Promo 2008 Rivista quadrimestrale della FENIARCO Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali Supplemento n. 2 al n. 25 di Choraliter - Spedizione in A.P. - Legge 662/96 art. 2 comma 20/c - D.C.I. Pordenone l’animatore musicale Una figura necessaria? i cori operetta scientifico-morale Colin mawby un direttore di coro compositore bruno bettinelli tre espressioni madrigalistiche Un canto per l’uomo moderno colloquio con nino albarosa Comporre per bambini e ragazzi Riflessioni “Oblique” nuovo choraliter 2009 2 Editoriale Promo 2008 Rivista quadrimestrale della Fe.N.I.A.R.Co. Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali Redazione: via Altan 39, 33078 San Vito al Tagliamento Pn tel. 0434 876724 - fax 0434 877554 [email protected] Presidente: Sante Fornasier Direttore responsabile: Sandro Bergamo Comitato di redazione: Efisio Blanc, Walter Marzilli, Giorgio Morandi, Puccio Pucci, Mauro Zuccante In copertina: Festival di Primavera 2008 (foto di Renato Bianchini) Disegno di pagina 8: Sergio Telan Foto di pagina 14 codici miniati del duomo di Spilimbergo (archivio parrocchiale) Progetto grafico e impaginazione: Interattiva, Spilimbergo Pn Stampa: Areagrafica, Meduno Pn Associato all’Uspi Unione Stampa Periodica Italiana Supplemento n. 2 al n. 25 di Choraliter Spedizione in A.P. - Legge 662/96 art. 2 comma 20/c - D.C.I. Pordenone Abbonamento annuale: 25 € 5 abbonamenti: 100 € c.c.p. 11139599 Feniarco - Via Altan 39 33078 San Vito al Tagliamento Pn Da otto anni Choraliter è la voce di Feniarco. Sulle pagine della nostra rivista abbiamo raccontato, un quadrimestre dopo l’altro, la coralità italiana, concentrandoci soprattutto su quanto di nuovo e di positivo andava formandosi giorno per giorno, quanto poteva e può essere di stimolo a crescere. Pur nelle difficoltà che sempre accompagnano qualsiasi impresa umana, soprattutto se legata al volontariato e con risorse limitate, entusiasmo a parte, la coralità italiana del duemila è cresciuta nel confronto con quelle delle altre nazioni europee e non soffre più di complessi di inferiorità. E anche all’interno della società italiana un po’ alla volta si sta sgretolando il luogo comune che relegava il canto corale a forma culturale marginale, a espressione artistica minore destinata a ricreare i dilettanti. Oggi registriamo una crescita qualitativa dei nostri cori, una maggior attenzione dei compositori, mentre nella scuola cresce la consapevolezza del valore formativo della pratica corale e, come da molto più tempo in gran parte d’Europa, anche in Italia il coro scolastico non è una rarità. Perfino nei media si apre qualche breccia. In tutto questo Feniarco ha avuto un ruolo importante e anche la nostra rivista credo abbia fatto la sua parte. Dopo otto anni è venuto il momento di rinnovare Choraliter: meglio ancora, di rifondarla. Fin qui ci siamo rivolti soprattutto ai direttori, ai musicisti, a un pubblico ristretto di specialisti. Ora è venuto il momento di allargare la cerchia dei lettori, di rivolgerci anzitutto ai coristi per arrivare poi al più vasto pubblico. Quello che avete in mano è un modello del futuro Choraliter, collazionato con alcuni degli articoli usciti in questi anni. Naturalmente avrà molte più pagine, almeno un’ottantina. Non sarà solo un rinnovamento grafico, che ci porterà a stampare la rivista interamente a colori. Sarà soprattutto un rinnovamento dei contenuti: più musica, più rubriche, più servizi sui principali avvenimenti corali. E, almeno una volta l’anno, un cd di musica corale allegato alla rivista. E, per le notizie di cronaca, accanto a Choraliter, Italiacori.it, un magazine dedicato agli eventi corali e alle iniziative dell’associazione: una seconda testata che, inviata a tutti gli abbonati di Choraliter, manterrà più stretti i contatti tra tutti noi e renderà più incisiva l’informazione anche verso l’esterno. Con questo intento Choraliter si presenta ai suoi lettori, contando sulla loro collaborazione per poter proseguire, rinnovandosi, nella diffusione del canto corale. Sandro Bergamo direttore responsabile R Riflessioni “oblique” Rifless comporre per bambini e ragazzi di Tullio Visioli Prima di entrare nel vivo dell’argomento, ritengo sia necessaria una premessa sullo stato della formazione musicale in Italia. La situazione attuale presenta una morfologia contrassegnata da una costellazione di percorsi e convivenze (musicali, didattiche e pedagogiche), che raramente trovano occasioni d’incontro, di scambio e di confronto. Le discipline e le “scuole” faticano così a dialogare e a trovare reciproci punti d’intesa, producendo un’anomalia che le costringe a parlare prevalentemente di sé, escludendo ogni possibilità (tranne incoraggianti eccezioni) di relazione e di crescita. Abbiamo così, oltre ai conservatori (in parte riformati e “ridisegnati”), centri d’eccellenza per didattica e la pedagogia musicale ispirati ai maestri europei del ’900 (Kodály, Orff, Willems, Dalcroze…), a particolari metodi di studio (Suzuki…), ai maestri italiani (Goitre…) e ai maestri emergenti d’oltreoceano, come nel caso della learning theory di Edwin Gordon. Coesistono anche proposte più svincolate negli intenti e nella ricerca, come quelle legate alla nascita delle scuole popolari di musica1 e in generale al settore privato dell’educazione musicale. Accanto a questi percorsi troviamo quelli promossi dalle 4 Associazioni (come la SIEM, la Feniarco…) e le attività collegate alle istituzioni universitarie (Dams, musicologia, Ssis, Silsis, facoltà di scienze della formazione…).2 L’impressione, per utilizzare una similitudine musicale e insieme euclidea, è appunto quella di una serie di attività parallele che faticano a incontrarsi, a convivere e confluire, dando così luogo a una sorta di “economia delle isole”. Un po’ come se il divieto dei parallelismi (di quinte e di ottave) tanto caro all’insegnamento tradizionale dell’armonia, generasse un contrappasso di tipo comportamentale. Di conseguenza, abbiamo una grandissima varietà di offerte e di possibilità che, nella maggioranza parte dei casi, si presentano come uniche, risolutive ed esaustive. Questo perché da noi, la formazione musicale è vissuta in maniera “unicista”, come fedeltà assoluta a una scuola o a un maestro e non come un articolato e ragionato percorso di ricerca. All’interno di questa realtà variegata e, a mio parere, non ancora sufficientemente censita, sta emergendo un notevole interesse alla coralità e alle pratiche a essa affini. Si tratta di un’onda lunga, di grande portata e in grado di scorrere, attraversando tutta l’esperienza scolastica, attraverso e sopra tutti questi rivoli paralleli o queste comunità-isola. Tutto ciò sta finalmente (ri)collocando al centro l’esperienza del canto corale: la premessa essenziale per una corretta educazione al suono e alla musica (e non solo). Ora, questo fiorire d’iniziative, suggellate qualche anno fa dallo slogan «Un coro in ogni scuola!» dell’allora ministro della pubblica istruzione Luigi Berlinguer, richiede uno strumento essenziale, senza il quale non si può né fare, né discutere, né progettare adeguatamente l’attività musicale: il repertorio. E il repertorio, qualora sia presente, necessita di diffusione e di strumenti di accesso pratici e condivisibili per tutti. In altre parole, bisogna sapere che esiste e, se esiste, come trovarlo! Spesso, se ci si riferisce alla produzione contemporanea o al ’900 storico, se ne ignora tranquillamente l’esistenza. Il riscontro più immediato si ottiene attraverso una rapida indagine sui libri di testo per la scuola media dell’obbligo: accanto alla musica popolare e all’inserimento di brani di musica leggera che hanno raggiunto lo statuto di “classici” (come i Beatles, Bob Dylan, Guccini…) o sono direttamente collegati alle mode del momento, non troviamo in pratica nessuna composizione corale di autori contemporanei (italiani e non): «Devo far cantare un coro di bambini, ho cercato sai e… non ho trovato niente!». È l’affermazione delusa di chi si avvia a insegnare il canto corale nella scuola dell’obbligo e nella scuola dell’infanzia (e l’ho intesa, ahimé, da musicisti di professione). Anche le ottime pubblicazioni promosse e distribuite capillarmente in ogni scuola dalla Perché ciò che è formativo non può essere al contempo bello, interessante e piacevole? Feniarco,3 a volte non superano lo stazionamento del cumulo di pubblicazioni che si ammonticchiano “fisiologicamente” nelle stanze dei direttori didattici o dei presidi. E gli editori? Tralasciando volutamente quelli specificamente musicali, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono abituati a pensare che l’editoria musicale destinata ai bambini e ai ragazzi debba raggiungere la stessa qualità e la stessa dignità raggiunte dall’analogo settore della letteratura e dell’illustrazione per l’infanzia. I motivi sono molteplici e sarebbe comodo liquidarli come semplice e mera “ignoranza”, perché c’è di più e, in primis, l’assenza di un’attenzione specifica al “nutrimento acustico” dei bambini e dei ragazzi, paragonabile all’attenzione e all’energia impiegate per l’educazione alla lettura e all’immagine. Che cos’è allora per l’editoria (libri e supporti choralITER audio) il repertorio per bambini e ragazzi? In pratica è lo Zecchino d’oro o l’utilizzo con diverso “segno” di musica destinata al mondo adulto e che, per alcune circostanze favorevoli e talvolta mirate, incontra il favore del pubblico dei giovanissimi. Ma queste manifestazioni canore esaltano soprattutto il canto individuale e, a imitazione della nostrana kermesse sanremese, utilizzano la coralità (nonostante si tenti di metterla in rilievo) come “ripieno” (un po’ come avveniva un tempo con i 4+4 di Nora Orlandi). Nell’ecosistema di relazioni sonore del bambino, questi prodotti non dico che debbano essere bollati o esiliati, anzi… ma devono coesistere insieme a un’offerta di qualità, dove gli specialisti di settore possano trovare spazi e diffusione adeguati e dove la coralità sia compresa e diffusa per quello che realmente è e significa. Tutto ciò non basta e le mie osservazioni sarebbero incomplete se non parlassi anche di composizione, di “scuole” e di compositori. Come nella cultura italiana non esiste unanime consenso per l’arte della divulgazione (comunicare a tutti e in modo comprensibile concetti a volte molto complessi), così anche nella musica non ci si prepara adeguatamente per comporre a ogni livello e la musica per bambini, così come quella pensata per la didattica, è ancora osservata con sufficienza, e inserita in un’ipotetica fascia di serie B. In altre parole, nel nostro sistema d’insegnamento, non si è mai valutata con serietà la possibilità di orientare la composizione, e le scuole di riferimento, verso un’articolata via italiana alla gebrauchsmusik [lett. musica d’uso o musica utile], così come l’approccio teorico non si è ancora totalmente svincolato dal retaggio del “parlato”… (ehm, volevo dire “passato”!). I buoni esempi non sono mancati, a partire dall’opera strumentale di Boris Porena dedicata ai bambini, al metodo Orff diffuso e applicato da Giovanni Piazza, al lavoro di Roberto Goitre ispirato a Guido D’Arezzo e a Kodály, fino alle ottime proposte di Virgilio Savona e di Sergio Endrigo su testi (soprattutto) di Gianni Rodari. A parte questi casi specifici, le risorse creative spese per la composizione corale hanno stentato per diverso tempo a trovare una via originale e che si discostasse, nelle proposte destinate alla formazione, dall’incoerente ascetismo dei solfeggi parlati e dall’insipidità di certa letteratura pianistica. Perché ciò che è formativo non può essere al contempo bello, interessante e piacevole? Credo si tratti di un alibi che cela delle ben precise mancanze pedagogico-culturali (oltre che musicali) e l’impiego di un’arte tesa unicamente al raggiungimento del “capolavoro assoluto” e dell’immortalità.4 Grande equivoco di chi non vuole ricordarsi, ad esempio, dell’universale ‘bellezza’ del Quaderno di Anna Magdalena Bach, dell’Album per la gioventù di Schumann, di quanto hanno prodotto Bartók, Britten, Kodály, Orff… Da qui le nozze obbligate di “complessità e bellezza” e l’incapacità di semplificare il proprio linguaggio (che non significa snaturarlo) se non attraverso la banalizzazione, lo stereotipo e la noia assurta a necessità inevitabile ma, in compenso… altamente educativa. Come si può ovviare? Come aprire una via a una gebrauchsmusik italiana nel settore della coralità destinata ai bambini e ai ragazzi? (estratto da Choraliter n. 24) 5 Note 1. Ne è esempio storico la Scuola Popolare di Musica di Testaccio in Roma, fondata tra gli altri da Giovanna Marini. 2. Per avere una panoramica indicativa dell’articolazione di tale territorio, basta collegarsi ai siti che pubblicizzano l’offerta formativa e favoriscono lo scambio d’informazioni sulla formazione, come ad es. Edumus [www.edumus.com] e iscriversi anche ai relativi forum e alle liste di discussione. 3. A queste bisogna aggiungere la riviste specializzate sulla coralità che, in ogni numero, dedicano volentieri uno spazio alla didattica e al repertorio, come La Cartellina, fondata da Roberto Goitre e L’Offerta Musicale, fondata e diretta da Giovanni Acciai. 4. Da qui i molti diplomati in composizione che, bloccati dall’ansia da capolavoro, non osano scrivere musica e si giustificano dicendo che l’hanno fatto per “arricchirsi culturalmente”. l’animatore musicale L’animat musical una figura necessaria? don Giancarlo Boretti responsabile del servizio per la pastorale liturgica della diocesi di milano choralITER Dal Concilio Vaticano II sono già trascorsi quarant’anni: non molto tempo, in verità. I “frutti dello Spirito” hanno bisogno di tempi lunghi per giungere a maturazione; e non è detto che quanto lo Spirito “ha seminato”, col passare del tempo, corrisponda alle aspettative umane e trovi corrispondenza nell’uomo! Dobbiamo, però, constatare che dal 1963 a tutt’oggi la cosiddetta riforma liturgica di buoni “frutti” ne ha già prodotti e distribuiti: checché si dica dell’ancora “molto da fare” e di qualche speranza delusa. Ma possiamo affermare di essere giunti alla desiderata e raccomandata “celebrazione piena, attiva e comunitaria” nel canto e con la musica? C’è, perlomeno, da dubitarne: non è chi non veda e non senta. La Istruzione sulla musica nella sacra liturgia chiama questa figura “cantore”, noi possiamo denominarla “animatore”: animatore del canto dell’assemblea, o più semplicemente animatore dell’assemblea, cui sono affidati dei compiti che vanno oltre la funzione propriamente musicale, nell’ambito di una regia celebrativa compartecipata. Raccogliamo la sua “ministerialità liturgica” attorno a quattro verbi. = SCEGLIERE Non sembri lapalissiano dire che i canti per la liturgia si devono “scegliere”: la “scelta” dei canti è operazione seria, da effettuare in relazione alla celebrazione, al momento rituale, al genere musicale, ai ruoli di animazione, alla tipologia e alle possibilità dell’assemblea. La scelta non deve venire soltanto dall’organista o dal direttore del coro o dal parroco o dal celebrante o anche dai lettori: deve essere condivisa da chi avrà la funzione di guida di tutta l’assemblea. 7 Lo esige una “sapienza celebrativa” (v. Sinodo Diocesano milanese 47°, 52), senza la quale si cadrebbe in uno scollamento registico e in un pressapochismo liturgico che compromettono il celebrare “in spirito e verità”. = COMUNICARE In relazione alla scelta di canti “giusti”, la guida del canto dell’assemblea deve perciò regolarmente con-agire insieme al gruppo liturgico della comunità cristiana. Membro di questo gruppo, egli deve partecipare alla fatica del celebrare-bene, a partire da una preparazione tempestivamente e accuratamente avviata. La sua competenza musicale (non inferiore alla media) potrà e talvolta dovrà essere determinante, prima ancora di “porsi davanti all’assemblea” per svolgere il suo ministero. Alla fatica del celebrare-bene si aggiunge e va aggiunta quella del comunicare-bene con i soggetti responsabili dell’animazione. = AVVIARE L’animatore musicale dell’assemblea deve entrare frequentemente in azione prima della celebrazione: è bene preparare i partecipanti alla liturgia con la prova dei canti, in maniera breve ed essenziale. Se coadiuvato dall’organista e magari dal coro, con una buona intesa la preparazione sarà più efficace, e più sicura sarà l’esecuzione dei canti durante lo svolgimento dei riti. Questa prova contribuirà a “risvegliare” dal silenzio l’assemblea, favorendone una partecipazione più sicura e meno timida; ed è anche una risposta a chi si domanda: «È possibile far cantare la gente, che non apre bocca?». “Provare” per credere. tore le = SOSTENERE È l’ufficio proprio, più importante, che richiede alla guida del canto dell’assemblea competenza musicale (da un minimo ragionevole in su!), saggezza celebrativa nel rapportarsi ai riti e alla loro successione, duttilità psicologica nell’adattarsi all’assemblea (preparata o meno preparata, grande o piccola…). Egli, normalmente, è bene che si ponga davanti all’assemblea, ma non all’ambone (riservato alla Parola). Deve saper iniziare il canto da solo o insieme a tutti, far intervenire il coro – se presente – e alternarlo o unirlo all’assemblea, svolgere il ruolo del solista se non c’è nessun altro cantore. (estratto da Choraliter n. 8) 8 I CORI (Operetta scientifico-morale) di Francesco Guccini I “cori” si dividono in: cori trentini propriamente detti; cori non trentini, ma che venderebbero l’anima per essere trentini. I “cori trentini propriamente detti” sono formati da una trentina di robusti giovanotti trentini propriamente detti che hanno il viso cotto dalle intemperie e si chiamano tutti “Bepi” a volte, ma in casi più rari, “Bepin”. Vestono con camicie di flanella scozzesi e pantaloni di velluto al ginocchio, calzettoni di lana sgargianti e scarponi da montagna. Bevono solitamente quantità alluvionali di vino e di grappa, che chiamano con curioso vocabolo, “sgnapa”. Dopo queste bevute è di rigore fingere di ubriacarsi sordidamente e cantare canzoni oscene per terze. Nel corso di queste canzoni nominano sovente mitici personaggi del trentino detti “putele”. Se usano copricapo, indossano un caratteristico berretto grigioverde con piuma, detto “capelo de alpin”. Esclamazione preferita: da sobri “ostreghetta” (ostrichetta?); dopo abuso di bevande alcoliche: non riportabili, per evidenti motivi di pubblica morale. Repertorio caratteristico: è quanto mai vasto e differenziato. Ne daremo alcuni esempi: La montanara, Le belle montagne, O monti o monti, I nostri bei monti, Su per quelle montagne, La catena delle Alpi, Fior de le nostre montagne, Pastor dei monti, Macongranpenalerecagiù ecc. Circa 420 canzoni della guerra ’15-18. Un paio almeno di ninne-nanne (ad es. Dormi bambin su le montagne, Ninna nanna a la montagnard). I “cori non trentini” sono formati da una trentina di distinti signori (professionisti-artigiani-impiegati per lo più; scarseggiano misteriosamente i domatori di leoni, i preti operai e i pescatori di cozze); questi hanno il viso pallidissimo tipo lavoro al chiuso per undici mesi, e si chiamano tutti rag. Paolozzi o sig. Stupazzoni, ma darebbero via l’anima per chiamarsi “Bepi” o “Bepin”. Vestono ciascuno secondo la propria professione, e cioè con camicie di flanella scozzesi e pantaloni di velluto al ginocchio, calzettoni di lana di colori sgargianti e scarponi da montagna (utilissimi per arrampicarsi sugli sportelli bancari). Bevono solitamente quantità alluvionali di vino e “sgnapa”. Un componente di coro, nel ’57, lo chiamò in un momento di debolezza “grappa” e fu radiato da tutti i cori d’Italia fino al ’68. Purtroppo il poveretto non sopravvisse fino al giorno della riabilitazione. Cogliamo l’occasione per ricordare ai responsabili di cori di non essere così severi con i componenti il proprio gruppo. Un po’ d’umanità non guasterebbe. Dopo queste bevute si ubriacano sordidamente e cantano canzonacce goliardiche di dubbio gusto per quinte, seste e intervalli di nona. Nel corso di queste canzoni nominano sovente mitici personaggi cittadini detti “putele”. Si travestono sovente da “edelweiss” e parlano fra loro uno stranissimo gergo consistente in un tentativo di veneto penosamente intercalato da pesantissime inflessioni locali. Esclamazioni preferite: da sobri, non riportabili per evidenti ragioni di pubblica morale; dopo abuso di bevande alcoliche, “ostregheta” (o piccola strega?). Repertorio artistico: è quanto mai vasto e differenziato. Ne daremo alcuni esempi: un paio almeno di ninna-nanne (ad es. Nina-nana a la montagnard e Dormi bambin su le montagne). 420 canzoni circa della guerra ’15-18. La montanara, Monte Caprin, Monte Cimin, Monte Camin, Monte Sgnapin, Lasù quel’alte cime, Oh i bei edelvais, Edelvais de le montagne, Edelvais montagnard, La catena degli Apenini ecc. (estratto da Choraliter n. 3) c Colin mawby colin un direttore di coro compositore di Marco Rossi e Gian Nicola Vessia L’incontro con Colin Mawby avviene a La Fabbrica del Canto, il festival corale internazionale di Legnano del giugno 2000. Forse è più giusto dire che non l’abbiamo incontrato, ma l’abbiamo “ascoltato” durante quelle splendide serate musicali estive e abbiamo così potuto godere ampiamente delle sue proposte musicali con la compagine vocale dell’Irish National Chamber Choir. Una eccezionale vocalità femminile nella Missa Brevis di B. Britten, un veneziano Jubilate Deo a otto voci di A. Gabrieli, un intenso H. Schutz (Lobe den Herren in doppio coro) e poi un Colin Mawby, When David heard, ove abbiamo apprezzato non solo il direttore ma soprattutto il compositore. E ancora le difficoltà di F. Poulenc, la limpidezza di W.A. Mozart, il severo contrappunto di un motetto di J.S. Bach, la purezza di J. Des Prez, il tutto con perfetta articolazione di testi, con vocalità ineccepibile, con una incredibile tavolozza di colori musicali, questo il coro, ma altrettanta genialità nella direzione: Colin è un musicista sempre sobrio, epigrafico nei gesti e nelle intenzioni che arrivano con immediatezza alle voci che si trova di fronte e che eseguono con bravura quanto richiesto. Grande anche la prova del repertorio popolare, ove Colin si è divertito tra ballate, ninne nanne e vocalizzi della tradizione irlandese. Colin è un personaggio semplice, rapido nei suoi giudizi, con alle spalle un enorme bagaglio di esperienze nel mondo della coralità e nella composizione, intesa nei suoi 10 aspetti più profondi. L’idea dell’intervista nasce dopo questo incontro, poche domande, forse piuttosto alcuni spunti per iniziare un dialogo e conseguenti risposte concise, ma dense per significato. composizione liturgica e per la voce dei fanciulli. Io sono stato fanciullo nella scuola del coro della cattedrale di Westminster quando il grande clavicembalista George Malcolm era il suo direttore. George mi ha insegnato la maggior parte delle nozioni musicali che conosco. Dopo l’esperienza con l’Irish Chamber Choir, quale impegno ti assorbe maggiormente? Dopo essermi ritirato dalla direzione del Chamber Choir ora dedico molto del mio tempo per la composizione. Occasionalmente tengo alcuni incontri sulla coralità e alcune volte dirigo ancora il Chamber Choir. Il coro della B.B.C. ed i capolavori con orchestra (in collaborazione con Pierre Boulez). Quando, per un breve periodo, sono stato direttore dei cantori della B.B.C., Pierre Boulez era il direttore principale dell’orchestra sinfonica della B.B.C. Io ho avuto il privilegio di preparare i cantori per alcuni dei suoi concerti. Il lavoro che mi ha maggiormente appassionato è stata la Sinfonia di salmi di I. Stravinsky. È stata una splendida occasione di lavorare con Boulez e di apprezzare la sua appassionante abilità musicale. Quali opere preferisci comporre tra brani corali, vocali e brani strumentali (per organo o per altri organici)? La mia preferenza va alla musica corale, sebbene io mi diverta in modo particolare nello scrivere pezzi per organo. Ho scritto moltissima musica orchestrale e strumentale. In questo periodo mi piace lavorare sul repertorio musicale a cappella. Per chi scrivi? A quale tipo di coro, professionale o amatoriale, indirizzi le tue opere? Io scrivo per le più diverse formazioni corali, dal coro professionale al piccolo gruppo di amatori. Mi diverto inoltre a comporre brani per voci bianche. Amo sperimentare la sonorità corale – in ultima analisi – la musica come suono. Credo che le mie composizioni abbiano una particolare predilezione per la vocalità, questo si deve al fatto che quando scrivo penso in modo particolarmente attento alle voci. Qual è la realtà della composizione corale in Irlanda? Io scrivo generalmente a cappella o per coro e organo. In Irlanda ci sono numerosi buoni cori, ma è difficile che la musica contemporanea venga accettata. Ho assistito al successo delle mie composizioni e ora la mia musica è frequentemente eseguita in Irlanda. Quanto ha contato la tua esperienza nella cattedrale di Westminster? Sono stato direttore musicale nella cattedrale di Westminster per quindici anni. In quel periodo ho particolarmente approfondito la conoscenza del canto gregoriano. Questa è una delle mie principali fonti di ispirazione. Inoltre in cattedrale ho sviluppato il mio amore per la (estratto da Choraliter n. 9) Colin Mawby (1936) gode di reputazione internazionale sia come compositore sia come direttore di coro. È stato per parecchi anni direttore musicale della cattedrale di Westminster e direttore corale della Radio Televisione Irlandese. Attualmente è direttore emerito del National Chamber Choir, unico coro professionale irlandese da lui diretto per alcuni anni. Durante la sua attività a Westminster quale direttore del coro della cattedrale ha partecipato alla canonizzazione dei martiri dell’Inghilterra e del Galles a opera di papa Paolo VI (1970). Colin Mawby è uno dei più significativi compositori di opere corali e liturgiche del mondo. I suoi lavori sono numerosi e vari: tra questi vi sono oltre venti messe, due requiem, centinaia di canti, motetti e anthems, cinque cantate, due opere per bambini, parecchia musica per organo e molte altre composizioni. Le sue composizioni sono state registrate da Sony, Teldec, Warner Classics, Hyperion, Black Box, Polydor, O.C.P., Kevin Mayhew e Priory. Due successi recenti sono stati Ave verum, descritto da Richard Proulx, un famoso direttore di coro americano, come «uno dei capolavori corali della nostra epoca» mentre la rivista B.B.C. Classical Music lo ha definito «semplice tuttavia visionario». La sua versione del salmo 23 è stata inserita nel cd Voice of Angel della Charlotte Church, venduto in oltre tre milioni di copie. L’Ave verum di Colin Mawby è stato inserito in una compilation della Teldec con artisti del calibro di Josè Carreras, Placido Domingo, Leonard Bernstein e Sumi Jo. Colin Mawby ha scritto molta musica corale e la sua ispirazione è particolarmente religiosa. L’apprezzamento per le composizioni liturgiche e corali di Colin Mawby sta crescendo in questa epoca, la sua concezione della coralità è unica e profondamente percettiva. choralITER 11 Bruno bettinelli Tre espressioni madrigalistiche (1939) un commento di Mario Zuccante Due tendenze estetiche opposte attraversano l’intero arco del Novecento musicale: la tensione verso avanguardia e sperimentazione e la riscoperta della musica antica. In non pochi casi queste traiettorie, di per sé divergenti, convivono nell’opera di uno stesso compositore. Debussy, Ravel, Stravinsky, Hindemith, Britten annoverano nel loro catalogo composizioni ispirate a forme e stili del passato, ma anche pagine ricche di contenuti innovativi, sperimentali e di ricerca. L’interesse per l’antico permane anche nell’arte di alcuni tra i compositori più importanti del secondo dopoguerra e contemporanei: Ligeti, Penderecki, Schnittke, Pärt. In particolare, le tecniche e i principi dei costrutti polifonici antichi hanno esercitato sui musicisti del secolo appena terminato una forte influenza. Il Lux æterna di Ligeti (capolavoro assoluto della musica corale della nostra epoca) combina e sintetizza le esperienze più avanzate della musica elettronica con la sapienza dell’antica prassi del contrappunto polifonico. I compositori italiani (per un lungo periodo dimentichi dello splendore della nostra tradizione polifonica), a partire dal celebre monito di Verdi («Torniamo all’antico, sarà un progresso!»), hanno gradualmente recuperato il legame con l’arte di Marenzio, Palestrina, Gesualdo, dei Gabrieli e di Monteverdi, omaggiando e riferendosi, più o meno esplicitamente, all’arte di quei grandi. I componenti della cosiddetta “generazione dell’Ottanta” e affini (Casella, Malipiero, Pizzetti, Ghedini) e i più giovani Dallapiccola e Petrassi (per i quali si coniò l’aggettivo di “neomadrigalisti”), contribuirono a ridare luce ad un passato che aveva da restituire capolavori pressoché inauditi, deviando (ma non del tutto) dalla via maestra della scuola italiana: il teatro d’opera. Accanto al merito dei compositori, non va dimenticata l’opera di riedizione ed epurazione effettuata da filologi e musicologi, i quali, ispirati dal rigore dell’indagine scientifica, hanno posto le basi per il recupero di una corretta prassi esecutiva (un tipo di approccio inderogabile, ai nostri giorni, per chiunque voglia cimentarsi con l’esecuzione della musica antica, ripulita dai travisamenti e dalle distorsioni generate dal gusto, dalle mode e dai segni del tempo). Bruno Bettinelli, immediato successore della “generazione dell’Ottanta” (è nato nel 1913), partito anch’egli, come i suoi predecessori, da posizioni neoclassiche, è, in seguito, assunto a ruolo di decano e punto di riferimento per tanti musicisti e compositori, attualmente in attività, che hanno gravitato negli ambienti musicali della città di Milano. Egli, pur essendo approdato nelle sue opere teatrali, sinfoniche e cameristiche più complesse a un linguaggio moderno e all’atonalità, non ha mai celato uno stretto legame con la tradizione musicale italiana del passato. A testimoniare ciò, va menzionato il fatto che, tra i suoi vari interessi, vi fu anche quello di revisore di antiche pagine (edizioni critiche di Corelli, Bonporti, Sammartini e, assai significativo per quanto concerne la materia di questo scritto, una serie di laudi del 1200). A proposito delle peculiarità del proprio linguaggio più Torniamo all’antico, sarà un progresso! Giuseppe Verdi evoluto, Bettinelli lo definì basato su «un continuo variare degli elementi proposti all’inizio e, successivamente, scomposti, rielaborati per germinazione spontanea, rovesciati, riesposti nelle figurazioni cellulari più svariate, derivate dalla speculazione contrappuntistica dei fiamminghi». Ciò conferma che la ricerca di una lucidità e chiarezza nella trama polifonica ha sempre avuto come modelli di riferimento l’arte degli antichi maestri. Bettinelli, poco più che ventenne, compose le Tre espressioni madrigalistiche, per coro misto a cappella, nel 1939 (da ricordare che nel 1935 aveva musicato, sempre per coro, Villanella e canzonetta e, nel 1936, Due laudi, per coro a 3 voci). Soltanto alcuni anni prima, Kodály aveva pubblicato i suoi Quattro madrigali italiani (1932), per coro femminile a cappella, Dallapiccola la prima serie dei Cori di Michelangelo il giovane (1933), per coro misto a cappella, e Ghedini aveva terminato i Nove responsori (1930), per coro a 4 voci miste a cappella. Questa vicinanza di date denota la sensibilità e la prontezza con le quali il nostro compositore seppe 12 immediatamente cogliere il clima e mettersi al passo con le tendenze musicali (italiane ed europee) del periodo intercorso tra le due guerre mondiali. Nella scelta di riesumare l’antica scrittura madrigalistica (piuttosto che la più severa e composta prassi mottettistica), si può leggere la predilezione del compositore milanese per la ricerca di rinnovati impasti timbrici e giustapposizione di situazioni coloristiche diverse. Nonché la sua propensione a non disdegnare momenti di slancio melodico ed espressivo di natura tardoromantica. Le Tre espressioni madrigalistiche sono destinate a quattro voci miste a cappella e si basano su liriche di Matteo Maria Boiardo (Già mi trovai di maggio, XV secolo), Leonardo Giustinian (O Jesu dolce, XIV secolo) e Laura Guidiccioni (Il bianco e dolce cigno, XVI secolo). L’analisi di alcuni episodi significativi delle Tre espressioni madrigalistiche conferma l’alto grado di padronanza delle tecniche neomodali e neomadrigalistiche e la piena assimilazione dei modelli rinascimentali che il giovane compositore dimostra di possedere nella stesura dei piccoli brani. Nonostante il suo percorso artistico abbia preso, negli anni seguenti, direzioni diverse dall’itinerario neoclassico, queste esperienze di apprendistato sono servite a consolidare il mestiere, la tecnica e il rigore stilisticoformale (qualità che, negli anni della maturità, egli potrà vantare come pochi). Come prassi assai diffusa nella musica rinascimentale, Bettinelli ricorre ripetutamente all’artificio del “madrigalismo”, ove intende tradurre in termini sonori e grafici un’espressione o un’immagine evocata dal testo letterario. Vedi, a tal proposito, il vocalizzo «che tutto tremolava» (in Già mi trovai di maggio); lo spegnersi nel registro grave del disegno «cantando more» (in Il bianco e dolce cigno). Si potrebbe definire quasi “lirico-teatrale” l’effetto (“affetto”) espressivo che scaturisce dal salto d’ottava discendente, che conclude la curva melodica del soprano alla fine di Già mi trovai di maggio («che tal dolcezza ancor nel cor mi tocca»); l’incalzante progressione «e Tu mi segui ognora» (in O Jesu dolce); e di analogo impatto “plateale” (ma di natura più estroversa ed espansiva) è quel «m’empie di gioia tutto», al culmine di un climax choralITER sapientemente preparato (in Il bianco e dolce cigno). L’alternanza di contrappunto e omoritmia è una particolarità congenita al madrigale rinascimentale. Pertanto, notiamo che all’episodio iniziale, polifonicamente elaborato de Il bianco e dolce cigno, fa seguito un contrastante passaggio omoritmico («ed io piangendo»). Parimenti, nella parte conclusiva dello stesso brano, al moltiplicarsi delle entrate delle voci sulle parole «di mille», succede una chiusa di assoluta verticalità accordale («di mille morti il dì sarei contento»). Rileviamo, altresì, alcune varianti del procedere omoritmico: la giustapposizione di differenti “pesi e colori” vocali in O Jesu dolce: «per qual mio merto» – a 4 voci – «Signor mio benigno» – a 2 voci – «o per qual mia bontà» – a 3 voci – «sì largamente nel mio cor…» – di nuovo a 4 voci; il gioco dell’alternanza tra gruppi vocali omogenei che procedono a voci parallele all’attacco di Già mi trovai di maggio. (estratto da Choraliter n. 16) 13 Bruno Bettinelli_____(Milano, 1913-2004) Ha studiato al conservatorio “G. Verdi” della sua città. Nello stesso istituto è stato per anni titolare della cattedra di composizione. Dalla sua classe sono usciti numerosi giovani musicisti noti ormai in campo internazionale sia in veste di compositori sia in quella di esecutori o musicologi. Ha vinto diversi concorsi nazionali e internazionali di composizione e ha svolto attività di critico musicale, collaborando anche alla redazione di varie enciclopedie. È membro dell’Accademia di Santa Cecilia e dell’accademia “Luigi Cherubini” di Firenze. Ha riveduto e trascritto musiche di Corelli, Bonporti, Nardini, Sammartini e una serie di laudi del 1200. L’opera di Bruno Bettinelli discende direttamente dalla ricerca di uno spazio strumentale “puro” (ossia non melodrammatico) perseguito in Italia dalla precedente “generazione dell’Ottanta” e da quanto ne è poi derivato: Casella, Malipiero, Ghedini, Petrassi (della sua stessa generazione, quest’ultimo, ma più anziano). Ciò ha favorito, nel primo Bettinelli, lo svilupparsi di moduli costruttivi prevalentemente contrappuntistici, di salda costruttività, sui quali forse una qualche influenza hanno esercitato Stravinsky e soprattutto Hindemith. Una scrittura rigorosa e stringata, asciutta, scandita nel gioco ritmico, ma anche ariosa (ove il diatonismo modaleggiante veniva subito a essere innervato da elementi di tensione cromatica). Sono di questo periodo lavori come Movimento sinfonico (1918), Due invenzioni (1919), Sinfonia da camera (1938), Concerto per orchestra (1940), Fantasia e fuga su temi gregoriani (1942), Messa da requiem (1944). Con i lavori Cinque liriche di Montale (1948), Fantasia concertante (1950), Concerto da camera (1952) e Sinfonia breve (1954), il mondo sonoro di Bettinelli si carica di maggiori inquietudini, penetra sempre più decisamente nello spazio atonale e talora dodecafonico senza peraltro accettare alcuna ortodossia. Qui, forse con l’influsso di certo Bartók (nel trattamento degli archi, per esempio), il compositore milanese procede verso una sempre più raffinata indagine timbrica e verso gesti drammatici di efficace eloquenza. Tra le opere successive, da ricordare il 3° concerto per orchestra, Episodi per orchestra, la Cantata per coro e orchestra, Sono una creatura su testi di Ungaretti e tre opere in un atto: Il pozzo e il pendolo, La smorfia e Count down. Inoltre il Concerto per violino e orchestra, Alternanze per orchestra, Varianti per orchestra, Strutture per piccola orchestra, Contrasti e Quadruplum per orchestra, Concerto per due pianoforti e orchestra, Studio per orchestra, Musica per sette, Ottetto a fiati, Divertimento per clavicembalo e orchestra, Concerto per chitarra e archi, Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra, Sinfonie n. 5, 6, e 7, Cantata n. 2, Terza cantata per coro e orchestra su testo di Tommaso Campanella, diretta da Gianandrea Gavazzeni nel dicembre 1985. Rilevante l’attività didattica, che ha svolto per decenni presso il “Verdi” di Milano formando allievi del calibro di Azio Corghi, Claudio Abbado, Riccardo Chailly, Aldo Ceccato, Francesco Degrada, Armando Gentilucci, Riccardo Muti, Maurizio Pollini, Uto Ughi. Per qualche periodo ha esercitato anche la critica musicale, sia per la stampa quotidiana sia per quella periodica. un canto per l’uomo moderno antoni albaro a colloquio con nino Albarosa di Sandro Bergamo Lei appartiene ad una generazione di studiosi, successivi a Cardine e direttamente o indirettamente suoi allievi, che ha dedicato la vita alla semiologia. Questo lavoro, ormai di mezzo secolo, ha compiuto la sua missione o ci sono ancora ambiti da esplorare, urgenze che premono in questo senso? Urgenze direi di no, in questa fase degli studi. Abbiamo ormai idee molto chiare sullo stile gregoriano, rifondato dagli studi semiologici. Tuttavia, malgrado uno stile sia stato rifondato, come pure, implicitamente, una fase interpretativa, è questo aspetto attualmente in approfondita elaborazione. Per esempio: come interpretare il rapporto con il testo. Che fra testo e neuma esista un rapporto consustanziale è fuori di dubbio. Lo dicevano i padri fondatori, lo confermiamo noi. Ma su come interpretare questo rapporto, gli spazi sono aperti, e noi vediamo come cori, che pure si riconoscono figli di una stessa tendenza determinata dagli studi semiologici, presentano tuttavia notevoli variabili intrastilistiche. Un altro ambito potrebbe riguardare la coscienza modale: il semiologo deve avere, e ha, questa attenzione ai rapporti tra i suoni. choralITER 15 Tuttavia può essere che in quest’ambito abbiamo spazio per ulteriore lavoro. Qualche critico ritiene la scelta operata dai semiologi troppo limitata ad una parte della storia del gregoriano, soprattutto in funzione di ciò che viene dopo, da non considerare esclusivamente come decadenza. Si aprono spazi in questa direzione? Questa critica ha qualche fondamento. Bisogna però definire cosa resta all’interprete dopo la fine del segno antico. Il semiologo ha effettivamente una qualche difficoltà a uscire dal proprio ambito: un ambito enorme, però, sterminato, che con la sua stessa vastità lo afferra. Il rapporto con il neuma fa parte perfino della sua formazione psicologica. È difficile pensare che il manoscritto tardivo possa accompagnare il cantore come i codici prìncipi. Non ci sono pregiudizi, ma viene a mancare un rapporto sostanziale con il canto. Forse il cantore che si accostava a quei manoscritti posteriori usufruiva ancora di una tradizione vivente, ma oggi il cantore semiologo, rifacendosi a fonti più antiche, ha maggiori possibilità di ricostruzione. Al di là degli ambiti specialistici, quanto di questa coscienza interpretativa è calato anche negli ambienti più generali della coralità? C’è ancora, lo dico con dolore, una coscienza “specialistica”. I cori che cantano il gregoriano con coscienza semiologica sono ancora relativamente pochi, e negli ambienti della coralità non è ancora diffusa abbastanza l’idea che la semiologia non è una corrente gregoriana, la semiologia è il gregoriano. Ma rimangono altresì aperti, per esempio, i temi legati alla vocalità e alla direzione, al gesto. Sono due campi in cui una intenzione univoca, ammesso che ci possa essere, ancora non c’è. Del gesto si è parlato anche recentemente al congresso di Hildesheim: chi era per il disegno, con la mano, del neuma, chi, rifacendosi a Cardine, per una gestualità più libera. Riguardo alla vocalità, va detto che nessuno usa generalmente criteri adatti ad altri stili. Ma una vera specifica scuola è ancora di là da venire. ino osa Il rinnovamento del gregoriano ha prodotto qualche risultato, se non nella prassi quotidiana liturgica della Chiesa, almeno a livello culturale? Qualcosa sì, anche se i risultati si vedono relativamente. Certamente siamo ancora lontani da un vero movimento gregoriano, che significa valorizzazione in spirito moderno di questo grande repertorio. Oggi c’è un grande equivoco. La Chiesa e la liturgia possiedono generalmente ancor oggi un’idea antiquata del gregoriano, un’idea preconciliare, quando esso era diventato qualcosa di pesante, di inascoltabile. Quanti negano il gregoriano, e pure certe associazioni reazionarie che invece lo rimpiangono, ma spesso ne hanno una conoscenza limitata a pochi brani e non semiologicamente consapevole, litigano su qualcosa che non esiste più; e molti nostri vescovi, molti nostri sacerdoti non considerano la grande spinta liturgica di un gregoriano reinterpretato con lo spirito dell’uomo moderno, e quindi assolutamente cantabile anche oggi. Come avviene anche per la letteratura antica: un grande latinista lavora sulla sua materia con lo spirito dell’uomo d’oggi. In questo senso il gregoriano è assolutamente attuale. Il gregoriano restaurato è valido per ogni tempo. Non ho più complessi, non ho più titubanze: fino a qualche anno fa sentivo questa frattura fra il gregoriano e l’uomo d’oggi. Grazie anche all’evoluzione semiologica, posso esprimere il gregoriano da uomo moderno per uomini moderni, integrandolo con tutte le altre arti che sono coltivate non come cose del passato, ma con la sensibilità dell’uomo moderno, che ha una storia, ma anche un’attualità. (estratto da Choraliter n. 17) Nino Albarosa________ (Messina, 1933) Nino Albarosa è stato professore ordinario di paleografia e semiologia gregoriana all’Università degli Studi di Udine e professore di canto gregoriano al Pontificio Istituto di Musica Sacra in Roma. Allievo di dom Eugène Cardine, ha al suo attivo numerose pubblicazioni concernenti la semiologia e la storia della restaurazione del canto gregoriano. Membro fondatore dell’Associazione Internazionale Studi di Canto Gregoriano, è attualmente presidente della sezione italiana. Ha fondato e diretto per lunghi anni la rivista Studi Gregoriani. Docente in corsi e seminari di canto gregoriano in Italia, Portogallo, Spagna, Austria, Germania, Slovacchia, Ucraina, Russia. Dirige dalla fondazione il coro Mediae Aetatis Sodalicium, con il quale è stato ed è impegnato in ampia attività in Italia e all’Estero.