5: 15/09/2009: Live Report-Metal Meating

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L’ANGOLO DEL DIRETTORE di Filippo Festuccia
Questo è un numero importantissimo per la nostra rivista. È vero che la settimana scorsa avevamo
pubblicato la nostra prima intervista (a Jens Faber dei Dawn Of Destiny), ma questo è tutt’altra
cosa: un numero speciale dedicato al primo Metal Meating. La proliferazione di festival
indipendenti e “di provincia” (anche se questo era a Roma, ma è la mentalità che conta) ci può
portare ad uno status metallaro superiore, più autentico, libero dagli eccessi modaioli degli scorsi
anni, e migliore del disinteresse attuale. Ma dal Metal Meating è emersa una serie di fatti
assolutamente degni di nota. Il primo è che le band italiane cercano l’interesse della gente e dei
media, perché sono stufe di essere snobbate; il metal italiano subisce ancora la reazione all’eccesso
di proliferazione di gruppi power, per cui la scena vive in una nicchia oscura e dimenticata dai più.
Abbiamo scelto di presentare le band (con live report e interviste) nell’ordine in cui hanno suonato,
per evitare di porre arbitrarie gerarchie sulle interviste. Ma è fuori di dubbio che la chiacchierata
“notturna” (erano le due inoltrate) con Fabio Lione ha del clamoroso per toni e contenuti. Prima di
tutto però sarebbe opportuno parlare della location, l’Init Club di Roma. Passando sopra ai lievi
problemi di raggiungibilità (traffico, sensi unici privi di senso, svolte invisibili), concentriamoci sul
club vero e proprio: la parte all’aperto è piacevole, il cibo ottimo, la birra pure, lo staff cortesissimo
e sempre a disposizione. Ne parlavamo – e leggerete più avanti – con Luca Minieri degli Illogicist:
è un club american-style, per usare un tecnicismo gratuito è user friendly; ed è quasi un caso unico,
perché (e questo lo diranno in molti, purtroppo) in Italia manca la cultura del live, così come il
supporto disinteressato alle band. Il leit-motiv delle interviste è la mancanza di una vera scena
metal, di un grande pubblico metal, di case discografiche specializzate e competenti, di promoter
disinteressati. I pochi esempi virtuosi sono lontani dal costituire un trend, e gli altri, che hanno
vissuto su musica di moda, sentono più che mai la crisi della discografia che appare inarrestabile.
Detto questo, mi prendo l’altra metà (scarsa) della pagina per spostarmi un po’ sulla stretta attualità.
È più che incredibile che la gente – non tutta, per fortuna – bolli l’idea che il Presidente del
Consiglio sia un criminale come una macchinazione della sinistra. Le cose stanno così: c’è una
persona colpevole (in alcuni casi con certezza, in altri con un alto grado di probabilità) di pedofilia,
sfruttamento della prostituzione, corruzione, associazione mafiosa, tentato colpo di stato, insulti,
minacce, apologia di fascismo. È, citando molti giornalisti “imparziali” (ovvero che non scrivono
per testate comuniste, siano esse La Repubblica o il Times o il Wall Street Journal o El Paìs), un
crocierista fallito, l’italiano caciarone con la battuta sulla figa sempre pronta, un animatore da
villaggio valtour unito a Totò Riina. Se riuscite ad immedesimarvi in uno così, mi dispiace per voi e
per le vostre aspirazioni frustrate; se siete un minimo più ragionevoli, sapete dove sta la verità.
Immagine di copertina: elaborazione con logo di SCREAMER e manifesto del Metal Meating
Un grandissimo ringraziamento va a tutte le band e allo staff dell’Init: YOU ROCK!
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IN QUESTO NUMERO:
SPECIALE METAL MEATING, a cura di Filippo Festuccia
NOUMENO pag. 4-5
ASTARTE SYRIACA pag. 5-6
ENEMYNSIDE pag. 7-8
ASTRA pag. 8-9-10
ILLOGICIST pag. 10-11
ELDRITCH pag. 12-13
ELVENKING pag. 14-15-16
VISION DIVINE pag. 16-17-18
W.A.S.P. – BABYLON pag.19, di Valentina Lattanzi
HARDLINE – LEAVING THE END OPEN pag. 20, di Yuri Picasso
SINFONIA IN IMMAGINI – IL TORNADO ENEMYNSIDE pag. 21, di
Francesca Basso
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SPECIALE METAL MEATING – 11 OTTOBRE 2009/INIT CLUB/ROMA
L’inizio, a dire il vero, non promette un granché bene: le porte aprono tardi, quando già i
NOUMENO hanno cominciato a suonare. Sembra l’inizio della solita farsa metallara all’italiana, e
invece nel giro di pochi minuti il sotto palco è già gremito di ragazzi estasiati dalla proposta dei
quattro prog metallers romani. Eppure bisogna ammettere che si temeva uno scarso riscontro di
pubblico per i Noumeno: il loro metal strumentale elaborato e finissimo sembrava essere un
prodotto per soli gourmet, e invece il pubblico si è dimostrato più che all’altezza. Un paio di
“trovate” del chitarrista Danilo Carrabino (memorabile il “Bella!” appiccicato dietro alla chitarra e
poi mostrato alla folla) colorano definitivamente il tutto, e non ci resta che attendere Trapped, prima
uscita discografica della band della capitale. L’album uscirà prima dell’anno nuovo, e l’acquisto è
ovviamente consigliato: i ragazzi non sono solo preparatissimi da un punto di vista strettamente
tecnico, ma sono musicalmente colti, creativi, ispirati, una vera ventata d’aria fresca. Oltretutto sono
anche cortesissimi, come dimostratoci dal leader Carrabino, che abbiamo intervistato dopo la
splendida perfomance.
Allora, innanzitutto ciao Danilo, grazie per il tempo che ci concedi.
Grazie a voi!
Cominciamo da Trapped, il disco che sentiremo: quali sono le sue qualità, i suoi veri punti
forti?
Credo che uno dei punti di forza del disco, e della band in generale, sia il fatto che non abbiamo una
voce, quindi nella fase di composizione ci siamo potuti sbizzarrire in qualsiasi modo; poi molto
immodestamente ritengo che non ci siano pezzi noiosi, il disco è estremamente vario, pieno di
“colori”, di armonizzazioni, quindi…è da ascoltare!
Per ora quindi l’assenza di un cantante è un tratto distintivo della vostra carriera?
Esatto.
Non vi ha mai limitato?
No, non ci ha mai limitato e anzi ci ha aiutato: ci siamo sempre sentiti un po’ più liberi.
Domanda di concetto: il progressive nell’immaginario collettivo è legato ai grossi nomi, cioè se
pensi progressive pensi Dream Theater, Symphony X, Fates Warning eccetera. C’è dunque
una necessità di svincolarsi da quest’idea oppure il fan medio conosce già molte realtà
diverse? Tu, da fan progressive a tua volta, come la vedi?
Diciamo che a me piacciono un sacco di band, cerco ovviamente di non fossilizzarmi troppo; sì, mi
piacciono tantissimo Dream Theater, Symphony X, Spiral Architect, Pain Of Salvation, tantissimi
altri gruppi…noi cerchiamo di mettere in ballo tutte le nostre idee, i nostri gusti musicali (anche per
esempio Van Halen, Malmsteen, Paul Gilbert), quindi assolutamente non è legato soltanto alla
scena progressive.
Scena progressive italiana che comunque esiste, e la vediamo quasi tutti qua, stasera.
Esatto, ne vediamo vari esemplari, tutti bravissimi.
Gli Astarte Syriaca ti piacciono?
Sì, molto, ci abbiamo suonato tante volte.
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Siete insieme una “nuova ondata di prog romano” che ci fa davvero impazzire…
Eh sì, questa scena romana, come dire…
Spinge!
Assolutamente sì!
Dopo i Noumeno, è la volta dei concittadini ASTARTE SYRIACA, e il pubblico comincia a
scostarsi dal palco causa problemi di acustica: il suono diventa nitido solo a tre-quattro metri dalle
band, con il risultato che una spiacevole mezzaluna di vuoto si forma spontaneamente nella parte
immediatamente adiacente al palco (ovvero, la più ambita, almeno in condizioni normali). In ogni
caso, lungi dal farsi distrarre da questo, gli Astarte Syriaca sfoderano un’ottima prova, riuscendo
anche a superare qualche difficoltà iniziale di bilanciamento del suono. La band romana d’altra
parte è un altro ensemble di musicisti preparatissimi, su tutti la coppia Neri-Contorni, con il
tastierista che si cimenta anche con il theremin – e lo avevamo già sentito su disco – e a sorpresa
(un po’ anche per lui, ci ha confessato…) con un violino elettrico da cui viene estratta un’essenza di
metallo fluido. Lo show si impernia sui brani di Darkened Light, il loro album uscito nel 2007, ma
con due chicche assolute. La prima è quella forse più attesa da chi li ha visti live di recente, ovvero
un estratto dal magnifico progetto Jesus Christ Prog Star, rivisitazione in chiave metal del noto
musical di Tim Rice: Moser diventa Giuda e canta con cuore e perizia un brano difficilissimo,
meritandosi gli applausi a scena aperta del pubblico. L’altra gemma è l’estratto dal nuovo album,
ma forse è meglio farci spiegare tutto con calma da Valentino Moser, che si è gentilmente prestato
ai nostri microfoni.
Ciao Valentino, grazie della disponibilità. Per prima cosa spieghiamo, nel caso in cui ancora
qualcuno non lo sapesse, cosa vuol dire Astarte Syriaca, o meglio chi è Astarte:
Allora, Astarte…beh, l’idea del nome è venuta dal dipinto di Dante Gabriel Rossetti, la famosa
Astarte Syriaca appunto. Perché? Perché è – detto in maniera molto concisa – una figura che
rappresenta e racchiude tutte le ossessioni che un artista si porta avanti per tutta la carriera, grande o
piccola che sia: religione, amore, tutto ciò che poi traspare nelle canzoni.
Come biglietto da visita basterebbe già per pronosticare una carriera luminosa nel
progressive…e, a proposito di carriera, uscirà a breve il prossimo disco, a Dicembre mi
dicevi?
Sì, a Dicembre, attraverso un’etichetta inglese che abbiamo trovato grazie alla Alchemist Fanatix (il
nostro gruppo di management); ci saranno tutti pezzi nuovi, sarà un concept e…non posso dirti
altro.
Dicci solo il titolo dell’album e il nome del brano che avete presentato:
Il titolo è Sex: De Humana Natura, e il brano si chiama Anima Oscura.
Mentre, ci chiedevamo tutti, questo Jesus Christ Prog Star vedrà mai una pubblicazione su
disco?
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È in programma forse una masterizzazione delle registrazioni fatte nelle varie date, però è tutto da
vedere: l’idea c’è in ogni caso, ci avevamo pensato anche noi perché abbiamo riscosso un bel
successo di pubblico con questo progetto e lo vorremmo portare avanti.
È in effetti un modo di “metallizzare” il mondo musicale circostante: sappiamo che il
progressive ha tante influenza “non metal”, importanti tanto quanto quelle metal se non di
più; ma il pubblico metal tout court recepisce queste influenze secondo te?
Ti dico la verità, lo spero. Noi siamo cinque persone musicalmente cresciute tutte in un modo
diverso, di conseguenza quando si va a comporre – chi ascolta se ne accorgerà, soprattutto nel
nuovo disco piuttosto che nel primo – viene fuori quasi naturalmente un mix di diverse musiche. Io
vengo più dal metal, il bassista più dal funk, il batterista dal brutal più “cattivo”, insomma abbiamo
questo mix di influenza che poi viene fuori.
Mix che poi è la base del progressive…
Sì, è il nostro modo di intendere il progressive.
Facciamo un piccolo passo indietro, al disco precedente, Darkened Light, uscito nel 2007: in
Italia ha avuto in linea di massima recensioni abbastanza fredde – sono stato il primo a
rimanerne sorpreso – molte webzine anche dopo interviste ossequiose hanno poi messo 4,5-5
al disco, in modo piuttosto ingiustificato. Invece all’estero è stato recepito di più e meglio, dal
punto di vista proprio delle influenze di cui sopra. È un problema endemico all’Italia stessa?
Secondo me è un problema di cultura italiana, ma cultura in senso lato, non specificatamente
progressive: la cultura del live e di conseguenza di tutte le band che sul live si basano (e che magari
poi fanno anche i dischi) non c’è tanto, la gente non va a sentire i concerti, e di conseguenza tutto
quello che c’è dietro al concerto stesso (i dischi, il merchandising…) è molto di meno rispetto a
tanti altri posti. Sono stato in giro per l’Europa: là pure prima del dj c’è almeno una band che suona,
qui in Italia non c’è cultura della musica, e non c’è cultura della musica dal vivo soprattutto.
Quindi c’è anche di meno uno zoccolo duro di fan metal?
Esatto, anche se un pubblico c’è, il metal per fortuna ha sempre avuto la sua nicchia di appassionati
che comunque lo segue, e questo è un bel vantaggio, però in realtà anche questo in Italia è molto
poco sviluppato. Nei paesi del nord Europa ad un concerto del genere sarebbe venuta molta più
gente…
Allora Valentino, grazie mille ancora. Ciao!
Ciao, è stato un vero piacere!
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Dai tocchi complessi e sfumati degli Astarte Syriaca si passa al terzo di quattro gruppi romani di
questa serata densa di interesse, gli ENEMYNSIDE. Possiamo subito vedere un certo ricambio tra il
pubblico, con alcuni progsters che si allontanano temporaneamente, mentre altri metallari più inclini
a sonorità dure – tra cui noi inviati di Screamer – si piazzano nell’immediato sottopalco, pronti a
gioire per questo thrasher d’acciaio. La scaletta degli Enemynside si basa – com’è ovvio –
principalmente sul “ri-debutto” del 2008, In The Middle Of Nowhere (la cui copertina è analizzata
in ogni dettaglio in questo numero dalla nostra Francesca Basso), album che li ha portati in tour un
po’ ovunque. Nonostante dei problemi tecnici non da poco (Grieco che, esasperato dal suo basso,
gli strappa letteralmente via una corda nel mezzo di un brano, il jack dello “stilosissimo” microfono
di Cremisini che continua a saltare via da solo), i nostri concittadini esaltano la gioventù romana
radunatasi nei pressi del palco, riuscendo anche a creare un piccolo mosh, o se preferite un pogo un
po’ più spinto. In generale resta la sensazione di un gruppo solidissimo, in grado di fare del thrash
una musica fresca ed esaltante, di spingerci ad urlare e a saltare; la prestazione dei singoli è
eccellente, l’attitudine pure, e nessuno pensa che – in una serata principalmente dedicata al power e
al prog – siano fuori posto. Si presta ai nostri microfoni il chitarrista, Matteo Bellezza:
Ciao Matteo, grazie per il tempo concessoci. Partiamo dalla fine: avete pubblicato ad oggi due
album, e in Italia – forse è anche inutile ripeterlo – la copertura mediatica è quella che è; mi
viene però in mente un esempio facilmente accostabile: parliamo di Inghilterra e di Evile, non
so se li hai sentiti….
Li conosco di nome.
Perfetto. Ora, hanno una copertura mediatica pazzesca, e se la meritano, sono tra i nuovi
leoni del thrash. Il succo della domanda è: quanto sarebbe meglio, per una band valida come
gli Enemynside, essere in Inghilterra, piuttosto che in Germania eccetera?
Tanto. Nel senso che appunto, come dici tu, non è solo l’Inghilterra o la Germania o la Svezia, ci
sono tantissimi paesi più pronti, più organizzati: hanno degli addetti ai lavori che sono più preparati,
di conseguenza lì chi vale esce, chi non vale resta nell’underground. Il problema qui è che chi vale
rimane nell’underground così come chi non vale…
Non c’è un distinguo…
Esatto, non c’è un distinguo perché comunque non c’è quella cultura musicale che magari c’è in
altri paesi; ed è un vero peccato perché ci sono moltissimi gruppi in Italia che secondo me all’estero
potrebbero andare fortissimo.
Ne stiamo sentendo tantissimi qui, stasera: una card pazzesca!
Questo festival è l’esempio pratico infatti; ma noi sabato scorso abbiamo suonato ad un analogo
festival a Terni, tutto di gruppi italiani, che a livello di affluenza e di qualità della musica è andato
benissimo, quindi insomma le possibilità a livello qualitativo ci sarebbero.
E ci sarebbe magari anche un certo maggior riscontro di fan, per quanto di nicchia; quindi
sono proprio le case discografiche che non investono (gli esempi virtuosi sono pochi, penso
magari a Frontiers, che però è specializzata nell’hard rock, per i gruppi proprio metal le
possibilità sono poche)?
No, è anche un discorso di etichette, però anche degli organizzatori e dei management locali, perché
di fatto i dischi non si vendono qua come in Germania e in Svezia, alla fine il problema del mercato
musicale è comune un po’ a tutti. Di conseguenza quello che fa la differenza sono gli addetti ai
lavori: qui ce ne sono molti di meno preparati, all’estero sono molti di più che aiutano i gruppi ad
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andare avanti, anche se magari non vendono i cd, ma vendono le copie dal vivo, o il merchandising
e possono comunque proseguire.
Adesso invece ritorniamo ad una domanda un po’ più specifica: mi è sembrato che su disco il
suono sia più melodico (ora, non è un suono melodico, però soprattutto le parti vocali sono più
melodiche). Cosa rende di più l’idea degli Enemynside, questa dimensione un po’ più mista
oppure la furia che scatenate live?
Guarda, la “furia che scateniamo live” è comunque una furia che si basa su canzoni che noi
cerchiamo di rendere intelligibili, cioè con ritornelli che entrano in testa, con la “botta” strumentale
eccetera, poi è ovvio che dipenda anche dall’acustica dei locali: in alcune situazioni ti esce un
prodotto un pochino più confuso e in altri locali, altre situazioni riesci a capire un pochino meglio.
Ecco in una situazione come questa, io non so come si sentisse da fuori, ma noi zero, siamo andati a
memoria.
Allora bravissimi, perché si è sentito bene (sempre meglio un po’ più indietro, infatti non
stavamo proprio sotto al placo…). Invece, ho letto dei vostri vari tour all’estero con grandi
band, mi viene in mente Blaze Bayley per esempio: quali sono state le sensazioni, com’è stare
a contatto con queste che sono realtà affermate?
Stare a contatto con dei professionisti, che vivono quel tipo di attitudine e di professione in
maniera…professionale, appunto…hai sempre da imparare. A parte che io sono dell’opinione che
c’è sempre da imparare, in qualsiasi situazione: se pensi di essere arrivato – in qualsiasi ambito
della vita – allora non progredisci più. Devi imparare, nel nostro caso, sia da Blaze sia da una
gruppo spalla di un concerto a Pescara.
Ancora grazie, ciao!
Grazie a voi!
ASTRA è un nome che nel metal (e nel rock in generale) dice molto, a partire dal leggendario
combo psycho-prog americano, ma ovviamente qui parliamo di un gruppo romano (gli ultimi a
giocare in casa stasera, poi ci sposteremo più a nord), noto ai più per essere stato cover band italiana
ufficiale dei Dream Theater, ma anche autore di due ottimi album, l’ultimo dei quali (From Within)
uscito all’inizio dell’anno. Da allora gli Astra sono in tour, e stasera ci danno un assaggio di quello
di cui sono capaci. Qui si presentano con una formazione leggermente rinnovata (molte news
annunciavano il nuovo cantante), ma il risultato, come nelle migliori formule matematiche, non
cambia: sono gli Astra che avevamo imparato ad apprezzare, forti di pezzi ottimi (e davvero non
vediamo l’ora di sentire il prossimo disco) e di esecuzioni chirurgiche. I picchi di coinvolgimento
del pubblico si concentrano nella bellissima Memories Remain, che dimostra in cinque minuti
quello che gli Astra cercano di affermare da anni: si può fare progressive ed essere dreamtheateriani
essendo al contempo creativi, originali e validissimi. Nel pubblico notiamo qualche fan accesissimo
che urla a squarciagola, ma anche e soprattutto (e penso che sia l’aspetto più positivo in questo tipo
di serate) molti che non conoscevano l’ensemble romano e che sono rimasti soddisfatti e colpiti
dalla prestazione. Dopo il concerto si sono fermati con noi sia Andrea Casali (bassista) sia Silvio
D’Onofrio De Meo (chitarrista).
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Ciao ragazzi, grazie mille per la cortesia. Allora, gli Astra ce li ricordavamo come la “migliore
cover band dei Dream Theater”, come eravate stati ufficialmente nominati. Essere una cover
band, oggi, in Italia, aiuta?
Andrea: Guarda, possiamo dire che per uscire fuori essere stati la cover band ufficiale italiana dei
Dream Theater sicuramente ci ha dato una grossa mano in tutta Italia: ci ha permesso di
amalgamarci tutti e cinque e nel frattempo di creare pezzi originali per poter fare qualcosa di buono
con la nostra musica.
Però si resta sempre un po’ vincolati all’idea “cover band dei Dream Theater” agli occhi degli
altri: non diventa un po’ difficile a un certo punto costruirsi come entità propria e
indipendente?
A: Quello sì, perché purtroppo hai una determinata storia alle spalle come tribute band e tanta gente,
anche non ascoltando i nostri brani originali ci identifica come la copia italiana dei Dream Theater.
Sergio: C’è un condizionamento generale di webzine e di gente che le canzoni le ascolta:
ovviamente sentendo un po’ di progressive metal che si avvicina al sound dei Dream Theater e
legge la biografia, sei anni da tribute band dei Dream Theater…uno finisce per portarsi questa
specie di scimmia sulle spalle…
Questi sei anni lasciano il segno – immagino – anche da un punto di vista del sound, cioè
quando uno si mette a scrivere in proprio resta molto quest’esperienza, no? Aver ascoltato e
suonato per anni Dream Theater, e dico Dream Theater per dire comunque tutto quel tipo di
progressive metal…
S: L’inizio è stato un po’ così, ovviamente: i primi tentativi di composizione sono venuti molti
“sulla falsariga di”, però abbiamo deciso di scostarci il più possibile, per arrivare via via ad un
sound nostro. Secondo me nell’ultimo disco siamo riusciti a discostarci di più da tutto il bagaglio di
clichées dei Dream Theater.
Però quest’ultimo disco, probabilmente per questo, in Italia ha avuto le solite recensioni “un
po’ su e giù”, soprattutto sul web, ed è una cosa che abbiamo osservato per quasi tutti i gruppi
presenti qui, dagli Astarte Syriaca ai Noumeno agli Elvenking. Quindi insomma non solo il
pubblico – e il grande pubblico italiano, lo sappiamo, è completamente estraneo al metal – ma
anche gli specialisti hanno difficoltà con le band italiane…
A: Più che altro tanta gente, secondo me, ascoltando progressive – e in particolar modo i Dream
Theater – e avendo alle spalle tanta esperienza in fatto di progressive, dalla PFM a tutti gli altri
gruppi prog degli anni Settanta e Ottanta, è anche normale che ti accosti ai Dream Theater oppure ai
classici del progressive che dicevo.
S: Il problema fondamentalmente – per quello che vedo anche tra i gruppi di stasera – è quello di
trovare qualcosa che esuli dalla massa di tutto quello che vediamo nei negozi di dischi; ovviamente
le recensioni sono un po’ aggressive da questo punto di vista, alcuni hanno apprezzato molto il
nostro, come tanti altri dischi su questa scia, altri mantengono questa reticenza che gli fa dire “è già
stato fatto da altri”. Poi ovviamente, come dicevi tu, non sempre il metal italiano è visto di buon
occhio.
Mentre all’estero ci sono sempre – o quasi sempre – recensioni molto positive e molto
incoraggianti, perché chi magari aveva conosciuto l’Italia a livello metallaro solo con l’ondata
power – quella famosa di dieci anni fa – trova invece altre realtà. Noi siamo esterofili, ma
all’estero sono italianofili…
S: Sì, diciamo che all’estero sono un po’ meno bloccati su un discorso tipo “è tutto figo, tutto quello
che non viene fatto in Italia”; noi abbiamo fatto live in Svizzera, in Germania, in Grecia, e ci è
arrivato dieci volte quanto ci può arrivare in un pub, in un locale normale, qui in Italia, a livello di
feedback ma anche di acquisto di merchandising. La gente vive molto di più la musica che ascolta.
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Ora invece una domanda un po’ più generica: qualcuno dice che il progressive abbia già
vissuto la sua stagione d’oro, ma può avere – agli occhi di chi ne ha decretato la morte – una
rinascita? Ci sono giovani gruppi progressive a livello mondiale, non solo italiano, che possono
diventare i Dream Theater o i Fates Warning o i Symphony X?
S: Diciamo che al momento c’è ancora un po’ la diffidenza verso il progressive, tutto ciò che ha un
pochettino più di strano rispetto ai normali mood del metal comunque viene visto un po’ “strano”.
O diverso dal metal modaiolo all’americana, che c’è adesso no?
S: Esattamente. E sempre ritornando a questi “maledetti” Dream Theater, si sono comunque legati
più a sonorità tra Metallica e Muse, insomma hanno un po’ cambiato il tiro. Però sicuramente ci
sono molte, moltissime band valide al momento, che comunque portano avanti del progressive non
troppo contorto ma del buon metal progressive, di cui ti ricordi almeno il ritornello, la strofa…
Per il vostro prossimo disco avete già delle coordinate?
A: Abbiamo già qualche cosa in cantiere da sviluppare.
Non si può neanche abbozzare una data?
A: Possiamo dire che siamo già in lavorazione.
Perfetto. Grazie mille!
A & S: Grazie a voi!
Dopo gli Astra sarebbe il turno dei devastanti ILLOGICIST, ma candidamente ammetto di essermi
trattenuto con i ragazzi degli Enemynside allo stand panini, e dunque al rientro i quattro aostani
sono già nel mezzo della loro prestazione. Va anche detto che quasi basterebbe sentirli su disco per
farsi un’idea piuttosto consistente delle loro capacità; tanto più che dal vivo sono chirurgici se non
di più, assolutamente perfetti anche in situazioni di audio abbastanza precarie, come in questo caso.
I pezzi estratti da Subjected e dal bellissimo The Insight Eye assumono nuova energia, nuova
efferatezza nella riproposizione live, nonostante il contesto sia ben diverso da quello che è ormai
diventato consono alla band. L’Init non avrà lo stesso appeal di un club negli States (il tour di The
Insight Eye si è svolto principalmente oltreoceano), ma viene spazzato via con la stessa, identica
energia. Con noi si è fermato dopo lo show il leader della band, Luca Minieri, chitarrista e cantante.
Allora, gli Illogicist: dal vivo vera killer machine, su disco altrettanto se non di più;
ultimamente siete stati in giro un bel po’, si può dire che avete girato il mondo…
Sì, tra 2008 e 2009 praticamente sì. Siamo stati in Europa, Stati Uniti…in Africa (ride, ndr).
Questo ha portato ovviamente ad un aumento della popolarità e della considerazione in giro
(ho letto delle definizioni su internet anche abbastanza spinte, su cui poi ritorneremo) per il
mondo. Ma in Italia? Qual è il feedback degli Illogicist in Italia?
In Italia è come è per tutte le band metal in Italia, per cui si suona perché ci piace suonare, però è
diverso, un po’ perché in Italia si è molto esterofili, per cui quando arriva una band dall’estero tutti
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con gli occhi spalancati a sentire, mentre sugli italiani c’è molta gelosia…il problema dell’Italia è
che non c’è in realtà una scena vera e propria underground, per cui mentre all’estero c’è molto più
supporto, in Italia non c’è più. Nonostante il metal vada molto di più in Europa che negli Stati Uniti,
lì c’è tutta una scena a livello di underground di supporto a un’idea di band che qui non c’è più. Lì
la band viene supportata, addirittura ospitata a casa quando va in tournée, la gente si preoccupa, si
vende tantissimo merchandising perché le persone supportano il gruppo. È bello comunque suonare
in Italia, però è un’altra cosa.
Il calore della gente è forse più vicino, si sente di più…poi in fondo è la propria gente, però
certo capisco che è diverso suonare in un piccolo club qua, in fondo siamo sempre pochi
intimi.
Questo sì, anche se questa tipologia di club è molto simile a quella americana.
È veramente uno dei pochi.
Esatto. In Europa capitiamo in posti dove ci sono duemila persone, negli Stati Uniti per esempio
anche i Cannibal Corpse suonano in un club che tiene duecento, trecento, seicento persone, o anche
in un bar, dipende molto dalle situazioni.
Torniamo sulle definizioni che sono circolate sul metal web, che ho studiato a fondo in questi
giorni, e devo dire sulla maggior parte mi sono trovato d’accordo; quella più eclatante era di
“nuovi Atheist”. Non so se ti era giunta voce…
No, questa ancora non l’avevo sentita.
L’ho trovata per la prima volta su www.metal-archives.com, che è sempre un’autorità, e poi
da lì ha circolato. Quindi, la domanda è (e dammi anche una risposta un po’ presuntuosa):
cosa hanno gli Illogicist in più, qual è il quid degli Illogicist?
In più…nulla, nel senso che ci sono delle influenze per noi impossibili da negare come gli Atheist, i
Cynic, i Death: sono sicuramente le nostre influenze principali. Probabilmente il fatto che veniamo
tutti da generi musicali un po’ diversi e ci piacciono generi musicali molto diversi. E soprattutto
ascoltiamo poco metal. Questo potrebbe essere forse quel qualcosa in più che dicevi per inserire
elementi nuovi all’interno della musica che siano poco condizionati dalla scena attuale.
Una costruzione progressive in senso lato…
Sì, senza darci particolarmente dei limiti, cioè per adesso siamo così, se poi in futuro prenderemo
direzioni diverse sarà così…
In questo senso l’esempio dei Cynic è lampante: fare quello che ci pare, quando ci pare,
perché ci va.
Esattamente.
Nuovo disco in progetto?
Nuovo disco sì, registreremo a dicembre, ma il titolo non c’è ancora, però i pezzi sono pronti, e a
gennaio dovrebbe essere pronto; diciamo che se tutto va bene uscirà in Stati Uniti ed Europa verso
fine primavera, aprile-maggio, e sicuramente poi andremo in giro a suonare. Se va bene, metteremo
su un tour europeo e un tour americano, cercheremo di fare le cose un po’ più in grande questa
volta.
Perfetto, allora ci rivedremo quando tornerete qui. Ciao!
Ciao, grazie!
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Dopo i grandissimi Illogicist, uno dei più compiuti esempi di grandi realtà italiane in grado di
rendersi compiutamente credibili all’estero, è la volta di una grandissima band, troppo spesso
dimenticata quando si parla di metal italiano: gli ELDRITCH. Questi cinque toscani sono dei veri
veterani (contando anche l’esordio come Zeus, sono in giro da vent’anni), e stanno giungendo passo
dopo passo ad una vera e propria consacrazione internazionale. Ne è – per vari motivi –
testimonianza perfetta l’ultimo prodotto di casa Eldritch, LiveQuake; innanzitutto perché cattura
una grande prestazione della band dal vivo (e avremo modo di vedere che è tutt’altro che un caso
isolato), poi perché la pone in un contesto più che internazionale (vedere l’estratto video a
Chicago), infine perché contiene il meglio del loro repertorio. Tuttavia, durante il soundcheck era
forte il timore che l’acustica non rendesse, e che i molti radunatisi all’interno dell’Init per conoscere
gli Eldritch potessero avere una sorta di delusione. Ma il live ha fugato ogni dubbio: l’esperienza si
vede, e spesso fa la differenza. Il suono sprigionato dalle asce (Simone e Proietti) avvolge il
pubblico, la sezione ritmica (Crystal al basso e Dridge alla batteria) puntella poi il metal ibrido tra
power, thrash e progressive che gli Eldritch padroneggiano. Ma – com’è ovvio – in queste
situazioni il carisma del cantante può fare la differenza, in positivo e in negativo: e Terence Holler
non ci delude. Intanto ci fa capire perché lo chiamano “Tarantola”: l’attitudine schizofrenica sul
palco conquista i favori del pubblico, e l’esecuzione impeccabile fa il resto. La scaletta pesca a
piene mani dal repertorio “base” (quello del LiveQuake per intenderci), ma resta una macchia sullo
show: il taglio di almeno quindici minuti della loro prestazione, operato dai gestori per sopperire ad
un ritardo iniziale che ha condizionato un po’ la serata. In ogni caso, sbollita la momentanea
arrabbiatura, un tranquillissimo Holler si è prestato alle nostre domande.
Prima di tutto complimenti, perché – tagli a parte – avete suonato benissimo, come sempre e
come testimonia il LiveQuake, che è un prodotto magnifico.
Grazie.
Possiamo considerarvi dei veterani ormai, ma volendo guardarsi indietro, anche se è una
domanda magari un po’ banale, qual è stato il momento migliore e quale quello ripensando al
quale dici “avremmo potuto fare meglio o diversamente”, ci sono dei rimpianti, delle
recriminazioni?
Sinceramente abbiamo avuto degli alti e bassi, diciamo così. L’inizio della carriera è stato molto
fortunato, perché subito al secondo album la tournée di un mese in Europa di supporto agli Angra
(quelli dei tempi d’oro, con André Matos e tutta la formazione al completo), primo Gods Of Metal
in Italia nel 1997, poi successivamente ancora tournée con i Pain Of Salvation (cioè, i Pain Of
Salvation erano di supporto a noi, a dire la verità). Comunque, i primi quattro-cinque anni di
carriera molto positivi, poi abbiamo avuto dei problemucci vari, ma ci siamo sempre ripresi, disco
dopo disco, abbiamo fatto concerti in tutto il mondo (in America da headliner in un festival
importante [il Chicago Powerfest, ndr], Sweden Rock, altri due Gods Of Metal, ora abbiamo fatto
un tour di venti giorni con i Firewind), diciamo che siamo contenti: se potessi tornare indietro più o
meno farei le stesse cose.
Una delle caratteristiche, dei pregi maggiori degli Eldritch è il loro fatto di essere un’entità
multiforme, c’è qualcuno che dice che sono un gruppo power, un altro dice progressive, un
altro thrash. Alla fine, cosa suonate e soprattutto come riouscite a farlo così bene?
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Sinceramente non ci siamo mai posti il problema; il problema se lo sono sempre posti i media, i
giornali: quando fanno la recensione, qualcuno ci dà un voto altissimo e qualcuno ci dà un voto
bassissimo perché non capisce il genere, quindi siamo un gruppo un po’ strano, un po’ bastardo,
però diciamo che ognuno mette il suo. Di base ritmicamente siamo abbastanza thrash tecnico, stile
magari primi Annihilator, Coroner e questa gente qui, a cui mischiamo le nostre influenze hard
rock, progressive tipo Fates Warning dei primi tempi, i Queensryche dei tempi migliori. Alla fine
possiamo dire che siamo un gruppo di thrash progressivo, abbastanza melodico. Un po’ bastardi,
però.
Sì, quello l’avevamo notato. Hai citato i Fates Warning, mi viene in mente che avete
collaborato con Ray Alder.
Sì, Ray Alder ha duettato con me su una ballad, Broken Road da Blackenday.
Questo mi dà lo spunto per una domanda: avete collaborato con qualche grande artista in
studio, con qualcuno come mi dicevi vi siete incontrati live, avete suonato insieme.
Sì, io ho cantato con gli Angra dei pezzi degli Iron Maiden, ci siamo mischiati sul palco, però non
ne parliamo tanto sui giornali perché sennò dovremmo raccontare tutte queste cose invece di parlare
di cose più serie.
La domanda però era anche un po’ scomoda, perché immagino si tratti anche di amici: chi è
che ti ha fatto la migliore impressione da un punto di vista artistico e umano? Se uno dovesse
sceglierne uno fra tutti quelli con cui avete lavorato.
Senti, abbiamo conosciuto due anni fa al Gods, nel backstage, un po’ tutti i mostri sacri, Motley
Crue e gli altri, però devo dire la verità: gli Scorpions mi sono piaciuti come persone. Sono venuti
loro nel nostro camerino a chiederci chi fossimo, nonostante siano delle rockstar, gente che già
trent’anni fa andava in giro col jet privato, sono di un’umiltà tale, sono entrati nel camerino e ci
hanno chiesto: “possiamo bere una birra con voi?”. Magari un gruppo italiano di un livello molto,
molto minore non ti fila nemmeno. Quindi devo dire che secondo me gli Scorpions, come gli Iron
Maiden, non sono lì dove sono per caso.
Vedendo la scaletta delle band di quiesta sera, verrebbe da dire che servirebbero più Metal
Meating?
Certo, è veramente un bel festival. Ora, al di là del fatto che mi sono incazzato, ma io mi sono
sempre incazzato, però andrebbero fatti più spesso, infatti vorrei fare i complimenti
all’organizzatore; solo mi dispiace che lo ho trattato un po’ male prima, poi gli chiedo scusa perché
sono un po’ un tipo sanguigno, ma poi mi calmo. Però secondo me ha fatto una bella cosa, un bel
festival, anche per aver radunato tanta gente di domenica sera.
Perfetto, grazie mille!
Grazie a te.
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L’atmosfera – nonostante la serata freddina – comincia a farsi rovente: salgono sul palco gli
Elvenking, che sono una delle istituzioni portanti del metallo italiano, nonostante i critici li
accreditino in fase calante (ma di questo ci sarà modo di parlare vis-a-vis con la band). Detto
questo, il combo friulano non lascia spazio a repliche, con una prestazione non del tutto esente da
piccole sbavature ma atmosfericamente perfetta. Dal vivo si capisce quanto fossero inutili le mille
discussioni sul cambio di rotta degli Elvenking post-Winter Wake: ogni brano è puro e inviolato, e
soprattutto senza dubbio made in Pordenone (ovvero tiene trademarks e soluzioni sonore tipiche dei
primi album piegandole ad una nuova e per certi versi inedita maturità artistica). Gli estratti dal
controverso – per la stampa, non di certo per il pubblico – The Scythe (Poison Tears, The Divided
Heart) infiammano il pubblico, il superclassico The Winter Wake lo chiama a partecipare ai cori, le
versioni elettriche di brani dall’ultimo Two Tragedy Poets (cito la più amata, From Blood To Stone)
sorprendono chiunque pensava che sarebbe stato difficile inserirli nelle scalette live. La mia unica
preoccupazione è che possiate pensare male di me: non sono diventato buonista, semplicemente è
stata una serata a dir poco perfetta, in cui ogni band ha dato il meglio di sé se non di più. Chi, se
vogliamo dirla tutta, aveva eventualmente qualcosa da perdere, erano Elvenking e Vision Divine,
posti davanti all’impegnativo compito di non sfigurare dopo tanto ottimo metallo. Ma né i primi né
(come vedremo) i secondi hanno dato modo di lamentarsi ai fan: anzi, si sono anche prestati ad un
ampio meet & greet, al termine del quale abbiamo rubato cinque minuti ai sei di Pordenone.
Allora, eccoci qua, seduti in circolo con gli Elvenking al gran completo; innanzitutto,
complimenti ragazzi, perché avete suonato veramente bene, e siete stati degnissimi
protagonisti di questa che è una serata con quello che attualmente forse è il meglio del metal
italiano. La prima domanda era una curiosità che mi era venuta spulciando sul metal web:
dopo The Scythe ho visto tante critiche da parte di siti – italiani e non – e da riviste, quindi
tutti quelli che fino a un mese prima vi supportavano, appena hanno visto un cambio di rotta,
hanno cominciato quasi a scagliare vere e proprie invettive…
Aydan: Sì, in parte ce l’aspettavamo perché qualsiasi cambiamento che una band cerca di dare al
proprio sound, anche se leggero, solitamente viene accolto da numerose critiche, soprattutto in
Italia, che è un paese che non accetta molto determinati cambiamenti, anche se comunque pensiamo
di non aver snaturato il nostro sound con The Scythe. Non troppo, perlomeno. Era un album legato
a delle tematiche liriche che richiedevano una certa direzione musicale, per cui era una cosa che
volevamo fare per noi stessi come musicisti e compositori: trattare un tema e legarlo alla musica. Il
sound era leggermente differente rispetto agli album passati, però comunque le caratteristiche del
sound degli Elvenking erano comunque là, e alla fine – a parte le critiche – il successo di vendite ci
ha dato ragione, dall’altra parte.
Quindi se c’è stata una critica un po’ trattenuta, anche sun po’ snob se vogliamo – che è uno
dei difetti della critica musicale italiana – invece il pubblico, l’abbiamo visto anche stasera,
sostiene le canzoni di The Scythe e di Two Tragedy Poets tanto quanto The Winter Wake, per
dire…
A:Ma anche The Winter Wake era stato criticato in parte, proprio perché apportava dei piccoli
cambiamenti rispetto agli albunm precedenti, quindi a questo siamo abituati. E poi secondo me il
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giudizio finale non va visto all’uscita dell’album ma dopo un certo periodo in cui l’ascoltatore si è
un po’ abituato a quello che è il sound dell’album.
E l’evoluzione degli Elvenking ha preso una piega ancora una volta sorprendente con Two
Tragedy Poets, ancora un passo di maturazione artistica, anche quello visto male: qualcuno
ha detto “gli Elvenking non sono metal, non sono power, non sono questo e quello”.
Damnagoras: Questo è molto positivo per noi, il fatto che la gente non riesca a giudicarci o a
indirizzarci in un certo genere per noi è molto positivo. E lo stesso Two Tragedy Poets, che è
totalmente l’opposto di The Scythe, è proprio una scelta fatta appositamente per dimostrare che noi
alla fin fine facciamo quello che va di fare a noi. Dopo il successo di The Scythe sarebbe stato più
ovvio proseguire su quella direzione, noi invece abbiamo fatto qualcosa di totalmente opposto, che
in un certo senso ci ha riportato al sound delle origini. Proprio per quello che è stato The Scyhte,
quello che non c’era su The Scythe l’abbiamo concentrato su Two Tragedy Poets.
Al di là della bontà delle composizioni, di tutte le qualità il valore aggiunto più in evidenza,
tanto su disco quanto live è la presenza del violino e del violinista, che è una caratteristica
molto particolare, che fa degli Elvenking quasi un unicum. Molti gruppi preferiscono usare le
tastiere e creare così dei particolari suoni, voi invece un violinista. Com’è nata quest’idea?
Lethien: Su com’è nata proprio non dovrei essere io a rispondere (ridono tutti: Lethien è nella band
da meno di un anno, ndr)
D: All’inizio la volontà era quella di avere un tipo di sound diverso e di legare diverse sonorità nel
nostro sound; la nostra intenzione era quella di avere sin da subito un sound fresco, originale e che
ci soddisfacesse al cento per cento. Quindi una delle maggiori influenze quando abbiamo
cominciato a suonare è stata questa, visto che comunque i nostri ascolti sono sempre stati vari, dal
rock e dal metal fino alla musica folkloristica e a sonorità completamente diverse da quello che era
il metal. La voglia era quella di legare le due cose; ovviamente ci sono state diverse influenze, in
primis ovviamente gli Skyclad, perché sono stati dei veri pionieri del genere, e quindi ci hanno
colpito sin dai loro primi lavori. Sicuramente tentando di mescolare le due cose abbiamo poi avuto
un ottimo risultato.
Invece, guardando un attimo indietro – anche se è presto e siete una band giovane, ma è
sempre tempo di bilanci – non vi sembra che per vari motivi abbiate capitalizzato meno di
quanto potevano essere le promesse e le possibilità degli esordi?
D: Secondo me no, perché noi abbiamo sempre seguito quello che ci andava di fare, e abbiamo
portato avanti un discorso musicale che ci è sempre piaciuto, dall’inizio fino ad ora. Quindi noi
siamo completamente soddisfatti, dagli album degli esordi, da The Scythe, che è un album più duro,
però è stato molto soddisfacente, abbiamo potuto sperimentare un sound diverso anche grazie alla
voglia di esplorare nuovi testi e nuove atmosfere; per noi è stato un successo, soprattutto con un
pezzo come The Divided Heart, che ultimamente a livello di visite su YouTube ci ha portato a più
di trecentomila contatti, quindi è un successo e una cosa di cui siamo soddisfatti perché ci piace
farla. Siamo anche contenti del nostro album acustico, perché abbiamo fatto una cosa
completamente diversa, strana, magari qualcuno ha storto il naso perché abbiamo cambiato
direzione, ma non è vero, perché abbiamo semplicemente seguito quello che volevamo fare, e
sicuramente da lì riprenderemo un discorso, da The Scythe soprattutto, perché l’album acustico è
stato un caso particolare. Però siamo soddisfatti di tutto quello che abbiamo fatto.
A: Però, tornando alla domanda vera e propria, penso che soprattutto i primi due album non siano
stati…diciamo che abbiamo fatto un salto di qualità a partire da The Winter Wake, mentre i primi
due album per un discorso di case discografiche, promozione, eccetera, non sono stati esposti come
avrebbero potuto. Una buona parte del nostro successo parte dalla seconda metà della nostra
carriera.
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E su questo si innesta una domanda che – purtroppo – è stata un po’ il filo conduttore di tutte
le interviste alle band stasera: quanto è più difficile qui, piuttosto che all’estero?
A: Eh, probabilmente è come dici tu, nel senso che noi abbiamo un’etichetta tedesca, però a questo
punto è ancora più strano, perché non abbiamo in Italia il supporto che avrebbe potuto darci
un’ipotetica etichetta italiana, ma allo stesso tempo siamo distanti dalla Germania per poter essere
estremamente forti in quel territorio. Quindi da questo punto di vista è un po’ strano, però è sicuro
che abbimao molto più successo all’estero: suoniamo nei maggiori festival in Germania, Stati Uniti,
Inghilterra, Repubblica Ceca però magari non abbiamo la possibilità di suonare nei festival grossi
qua perché c’è un certo discorso per cui alcune band vengono tagliate fuori.
Siete già al lavoro sul nuovo materiale?
D: Sì, abbiamo iniziato a lavorare sui nuovi pezzi, e il progetto è quello di entrare in studio di
registrazione nei primi mesi del prossimo anno, abbiamo già parecchi pezzi pronti e a breve
registreremo dei sample dei primi pezzi, per cercare insieme la sonorità e gli arrangiamenti giusti
per quest’album, e quindi di sicuro il prossimo anno vedrà un nuovo album degli Elvenking.
Fantastico. Grazie mille ragazzi!
Il momento degli headliner si avvicina, e parallelamente sale la tensione, l’entusiasmo, la frenesia:
tutte sensazioni che ben si addicono all’attesa dei Vision Divine, la punta di diamante (assieme, se
vogliamo, ai Rhapsody Of Fire) di tutto il movimento metal italiano, ammesso che ne sia mai
esistito uno. I sei, guidati dal mastodontico (tanto fisicamente quanto artisticamente) Olaf Thorsen e
da un Fabio Lione in stato di grazia, dispongono del pubblico a loro piacimento. A tratti lo esaltano
con capolavori power – o più semplicemente metal – dalla loro discografia, in altri casi danno
sfoggio di carattere e abilità fuori dal comune esibendosi in cover di Judas Priest (A Touch Of Evil,
già in 9 Degrees West Of The Moon, la loro ultima fatica discografica) e Iron Maiden (Wasted
Years, con cori poderosi da parte del pubblico). Ovviamente Lione dà il meglio di sé sui brani
dall’ultimo album (le splendide Violet Loneliness e Angels In Disguise sono i momenti più
emozionanti della serata, mentre The Killing Speed Of Time tiene fede al suo nome e, come si dice,
non fa prigionieri), risultando però sempre autore di una prova vocale maiuscola. Certo, un paio di
acuti si perdono nella nebbia, ma non sminuiscono di certo un’interpretazione molto tecnica e molto
sentita. Degli altri, che dire: Thorsen lo abbiamo già citato, e saremmo molto ingenui o molto
ignoranti a scoprire oggi che chitarrista sia; gli altri quattro (Puleri, Bertocchi, Lucatti e Bissa –
quest’ultimo in particolare a tratti impressionante) compongono un ensemble che tutto il mondo ci
invidia. Certo, che i Rhapsody Of Fire siano fermi per la vergognosa querelle legale che tutti sanno
è un vero peccato, ma se i Vision Divine sono questi diventa davvero difficile esprimere una
preferenza. Ma che i Rhapsody tornino prima o poi è scontato e inevitabile, dunque non ci resta che
goderci questo Lione in versione agguerritissima dei Vision Divine. Volete una prova del suo stato
d’animo attuale? Cercherò di rendere i toni dell’intervista, anche se non sarà semplicissimo.
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Ciao Fabio, ti rubo solo cinque minuti perché immagino che sarai stanco…
No, no, tranquillo.
Negli anni abbiamo assistito al continuo “balletto” dei cantanti, Luppi-Lione-Luppi-Lione nei
Vision Divine e…
Non potevi partire con una domanda migliore, no? (ride, ndr)
Temo di no. Allora, probabilmente tu non sei nella posizione più indicata per dirlo, ma quanto
influiscono i cambi di cantante sui Vision Divine, sul songwriting…
Nulla. Assolutamente niente.
Perfetto, i Vision Divine restano sempre gli ste…
Se i Rhapsody non prendevano un deficiente come manager i Vision Divine non avrebbero mai
cambiato cantante. Stream [Of Consciousness, del 2004, ndr] a parte due brani l’ho scritto io con
Thorsen e Smirnoff, quindi non cambiava nulla.
Guarda, a proposito del “deficiente” una domanda che non avrei mai voluto fare, però io ho
fatto un…
Se vuoi ti mando un demo di Stream. Mancano solo Shades e Through The Eyes Of God, gli unici
due pezzi che ha scritto lui. Ti mando anche La Vita Fugge, così sei contento, che ho pagato io lo
studio di registrazione.
Bene. Insomma, dicevo, a proposito del deficiente di manager di cui parlavi prima e della casa
discografica, io ho fatto un piccolo test: siccome i ManOwaR – lo possiamo dire – rispondono
sempre alle mail di complimenti, la Magic Circle Music risponde sempre alle mail sugli
HolyHell…
Non i Manowar. “Lui” [facile intuire di chi stiamo parlando, comunque per chi non fosse
aggiornato è Joey DeMaio, bassista dei ManOwaR e fondatore della Magic Circle Music, ndr] con
il suo assistente; lascerei fuori batterista, cantante e chitarrista. Solo “Lui”.
Giustissimo, non mettiamo in mezzo persone che non c’entrano niente. Insomma, ho mandato
una mail due settimane fa alla Magic Circle Music chiedendo delucidazioni, perché per ora
avevamo avuto notizie solo dai Rhapsody, e non è mai arrivata una risposta, quindi lo prendo
per un “no comment”…
Sai, se non ti può spillare soldi non ti risponde.
Questa vicenda è lontana dalla conclusione?
No, è molto vicina invece. Il contratto di management è scaduto; lui ha delle beghe con Luca
[Turilli, mastermind dei Rhapsody Of Fire, ndr], avrebbe delle beghe anche con Staropoli, però
principalmente con Luca. Con me no, anche perché mi deve un “botto” di soldi, quindi non è che mi
può fare causa: perderebbe sicuro.
E quindi sei sempre lanciatissimo con questi grandi Vision Divine: ottimi dischi, ma ora
continuate con il tour?
Sì, abbiamo diverse date che ora stiamo fissando, in Italia, Svizzera, Spagna, stiamo guardando per
il Belgio e la Francia. [una voce da dietro, probabilmente di uno dei Vision Divine, spezza la
tensione accumulatasi fino a quel momento indicando Marte e Venere come tappe del tour: Fabio
ride, e noi con lui, ndr]
Mentre avete già un’ipotesi per la release? Una data, o almeno un’idea?
Bisogna in ogni caso finire di comporre i pezzi nuovi, poi ci saranno i tempi tecnici del caso.
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Un’ultima domanda, di carattere generale: si parla sul metal web di un declino del power
dopo la sua stagione d’oro.
Ma magari!
Perché magari?
A me non piace l’etichetta power, prog, progressive, celtic: uno fa musica. Poi se una canzone è
bella è bella, può essere qualsiasi genere. Power cosa significa? Nulla. Cosa, doppia cassa e happy
metal, è questo il power? Se è solo questo, allora potrebbero essere le canzoni dei cartoni animati,
fammi capire…
Quindi appunto il declino dell’etichetta power può aiutare le band effettivamente valide ad
emergere, rispetto ai cloni.
Se ci sono, queste band valide, sì.
In Italia abbiamo avuto una scena popolata da molti cloni…
Sì, hai detto bene, molti cloni. Per questo ti dico “se ci sono, le band valide”: è facile copiare, ma
fare una cosa tua? Questa è l’unica cosa che manca alle band italiane, secondo me. Nel senso, uno
ascolta i Symphony X, sono molto bravi, ma perché devi fare i passaggi alla Symphony X, cercare
di cantare come Russell Allen, o suonare la chitarra come Michael Romeo, dove arrivi? Puoi
arrivare soltanto ad essere un buon emulo. I Symphony X ci sono già, i Dream Theater ci sono già,
quindi a che serve fare paraparà pappà paraparà pappà [rappresentazione del tipico fill progressive
in tre quarti appena mimato da Lione, ndr]? A nulla, forse a farti dire dall’amico che lo sai fare
bene, ma chi l’ha inventato quello? Tu o Portnoy, tu o Petrucci, tu o Michael Romeo? E allora? Un
musicista non deve essere soltanto bravo a suonare: deve essere bravo a scrivere. È lì la differenza.
Dell tuo caro amico su cui mi hai fatto la domanda prima [Michele Luppi, ndr] – non so se è tuo
amico – non ho mai ascoltato un album. Ci ho parlato due volte quando mi ha chiamato a casa, e
non ti voglio dire perché, lo voglio salvare dalla bella figura che farebbe. Però quello che mi chiedo
è: ma se tu fai un album, due, tre, quattro, tu hai scritto diverse canzoni. Perché quando vai dal vivo
più di metà concerto lo impronti su canzoni che hanno scritto Smirnoff, Thorsen, Lione?
Implicitamente ammetti che quello che scrivi te fa schifo. Sbaglio? Ti torna o no questo discorso?
Uno che fa un progetto solista, perché dal vivo non fa le canzoni di quel progetto lì?
Allora, ti ringrazio per la disponibilità, sei stato gentilissimo…
Ma figurati, grazie a te.
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W.A.S.P. – BABYLON/Demolition Records
Blackie Lawless/Voce,Chitarra
Doug Blair/Chitarra
Mike Duda/Basso
Mike Dupke/Batteria
Album numero quattordici per gli americani W.A.S.P., che ritornano con questo nuovo lavoro a
distanza di due anni dal precedente Dominator. Babylon si presenta immediatamente come un
album di buona fattura, molto diretto e che scorre via piacevolmente, grazie anche a un’ottima
registrazione che ne mette in luce le qualità e che mostra come alla fin fine i gruppi meno recenti
abbiano una classe molto difficile da riscontrare oggi. Prima canzone a nostra disposizione è Crazy,
ottima apertura con il suo ritornello facile da assimilare e il suo gusto tipicamente rock, condita con
un bell’assolo di Doug Blair. La voce aspra di Blackie ci introduce nella seconda traccia dell’album,
un’energetica Live To Die Another Day, pezzo carico di adrenalina con la coppia Blair/Lawless in
grande evidenza e che scolpisce assoli e riff di potenza devastante. Chitarre ancora sugli scudi con il
terzo brano, Babylon’s Burning, altra bella canzone rabbiosa sorretta da un’ottima sezione ritmica
e da un Blair notevolmente ispirato. Giunti alla quarta traccia ci si presenta la prima cover: trattasi
di Burn dei Deep Purple registrata durante la registrazione di Dominator e aggiunta
successivamente a Babylon. La voce di Coverdale (per non parlare di Glenn Hughes) è più pulita
rispetto a quella di Blackie, e in alcuni punti può permettersi certi virtuosismi che Blackie evita, ma
in ogni caso il Nostro fa egregiamente il suo dovere, reinterpretando ottimamente un vecchio
successo del MK3 dei Deep Purple. Le parti di tastiera originali vengono qui rimpiazzate dalla
chitarra, regalando ad una canzone già di per sé longeva una seconda giovinezza. A dispetto del
nome invece la seguente Into The Fire non è un’altra cover dei Deep Purple, ma un roccioso midtempo, aggressivo e pesante come un macigno, magistralmente interpretata dalla voce di Blackie e
dalle sfuriate di Blair. Aderentissima ai canoni dell’hard’n’heavy la successiva Thunder Red,
trascinante e rombante come una Harley Davidson lanciata a tutta velocità sulle deserte highways
americane. Bella e grintosa, da ascoltare a tutto volume fino allo sfinimento auricolare dei vicini di
casa. Sezione ritmica in bell’evidenza nella traccia numero sette, Seas Of Fire, altro esempio
lampante dell’ottimo stato di salute dei W.A.S.P., dove un Blackie davvero in gran forma ci regala
una bella interpretazione sia dal punto di vista vocale che chitarristico e ottimamente supportato da
Doug Blair. Penultima traccia affidata a una ballad, Godless Run, dove i Nostri mettono in mostra
il loro lato più sentimentale. Attenzione: sentimentale e non sdolcinato, nel senso che la canzone,
dal testo a ogni singola nota e passando per le corde vocali di Blackie Lawless, è veramente
toccante senza però per questo perdersi in quintali di melassa che ultimamente sommergono e si
appiccicano fastidiosamente a quasi ogni canzone definibile con il marchio di ballad. Si chiude con
la cover di Promised Land di Chuck Berry, piacevolmente rock e stradaiola che ci fa piombare di
colpo di nuovo a cavalcioni di una Harley sulle strade assolate della California. Gran bel lavoro per
i losangelini W.A.S.P., a dimostrazione che gli anni Ottanta hanno dato vita a una serie di gruppi di
grandissimo carattere che a distanza di quasi trent’anni ancora hanno parecchio da dire. Meditate,
band emergenti, meditate…
Valentina Lattanzi
Artwork di Babylon
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HARDLINE – LEAVING THE END OPEN/Frontiers
Johnny Gioeli/Voce
Josh Ramos/Chitarra
Jamie Browne/Basso
Micheal T. Ross/Chitarra
Atma Anur/Batteria
Dopo 7 anni da II torna a farsi sentire la coppia Johnny Gioeli – Josh Ramos per questo terzo
capitolo della saga Hardline, incominciata nel 1992 con il monumentale Double Eclipse, in cui mr.
Gioeli era coadiuvato dal fratello Joey alla batteria e da Neal Schon alla chitarra. Se II presentava
eccessi modernistici non solo in fase di produzione, su quest'ultimo parto della coppia possiamo
ascoltare un ritorno alla radice, almeno per la ricerca della melodia vincente e non scontata...Dopo
Voices, pezzo che mi ha riportato alla mente qualcosa dei primi Audioslave, spazio all’accoppiata
Falling Free/Start Again, doppio asso per un disco come questo; il primo è un mid tempo roccioso
guidato dal riffing di Ramos, il secondo è un sing-a-long dai toni piuttosto romantici che grazie
all'interpretazione di Gioeli non cade nel banale o nell'effetto del “già sentito” al cui rischio un
pezzo simile si sottopone. Procedendo con l'ascolto non mancano le sorprese; per esempio un'altra
accoppiata davvero interessante scritta per timpani bisognosi di melodie easy-listening è quella
formata da In This Moment/Give In To This Love: la prima è un lento per voce e pianoforte con
una leggera aggiunta di archi, per rendere il tutto più di atmosfera...anche se la vera protagonista in
questa canzone è la voce di Gioeli, che, libero dai paletti impostigli da Axel Rudi Pell sui suoi
dischi, può dare libero sfogo alla propria espressione vocale, mostrandosi a proprio agio anche
quando c'è da cantare accompagnati da arrangiamenti piuttosto semplici. La seconda è una traccia di
hard rock puro, roccioso ma non per questo eccessivamente moderno. Il grande pregio di questo
disco è quello di essere riuscito a scrivere canzoni adatte al 2009 ma ricordandosi che i fan sono
diventati tali grazie all'ascolto di un grande disco quale è Double Eclipse, colmo di melodie
memorabili. Procedendo con l'ascolto difficile non provare piacere con pezzi come Bittersweet e
Before This. Qui a fare la grande figura è Ramos, il quale più lo si ascolta più si capisce che il suo
mentore è Neal Schon: interventi melodici con la sua ascia solista alternati a riff sempre di grande
impatto. Per chiudere il disco una ballad, la title track, pezzo che avrebbe voluto scrivere l'ultimo
Bon Jovi in questi ultimi anni, ma dalle sue ultime uscite sembrerebbe non essere in grado di farlo...
Yuri Picasso
Artwork di Leaving The End Open
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SINFONIA IN IMMAGINE
IL TORNADO ENEMYNSIDE
Nel mezzo del nulla…E' l'atmosfera che si percepisce in un immediato colpo d'occhio alla copertina
dell'ultimo cd dei nostrani Enemynside, ospiti questa settimana del nostro numero speciale dedicato
quasi interamente al Metal Meating in cui il combo thrash ha recitato un ruolo essenziale. Il Nulla
degli Enemynside, però, è terra bruciata che impaurisce la mano dell'uomo, è cielo che tuona
infuriato, è lampo che cade senza sosta. E' Natura che scatena la sua forza senza limite, forse l'unica
cosa su cui l'essere umano non può avere la meglio. La loro musica allo stesso modo si abbatte sul
pubblico, lo circonda e non lo lascia un attimo e al posto dei tuoni si sentono i colpi indistruttibili di
dure chitarre e di un basso. Quindi oltre a dare un corpo vigoroso al titolo del cd, la band presenta
sé stessa e la sua straordinaria forza attraverso questo scenario sul punto di esplodere. Nel mezzo
del nulla, per tornare al significato tra il disegno e il nome, sta piantato il simbolo dell'uomo; inerme
nella terra, urlante, privo di occhi e quindi di ragione. E' un moderno Adamo nato dalla Terra e della
Terra riassorbito, che contempla devastato i risultati di una continua sfida alla Natura. Ma se
Adamo con l'anasthasis può essere salvato da Dio, l'uomo targato Enemynside (metafora non solo
dell'umanità degli stessi membri della band, ma anche del loro fan, almeno per la posizione che
tendevano ad assumere durante l'esibizione: nell’occhio del ciclone) resta lì. La Natura ha avuto la
meglio e reclama la sua vittoria, trascinando l'ultimo essere umano verso il cielo in tempesta.
Un' iconografia complessa nella sua apocalittica semplicità, soprattutto perché applicata alla
copertina di un cd: ma il contenuto giustifica l'involucro: un bisogno di superare lo statico mistero
del precedente Let The Madness Begin inteso come un antipasto (...Che la pazzia inizi!...) con
qualcosa di più acceso: e infatti i colori si scaldano, la Natura si muove ed un uomo in carne ed ossa
(non una figura dalle fattezze robotiche ) esprime una furia quasi munchiana. Un modo per
confermare la capacità avvolgente di questo gruppo nei confronti dei loro fan (urlanti). Infine
troviamo un piccolo dettaglio che aggiunge un tocco di cura simbolica al tutto: l'albero sulla sinistra
che appare solitario e incurante di tutto ciò che gli si sta per scatenare intorno. Un elemento che
giustamente non teme l'abbattersi della tempesta, abituato secondo natura a resistere e a rispettare il
ruolo affidatogli, che crea un messaggio di resistenza, rivalsa e speranza per il futuro. Una netta
contrapposizione all' effimero atteggiamento dell'altro abitante della copertina che per una strana
ironia si trova anche lui nella terra, come se all'ultimo momento avesse voluto riscattare la sua
leggerezza "mettendo radici". Quindi in In The Middle Of Nowhere troviamo la musica sotto forma
di forza irrefrenabile ed avvolgente, l'uomo sotto forma di condannato e la speranza sotto forma di
albero; troviamo effettivamente qualcosa in questo "niente" che funge quindi solo come un teatro
ideale ai suoni che si stanno per scatenare. Il "Nulla" più ricco a cui possiamo pensare.
Ringrazio gli Enemynside per la disponibilità dimostrata, anche grazie alla quale è stato possibile
realizzare questa recensione.
Francesca Basso
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