapigliata che aveva bevuto troppo vino rosso. O almeno temevo che così fosse: il pianoforte aveva finito per separarmi, per togliere ogni possibilità di comunicare con il mondo. O meglio, era lui stesso a comunicare. Così ero vittima del mio strumento; e a tal punto che più di una volta ho avuto degli scatti distruttivi. Avrei spazzato via tutto. Un giorno, dopo un concerto, a Stoccolma, lo dissi a un giornalista che aveva avuto la pazienza di attendere il mio buon umore fino a tarda sera: «Si pensa che il pianoforte sia un tramite tra l'esecutore e il suo pubblico. Il più delle volte la mia tecnica prodigiosa trasforma il mio strumento in qualcosa di autonomo, in un mostro che non controllo, fino a dargli vita propria, a trasformarlo in un vero protagonista. E io quasi scompaio, piegato da quella potenza meccanica e sonora». Mi pareva che Solange sentisse tutto questo, che lo provasse persino sul suo corpo, come un vento troppo freddo, e la colpa fu certamente anche di Chopin, che scrisse quella parte, quelle pagine con un Presto con fuoco. Lui che era riuscito veramente a trasformare il suo pianoforte in un semplice strumento della sua sensibilità, lui che avrebbe potuto scrivere per Solange un finale struggente e perfetto come quello dell'ultima Mazurca, aveva invece scelto di impiegare la forza, la passione, quasi la rabbia, per non dire il mistero. Sapendo che non avrebbe più potuto suonare quelle pagine, sapendo che per Solange sarebbero rimaste soltanto scritte, forse mute, senza suono, senza musica. Quale beffa delle simmetrie! Io a poter soltanto eseguire quella partitura difficilissima e impetuosa, ma senza che dentro di me riuscissi a trasformare quell'impeto, quella passione, in un sentimento autentico per quella Solange che il caso mi aveva fatto incontrare in uno dei tanti caffè di Parigi. Io imprigionato dentro la mia tecnica pianistica: io che avevo fatto del mio talento una passione, e lo avevo come chiuso nella cassa armonica del mio pianoforte, come i dèmoni che Chopin dovette vedere quella notte in Inghilterra, e che lo turbarono così tanto. Ieri ho fatto una lunga passeggiata per i boschi che dalla mia casa si estendono per tutta la valle. Comincio ad aver bisogno di muovermi, a non sopportare più questo esilio che mi ha aiutato per certi versi a separarmi da me stesso. Negli ultimi anni della mia vita ho scelto Debussy, perché Debussy non mi sfiora, lo amo di una passione misurata e dissonante, come i suoi accordi bizzarri, i suoni che lascia mescolare nell'aria, come fosse un alchimista musicale che fa esperimenti, o un pittore che predilige le tempere. Nessuno potrà capire perché nelle rare interviste che concedo parlo di Debussy, di Mozart, di Scarlatti, di Clementi, talvolta di Beethoven, ma non parlo mai di Chopin. Perché so che Chopin mi aspetta, che alla fine dovrò tornare a lui, e so che vuole per sé tutta la mia capacità di stupire il mondo, oggi non credo di essere ancora pronto, non sono capace di entrare in quella chiesa immaginaria che forse ho soltanto sognato (ma qualcuno mi dice che da qualche parte esiste), che immagino gotica, dal soffitto ligneo in oro e azzurro a cassettoni, altissima, sorretta da colonne di granito e cipollino che termina con un presbiterio poligonale illuminato da grandi finestre, e ascoltare le voci di un coro, e sotto un organo; e le fiamme libere delle torce a illuminare la chiesa quasi ti abbagliano e sembrano mosse da un vento misterioso, che entra dalle vetrate, o dal rosone centrale. Mi sono immaginato, scaraventato in mezzo a quel pieno musicale, incapace di leggere il pavimento della chiesa, costituito interamente da un mosaico antichissimo, misterioso, come quello della cattedrale di Otranto. Ho fatto sogni di grandezza mentre gli scoiattoli correvano e saltavano da una cima di un albero a un'altra, e ho cominciato ad avere paura del silenzio, come solo una volta mi era accaduto, tanti anni prima, mentre ero sulla cima della pala di Gondo, una parete di gneiss a strapiombo di almeno cinquecento metri, e il torrente correva sotto, sempre in ombra, e profondissimo, e nessuno era mai salito su quelle pareti; si arrivava da un sentiero pericoloso e ci si affacciava su quell'abisso che nel fondo era stretto e nero, e le vie che conducevano lì avevano nomi da brivido, più freddi del vento che soffiava, come via delle rondini sanguinarie. E io fantasticavo di una vita passata da molti alpinisti a superare scogli tecnici quasi impossibili, e mi chiedevo se non fossero gli stessi miei, quelli che mi avevano permesso di suonare, forse come nessuno, i passaggi più difficili della seconda e della quarta Ballata. Persino Claudio Arrau arrancava, faticoso, sulle salite di accordi di sesto grado, lo sentivo che faticava, che le sue dita non gli bastavano. E Rubinstein invece leggero, come un agile arrampicatore, capace di sconfiggere ogni difficoltà con levità e un pizzico di civetteria. E sentire quel brano suonato da entrambi era come vedere un vecchio alpinista con esperienza salire una parete, e osservare il suo corpo mentre finisce quasi per soccombere alla fatica e così capisci quanto sia difficile. E in quella esibizione della difficoltà trovi il senso di ciò che sta facendo. Mentre l'altro alpinista, il doppio, il sosia di Arthur Rubinstein, è perfetto nei movimenti che la natura gli ha dato come un privilegio raro, quella stessa natura che aveva modellato la roccia su cui stava inerpicandosi gli dava la chiave per vincerla, e guardandolo avresti pensato fosse un gioco da ragazzi. E io che rappresentavo la medietà tra quei due miracoli di tecnica e interpretazione, e forse la mia medietà era un miracolo ulteriore, perché era una grande sintesi, o almeno così scrivevano i critici da anni, una sintesi che esigeva tempo. Una parete a strapiombo di cinquecento metri mi sarebbe bastata per tutta una vita. L'ironia forse fu un'altra: quando pensavo di essere arrivato in cima, mi ero accorto che avevo raggiunto solo il primo gradino, che con quella quarta Ballata la parete sarebbe continuata e certo non potevo immaginarlo. E Chopin? Come avrebbe scalato quella parete? Come me? Come Rubinstein? Come Arrau? O ancora qualcun altro, per esempio Cortot? No, Chopin quella parete l'aveva costruita, modellata, forgiata, creata, l'aveva lasciata a noi. Lui era un Dio beffardo, che aveva affidato al caso i nostri successi, e aveva investito sulle nostre fatiche. E portato in carrozza la sua Solange ad ammirare quella creatura di roccia magnifica e impossibile, quel paesaggio che Immanuel Kant avrebbe definito «sublime», e poi avrebbe aggiunto: «dinamico». Proprio così, il «sublime dinamico». Aveva condotto la sua Solange ad ammirare ciò che lui stesso, per primo, non poteva più vincere. Un paesaggio grandioso e inaccessibile. Affidato solo alla scrittura, muto. Una calligrafia delle passioni interrotta per brevi momenti da tre uomini in un intero secolo. Tre destini diversi, non legati da nulla, se non da un dettaglio, ognuno di noi non avrebbe mai potuto suonare in pubblico quella musica. Franz Werth, Andrej Charitonovic e io sapevamo da quel primo accordo di due note che quelle pagine sarebbero rimaste chiuse dentro il nostro pianoforte, dentro il nostro orecchio, dentro la nostra memoria. Nessuno le avrebbe potute pubblicare, era giusto che le generazioni di pianisti continuassero a suonare la versione conosciuta della Ballata. E che si continuasse a pensare che quella partitura era intoccabile e perfetta così come fu scritta la prima volta, e dunque come tutti noi l'avevamo incisa negli anni. Forse la più straordinaria composizione per pianoforte. Forse. Quel manoscritto che io avevo tra le mani era un conto aperto: tra me e Chopin, tra me e Solange Dudevant, tra me e mia madre, mio padre, lo zio Arturo, magari Annetta, i fantasmi di Werth e Charitonovic, ed Evgenij e persino James o anche Arrau. Per non dire poi di Solange, la mia Solange (e ogni volta che scrivo sono costretto ad attribuirmela, la mia la mia la mia, ed è bizzarro che, per distinguerla dall'altra Solange, io chiami mia una delle donne che meno ho posseduto nella mia vita). Quale miracoloso collegamento ero riuscito a fare tra una stagione che ingenuamente credevo di aver dimenticato e quello che mi era accaduto dal giorno in cui a Parigi il russo Evgenij mi aveva avvicinato? Non ero più tornato a quell'episodio, quello della serata con i partigiani in cui avevo suonato Brahms, e poi quel pomeriggio con le gambe che ciondolavano sull'orrido precipizio ad aspettare che un giorno d'ottobre i fascisti e i tedeschi portassero ancora il terrore. E quando la guerra finì, molti di quegli uomini non volevano separarsi dalle loro armi, e forse non sapevano cosa avrebbero visto tornando alle loro case. E io stesso dove mai sarei andato? A Milano, forse? O ancora qui in Svizzera, in questa valle dimenticata? E come sarebbe stata la mia vita? Per la prima volta mi sentivo solo, e libero da ogni legame. Quando tornai a Milano, seppi che mia nonna era morta nella sua villa sul lago di Como qualche giorno prima della liberazione. Ero diventato ancora più ricco, ed entrando nella nostra casa di Milano che nessuno aveva mai amato, ebbi come un sentimento di felicità. In pochi giorni arrivò il pianoforte dalla villa in campagna, e ricominciai a suonare Chopin (un anno dopo, forse un anno e mezzo, e avrei inciso la quarta Ballata per la prima volta). La guerra aveva seppellito quei venticinque anni della mia vita in un sonno da cui mi ero svegliato poche volte, e in cui mi sono rifugiato di continuo. Per molto tempo non ero più tornato a pensare a quell'antica storia: una passione familiare come molte, di quelle che non si raccontano perché troppo private, e che possono interessare solo la curiosità morbosa degli altri, e nulla di più. Ma ora sapevo che quell'antica vicenda aveva bisogno di qualcosa che la completasse, e dovevo essere io, e doveva essere il mio pianoforte a dare significato a tutto questo. Perché il pianoforte nella mia famiglia non era uno strumento, era il motore immobile dei sentimenti. Lo suonava mia madre, e mio zio, e io, e non lo suonava mio padre, e questa fu la tragedia della sua vita. Di una vita che si è trascinata stancamente, e non si è mai compiuta, neppure nella sua fine. Allora capivo che la passione di Chopin per Solange doveva essere quella di mia madre per zio Arturo, della mia per la Solange del caffè di rue de Rennes, e forse di mia madre per me, figlio amato anche per questo. Per non dire di Andrej Charitonovic per Evgenij, e chissà, forse persino del vecchio professore che amò Andrej e, atroce vendetta, lo volle perduto in un lager, piuttosto che separato da sé. Eppure queste affezioni dell'anima prendevano significato solo quando si potevano legare tutte assieme, in un intreccio che mi sorprendeva. Lo capii la mattina che Solange uscì dalla mia casa, in modo meno casuale della prima volta. Ormai sapevo che poteva tornare, e che sarebbe tornata. Posai in un cassetto il manoscritto e mi accorsi che era lo stesso cassetto in cui avevo conservato una grande busta con poche fotografie. La aprii, dopo molti anni che la portavo chiusa da una casa all'altra. C'era una mia foto da bambino, con mia madre e mio padre. Lui appoggiava le mani sulle spalle a me e mia madre con un movimento talmente lieve e timoroso che sembrava non osasse sfiorarci. Poi c'era una mia immagine al pianoforte, avevo undici anni. E ancora un'immagine mia e di mia madre: io seduto al pianoforte, lei in piedi dietro il seggiolino. Anche in questa foto lei mi appoggia una mano sulla spalla mentre io fingo di girare una pagina della partitura. Ma questa è una mano più decisa, forte, persino autoritaria. E lo sguardo è fermo, quasi ostinato nel guardare l'obiettivo. Giro la foto e vedo che c'è una riga scritta: «Da Arturo, il 6 gennaio 1933». Dunque dietro l'obiettivo stava proprio lo zio Arturo, e quello sguardo di mia madre doveva essere uno dei modi in cui lei lo avrà guardato per una vita. Sentii il bisogno di rimettere tutto nel cassetto, insieme al mio manoscritto di Chopin. Ma in questo mio intreccio di destini, che tutti assieme mi potevano persino portare a pensare che il Dio dell'universo è veramente un accordo di fa minore, mancava qualcosa: non la mia Solange che aveva assolto al suo ruolo, ma la sua Solange. Dovevo trovarla, e sapevo quanto fosse una follia andare alla ricerca di una donna morta nel 1899. Di cui nell'ultimo periodo della sua vita non si è saputo quasi più nulla. Ma come avrei potuto decifrare quella calligrafia delle passioni senza che riuscissi a trovare un filo, quel filo che avrebbe potuto mettere assieme tutta la mia storia. E così quella mattina uscii senza meta. Forse fu follia. Probabilmente il desiderio di trovare un senso dove sembrava non esserci. Cosa sapevo di Solange Dudevant? Che si separò dal marito Clésinger e condusse una vita «avventurosa» fino alla morte, che il fratello Maurice morì dieci anni prima. Sapevo ormai che quel mistero, quel segreto, lo aveva tenuto per sé assai bene. Ma nulla di più. Forse non c'era da conoscere altro: la sua vita, ciò che contava della sua vita, si era chiusa in poco tempo, in quegli anni di Nohant. Ma per una volta la discrezione aveva avvolto tutto di una coltre impenetrabile. Ancora nel 1849, nel periodo in cui Chopin scriveva la quarta Ballata, le sue lettere a Solange erano prudenti, affettuose ma assai corrette. E in un biglietto datato 5 aprile 1849 le scriveva rassegnato: «Sono al mio quarto dottore. Mi prendono dieci franchi per visita e qualche volta vengono due volte al giorno. Siate contenta della più grande delle gioie: la salute». A maggio, quando Solange darà alla luce una bambina, mostrerà grande felicità: «Un amico infelice vi benedice, e benedice la vostra figliola». Sembra che Solange scompaia con la morte di Chopin, anche se continuerà a vivere per altri cinquant'anni. E per altri cinquant'anni terrà quelle pagine con sé. Dove potevo trovare tracce di Solange, quando Solange di sé non regalò quasi nulla per molto tempo. E se molto prima la passeggiata fino a Passy mi aveva riportato a Nerval, ora mentre vagavo attorno a rue Pigalle sapevo che le mie speranze di trovare l'ultimo filo, fosse anche un filo qualsiasi, della mia storia erano quasi nulle. Cercavo le case che aveva abitato, ma in realtà volevo liberarmi da un'ossessione che mi pareva eccessiva, e che cercavo di trattare con distacco, persino ironia. Tornai, camminando di buon passo, verso place Vendome. C'è una targa che ricorda che lì morì il grande compositore Frédéric Chopin. E ripensai alle parole che Pauline Viardot scrisse a George Sand per raccontare cosa avveniva nella casa del compositore morente: «Tutte le grandi dame di Parigi si sono sentite obbligate a recarsi a svenire nella sua camera affollata di disegnatori che facevano schizzi in tutta fretta, e un dagherrotipista voleva far mettere il letto presso la finestra affinché il morente fosse esposto al sole. Allora il buon Gutmann, indignato, ha messo tutti questi mercanti alla porta». Certo Solange non sveniva. Anzi non si mosse da quella casa, e fu proprio lei che, la notte in cui lui morì, si accorse per prima che non respirava più. E il marito di Solange fu l'autore della maschera mortuaria di Chopin, e della statua funeraria che si può vedere sulla sua tomba al Père-Lachaise. Forse c'erano ancora le lettere che gli mandò Solange in quella casa di place Vendome. Ma nulla era destinato a rimanere: da quella casa uscì tutto quello che era appartenuto a Chopin, destinazione Polonia. La sorella Luisa raccolse ogni cosa: lettere, carte personali, l'agenda. Ma neppure un viaggio in Polonia mi avrebbe potuto aiutare. Fu tutto bruciato dai cosacchi il 19 settembre 1863 durante una rivolta polacca contro la Russia. Finì in cenere un vero tesoro, fatto di manoscritti, libri, lettere e persino il pianoforte Bulcholz sul quale Chopin aveva studiato. Mi è stato detto, qualche anno dopo, che in mezzo a quei manoscritti, a quelle carte, dovevano esserci certamente le lettere che gli mandò Solange, e che lui non ebbe il coraggio di bruciare. Uno strano destino: che tutto fosse finito in cenere, tranne quelle pagine che il caso mi aveva inviato. Si dice che Eugène Delacroix non fosse soddisfatto del medaglione che Clésinger aveva fatto per Chopin, anche se era somigliante. L'ironia volle che fosse proprio sua moglie Solange l'unica che avrebbe potuto darci il ritratto più veritiero di Chopin. Quella giornata passò in fretta. Ci volle tempo perché riprendessi la strada di casa. Ormai sapevo che avrei lasciato Parigi, e che i miei amici di Amburgo avrebbero sopportato di buon grado i miei capricci. Rientrando nel portone ebbi due strane apparizioni, forse delle allucinazioni. Mi sembrò di scorgere Evgenij, sotto la mia finestra, pareva vestito con un abito decente; lo vidi d'improvviso mentre il portone si chiudeva alle mie spalle, tornai indietro, uscii ancora, ma non c'era più nessuno. Era scappato, o si trattava degli ultimi fili per il mio telaio che stavo cercando? Non so dirlo ancora oggi. Come non posso dire il perché, ma credetti di impazzire quando rientrando nel portone vidi una busta sul banco della portineria, una busta che mi parve profumare di gelsomino. La aprii, subito, senza aspettare oltre: non c'era nulla, dentro, soltanto un numero di telefono, di Parigi. Salii le scale di corsa, presi il telefono, meglio, lo afferrai, e feci il numero. E qui il ricordo si fa vago, era una voce decisa, di una donna giovane: parlava francese, ma un francese desueto e lezioso, come provenisse da un tempo lontano. Di quella sera non ricordo altro, se non la bottiglia di whisky vuota. Il giorno dopo riprovai, ma nessuno rispondeva e dal ricevitore non arrivava alcun segnale. L'addetto della società dei telefoni mi disse cortese che quel numero non era mai esistito. Capitolo dodicesimo. In cima a uno dei monti che fanno la guardia alla mia casa hanno messo un'antenna. La vedo lontana, e mi sembra altissima; così potrò sentire meglio la mia radio e persino me stesso, quando al canale svizzero e a quello francese trasmettono brani delle mie incisioni. Di tanto in tanto li ascolto, e devo ammetterlo: mi piace la distanza che le onde radio pongono tra me e ciò che ho suonato negli anni passati. Amo quel tipo di imperfezione, le piccole scosse, le scariche leggère pronte a interrompere un concerto di Chopin, o La terrasse des audiences du clair de lune di Debussy. Ora l'antenna restituirà me stesso perfetto, specchio della mia anima, e mi lascerà ascoltare Chopin, suonato da me come forse non vorrei, e contribuirà a tenere più vicino il mio passato attraverso la perfezione sonora. Capisco l'ossessione di molti musicisti sulla tecnica di registrazione: più il suono è cristallino, perfetto, fedele, più si pensa di cancellare il tempo, e si crede che tutto rimanga inalterato. L'alta fedeltà è un modo dell'eternità. Mi dicono che questi compact disc sono indistruttibili, che non temono la polvere, che riproducono il suono sempre allo stesso modo, e per sempre. E' la nostra sconfitta, di noi musicisti intendo, e non mi piace. Se potessi, ascolterei il mio primo disco così come uscì, in 78 giri, con il gracchiare della puntina e quel rumore, quel continuo fruscìo di fondo, che dà alla musica la profondità del tempo, della vita, del passato. D'altronde, il mio passato l'ho stipato alla meglio nella mia musica, all'inizio cercando un ordine, poi sempre meno, alla rinfusa, talvolta lasciando fuori qualche frammento spezzato nella foga di far star tutto in una decina d'ore di pianoforte. Tanto dura il mio repertorio nella sua forma migliore. Una vita cancellata, sacrificata, quasi annullata in dieci ore di musica, che non fanno neppure il sottofondo musicale di un'intera giornata in un negozio di musica. Se ci penso, quasi mi vengono i brividi. Non sono stato bravo come Arrau, o come Rubinstein, o Magaloff, che hanno lasciato una quantità di incisioni sconcertante. Io tremavo a ogni suono che non rispondeva come avrei voluto. Ora è troppo tardi per cambiare, e non voglio diventare come quei vecchi pianisti che si mettono improvvisamente a girare il mondo per tenere concerti disperati, e magari perché hanno paura di morire. Rubinstein aveva novant'anni, era quasi cieco, e sbagliava anche le note. Arrau no, mio Dio, è stato perfetto fino all'ultimo. Mi consolo con Richter, che non è più quello di una volta, e i critici cominciano a storcere il naso. Riguardo a Gould, poi, tutti sanno come finì, quasi sotterrato dentro alberghi in cemento a Toronto, a suonare soltanto la notte, e passare ore al telefono, ma senza vedere nessuno. Quattro mesi prima che morisse chiamò anche me, mi parlava in tedesco, era un suo vezzo: «Maestro, quando incidi i Preludi? Sei l'unico pianista che potrebbe farmi rimpiangere di non aver quasi mai suonato Chopin». Scherzava, come sempre. Arrau non mi disse mai una frase del genere. I suoi Preludi potevano bastare, per tutti, me e Gould compresi. Persino Alfred Cortot, colorato, incisivo, quasi eccessivo, avrebbe avuto qualcosa da imparare da Claudio Arrau. I Preludi saranno il mio prossimo lavoro, se riuscirò a sopportare quella loro incompiutezza strana, che posso paragonare soltanto alle statue di Michelangelo nelle Cappelle Medicee di Firenze. Se riuscirò a suonare, come nessuno ha mai fatto, il Preludio in re minore, l'ultimo, che Cortot definì con tre parole: «Sangue, voluttà e morte». E lo suonava come un rematore su un fiume che cerca di andare controcorrente, e la mano sinistra raggiunge il sublime in un continuo affaticarsi, mentre la destra grida disperata e chiede una via di uscita. Arrau diceva: «E' quasi una tempesta di mare, la fine definitiva dei Preludi. Dopo, credo non si può più provare grande entusiasmo per la vita». Ho scelto i Preludi non solo perché volevo misurarmi con l'opera di Chopin più inquietante e angosciosa che ci sia: perché i Preludi stanno esattamente all'opposto delle Ballate. E l'ultimo Preludio è forse il suggello di uno stato di sospensione emotiva: anticipa la coda della quarta Ballata che solo io conosco e posso suonare. Anche se i due brani sono stati scritti a molti anni di distanza uno dall'altro. Quando compose i Preludi, Chopin temeva di non tornare vivo da Maiorca, era terrorizzato: sputava sangue, il viaggio di ritorno lo fece in una nave carica di maiali, ma il suo cammino musicale non si era certo compiuto. La mia quarta Ballata è un'altra cosa, è l'opera finale, l'ultimo atto, e per di più la consapevolezza della passione, una consapevolezza arrivata troppo tardi. Se il Preludio in re minore è un rematore controcorrente, la quarta Ballata, la mia quarta Ballata, è invece un rematore che cerca di moderare, anche se inutilmente, la forza della corrente, e alla fine affronta con coraggio le rapide. Per tutti questi anni ho passeggiato molto, ho suonato quel poco che mi basta, e ho pensato a lungo. Ho vissuto per il mio pianoforte, ho parlato per ore con il mio accordatore, mi sono fatto svelare dettagli tecnici che ancora non conoscevo, anche se alla mia età c'è ormai poco da sapere. Ho cercato l'anima del mio pianoforte e anche quella di Solange, e forse le ho persino confuse. Sapevo che Solange sarebbe tornata nella mia casa di Parigi, e per molte altre volte, se io non fossi scappato via, terrorizzato da una vita che sfumava in un gioco di incastri, e in quel gioco perdeva ogni malinconia. Di tanto in tanto Solange mi manda una cartolina; vive in Irlanda, ma non so bene dove. Mi scrive poche parole, talvolta in italiano, spera di farmi piacere, e promette che verrà a trovarmi, ma penso che le farà assai bene star lontano il più possibile da un uomo come me. Ormai sono troppo vecchio per lei, e mi accade sempre più spesso di ritrovarmi troppo vecchio persino per me stesso. Il mio pianoforte, l'unico che suono, raramente ha partiture lasciate sul leggìo: ormai eseguo quasi tutto a memoria, preferisco trascurare quei segni sottili che mi hanno accompagnato per una vita. Solo quel manoscritto rimane aperto sulla mia scrivania, come fosse un libro che ogni sera ho bisogno di leggere, anche se ormai lo conosco alla perfezione, perché è il libro della mia vita, della mia ossessione per Chopin e per quel Secolo; e, ancora, per tutte le donne che ho avuto, per quel senso di disagio che provavo nel non saper comunicare con nessuno. E mi sentivo in colpa e nel peccato, perché prediligevo il linguaggio del corpo; e dopotutto anche la mia musica, le mie esecuzioni, i miei concerti erano un sensuale linguaggio del corpo. Non c'era differenza se le mie mani toccavano e suonavano una tastiera oppure sfioravano i seni di una donna appena conosciuta, di cui quasi non sapevo ancora il nome. Pensavo che nel tirare linee rette su un foglio di carta - casuali, che si incrociavano, che partivano da direzioni diverse - si potesse forse trovare un centro che tutte le collegava. E credevo che l'esser entrato in possesso di un manoscritto così prezioso, che rivelava molti aspetti sconosciuti di un grande compositore, fosse un'avventura fortunata, che poteva anche non verificarsi: bastava che la mia casa di Parigi fosse stata trecento metri più distante dal museo con i cimeli di Chopin. Non volevo credere a un libro eterno dove tutto era scritto. E se quel libro c'era, mi era inaccessibile. Dunque, cosa potevo farmene di quelle pagine? Avrei potuto trattenere con me la giovane Solange? Scoprire qualcosa in più di tutte quelle lettere bruciate da gelide scrittrici e ignari cosacchi? Potevo forse decifrare la mia vita attraverso quella partitura, e scoprire che tra mia madre e zio Arturo ci fu rancore, sì, ma il rancore che arriva solo dopo una passione vissuta violentemente e poi negata? Anche le lettere di casa mia furono bruciate prima che potessi leggerle. Allora non potevo che continuare a stupirmi per quella calligrafia, e per quelle note enigmatiche, e qui devo aggiungerlo: persino terribili. Nessuno ha più visto queste pagine dopo il mio amico James e Solange. James non c'è più e Solange è una donna troppo giovane per avere la pazienza di cercare qualcosa in pagine manoscritte che appartengono a un mondo che non potrà mai conoscere, da cui forse è per sempre esclusa. Evgenij è scomparso, con i suoi ricordi e i suoi dolori. E Dio solo potrà sapere se è riuscito ad ascoltarmi mentre suonavo la coda della quarta Ballata. Quando il sole scende e brucia le cime della catena della Jungfrau mi prende un senso di angoscia. Potrei regalare a un pianista più giovane queste pagine, farle incidere da qualcuno, ma sarebbe tempo perso: infinite polemiche sezionerebbero questi segni misteriosi. I biografi di Chopin mi giurerebbero rancore eterno: non sopportano che si possa dubitare del rapporto tra Solange e Chopin. E infine, come lasciar fuori tutta una parte di storia che riguarda solo me, la mia famiglia e la mia Solange? Sono l'ultimo pianista al mondo che potrebbe incidere queste pagine; l'ultimo che ha avuto un maestro nato nel 1858; aveva settant'anni lui, io soltanto otto, e suonavo già benissimo la prima e la terza Ballata, tutti i Preludi e buona parte degli Studi. Il mio maestro conobbe Liszt, Puccini, ed ebbe consuetudine con Brahms, di fronte al quale avrebbe voluto suonare il suo primo concerto per pianoforte e orchestra. Mi diceva sempre: «Faccia attenzione a Schumann, può indurre pensieri foschi e oscuri, ci sono le tenebre nella mente di Schumann, e dunque nella sua musica». E mi recitava Baudelaire, a memoria naturalmente. Io mi impaurivo, e nascondevo le partiture di Schumann (e zio Arturo, senza saperlo, le ricomprava). Tante cose non ho suonato nella mia vita: perché le detestavo, o perché mi impaurivano, o ancora perché c'erano dei passaggi che io non avrei mai scritto. Ho sempre trattato la musica come qualcosa di vivo, che io dovevo scegliere, a dispetto della grandezza di qualunque compositore. Oggi i pianisti non si permettono opinioni: al massimo silenzi, omissioni, una forma frusta del coraggio di scegliere. Li capisco, e non li biasimo troppo. Ho sentito l'odore delle vecchie stoffe di Brahms sui vestiti del mio maestro. Ho sentito il profumo di una vecchia Europa che non c'è più da molto tempo. Qui sento solo l'aria tersa di un luogo troppo salubre e un po' noioso. Neppure più il peccato mi sorregge, quello che mi faceva suonare così bene: perché il mio virtuosismo era la mia grande arma di seduzione, l'unica che mi sapevo concedere. Ho sentito l'odore delle vecchie stoffe di Brahms, e nelle donne ogni tipo di acqua di colonia, anche le più volgari, senza curarmene; ho fatto grandi i miei desideri e le mie debolezze barattandoli con un pensiero forte e un talento inarrivabile. Ero il regista di un mondo che scompariva, sono l'ultimo che forse chiuderà la porta e lascerà tutti gli altri fuori, ad ascoltare pianisti mediocri ma dotati di tecnica decente, quella che basta per suonare tutte le note scritte in una partitura. Il resto lo faranno gli ingegneri del suono, quelli che sapevano trasformare Gould in un Frankenstein del pianoforte. E mi rimane il dubbio che persino Solange sarebbe rimasta fuori da quella porta, perché il mio è un mondo di codici che non capisce più nessuno, di cose scomparse, ma che per merito della mia celebrità rimangono nell'aria: e posso ancora sentire musica che non suono più da anni, incontrare persone che mi parlano di vecchi concerti, brani dimenticati, compositori di cui non eseguo una sola pagina da cinquant'anni. Persino i visi femminili che hanno riempito gli spazi lasciati liberi dalla musica stento ormai a ricordarli: perché con gli anni sono diventati solo dei gesti, movimenti sensuali tra loro assai simili. L'altro giorno ho ricevuto una lettera senza mittente, la scrittura della busta era femminile, il francobollo in alfabeto cirillico diceva che era stata spedita dalla Russia. Non l'aprii subito, sperai ancora in una rivelazione; volevo poche parole, del tipo: sappiamo che hai il manoscritto. Oppure: sono la nipote di Andrej, lei merita di leggere la sua ultima lettera. Invece era un'avvocato di Mosca, talmente povera da non potersi permettere neppure la carta intestata. Si riferiva ai diritti di una mia vecchissima incisione di Mozart appena uscita in Russia. Lasciai cadere ogni illusione: se una calligrafia delle passioni esisteva, forse ero davvero l'ultimo capace di leggerla. Epilogo in fa minore. Oggi è tornato il mio accordatore; è come un medico premuroso che ogni giorno passa per sapere se tutto va bene, e per rassicurarmi. Quel terzo fa del pianoforte non suona ancora come dovrebbe. E dire che il fa è la nota che dà la tonalità alla mia Ballata. Ci siamo guardati, lui ha controllato ancora il rullino e poi mi ha detto che quel tipo di Steinway può avere un difetto simile, ma che spesso passa assai rapidamente, e da solo. «E poi non torna?», gli ho chiesto con un'ansia comprensibile. «Chi può dirlo?», mi ha risposto. «Talvolta tutto va a posto. Provi, maestro, mi sembra che ora suoni senza fruscii.» Mi ha lasciato il posto sul seggiolino, e ho suonato quel fa una, due, tre volte. Premendo il pedale di risonanza e ascoltando con attenzione l'eco che si diffondeva nel salone, come fosse un profumo. Non udivo alcun fruscìo, sembrava perfetto. Il mio accordatore ha sorriso, senza alcun compiacimento: «Non è mio il merito, maestro, questi pianoforti hanno qualcosa dentro che li rende saggi. Quando è il momento, smettono di fare i capricci e si comportano da bravi strumenti». Ho riprovato ancora, non ero convinto: e mi è parso di risentire il fruscìo del feltro, come fossi un malato immaginario che cerca a ogni costo il sintomo che non ha, e si prova più volte la temperatura finché non pensa di intravedere qualche linea di febbre. Il mio accordatore scuoteva la testa, con una confidenza lieve affinata con gli anni e la consuetudine. Ma quando comincia a riporre i suoi attrezzi, e lo fa con calma, precisione e garbo, vuol dire che la visita è terminata: per quel giorno ero stato viziato anche troppo. Poi mi ha guardato, interrogativo: «Maestro, posso confessarle una cosa?». Il fatto che non osasse, che quasi esitasse, mi incuriosiva. «Certo, certo...», ho risposto fingendo distrazione, mentre provavo la morbidezza del pedale di risonanza. «Ho l'impressione che lei voglia quella nota imperfetta, che lei cerchi a tutti i costi quel sottile fruscìo, anche quando non c'è...» L'ho fissato, muto, attento, forse anche con severità, mentre lui continuava: «... in quel fruscìo lei cerca l'imperfezione, e nell'imperfezione una forma della libertà...». Con quella nota, con quel terzo fa, inizia la coda della quarta Ballata che Chopin dedicò a Solange Dudevant. Aveva ragione: soltanto un fruscìo mi ha liberato da quell'affezione dell'anima, da quell'intreccio di destini casuali che ho inseguito in tutti questi anni. Così ho capito che il mondo è soltanto un fruscìo impercettibile dentro una nota, dentro una vibrazione perfetta. E per la prima volta nella mia vita ho provato sollievo. FINE.