musicaround.net
giugno 08
distribuzione
gratuita
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rivista di cultura musicale e musicologia
Anno 3
n. 19
In questo numero:
CAPAREZZA_Il caos, la cosa e il caso [intervista] (M. Leopizzi)
SOUND RES 2008_Terry Riley, E. Ziporyn, R. Black [interviste] (Leopizzi, Cacciatore)
GIROLAMO DE SIMONE_La Border Music made in Italy (O. Cacciatore)
WEB RADIO ONLY_Il mondo delle radio su Internet (A. Marchello)
DINO RISI_L’ultimo sorpasso (V. Lomartire)
AVLEDDHA_intervista a Rocco De Santis (V. Leo)
GIACOMO PUCCINI_Madame Butterfl
fly
y (B. Birardi)
ORGANO PARIE_L’unico vero concorrente dell’Hammond (E. Raganato)
FASANO JAZZ 2008 (M. Carella)
a
Musicaround.net Edizioni - Anno 3 – n. 19/08 – giugno 2008
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Anno 3
Numero 19/08
Mensile
Editore
Ass. Cult.
Musicaround.net
Direttore Editoriale
Antonio Marchello
Direttore Responsabile
Francesco Rampi
Caporedattore
Marco Leopizzi
Redazione
Beatrice Birardi
(classica)
Marco Leopizzi
(popular music e
jazz_black music)
Vito Lomartire
(cinema)
Viviana Leo
(etnica_world music)
Emanuele Raganato
(organologia)
________________
Chiuso in redazione il
20.06.2008
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73029 Vernole (LE)
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Iscrizione al Tribunale
di Lecce n°944
Servizi
pag.03
pag.09
pag.10
pag.12
pag.14
pag.17
pag.19
pag.21
pag.23
pag.27
pag.28
pag.31
pag.33
pag.35
pag.36
pag.39
pag.43
pag.48
pag.50
Rubriche
pag.34
Recensioni
pag.08
pag.26
pag.47
pag.51
pag.52
Caparezza_Il Caos, la Cosa e il Caso [intervista] (M. Leopizzi)
Web Radio Only_Il Mondo delle Radio su Internet (A. Marchello)
Fabrizio Mondo_Radio Giovane Sicilia [intervista] (A. Marchello)
Viaggio nella Musica di Second Life (A. Marchello)
Sound Res 2008_un Ponte tra New York e Lecce (M. Leopizzi)
Terry Riley_Il Guru del Minimalismo [intervista] (M. Leopizzi)
Evan Ziporyn_dagli USA a Bali e Ritorno [intervista] (O. Cacciatore)
Robert Black_Il Principe del Contrabbasso [intervista] (O.Cacciatore)
Girolamo De Simone_Border Music made in Italy [interv.] (O.Cacciatore)
Festival della Valle d’Itria 2008 (B. Birardi)
Fasano Jazz 2008 (M. Carella)
Spaziale Festival 2008 (V. Leo)
Jazz in Veglie 2008 (E. Raganato)
Dino Risi_L’ultimo Sorpasso (V. Lomartire)
Giacomo Puccini_Madame Butterfl
fly
y e un Nuovo Teatro(B. Birardi)
Richard Wagner e la Scenografi
fiaa Romantica III (N. Costantino)
Avleddha_Intervista a Rocco De Santis (V. Leo)
Organo Parie_L’unico concorrente dell’Hammond (E. Raganato)
VST_Benvenuti nell’era dell’Orchestra Virtuale (A. Marchello)
Strumento del mese: Il Corno
Caparezza: Le dimensioni del mio caos
Girolamo De Simone: Shama
Avleddha: Ofi
fid
dea
Michelle Mercer: Wayne Shorter. Il Filosofo con Sax [libro]
Luca Aquino: Sopra le Nuvole
Editoriale
di Marco Leopizzi
Sin dai primi vagiti Musicaround.net si è proposta come rivista antiaccademica, ma al contempo si è sempre rifiutata di celebrare i prodotti belli e confezionati dell’industria musicale, convinti che qualsiasi tentativo di ingabbiare
ed includere/escludere le espressioni artistiche sia errato in partenza e, anzi,
costituisca un irreparabile difetto di metodo. Ciò che si critica non è, of
course, la musica legata agli ambienti accademici e pop in sé, bensì i metodi
di promozione, studio ed analisi. Il nostro approccio a ventaglio, aperto su
ogni maniera di esprimersi coi suoni, del resto lo dimostra e ci aiuta ad acquisire una prospettiva quanto mai ampia sulla musica. In principio sembrava
una velleità quella di poter trattare sulle stesse pagine di jazz come di opera,
di rock come di musica etnica, etc. Ad alcuni sarà forse parsa operazione
poco seria, ma credo si siano sbagliati se anche il Giornale della Musica (storico mensile edito da EDT) si è aperto da maggio alla popular music, alla
world music e al jazz, fondendosi con World Music Magazine. In omaggio a
questa convinzione pubblichiamo uno dei nostri numeri più ricchi ed intensi,
in cui al servizio su Caparezza, fra i più vivaci geni creativi italiani, con intervista succosa e recensione, affianchiamo un corposo reportage da Sound
Res, con intervista al padre del Minimalismo Terry Riley e a Evan Ziporyn
e Robert Black. A proposito di superamento delle barriere musicali, Oscar
Cacciatore ha intervistato e recensito il compositore/musicologo Girolamo
De Simone, che ha spiegato molti dei suoi concetti base. Ed ancora un interessantissimo viaggio nella dimensione musicale internettiana con un articolo sulle Web Radio ed uno su Second Life, firmati dal nostro indefesso
direttore editoriale Antonio Marchello.
Buon appetito...
IL CAOS,
musicaround.net
INTERVISTA A
LA
E IL
CAPAREZZA
Nei momenti di
crisi e declino
di una società
si assiste
spesso a due
fenomeni apparen-
COSA
CASO
di Marco Leopizzi
morti bianche, revisionismo storico. In Rete si è
presto diffuso l’appellativo, non del tutto inappropriato, di «Beppe Grillo della musica». Oggi CapaRezza è l’artista impegnato di Gramsci, al suo
apice artistico, ispirato e incisivo come non mai. Lo
abbiamo intervistato in occasione della pubblicazione del nuovo disco “Le Dimensioni Del Mio
Caos” e del libro “Saghe Mentali”. Un’intervista
degna del miglior Capa, profonda ed esilarante.
Marco Leopizzi: Partiamo dalla tua vita passata:
qual è stato il momento e quale l’episodio che ti
ha fatto capire di dover cambiare direzione, da
Mikimix a CapaRezza?
temente
contraddittori. Mentre il Paese, e con esso la gente incapace
di affrancarsi dal pensiero dominante dell’establishment, va a picco e le idee medie si livellano
verso il basso, le menti più fini e geniali schizzano
in alto, eccitate forse dalla sfida e dall’ineludibile
desiderio di riemergere. È quello che sta accadendo in Italia, tra gli altri, al trentacinquenne rapper pugliese. Dopo la conversione, con tanto di
Mea Culpa, da Mikimix a CapaRezza (i due moniker di Michele Salvemini) il cantante molfettese ha
intrapreso un’evoluzione che riguarda i temi delle
canzoni quanto il suo stile musicale. I giorni frivoli
milanesi di E La Notte Se Ne Va e La Mia Buona
Stella sono superati e deprecati dallo stesso artista,
che dal nuovo esordio di “Caparezza ?!” (2000), e
attraverso il salto in alto di “Verità Supposte” (2003)
e “Habemus Capa” (2006), ha cominciato a trattare
in modo sempre più personale, irriverente e lucido
(un po’ sullo stile del message rap americano) temi
sociali impegnati, dalla violenza alla critica satirica
e tagliente della società della Tv, o a quella del divertentismo insulso e inconsapevole; e ancora consumismo, razzismo, politica marcia, ambiente,
CapaRezza: Non c’è stato un episodio particolare,
diciamo che sapevo che quella strada avrebbe portato alla frustrazione eterna. Non ricordo nemmeno
come abbia fatto nel giro di dieci minuti a raccogliere il coraggio necessario per fare il giro di chiamate di congedo: addio discografica, addio
produttore, addio Milano.
Ero davvero esasperato, non c’è altra spiegazione.
CapaRezza invece è nato quando lavoravo in un
villaggio sulla Murgia. Un ragazzo che ascoltava
Punk mi convinse a riprovarci col Rap.
Beh! è andata bene, avrei potuto incontrare un ragazzo che ascoltava New Age… a quest’ora sarei
un divo del Country.
M. L.: La Popular Music è da sempre attraversata da un enorme paradosso: l’apparente contraddizione nell’atto creativo tra autenticità (e
libertà) espressiva del musicista e il controllo
della casa discografica. Adorno parlava addirittura di massificazione dei generi musicali, imposti dall’industria culturale. Contraddizione
non ancora sciolta del tutto, sebbene oggi si
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tenda a pensare ad una negoziazione stilistica
tra i discografici e gli autori più intelligenti e
consapevoli. Anche tu, tutto sommato, pubblichi per una major, la EMI. Come risolvi questo
conflitto, se c’è, e quali sono i tuoi rapporti con
la casa discografica?
schizofrenico, zappiano per l’approccio poliedrico e gli accostamenti irriverenti. Come procedi in fase di arrangiamento? Sei solo o lavori
con la tua band?
CR: Diciamo innanzitutto che Frank Zappa lo lasciamo dov’é perché a parte qualche accostamento
baffoso non ci sono altri punti in comune tra me e
lui (forse solo l’irriverenza di fondo), dato che la sua
CR: I miei quattro dischi sono stati consegnati nelle
mani dei discografici così come sono stati pubblicati, senza alcun margine di intervento. Non tollero
che qualcuno mi dica: «Taglia qua, aggiungi là,
parla di questo, non dire quest’altro, fai un arrangiamento più pop, fai un arrangiamento più gangsta». Io quando scrivo ho me come punto di
riferimento, è a me che deve piacere la ‘mia’ musica, poi se vogliono pubblicarmi il disco o vogliono
comprarmelo, beh, quelle sono soddisfazioni ulteriori. So che esistono cantanti che sono succubi di
imposizioni discografiche ma o sono loro che lo
permettono (e chi è causa del suo mal pianga se
stesso), o semplicemente fanno questo ‘mestiere’
sviscerandone la natura artistica, diventando macchine da business che compongono ciò che la
gente vuole (o vorrebbe) sentire.
Va detto, infatti, che i giudizi del pubblico non sono
meno condizionanti di quelli di una casa discografica. A volte l’artista tende (per paura o vuoto creativo) a comporre con i canoni di chi lo ascolta.
Questa è la forma più subdola di condizionamento.
La libertà artistica, per me, consiste non tanto nel liberarsi dalle discografiche quanto nel liberarsi dai
fans (nel senso di fanatici). Meglio gli estimatori o i
simpatizzanti.
preparazione musicale e la sua capacità di innovazione sono e rimarranno ineguagliabili nel tempo.
Ovviamente dovendo maneggiare con cautela il
mio immaginario non posso darlo nelle mani di altre
persone perché così lo violenterei. Lavoro essenzialmente da solo nell’edificazione delle idee ma
quando devo concretizzarle mi avvalgo ovviamente
anche dei musicisti, soprattutto perché io non so
suonare tutti gli strumenti. I miei sono ‘fidati’, suonano da anni con me e sanno già di che tipo di approccio necessito. Nessuno se ne verrebbe mai
fuori con parti fusion o suoni di venti anni fa. La difficoltà, in questo senso, sta nel far capire quello di
cui hai bisogno, a volte accennando una parte a
voce, a volte componendola midi, altre semplicemente chiacchierando per ore, in attesa che qualcosa di decente venga partorito.
Poi c’è tutta la parte di registrazione e di mixaggio
in cui mi viene sempre l’ansia, a prescindere.
M. L.: Nella tua musica il testo ha una parte centrale. L’abilità metrica e l’uso di rime, assonanze e allitterazioni migliorano di album in
album. Ti appassiona più la poesia o la narrativa? Cosa leggi?
CR: In realtà mi appassiona la lingua. La lingua italiana permette di costruire un immaginario anche
attraverso le assonanze e poi abbiamo un vocabolario talmente zeppo di termini che è da spreconi
usarne solo una cinquantina. Io sono di Molfetta.
Dalle mie parti non si butta via niente, sappilo.
Per quanto riguarda la centralità del testo credo
che questo dipenda dalla mia formazione prettamente cantautoriale. Più che i poeti o gli scrittori
sono stati i cantautori ad affascinarmi, da Rino
Gaetano a Capossela passando per Mirko dei Bee
Hive.
M. L.: Infatti, il lavoro di post-produzione sui
tuoi dischi dev’essere molto complesso, tra effetti speciali, parti recitate, missaggio, etc. Immagino che tu lo segua direttamente. Che
M. L.: Il tuo stile è estremamente eclettico e
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valore ha la presenza del noto produttore Carlo
Ubaldo Rossi, e in che modo è cambiato il
sound dei tuoi album da quando è arrivato lui
(su “Verità Supposte”)?
un vero e proprio concept, o fonoromanzo
come lo definisci tu. Una concezione strutturale
che dimostra una maggiore maturità. Com’è
nata l’idea del disco ed il collegamento con il
libro “Saghe Mentali”?
CR: In generale Carlo è l’unico produttore di cui mi
sono fidato perché non impone la sua idea ma valorizza ed amplifica quella dell’artista con cui lavora. Nell’ultimo disco gli ho chiesto di essere
ancora più incisivo nell’impronta live dei
pezzi e allora
abbiamo organizzato una
piccola saletta
in cui abbiamo suonato come si
fa in cantina
quando metti
su il tuo primo
gruppo. È
stato divertente. Sono
molto soddisfatto dei
pezzi più rock
del mio ultimo
cd.
Ho cominciato a lavorare con lui su
“Verità Supposte”, album in cui ho intrapreso una strada personale, mischiando generi e stili. Sentivo che da
solo non ce l’avrei fatta perché come
produttore ero ancora abbastanza
acerbo.
Sapevo usare il campionatore e le tastiere, ma non mi bastava, temevo di
fossilizzarmi. Volevo creare un genere
che fosse solo mio e che non fosse accostabile ad altri e sto ancora lavorando duro per poter raggiungere
questo obiettivo (e ci riuscirò quando
«caparezziano» diventerà un aggettivo). Sono andato da Carlo con una
nebulosa di idee e di suoni e lui ha
tentato di renderla meno nebulosa e
più tangibile. E così la nostra intesa è
durata per tre dischi (ma è stata solo
professionale perché lui è sposato ed entrambi
siamo etero).
CR: Il cd, come supporto fisico, sta per scomparire
dalla faccia della terra. Volevo dargli un valore aggiunto letterario per rendergli onore e allora mi
sono inventato questa sorta di colonna
sonora di un racconto che ho poi pubblicato in “Saghe Mentali”. I due progetti sono nati parallelamente. La vera
novità di questa storia in 14 audio-capitoli è che ho deciso di far interpretare i
personaggi a doppiatori professionisti.
È stato divertente vederli al lavoro
mentre davano personalità a soggetti
che non esistono se non nella mia
testa (CapaRezza compreso). Poi nel
libro, a parte tutti i testi dei miei quattro
album, ci sono un sacco di trovate che
poggiano su un unico elemento: la fantasia, la mia e quella di Stefano Ciannamea (grafico) e di Laura Spianelli
(illustratrice).
M. L.: A proposito
del libro, il mancato
lieto fine delle fiabe
rappresenta la tua
aderenza alla realtà
o è solo un espediente narrativo? E
cosa raffigura per te
invece l’Inferno dantesco?
CR: Diciamo che
quando sono al cinema rimango prontamente deluso dal fatto
che il protagonista rimane in vita per tutta
la durata del film. È
seccante sapere che a
lui non accadrà nulla
di veramente grave e
che qualsiasi incidente
di percorso si risolverà
nel giro di un paio d’ore. Avrei voluto che Rambo
crepasse dopo dieci minuti di pellicola o che Rocky
perdesse tutti gli incontri, o che l’Uomo Ragno pensasse a pagarsi l’affitto di casa invece di gironzo-
M. L.: Dall’album a tema di “Habemus Capa” ad
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lare per la città in cerca di cattivi in calzamaglia.
Volevo che le mie fiabe fossero diverse da queste
storie pallosissime.
L’inferno dantesco invece per me rappresenta tutto
ciò che un uomo è disposto ad affrontare per un
amore che conosce solo in maniera superficiale e
che, soprattutto, non ha sposato.
scano i politici più conservatori ed intransigenti,
quelli per esempio che tornerebbero volentieri a
settanta anni fa. Io invece vorrei tornare a quaranta
anni fa, quando i conservatori presero calci nel didietro dalla rivoluzione culturale del ’68. Altri tempi,
altre chiappe. Se non ritorna il sessantotto spero
che ritorni Mazinga.
M. L.: Il tema centrale (tra i tanti) del fonoromanzo sembra essere la «modifica del passato
che stravolge il presente». Vuoi parlarci del pericolo revisionista oggi e, in particolare, di
come vedi l’esperienza sessantottina rapportata
alla nostra attualità?
M. L.: L’esplosiva Vieni A Ballare In Puglia tocca
due temi delicatissimi della nostra regione, che
in periodo turistico qualcuno vorrebbe scordare: l’insicurezza sul lavoro e l’inquinamento
ambientale. Perché una terra ricchissima di artisti (scrittori, attori, registi, musicisti, etc.) e con
un fervore creativo paragonabile a quello campano è sempre preda di
problemi distruttivi come
questi?
CR: Da quando
è stato permesso alle tv
commerciali
di competere
con quelle
statali la qualità dei programmi è
precipitata nel
baratro. Io mi
sono rivisto
alcuni programmi della
“TV dei ragazzi” degli
anni ’70.
C’è un abisso
culturale con
ciò che mandano oggi in
televisione sia
in termini di
linguaggio
che di contenuti. Ora si
propina molta
sottocultura,
che è poi la
base dell’ignoranza, che
a sua volta non è la mancanza di cultura ma il cattivo utilizzo della stessa. Ecco perché oggi tutti
schiamazzano le loro idee pressapochiste su qualsiasi argomento e cominciano a disegnare la storia
a modo loro.
Il revisionismo è pericoloso perché riporta alla luce
situazioni che dovrebbero essere sepolte dalla storia. In un clima del genere è ovvio che attecchi-
CR: Credo che la situazione artistica e quella ambientale e sociale della mia
regione siano due cose diverse. In Puglia il fermento
creativo dipende secondo
me dagli input continui che
la nostra regione ha ricevuto dalle molteplici dominazioni storiche del
passato e dalle continue
migrazioni/immigrazioni del
nostro presente. Il confronto con realtà diverse
dalla propria produce stimoli che sono alla base di
un processo artistico e
questo fa della nostra ‘penisola nella penisola’ una
regione culturalmente valida.
Il resto è mero mercato.
Che si tratti di imprenditori
che tollerano la roulette
russa delle morti bianche
pur di non veder toccata la
loro produzione o che si tratti
di malavitosi che speculano sugli incendi nonostante deturpino la loro stessa regione, alla base
c’è il soldo.
Altra storia. Tutto ciò che può fare l’arte (anche se
non è necessario, è puramente una scelta individuale) è accendere i riflettori sul degrado.
È quello che tento di fare con Vieni A Ballare In Puglia, consapevole del fatto che in molti si sofferme-6-
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persone partecipano ai V-Day. Pensi che stia
veramente cambiando qualcosa nel nostro
Paese o siamo ancora i soliti italiani, sempre inclini alla lamentazione ma mai pronti a rinunciare al nostro piccolo orticello?
ranno solo sul ritornello e si metteranno a ballare
allegramente senza capire il senso di tutto il resto.
Sono rischi che corro dai tempi di Fuori Dal Tunnel,
d'altronde. Amo il rischio.
M. L.: Questione download libero e diritti d’autore. Ti senti danneggiato dalla libertà di scaricare gratuitamente la tua musica? Se fossi il
legislatore cosa proporresti per regolamentare
la faccenda?
CR: Spero che tutti gli acquirenti del libro “La
Casta” l’abbiano letto ma non sono così ottimista
dati i risultati delle ultime politiche. E comunque è
vero, gli italiani si lamentano di tutto ma sanno
agire (e anche violentemente), basta toccare la loro
squadra del cuore.
CR: All’inizio pensavo che tutti facessero come me,
che scaricavo tanto e compravo solo ciò che mi
piaceva. Poi ho scoperto che il prezzo del cd era
diventato un alibi, nel senso che i ragazzi scaricavano anche cd che costavano meno di dieci euro
ma continuavano a comprare scarpe che superavano i cento o ad entrare in locali con ingresso a
venticinque, guardaroba a dieci e cocktail a quindici. Il massimo del paradosso l’ho visto con l’operazione dei Radiohead che hanno messo in rete il
loro ultimo album ad offerta libera e molti loro fans
lo hanno scaricato da e-mule perché zero centesimi è sempre meglio di un euro. La cosa più divertente è che tutti i gruppi e i cantanti che conosco,
anche i più alternativi, scaricano a bestia ma vogliono pubblicare un cd fisico con una qualsiasi etichetta.
Per come stanno messe le cose oggi, è inutile nascondersi dietro un dito, più compri il cd legale di
un artista e più gli dai la possibilità di farne un altro.
Se fossi legislatore renderei masterizzabile il lavoro
del mio idraulico.
M. L.: Per finire, dopo averci atterrato facendoci
ricordare le disgrazie italiane, lasciaci un messaggio di speranza…
CR: Mmmh.. Tranquilli, stiamo meglio ora che nella
preistoria (almeno credo, non essendoci documenti
storici che possano verificare l’attendibilità di questa affermazione).
M. L.: Com’è il tuo rapporto con la SIAE? Se tu
dovessi intervistarne il direttore qual è la prima
domanda che gli faresti?
CR: Gli chiederei: signor direttore, come mai la
SIAE considera le suonerie al pari delle vendite on
line?
Perché non posso vietare alle aziende di vendere
la suoneria dei miei pezzi?
Perché nel 2008 non siete riusciti a trovare un sistema più efficace e meno macchinoso e falsificabile del bordereau scritto a penna? Perché vendete
i pacchetti degli sfruttamenti televisivi senza contattare personalmente gli autori?
Ho un centinaio di altre domande… ma ci metterei
una vita a scriverle.
M. L.: Viviamo un momento storico, in cui molti
nodi sembrano venire al pettine, in cui il best
seller del 2007 è stato “La Casta” e milioni di
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www.myspace.com/caparezza
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CAPAREZZA
LE DIMENSIONI
DEL MIO
CAOS
di Marco Leopizzi
01. La rivoluzione del sessintutto
02. Ulisse (you listen)
03. Non mettere le mani in tasca
04. Pimpami la storia
05. Ilaria condizionata
06. La grande opera
07. Vieni a ballare in Puglia
08. Abiura di me
09. Cacca nello spazio
10. Il circo delle pantegane
11. Un vero uomo dovrebbe lavare i piatti
12. Io diventerò qualcuno
13. Eroe (storia di Luigi delle Bicocche)
s14. Bonobo Power
Caparezza_voce; composiz; Gaetano Camporeale_tast, fisarm;
Alfredo Ferrero_ch, banjo; Giovanni Astorino_bs; vlc; Rino Corrieri_bt; Diego Perrone_vc (8); Eugenio Manassero_p (6;) Saverio
Squeo_tb (13;) Ministri_ospiti in 2; I Cantori Nesi_cori; Mihele di
Lernia_iettatore in 11; Stuzzy_vc femm. in 1;
personaggi: Cinzia Fiorato_cond. TG; Michele Kalamera_narratore;
Melissa Maccari_Ilaria; Franco Zucca_carcerato saggio; Dario
Penne_giudice; Pasquale Anselmo_Luigi delle Bicocche;
Christhian Lansante_Amico del circo; Davide Lepore_speaker radiofon.; Michele Salvemini_Caparezza
[EMI, 2008]
Capita a volte di ascoltare un disco poco prima di andare a dormire. Assolutamente sconsigliato con l’ultimo
di CapaRezza, l’eccitazione scatenata rischia di tener
svegli tutta la notte a rincorrere emozioni, ispirazioni,
idee ed incazzature varie invece che le solite zanzare
estive. “Le Dimensioni Del Mio Caos” è certo la sua
opera più riuscita, lucidissimo eppure fremente concept
(fonoromanzo come lui stesso lo chiama), il cui nucleo
narrativo è la vicenda di Ilaria, giovane hippie protagonista del movimento sessantottino riportata nel presente da uno «spazio varco temporale», generato dalla
«scarica dell’amplificatore» dopo che CapaRezza (coprotagonista del racconto) ha fracassato la sua chitarra
per celebrare il 40° anniversario dello storico concerto
romano, nel giugno del ’68 al Brancaccio, di Jimi Hendrix, che aveva inaugurato la stagione del grande rock
in Italia. La ragazza, dopo aver fatto invaghire il riccioluto per la sua anticonvenzionalità, si adegua però alle
comodità ed illusioni della modernità, finendo per sposare un meschino politico impegnato a costruire lo Spazio Porto Pugliese, una delle tante grandi opere inutili
(La Grande Opera), con il solo scopo di fare incetta di
voti. CapaRezza decide di cantare i mali della sua terra
(morti sul lavoro, disastri ambientali) nella devastante
ed esaltante Vieni A Ballare In Puglia, abilissima sintesi
quasi deandreiana tra musica d’autore e ritmo di tarantella, per la quale viene condannato per «vilipendio al
turismo di massa». Al lavoro per costruire l’opera c’è
Luigi delle Bicocche, un muratore che dopo aver cantato la sua storia in Eroe, ed esser diventato una rock
star, salverà l’umanità con la sua nuova arma, la chitarra elettrica, che introdurrà l’ultimo protagonista: il bonobo, una scimmia intelligente che... ah, già! è un
romanzo, non posso dirvi la fine. Accanto a questo filo
conduttore una serie di satelliti e temi collegati su cui il
rapper riflette. Dalla erotomania dell’apertura, a tempo
di energico rock pentatonico, alla repressione delle libertà dell’ottima Non Mettere Le Mani In Tasca, in cui
CapaRezza dà prova del suo ormai maturo stile rap
sprigionando una forza comunicativa a là Eminem, grazie alla metrica vorticosa ed al ritmo martellante dei
versi. Ed ancora, il rap secco di Pimpami La Storia incarna il pericoloso fenomeno del revisionismo storico, il
rock scarno Ilaria Condizionata le contraddizioni dei finti
giovani del 2000. Eroe, invece, è il momento lirico, introdotto da una malinconica melodia di tromba che sublima la disperazione dell’operaio italiano. Il linguaggio
caparezziano è infernale, nel senso dantesco. Il lessico
è infatti volutamente colorito e sguaiato (il che è anche
cifra del Rap), calibrato sui temi cantati (rifiuta i patetici
amoreggiamenti sanremesi) e disegnato con particolare
attenzione all’aspetto fonetico e ritmico delle parole. Ha
inoltre il coraggio di De André di trattare argomenti urticanti e la forza dirompente di Beppe Grillo nel comunicarli. Nei live è difatti presente anche una forte
componente teatrale e satirica. Il suo stile musicale si
evolve di pari passo. Con maturità affianca Rock, Rap e
Funk. Il disco, dunque, è deflagrante e la musica ha la
forza delle rivoluzioni pacifiche giovanili... e cosa diavolo devono fare i giovani se non le rivoluzioni?
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Radio su internet
V
Il mondo delle web radio only
di Antonio Marchello
mondiale. Ci entra dunque più come una necessità
che come una fonte di intrattenimento. La gente
aspettava con trepidazione il radio giornale per
sapere la situazione della guerra in Italia e nelle
altre zone del mondo e sarà proprio la radio a dare
la notizia ufficiale della fine della guerra. Oggi molte
di quelle voci sono contenute nella Discoteca di
Stato italiana a Roma, ma possiamo dire, con non
poco rammarico, che quelle testimonianze sono
spesso materiale inerte
per gli storici e i
sociologi che da
sempre hanno
trascurato, non tanto la
radio in sé per sé, ma
più in generale il ruolo
sociologico della
musica. Oggi la radio,
come ci dimostrerà
Fabrizio Mondo, ha
cambiato strada e allo
stesso modo delle
tante etichette
indipendenti, se non
addirittura degli artisti
che si autoproducono,
può essere fatto in
casa.
Un ennesimo regalo
della democrazia
insomma che per quanto possa essere definito una
fonte di libera espressione rimane comunque
vincolato al rispetto delle leggi, dal diritto
d’autore, alla trasmissione del servizio
pubblicitario, nonchè alla registrazione all’S.C.F.
(società consortile fonografici).
Oggi il numero delle web radio è aumentato in
modo esponenziale e sono aumentati anche i siti
che si occupano di suddividerle in generi e
modalità di trasmissione, come nel caso di
http://www.wrlspace.it che trasmette on web
direttamente dalla home page del sito 271 radio tra
cui radio gemelle delle già esistenti in FM e radio
web only come Radio Giovane Sicilia, della quale
lo stesso Fabrizio è ideatore e direttore, o come
Radio Padania Libera (e che ci vogliamo fare,
anche i figli della democrazia non sono poi così
perfetti). Un nuovo modo insomma di fare musica e
di approcciare con il mercato dell’arte…
Ve lo ricordate quando per fare la radio serviva
almeno uno spazio attrezzato di 300mq? E quando
Peppino Impastato poggiava la cornetta del
telefono sul microfono per far sentire le telefonate
in diretta? E ve lo ricordate quando lo speaker
guardava la regia al di là del vetro per farsi
passare le telefonate o per mandare un disco? Chi
lo avrebbe immaginato che dopo un secolo di storia
per fare la radio sarebbe bastato un portatile
collegato in
rete…quale rete
avrebbe subito
domandato
Marconi? Ma la
ragnatela di
internet,
risponderebbe
stupito il caro Bill
Gates.
Nella intervista
che abbiamo
pubblicato in
questo numero
abbiamo proprio
deciso di
incontrare uno dei
precursori di
questa
rivoluzione,
Fabrizio Mondo.
Fabrizio si occupa di web radio dall’età di
quattordici anni e a lui abbiamo chiesto cosa vuol
dire oggi fare la radio su web, cosa serve per farla,
ma anche quali vincoli legali è tenuto a rispettare
chi fa radio su internet.
Le prime web radio nascono circa 13 anni fa, nel
1995 con la prima release del software RealAudio
di Rob Glaser. Dal 1995 ad oggi possiamo dire che
tutte le Radio che trasmettono tradizionalmente in
FM ne hanno un’analoga gemella sul web, ma il
fenomeno interessante è proprio quello delle web
radio only, ovvero radio sconosciute alle frequenze
in FM, che trasmettono solo su internet.
Si sente spesso dire che la musica di oggi è
profondamente cambiata anche se, e questo non lo
si può negare, non crediamo realmente che sia la
musica in sé ad essere cambiata, ma il modo di
fruirla piuttosto. La radio nasce nel 1895, ma entra
nelle case negli anni della seconda guerra
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Incontro con Fabrizio Mondo
Ideatore e Direttore di Radio Giovane Sicilia
A
di Antonio Marchello
Abbiamo sempre sostenuto che la Sicilia si è rivelata negli ultimi anni una delle regioni più attente in Italia alla
musica e alla sua sperimentazione. Fabrizio Mondo, studente di Ingegneria Informatica, incubatore di web
radio, ideatore e direttore in Radio Giovane Sicilia, consulente informatico e progettista di radio su web ci
dimostra come anche sotto il profilo tecnico la regione più a sud d’Italia, in quanto a musica, rimane una
motrice. E’ interessante capire dalle parole di Fabrizio come nasce una Web Radio e come questo prodotto
può trasformare una passione in un lavoro.
Antonio Marchello – Fabrizio da quanto tempo ti
occupi di web radio e come hai scoperto questa
potenzialità della rete?
Fabrizio Mondo – Antonio io sono uno studente
universitario
iscritto alla
Facoltà di
Ingegneria
Informatica di
Palermo, che
dall'età di 14 anni
ha sempre avuto
una passione
(ereditaria
peraltro) per la
radio. Nel periodo
15/19 anni, ho
provato a fare
diversi provini per
radio in FM locali,
che purtroppo
non sono andati
come speravo, al
che decisi che se le altre radio non mi accettavano
dovevo costruirmi da solo la via d'ascolto.
Cominciai a studiare le radio su internet, e nel
biennio 2005/2006 passai il mio tempo a progettare
e potenziare la mia prima creatura, si trattava di
Radio Ingegnosa
(http://fabrymondo.wordpress.com/2006/12/26/stori
a-di-una-radio-amatoriale/).
Mi accorsi subito che un bel pò di gente mi
seguiva, quindi cominciai a “fare un pò di scuola”,
nel mio piccolo.
Dopo l’esperienza di Radio Ingegnosa, mi offrirono
la possibilità di fare radio in fm, perchè qualcuno
finalmente ebbe modo di sentirmi al lavoro.
Collaborai in alcune radio locali, e in una radio
pluriregionale e contemporaneamente, decisi di
aprire il mio blog su wordpress, e a spiegare un pò
la mia storia, quello che mi successe in questo
campo e a fare anche delle guide.
Le mie guide nel campo web radio, pur essendo un
campo super inflazionato, stavano andando bene
quindi decisi di dedicarmi principalmente all'attività
incubatore di web radio ovvero di consulente e
progettista di radio su web
trasformando una necessità
(dovere fare radio su internet
per farmi ascoltare) prima in
passione, poi anche in un
lavoro. Adesso faccio
saltuariamente il consulente
per enti, associazioni e
persone fisiche che vogliono
creare radio su internet
continuando comunque le mie
attività studentesche, ma la
mia intenzione è farla
diventare una professione
Attualmente dirigo una web
radio a Palermo, chiamata
Radio Giovane Sicilia,
attualmente in pausa estiva.
A.M. – Credo che negli ultimi anni sia cambiato
tantissimo il suo modo di fruire la musica. La radio
diventa popolare negli anni della guerra...perché?
Perchè la gente voleva capire come mutava la
situazione nel mondo e perchè voleva sapere se la
guerra stava davvero per finire davvero o no… Poi
nel dopoguerra diventa uno strumento legato al
passatempo e fino a qualche hanno fà era lo
strumento più usato nelle botteghe artigiane che
durante il lavoro ascoltavano la radio (così come
pure nelle grandi fabbriche tedesche).
Oggi la gente passa più tempo davanti ad un PC
che intorno ad un tavolo a parlare quindi la volgia di
alzarsi, accendere la radio, cambiare stazione gli
torna ddirittura impegnativa quindi direttamente dal
PC accede ad una radio su WEB. Questo sarebbe
un cambiamento sociologicamente parlando
davvero di notevole importanza.
Qual è la risposta del pubblico di fronte a questa
possibilità?
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F.M. – Innanzitutto ti dico che è cambiato
notevolmente, a mio parere, l'approccio con i
media, adesso non si ha più la modalità uno a
molti.. ovvero io trasmetto e tu vedi/senti/leggi
quello che dico io, ma una modalità molti a molti,
con ampia libertà di scelta.
Dal 2005 ad adesso, è cresciuto il numero di
ascoltatori, che selezionano la stazione in base ai
contenuti proposti, sono aumentate
esponenzialmente le web radio e i siti che si
occupano di catalogarle e raccoglierle (ad esempio
www.wrlspace.it). L'iniziativa web radio piace,
perchè viene vista come un attacco economico a
qualcosa che vedono come lontano e
irraggiungibile (la partecipazione continuativa ad un
palinsesto di radio in FM)
radio, ma hai un jukebox. Con soli questi tre
strumenti, puoi decidere al massimo l'ordine delle
canzoni, ma non puoi parlare. Per parlare è
necessario ALMENO un microfono, ma spesso non
basta neanche quello, specialmente se si vuole
parlare in due.
A.M. - Parliamo un attimo della normativa per le
web radio. Mettiamo il caso che domattina inizio a
trasmettere musica dal mio PC a tutto il mondo
utilizzando i tre strumenti base di cui
parlavi...Ovviamente non ho chiesto alcun
permesso…In cosa incorro?
F.M. - Facciamo un attimo una precisazione.
Creare una web radio non ha nessun vincolo legale
in se e per se. I vincoli nascono se si trasmette
musica coperta da diritto d'autore. Supposta questa
trasmissione occorre definire lo status della web
radio, ovvero bisogna porsi delle domande: la mia
web radio, trasmette pubblicità? E' di una persona
fisica, di una società? di un associazione? quanto
tempo trasmette?
Sono una parte delle biforcazioni necessarie
all'identificazione della TIPOLOGIA di web radio,
necessaria per capire, quali siano i costi necessari
per ottenere una licenza alla S.C.F. (ovvero una
società che ogni web radio deve pagare in quanto
tutela, sempre basandosi sulla legge del diritto
d'autore, non gli autori di un opera, ma chi ha
permesso la sua realizzazione.
A.M. – Cosa differenzia la programmazione di una
radio tradizionale da una web radio?
F.M. - : in teoria, l'unica differenza tra una web
radio e una radio analogica (fm/am) è il mezzo di
trasmissione, nel primo caso è la rete internet, nel
secondo caso l'aria. In pratica, le web radio sono
molto più amatoriali, create quindi da chi ha meno
soldi e meno esperienza di una società. Si denota
in una resa audio peggiore, in una peggiore
tempistica, dialettica, registro e tanti altri particolari;
ad esempio, una delle "regole" che ho dato agli
speaker di Radio Giovane Sicilia è quella di non
utilizzare per fini personali il canale trasmissivo, il
chè significa che gli speaker non devono MAI usare
la radio, rivolgendosi ad una singola person il che
non implica mancanza di interazione. Per esempio,
noi utilizziamo diversi contatti MSN, SKYPE e
telefonici per l'interazione mandando anche in
diretta chi ci contatta.
A.M. - In una radio tradizionale locale lo spazio
pubblicitario ha un costo che, per quanto contenuto
rispetto alle radio a tiratura nazionale, è cmq
alticcio. La pubblicità nella web radio riesce a
trovare spazi commerciali ugualmente redditizi?
F.M. - Dipende tutto dalla bravura del gruppo che
realizza la web radio. Ti spiego: La web radio è in
grado di monitorare l'ascolto in modo più preciso
rispetto ad una radio in FM, quindi presentando un
analisi dei grafici d'ascolto, le previsioni per il
periodo del contratto, un prezzo competitivo, e
muovendosi più in locale, una web radio potrebbe
avere sponsor pubblicitari. Non esiste difatti un
mercato per la pubblicità per radio web only. Posso
dire che finora, non ho trovato web radio con
pubblicità costante nel flusso audio, ma non
significa che non si possa fare. A settembre noi
cominceremo ad attuare questa linea, forse siamo
dei precursori…o forse no. Diciamo comunque che
per convincere è più opportuno mostrare i dati di
ascolto, e dire che il programma ha un determinato
target di ascoltatori, offrire anche il servizio di
realizzazione del jingle, che è importante…
A.M. – Immagina adesso di dover fare uno
schemino semplificaro nel quale mi dici cosa serve
per fare una web radio: strumenti essenziali…
F.M. – Non è una domanda semplice, perchè il
concetto di “essenziale” è ambiguo, tutto dipende
dal grado di "qualità minima" che per noi è
sufficiente. Per creare una web radio servono tre
punti: 1) Sorgente 2) Codificatore 3) Server. Nelle
web radio più amatoriali, essi sono racchiusi in un
unico computer ma non è sempre cosi.
Questi tre punti, che sono tre software, sono
sufficienti a trasmettere musica nel mondo, avendo
chiaramente una connessione ad internet. Nella
concezione più basilare e semplicistica i tre punti
hanno i seguenti nomi:
1) Winamp 2)Plugin DSP (digital signal processor)
per winamp 3)Server shoutcast/icecast.
Questi tre programmi sono sufficienti a trasmettere
musica, ma in questa situazione, non hai una web
http://fabrymondo.wordpress.com/
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Musica nella mia seconda vita
Viaggio nella musica di Second Life
F
di Antonio Marchello
mie credenziali e mi sono
catapultato nella mia
seconda vita. Ero in un
mondo per me sconosciuto
fatto di “avatar”, ovvero
automi comandati da esseri
umani. Le funzionalità di
questo software mi hanno
lasciato senza parole,
potevo modificare il mio
avatar in modo così
dettagliato da poterlo
riprodurre a mia immagine
e somiglianza e potevo
parlare con gli altri avatar in modalità classica
“chat” o in “real voice” semplicemente abilitando il
mio microfono. La fortuna ha voluto che incontrassi
un’italiana alla quale mi sono aggrappato per
chiedere spiegazioni. Io ero lì per assistere, il
giorno dopo, ad un concerto. Ma come si fa un
concerto in un’altra vita? Ovviamente il mio primo
pensiero è stato quello di capire se il concerto si
sarebbe concretizzato in diretta o se sarebbe
andata in onda (diciamo così) una registrazione. Va
da se che la seconda opzione era quella meno
interessante. La mia doppia fortuna è stata che la
nostra amica era anche una “referente di land” che
peraltro organizzava abitualmente concerti e
manifestazioni di ogni genere. Probabilmente
adesso vi sto realmente confondendo le idee ma
ho preferito presentarvi il mio primo approccio con
Second Life così
come l’ho vissuto
in prima persona.
Cerchiamo ora di
riordinare il tutto
e di capire com’è
strutturato
Second Life.
Second
Life è un mondo
virtuale
completamente
slegato dalla vita
reale. Il mondo di
SL è suddiviso in
“land” ovvero
delle terre di
proprietà privata
sulla quali si può
Friederich Nietzsche diceva
che «il futuro influenza il
presente tanto quanto il
passato» ma mi chiedo cosa
direbbe del nostro futuro oggi
in caro Nietzsche, qualora gli
venisse offerta la possibilità
di viversi la sua…seconda
vita. La storia della mia
'seconda vita' inizia non
meno di tre settimane fa.
Non avete capito male ho
proprio detto 'seconda vita'.
Inizialmente pensavo ad un
banale gioco, una sorta di TheSims della rete (per
chi conoscesse questo simpatico gioco) ma più mi
sono addentrato in questo nuovo mondo più ho
capito che la faccenda si faceva seria, nonché
interessante. Facciamo un passo indietro nel
tempo. Tre settimane fa circa il caro amico Walter
Savelli, impegnato da quarant’anni nel campo della
didattica pianistica, mi ha inviato una mail
invitandomi al suo primo concerto su Second Life.
Dopo l’intervista a Walter, pubblicata nel nostro
numero di Aprile, mi sono molto legato al suo
progetto di musicista ed esperto della rete così non
volevo mancare a questa sua ennesima sfida. Ora
però c’era da capire cosa fosse Second Life.
Inizialmente ho pensato ad una web TV (Walter
non è nuovo a queste esperienze visto che da poco
ne ha aperta una tutta sua) ma da una semplice
ricerca su Google ho capito
subito che avevo imbroccato
la strada sbagliata, così,
visitando il blog di Walter ho
trovato le istruzioni per il
primo accesso in Second.
Ho seguito alla lettera le
istruzioni che Giulia Bigi
(riferimento tecnico) aveva
pubblicato sul blog di Walter
ottenendo un nome utente e
una password. Dove dovevo
inserire le credenziali del mio
profilo? Ho scaricato la
versione gratuita del
software di Second Life e al
termine del download ho
istallato e lanciato il
programma, ho inserito le
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Visto che ritenevo fondamentale questa premessa
per quanti non conoscessero SL ora posso tornare
al punto di partenza ovvero il nostro primo concerto
in SL. La mia preoccupazione era quella di capire
se il concerto sarebbe stato un live o piuttosto una
registrazione mandata attraverso i
canali di SL e la nostra amica mi ha
spiegato che il concerto sarebbe
stato live. Il musicista ha
semplicemente bisogno di una
postazione informatica alla quale
collegare il suo strumento o l’uscita
del suo mixer, corredata da un
appropriato software per lo
streaming audio, poi sarà cura
dell’owner della land offrigli un
canale per trasmettere la sua
musica in modalità live. La nostra
amica ha provveduto poi a curare
almeno un po’ l’aspetto estetico del
mio avatar perché, è vero che
siamo in un mondo virtuale, ma
anche qui le consuetudini della vita
reale non sfuggono e non ci si può
presentare ad un concerto per
pianoforte in jeans e canottiera.
Il concerto di Walter Savelli era
promosso dalla land NUOVA
SICILIA che ha voluto ospitare
Walter in una cornice stupenda, un
palco sul mare con il pubblico
piazzato su piattaforme cilindriche
nel mare. Quello che vi assicuro è
che la sensazione è stata davvero
molto 'nuova'. Oggi più che mai la
musica si può ascoltare in migliaia
di modi ma credetemi che assistere
al mio primo concerto su SL,
vedere un avatar suonare su un
palco sapendo che la cosa stava
succedendo davvero, e il tutto con
una qualità audio ottima…mi ha
fatto anche un certa impressione.
Mi sono ritornate alle mente le nozioni di
discografia musicale. Mi sono un po’ sentito come
di fronte ad un nuovo supporto musicale, non più
tangibile come il compact disc o la “chiavetta USB”
ma un supporto che sa tanto di ritorno alla origini,
cioè la musica nei concerti dal vivo, proiettata in
una nuova dimensione.
girovagare in piena libertà. La registrazione che ho
effettuato per accedere a SL è stata gratuita perché
prevedeva il “pacchetto base”, ovvero la creazione
di un unico avatar. Se avessi voluto creare una
mia “land” avrei dovuto usufruire di un pacchetto
superiore a quello base che
prevede un pagamento in
denaro, siamo nell’ordine
dei 1.500€ per l’acquisto di
una land più 350€ al mese
per mantenerne la proprietà.
Chi è proprietario di una
land ne dispone a suo
piacimento e potrebbe
anche decidere di venderne
anche solo una parte,
definita in gergo di SL
“parcel”. Sarebbe ora
importante capire quali sono
le potenzialità di una land (o
di una parcel)? O meglio:
perché dovrei spendere tanti
soldini per avere una mia
land? Nel momento in cui
divento proprietario di una
land potrò organizzare
concerti, giochi,
manifestazioni, promuovere
libri, e fare attività
pubblicitaria, quindi, se sono
un bravo OWNER (si
chiamano così i proprietari
di una land) potrò anche
trarre profitto da questo mio
lavoro. In che modo? Come
ogni vita che si rispetti
anche SL ha una sua
moneta: le “linden” L$. Qual
è la particolarità delle
linden? Che da denaro
virtuale si possono
trasformare in moneta reale.
Per effettuare la
trasformazione basta essere forniti di un sistema di
pagamento paypal che nella sua forma più
semplice si traduce in PostePay. 1.000 L$, ad
esempio valgono 4,09 Dollari che in euro vuol dire
2,7€. Quando la mia attività raggiunge un numero
di L$ cospicuo posso effettuare la trasformazione
delle L$ in euro versando il denaro sul mio
postepay. Una delle attività di maggior profitto in
SL, a detta degli owner che ho intervistato nei
giorni precedenti al concerto, deriva proprio
dall’organizzazione di eventi musicali come quello
al quale ho assistito in prima persona il 22 Maggio.
www.secondlifeitalia.com
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Sound
Res
musicaround.net
2008
Un ponte tra
New York e Lecce
di Marco Leopizzi
foto_Carlo Elmiro Bevilacqua
Chi ha detto che la cornice ideale per il Minimalismo musicale è la metropoli americana? Sound
Res dimostra ogni anno di più che il Barocco leccese è assai accogliente, non solo per i musicisti
ma anche per la loro musica. Nella regione salentina si sta sviluppando anche una cultura ‘contemporanea’ che fa il paio con il revival popolare, il
quale pur con tutte le contraddizioni che lo distinguono ha fatto conoscere la musica popolare (o
quello che ne rimane) al mondo intero. Due fenomeni socio-musicali apparentemente contrapposti
ma che invece si muovono nella medesima direzione: la riconquista della giusta centralità della
musica in Terra d’Otranto, recuperando le proprie
radici da un lato, assorbendo un’esperienza avanguardista d’oltreoceano dall’altro.
Nell’ultimo caso siamo in presenza di un potenziale
processo di acculturazione musicale [integrazione
della propria cultura con un’altra, nda], fenomeno
ben conosciuto dagli antropologi e che nella storia
della musica ha spesso dato vita ad importantissime trasformazioni, basti pensare alla diffusione
del Jazz in tutto il mondo, dalla Scandinavia al
Giappone, dall’Africa alla Russia. Certo, è presto
per dire se la presenza annuale di musicisti del-
l’avanguardia statunitense produrrà effettivamente
un tale risultato nel Salento. Un festival non basta,
anche se ospita Terry Riley e i Bang On A Can All
Stars. C’è bisogno della partecipazione attiva delle
istituzioni, prime fra tutte il Conservatorio e l’Università. Ruolo non meno importante devono assumere
le realtà culturali che a vario titolo operano in loco.
Una delle maggiori novità dell’edizione 2008 di
Sound Res (che non è un semplice festival ma un
programma di residenze artistiche e summer
school) è proprio questa, il lavoro di rete e networking, che coinvolge le realtà locali più interessanti,
mettendole in connessione con quelle nazionali ed
internazionali. Anche per questo il programma di
residenze è stato scelto dagli osservatori del Sole
24 Ore e di Nova Magazine come proposta di innovazione e di eccellenza all’interno del progetto
Lecce Città Illuminata.
Così, l’etichetta 11/8 Records è stata coinvolta in
un progetto discografico riguardante i concerti del
2008 ed il materiale migliore delle cinque edizioni
del festival, a cui Cesare Dell’Anna, fondatore dell’etichetta, ha spesso preso parte come musicista
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musicaround.net
mente giunta alla stesura definitiva. Riley e i Bang
On A Can, infatti, vi hanno lavorato assieme durante la residenza di Sound Res, e la composizione
verrà presentata il prossimo novembre a New York,
dove sarà registrata dall’etichetta discografica Cantaloupe Music, per la coproduzione Sound Res e
Bang On A Can. Il livello discorsivo dei testi non si
amalgama ancora alla perfezione con la parte musicale che è invece d’impatto e spesso raffinatissima, e in cui l’estetica rileyana si fonde con quella
del sestetto americano. Così la ripetitività di alcuni
frammenti melodici, l’amore per la musica indiana,
le caratteristiche esecutive vocali del raga sono riPalazzo Ducale, S. Cesario
di Lecce, 07 giugno 2008
ospite. Il regista Mattia Epifani sta invece lavorando ad un film documentario che, a partire dalle
riprese delle edizioni 2007 e 2008 nel Salento, lo
ha portato a New York dove ha seguito il direttore
artistico David Cossin e con lui ha incontrato i luoghi e i protagonisti della musica contemporanea. Il
film, di cui si prevede l’uscita nel prossimo autunno,
è una collaborazione Sound Res, Centro Studi
Nuovi Media e Verdeoro Production.
Radio Popolare Salento ha seguito tutta la manifestazione raccontando giorno per giorno gli eventi,
e trasmettendo le originali cartoline sonore realizzate dalla giornalista radiofonica Anna Raimondo
(ascoltabili su www.radiopopolaresalento.it/?p=299)
e diffuse anche da Radio Circulo di Madrid.
SalentoWeb Tv ha prodotto un video del concerto
del 12 giugno
(www.salentoweb.tv/Internet/categoria.asp?idC=50)
in occasione della prima mondiale di “Autodreamographical Tales”, l’opera di Terry Riley realizzata durante la residenza e arrangiata per
l’irrequieto ensemble newyorkese Bang On A Can
All Stars.
La composizione è una trasposizione in musica di
alcuni sogni di Riley, nata dalla richiesta di una
radio californiana di documentarli. I suoi viaggi onirici rappresentano ora la traccia narrativa attraverso cui si dipana una matassa sonora complessa
e magmatica: flussi continui a tratti irrazionali e intensissimi, altri delicatissimi e in forma canzone,
che dimostrano oltre alla matrice onirica l’altissimo
livello esecutivo dell’ensemble, capace di ampi
scarti dinamici e di un espressionismo toccante.
Una decina di racconti, alcuni dei quali letti in italiano, in forma discorsiva. È forse questa, ancora,
l’unica pecca dell’opera che però non è probabil-
disegnati all’interno di arrangiamenti costantemente
in equilibrio tra musica classica (dinamiche, tecniche strumentali e timbri), Jazz (improvvisazione e
swing del ritmo) e Popular Music (tecniche e gusto
Rock della chitarra di Mark Stewart, forme canzone
che ricordano le song americane).
Molto apprezzato anche il concerto del 7 giugno,
all’interno del chiostro del Palazzo Ducale di San
Cesario di Lecce. I Bang On A Can hanno eseguito
nella prima parte un repertorio di grande presa sul
pubblico, con brani dei compositori contemporanei
Tan Dun (“Concerto For Six”), Colon Nancarrow (“4
Studies For Player Piano”) ed Hermeto Pascoal
(“Arapua”), dal ritmo intenso e travolgente, spesso
carichi di feeling afroamericano. Alla band si sono
aggiunti poi per l’esecuzione di “In C”, l’opera di
Riley manifesto del Minimalismo, lo stesso compositore californiano e i musicisti leccesi Cesare
Dell’Anna e Mauro Tre.
Non meno ricca è stata la Summer School, caratterizzata da tre seminari/performance. Nel primo
Robert Black, contrabbassista dei Bang On A Can,
ha analizzato, in un percorso d'ascolto guidato sul
repertorio (e sulla tecnica) per contrabbasso nel
corso del XX sec., brani di compositori come
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musicaround.net
Puglia e dall’Italia, brindisino d’origine, da anni vive
e lavora ad Amsterdam) che oltre ai dialoghi sul nomadismo, terrà il 2 e 3 agosto un workshop pratico
per danzatori professionisti e non, un’occasione
unica e quanto mai rara per lavorare con uno dei
più grandi e riconosciuti maestri della danza contemporanea.
Il cartellone di Sound Res si fa dunque sempre più
prezioso e stimolante per il territorio; bisogna sperare ora che artisti, musicisti, operatori culturali e
pubblico sappiano far tesoro del confronto con i
grandi compositori ed artisti, rielaborando la loro lezione per integrarla al proprio sentire artistico e,
magari, sviluppare un peculiare movimento che
abbia come nuovo punto focale la città pugliese.
www.soundres.org
www.radiopopolaresalento.it
www.salentoweb.tv
www.terryriley.com
www.bangonacan.org
Castello Carlo V, Lecce,
seminario Terry Riley,
11 giugno 2008
Palazzo dei Celestini, Lecce, prima
mondiale di “Autodreamographical
Tales”,12 giugno 2008
James Tenney, Iannis Xenakis e Giacinto Scelsi.
Evan Ziporyn, invece, per il clarinetto, si è concentrato sui suoni ‘nascosti’ e sulle possibilità multifoniche del suo strumento, mentre Terry Riley ha dato
diretta dimostrazione del suo percorso musicale
eseguendo un raga indiano (con impeccabile tecnica vocale) ed una nuova composizione per piano
solo, e rispondendo alle domande dei partecipanti.
Tra luglio e settembre, la seconda parte della manifestazione diventerà multidisciplinare e si concentrerà sul progetto Nomadi in Residenza, intorno al
tema delle «pratiche culturali nomadiche, della trasformazione delle identità attraverso l'arte e della
dimensione glocale delle idee e dei sistemi».
Questioni che saranno sviscerate in una serie di
conversazioni pubbliche durante la residenza dell’artista albanese Adrian Paci, della curatrice rumena Katia Anguelova, del direttore di progetti di
residenze e curatore Gordon Knox, del coreografo
e danzatore Emio Greco (tra i grandi ‘esiliati’ dalla
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Il Guru del Minimalismo
musicaround.net
intervista a
Terry Riley
di Marco Leopizzi
foto_Carlo Elmiro Bevilacqua
Celebre e celebrato per l’opera manifesto del Minimalismo musicale, “In C” (1964), Terry Riley è in realtà una personalità musicale assai ricca e
sfaccettata, spregiudicatamente californiano. Dopo
gli studi e le prime opere sotto l’influsso di Stockhausen incontra, già nel ’59, il compositore La
Monte Young, da cui assorbe la lezione, e comincia
a sviluppare la tecnica delle piccole frasi ripetute
(“String Trio”, 1961). Entra poi a far parte del San
Francisco Tape Music Center, cominciando a sperimentare con i loop su nastro, e contemporaneamente compone la musica per i balletti della
coreografa Ann Halprin (“The Three-Legged Stool”
che più tardi diventa un pezzo da concerto, “Mescalin Mix”, tra le sue pagine più famose). Giunto in
Europa si sposta tra Spagna, Francia, Germania e
Finlandia, finendo per scrivere la musica per
l’opera drammatica “The Gift” (‘63) di Ken Dewey,
prima composizione ad utilizzare il Time Lag Accumulator (un sistema con due tape recorder Revox
per il delay e il feedback) e basata sulla registrazione di un’esecuzione di Chet Baker del famoso
brano modale di Miles Davis, So What. Sono queste le esperienze che gli permettono di elaborare il
concetto di ‘ripetizione’ sublimato l’anno successivo
in “In C”, in cui 53 brevi frasi melodiche sono ripetute ad libitum da ogni strumento, generando così
sempre nuove sovrapposizioni melodiche, armoniche e ritmiche. “In C” definisce i canoni del Minimalismo e allo stesso tempo lo fa conoscere al grande
pubblico. Ritornato negli USA, Riley comincia ad introdurre parti improvvisate nelle sue composizioni
(“A Rainbow In The Curved Air”, da cui trae il nome
la band rock Curved Air e che ha ispirato gli Who
nei brani Won't Get Fooled Again e Baba O'Riley, e
“Poppy Nogood And The Phantom Band”). All’inizio
dei ’70, invece, Riley, grazie al suo maestro Pandit
Pran Nath, trova nella musica indiana la sua strada
e vi si immerge per un decennio, studiandone profondamente la tradizione, tanto che ancora oggi le
sue opere ne sono largamente segnate. Successivamente lavora a lungo con il Kronos Quartet, scri- 17 -
vendo diversi quartetti per archi tra cui il famoso
“Sun Rings” del 2002. Tra i lavori drammatici particolare spessore assume “The Saint Adolf Ring”,
un’opera multimediale del ’92 ispirata alla figura del
poeta schizofrenico svizzero Adolf Woelfli. Il prolifico compositore americano (proprio mentre scrivo
compie 73 anni), dopo aver influenzato flotte di musicisti, dai colleghi minimalisti fino a gruppi rock, è
ora al lavoro con la sua nuova opera “Autodreamographical Tales”, generata dai propri sogni e
presentata in prima mondiale il 12 giugno al pubblico salentino, durante la quinta edizione di Sound
Res.
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sica fosse simile alla combinazione di orbite diverse.
Marco Leopizzi: Per cominciare, ci parla della
sua esperienza con il San Francisco Tape Music
Center e con la Tape Music in generale?
M. L.: Come si è avvicinato, invece, alla musica
indiana e come ha influito sulla sua arte?
Terry Riley: Il San Francisco Tape Music Center fu
fondato [nel 1962, ndr] da Morton Subotnick,
Ramon Sender e Pauline Oliveros, e la mia esperienza con i tape loop fu quella di comporre assieme a La Monte Young le musiche per i balletti
della coreografa Ann Halprin. Ho trovato me
stesso. A quei tempi il nastro era l’estensione della
musica suonata, ed erano tempi molto eccitanti
perché non c’erano ancora i sintetizzatori e i computer ma solo un nastro.
T. R.: La musica indiana è arrivata nella mia vita
grazie a Pandit Pran Nath, un grandissimo cantante indiano che incontrai nel 1970. Era un fantastico performer e compositore e portava con sé la
più profonda ed antica tradizione della musica classica indiana, e questa tradizione aveva idee molto
simili alle mie sulla mia musica. La musica indiana
è molto legata al mood, agli umori, a loro volta relativi ai differenti momenti del giorno, per i quali infatti
ci sono rāga diversi. È molto importante tener conto
degli stati psicologici.
M. L.: Fu questa esperienza ad ispirarle il concetto della ‘ripetizione’ che la portò a comporre
il capolavoro “In C”? E cosa rappresenta per lei
questo concetto?
M. L.: Con i Kronos Quartet è invece ritornato
alla dimensione ‘occidentale’ della musica.
Come ha adattato ciò che aveva acquisito dalla
musica indiana alle composizioni per i Kronos?
T. R.: È vero, fu il lavoro con i loop a portarmi a
scrivere musica basata sulla ripetizione. Cominciai
a sviluppare diverse tecniche usando nastri di lunghezze differenti che giravano contemporaneamente. Ma iniziai anche a pensare alla somiglianza
con il modo in cui i pianeti ruotano attorno al sole
su diverse orbite. Cominciai a pensare che la mu-
T. R.: Quando li incontrai i musicisti del Kronos
Quartet erano molto giovani e stimolanti, e io non
scrivevo più musica da dieci anni, dai ’70. Mi ero
dedicato soprattutto alla musica indiana ed alle improvvisazioni per piano. Ciò che è accaduto con i
Kronos è stato probabilmente un ritorno alla notazione, e un ripensamento della combinazione tra
musica occidentale e musica orientale, trovando le
similitudini e le divergenze.
M. L.: Infine, “Autodreamographical Tales”. Ci
racconti la sua nuova opera e l’esperienza di
Sound Res.
T. R.: “Autodreamographical Tales” è nata per la
commissione di una radio californiana, che mi
chiese di scrivere un pezzo di mezzora che integrasse musica e parole. A quell’epoca tenevo un
diario dei sogni su cui ogni giorno annotavo ciò che
avevo sognato, ho usato questa base per l’opera
aggiungendoci dei suoni. Quando l’anno scorso
feci ascoltare la musica ad Evan Ziporyn, [dei Bang
On A Can All Stars, ndr] lui mi chiese di scrivere un
pezzo intero per eseguirlo dal vivo con il sestetto.
Abbiamo cercato a lungo un luogo in cui lavorare
assieme e quando ho saputo da David Cossin che
c’era la possibilità di venir qui nel Salento ho accettato molto volentieri.
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www.terryriley.com
www.myspace.com/terryriley1935
Dagli USA a Bali
e ritorno
musicaround.net
intervista a
Evan Ziporyn
di Oscar Cacciatore
Dal 1992 è il clarinettista dei Bang On Can All
Stars, con loro ha compiuto tournée in tutto il
mondo ed oggi è arrangiatore e compositore dell’ensemble. Ma Evan Ziporyn è anche insegnante
del Massachusetts Institute of Technology dal
1990, e nel 1993 ha fondato il Gamelan Galak Tika,
un gruppo di danza e musica balinese, di stanza a
Boston, che interpreta le nuove composizioni di artisti americani e balinesi.
Ha scritto, inoltre, per il Kronos Quartet, il Boston
Modern Orchestra Project, il Gamelan Sekar Jaya
e molti altri musicisti, lavorato con Philip Glass, Meredith Monk, Terry Riley, Tan Dun, Ornette Coleman, Don Byron, Cecil Taylor, Henry Threadgill,
Steve Reich, arrangiato le opere di Brian Eno, Conlon Nancarrow, Hermeto Pascoal e, addirittura, Kurt
Cobain. Sperimenta regolarmente sul suo strumento nuove tecniche, di cui ha parlato durante il
seminario Il Mondo Respirato Coi Clarinetti per
Sound Res 2008.
Oscar Cacciatore: Quest’anno sei stato premiato con l’USA Artists Award: di che si tratta?
foto_Christine Southworth
Evan Ziporyn: È solo il secondo anno che esiste
questo premio; ne conferiscono uno a cinquanta artisti l’anno ed io sono stato il secondo nell’ultima
turnazione a riceverlo: si è trattato, in sostanza, di
una somma in denaro che, sinceramente, mi ha
aiutato moltissimo permettendomi, fra le altre cose,
di saldare alcuni dei miei debiti [ride di gusto]; poi,
ho finanziato delle produzioni teatrali e ho comprato della nuova strumentazione. Dovrebbe es-
sermi rimasto ancora qualcosa in tasca [a questo
punto, ridiamo entrambi]...
O. C.: Ne parlavamo anche ieri con Robert:
quale pensi sia lo scopo principale delle avanguardie musicali oggi? Come trovi, in particolare, la situazione italiana?
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musicaround.net
E. Z.: Sinceramente, non conosco nel dettaglio la
‘situazione’ italiana ma credo che, in generale, oggi
l’avanguardia stia attraversando una fase di ‘crisi’,
ma si tratta di una crisi davvero affascinante!
O. C. E ritieni che questo possa esser fatto
anche attraverso la ‘categoria’ tempo?
E. Z.: Certamente sì! Per esempio, i pezzi per
piano player di Nancarrow [Samuel Conlon Nancarrow, compositore americano (1912-1997), nda] che
abbiamo eseguito l’altra sera, composti fra gli anni
’30 e ’40, sono stati prima da noi arrangiati in modo
da poterne trasmettere più o meno fedelmente il
messaggio musicale originario. È un po’ quello che
accade oggi quando si legge o si interpreta un
passo di Shakespeare: non abbiamo più a che fare
con la situazione storica dell’autore ma operiamo in
un ‘ambiente’ di fruizione più ampio, ricostruito appositamente per svolgere una funzione esegeticocomunicativa più efficace.
O. C.: Spiegati meglio.
E. Z.: Beh, venticinque anni fa c’era un’idea di
avanguardia, per diverse ragioni culturali. Oggi, in
qualche modo, i risultati della sperimentazione e
della ricerca sono stati messi in crisi perché, essenzialmente, viviamo in un contesto sociale in cui assume valore ai massimi livelli ciò che fa muovere
l’economia e che produce guadagni. Oramai ci
siamo abitutati, dato che tale è la situazione vigente negli Stati Uniti da svariati anni a questa
parte.
O. C.: Sembra
uno scenario realmente drammatico... E
l’elemento ‘affascinante’ al quale
accennavi?
O. C.: Mi preme
un’ultima curiosità: per il tuo lavoro utilizzi le
nuovissime tecnologie oppure prediligi una scrittura
di tipo tradizionale?
E. Z.: Nello stesso
tempo, però, c’è un
altro aspetto molto
importante della vicenda: il crollo
delle grandi case
discografiche. Questa ‘svolta’ ha permesso agli artefici
di musica meno
commerciale di potersi costruire una
propria audience. Certo, resta sempre abbastanza
difficoltoso catturare l’attenzione della gente ma il
pubblico di oggi è in ogni caso più aperto rispetto a
quello degli anni Ottanta.
E. Z.: No, utilizzo il
computer. Devo
dire, però, che lo
trovo comodo soprattutto quando
compongo musica
per apparecchiature
elettroniche e per
robot, della cui costruzione si occupa
solitamente la mia compagna Cristine. Ho anche
scritto un articolo in cui indagavo i rapporti col PC
da parte di altri compositori, ovviamente appartenenenti alla mia stessa generazione, l’ultima ad apprendere la modalità di scrittura tradizionale e la
prima ad utilizzare il computer. Cerco comunque di
non commettere mai l’errore di credere che il risultato restituito dalla macchina sarà poi anche lontanamente simile ad una stesura finale; è un po’
come scrivere la musica per un film: non sarà mai
assolutamente come avere il film già realizzato in
testa. Per questo motivo, penso che l’uomo non
potrà mai essere sostituito dalle macchine!
O. C.: Quale posizione assume, nella tua opera,
la ‘trasfigurazione’ del repertorio?
E. Z.: Ho trascorso molto tempo studiando sul
posto il ‘bagaglio’ musicale di altre culture, come ad
esempio quella balinese ed africana, osservando
l’effetto prodotto dopo averne estrapolato dal contesto di formazione originario e trasportato in altri
‘luoghi’ i caratteristici elementi configurativi: con il
progetto BOACAS ci occupiamo regolarmente di
questa pratica.
www.ziporyn.com
www.myspace.com/evanziporyn
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Il principe del
contrabbasso
musicaround.net
intervista a
ROBERT
BLACK
di Oscar Cacciatore
trad. Alessandra Pomarico
Musica classica orchestrale e da camera o per computer, esibizioni soliste con attori o balletti, estemporanee
di pittura o ensemble d’avanguardia è sempre lui, Robert Black, impeccabile contrabbassista dei Bang On A
Can All Stars (d’ora in avanti BOACAS). Tecnica raffinata e moderna, preparazione musicale profonda Black
ha lavorato, tra i tanti, con John Cage, D.J. Spooky, Elliott Carter, Terry Riley, Meredith Monk e Cecil Taylor,
con gli ensemble da camera Ciompi e Miami String Quartets, l’attrice Kathryn Walker e il pittore brasiliano Ige
D'Aquino. Svolge intensa attività didattica in diverse scuole americane tra cui la Manhattan School of Music.
Nella V edizione di Sound Res ha tenuto un seminario sul repertorio e sulla tecnica per contrabbasso del XX
sec., dal titolo esplicito The Unknown Doublebass.
Oscar Cacciatore: Tu vanti, come del resto tutti
i membri del BOACAS numerose collaborazioni
ed esperienze musicali al di fuori dei confini
prestabiliti ‘di genere’. Cosa ti guida, solitamente, nelle scelte artistiche?
Robert Black: Quello che facciamo con i BOACAS
è cercare persone che producano un lavoro molto
interessante nel loro genere: in questo modo capiamo se loro, eventualmente, potrebbero essere
poi interessati a collaborare con noi. Chi sa cosa
può succedere quando si combina l’ensemble del
BOACAS con, ad esempio, un percussionista birmano oppure, come in questo caso, un compositore del calibro di Terry Riley? Nessuno. Ed è
proprio questo il bello...
O. C.: Allora da qui parte la vostra personalissima ‘ricerca’…
R. B.: Certamente! Devi sapere che tutti i componenti del nostro gruppo hanno interessi in molteplici
campi, tutti noi amiamo la musica d’avanguardia, la
musica classica, il jazz, le produzioni di famosi dj;
perché, allora, non collegare fra loro tutte queste
influenze e scoprire ciò che ne potrebbe venir
fuori?
foto_Kevin Wilkes
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musicaround.net
O. C.: L’ironia mi è sembrata una costante imprescindibile nelle vostre esibizioni: mi riferisco
soprattutto a quando, durante il concerto, hai
finto che il contrabbasso ti scivolasse dalle
mani...
[l’ultima è avvenuta il 3 giugno di quest’anno al
Winter Garden, ndt]! Queste sono tutte eccezionali
strategie di avvicinamento al pubblico che, noi organizzatori [di Sound Res, nda], abbiamo preso in
parte come modello!
R. B.: Ah, già, certamente...[ride di gusto, nda].
Vedi, nei BOACAS siamo tutti molto seri nei riguardi del nostro lavoro, però allo stesso tempo
non vogliamo essere autoreferenziali. In ogni caso,
ci piace comunque divertirci: credo sia molto importante questa ‘dimensione del piacevole’, questa nostra interfaccia ‘ludica’.
R. B.: D’altra parte, visto soprattutto che i canali
‘ufficiali’ non intendevano darci alcuno spazio, abbiam dovuto fare tutto da soli! Ci siamo detti «inventiamo noi dei sistemi adatti per raccogliere fondi
ed essere così in grado di commissionare dei nuovi
brani». Lo stesso discorso è valso per le etichette
discografiche, non interessate al nostro lavoro: abbiamo perciò creato appositamente una nostra etichetta [la Cantaloupe Music, nda]. In pratica, ogni
ostacolo che sorgeva lungo il cammino diveniva un
incentivo a proseguire con sempre maggiore determinazione!
O. C.: Immagino che questi elementi favoriscano anche la comprensione del ‘nuovo’ da
parte del pubblico.
R. B.: Sono d’accordo. Considera, inoltre, che sia
la didattica tradizionalista sia l’approccio di tipo
‘storico’ tramandano questa ‘leggenda’ che la gente
non ami la musica contemporanea: niente di più
falso! Esiste eccome questo tipo di pubblico...
L’unico ostacolo alla fruizione è costituito dalle difficoltà d’accesso, dal ricreare le giuste situazioni ed
opportunità. Credo che questo sia stato uno degli
scopi raggiunti dal BOACAS. Quando ventidue anni
fa è comiciato il lavoro con l’ensemble a New York,
ci si è resi subito conto che il grande assente era
proprio il pubblico della musica contemporanea,
mentre tutti gli altri tipi di spettacolo d’’avanguardia’
come balletti, performance teatrali e mostre d’arte
erano frequentatissimi. Abbiamo cercato perciò, fin
da allora, di ricreare dei contesti e degli spazi adatti
a questo scopo.
Alessandra Pomarico (direttrice artistica di Sound
Res e traduttrice di questo servizio): A tal proposito,
vorrei ricordare che i BOACAS hanno attivato delle
nuove ed efficacissime modalità di fruizione. Ad
esempio, hanno istituito un fondo per commissionare nuovi lavori ai giovani compositori: le migliori
opere poi, scritte per il BOACAS, saranno eseguite
dallo stesso ensemble nel corso di un festival
creato appositamente per l’occasione. In questo
modo moltissimi famosi musicisti hanno composto
per loro come Dj Spooky e Sonic Youth, giusto per
citarne alcuni. Il gruppo ha poi realizzato anche una
“Summer Institute School” che, sviluppata lungo tre
settimane di seminari intensivi con partecipanti da
tutto il mondo, ospiterà volta per volta in residenza
un artista particolarmente ‘illuminante’ e tutti quanti,
‘studenti’ e musicisti, si lavorerà direttamente in una
maratona annuale di musica non stop 24 ore su 24
O. C.: Non mi resta quindi che augurarvi un
grande ‘in bocca al lupo’ per i vostri progetti futuri, Robert! Grazie mille per quest’intervista!
R. B.: ‘Crepi il lupo’ e alla prossima!
www.robertblack.org
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La Border Music
made in Italy
musicaround.net
GIROLAMO DE SIMONE
intervista a
di Oscar Cacciatore
Girolamo De Simone è un musicista e compositore
di rilevanza fondamentale per la nostra penisola.
Nato a Napoli nel 1964, ha avuto negli anni Ottanta
incontri determinanti con figure del calibro di Luciano Cilio e John Cage, e ha suonato per i principali festival di musica contemporanea,
raccogliendo consensi per le ricerche sui nuovi linguaggi e per la riscoperta di repertori inediti o rari.
Come compositore ha ricevuto esecuzioni in Europa
(per l’UNESCO a Parigi, per
la CEE a Bruxelles, per la
Radio-televisione Svizzera) e
in Italia (Rai Due, Rai Tre,
Radio Rai Due, Radio Rai
Tre); ha inciso molti dischi:
per Ars Publica (Pisa), Die
Schachtel (Milano), Curci (Milano), Konsequenz (Napoli),
Nardini (Firenze). In qualità di
teorico delle musiche di frontiera ha pubblicato libri, saggi
articoli e recensioni anticipando le tematiche della contaminazione tra generi
musicali, della critica allo sperimentalismo e delle nuove
estetiche mass-mediali. Nel
1985 fonda a Napoli l’Associazione Ferenc Liszt, poi
Ente di rilievo. Dal 1994 è Direttore responsabile della rivista di musiche
contemporanee KonSequenz (Liguori Editori), più
volte premiata dal Ministero per i Beni Culturali
come periodico di elevato valore. Scrive per varie
testate e, segnatamente, dal 1994, per il quotidiano
Il Manifesto, anche con una rubrica intitolata che
focalizza l’attenzione italiana sulle musiche di frontiera. Lo abbiamo incontrato in occasione della
pubblicazione del suo nuovo album “Shama” e, disponibilissimo, ci ha rilasciato un’intevista illuminante.
Oscar Cacciatore: Sei uno dei teorizzatori della
border music: abbattimento semi totale delle
‘frontiere’ che vincolano il libero scorrimento
della Musica. Siamo in presenza di una piccola
rivoluzione o in realtà questo
‘sovvertimento’ è già avvenuto
e ne stiamo appena ‘vivendo’
l’eredità?
Girolamo De Simone: È appena
avvenuto. Ma quando si è cominciato a parlare di ‘plurali’, qui in
Italia eravamo davvero in pochi;
in piena èra ‘pestalozziana’, di rigorismo algido e oserei dire un
tantino autoritario. KonSequenz,
la rivista nata nel 1994, si pose
subito come antagonista di Musica Realtà [altra storica rivista diretta da Luigi Pestalozza e da lui
stesso fondata nel 1980, ndr]. Poi
pian piano tutti hanno preso a
cuore le contaminazioni, anche
world. Per arrivare a teorizzare
questa apertura era necessario
esporre a critica serrata i libri e le
teorie di Adorno. Anche in area
anglosassone si stava facendo la
stessa cosa, ma i testi che lo facevano avrebbero avuto seguito, e traduzione italiana, solo in un secondo momento. Avvertii
l’esigenza di partire con una critica allo sperimentalismo (che è cosa diversa dalla sperimentazione...)
perché un Maestro e amico si era suicidato per
aver incontrato l’Accademia, quella dotata di paraocchi. Sto parlando di Luciano Cilio.
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O. C.: Che ruolo hanno (se ve n’è uno) nella
border music la trasformazione e la trasfigurazione del materiale sonoro preesistente?
fanno altro che usare il computer come se stessero
lavorando con uno strumento tradizionale. «Si fa
così, cosà e non in altro modo». Trovo questa cosa
molto irritante, mentre ritengo che l’atteggiamento
G. D. S.: Questa è stata una intuizione successiva,
‘fluxus’ dei giovani che piegano anche un hit fache ho perfezionato coniando la cosiddetta ‘estemoso alle proprie voglie del momento, anche solo
tica del plagio’. Anche lì mi muovevo molto prima di
con gli editor dei loro cellulari, sia il vero atteggiaStriscia e dei dossier sui plagi del Festival di Sanmento foriero di novità. Una novità che dovrebbe
remo (per uno di questi, TG2 Dossier, fui poi condeclinarsi così: musica funzionale, ovvero musica
tattato dalla Rai). Anche qui c’era stato un
semplice o difficile, alta o bassa, ma sempre muantesignano, Aprea, che si era occupato delle trasica. Una difficoltà, nel mondo tradizionale della
sformazioni ‘infrageneriche’, per così dire.
composizione e dell’esecuzione, ad accettare
Da lì alla teorizzazione di contaminazioni
queste innovazioni risiede nel pregiudizio posto
infrageneriche ed infrastilistiche il passo è alcuni numeri di da categorie estetiche che fanno riferimento
stato breve. In realtà, non si tratta che di
alla ‘qualità’. Ma in arte, e in generale nelle
KonSequenz
ampliare una consapevolezza maturata
cose che riguardano l’uomo, si tratta di aggrecon l’avvento della musica concreta.
gati di complessità, non di qualità. E di collocazione di funzioni. Una musica per ogni
esigenza. Persino quella accadeO. C.: Un nome su tutti?
mica esiste e sopravvive,
quindi...
G. D. S.: Qui in Italia, credo che un
antesignano eccezioO. C.: A proposito di
nale sia stato Pietro
‘accademia’, quanto ha
Grossi: consiglio a tutti
pesato, invece, la tradidi ascoltare la sua muzione nella tua formazione
sica, con frammenti di
di musicista?
sketch pubblicitari... Un
ampliamento, dunque,
della tavolozza dei maG. D. S.: Molto. Da lì sono partito.
teriali. Ma l’operazione
Ovvero da lunghe ore al pianodifficile sarebbe stato,
forte, e da studi di composizione
ed è ancora così, asseufficiali. Poi conobbi Eugenio Fels,
gnare piena dignità
Luciano Cilio ed altri musicisti antiestetica a questa tavoconvenzionali (mi ricordo come
lozza ricca di suoni e rumori. Esiuno shock l’incontro con Cage
stono ancora molte resistenze nel
negli anni Ottanta). Insieme ai
mondo della composizione. Posizioni ‘carbograndi vecchi (Grossi, Chiari,
nare’, per così dire.
Chailly, Sollima, Carter, Rieti) che
ho avuto la fortuna di incontrare si
è creato presto un mix quasi ‘everO. C.: Nei tuoi lavori adoperi spesso le più mosivo’, ed ho sterzato fortemente.
derne tecnologie. In che misura trovi l’uomo (ed
Tuttavia se la tua domanda sottintende un altro
il compositore) odierno dipendere dalla Tecquesito, ovvero se io conferisco o meno valore alla
nica? Quali scopi pensi che essa debba ragmemoria ed alla storia, allora il discorso si fa molto
giungere?
più complesso, e per rispondere dovrei parlare di
sviluppo lineare o rizomatico, e di come questi conG. D. S.: Credo che la tecnica dipenda da noi.
cetti, usati dalla corrente degli (ex) nuovi filosofi
Tutto è tecnologia, esiste una tecnologia del linfrancesi, siano però da intendersi prospetticaguaggio, delle prassi, delle pratiche dell’agire.
mente, a seconda se si parli di dieci, cento o mille
Siamo sempre stati circondati da elettrodomestici.
anni fa. Esiste un rapporto inversamente proporzioAnche la ruota è stata un’invenzione con una funnale tra i metodi di analisi e la necessità della mezione di ‘alleggerimento’ del nostro fare. Pietro
moria. Più essa è lontana, più diffido del metodo
Grossi si firmava PIGRO perché aveva venduto il
rizomatico. Più essa è vicina, più diffido di quello lisuo violoncello, ritenendo che il tempo impiegato
neare. Di fatto, ho dedicato gran parte della mia
per esercitarsi fosse inutile, e potesse più proficuavita a perpetuare il ricordo di grandi musicisti ‘rimente essere rivolto alla creazione, ovvero ad un
mossi’, ed alla creazione di un archivio, in parte inatteggiamento interiore realmente progressista. Ma
formatico [piccola parte è su www.konsequenz.it,
quanti hanno questo coraggio? Molti musicisti non
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musicaround.net
nda] in parte cartaceo, che occupa parecchie
stanze di casa mia e della mia testa.
gate, rivolte a creare una tessitura comune fra le diverse track, a dispetto del loro ‘suono’ differente, o
della loro vicinanza a questo o quel genere. Ciò
crea un sostrato che genera continuità, e consente
al cd di suonare in modo uniforme. Considero ogni
cd come un’opera in sé, prescindendo dalla somma
dei brani che lo compongono. È una cosa che mi è
riuscita raramente, credo in due o tre dischi (forse
anche in “Ice-tract”). Ora preferisco, naturalmente,
l’ultimo [“Scarl/act”, rappresentato al Palazzo delle
Arti di Napoli nel dicembre 2007, ancora inedito,
nda].
O. C.: Oltre che compositore, pianista e musicologo, sei anche un attivista ed un agitatore culturale. Ne deduco che per te, oggi, l’inerzia di
un artista sarebbe la sua fine…
G. D. S.: Credo che in generale l’inerzia sia la fine
di tutto. Ma il mio motto è «in tutte le opere mantieni il distacco». È un po’ contraddittorio, ma dalla
riflessione solitaria e, se vuoi, ‘statica’ procedo ad
una ricarica dalla quale poi ripartire. Devi convenire
del fatto che, per forza di cose, chi si muove nel
mondo delle avanguardie deve mettere in conto lo
scontro. Lo scontro è molto molesto, nella mia vita.
Così, alterno riflessione in alcuni momenti della
giornata a scontri e tensioni in altri istanti del fare.
Ne farei volentieri a meno, ma senza vortici non c’è
cultura. E la musica, purtroppo, sconta sempre un
arretrato fisiologico verso arte e cultura. Non dovrebbe essere così, ed il futuro certamente ci porterà ad una maggiore complessità di riflessione, ma
per ora, in Italia, scontiamo ere di fondazioni, teatri
d’opera, consorterie concertistiche. Domani il musicista non potrà più essere l’imbecille di talento,
spesso reazionario, così come accade oggi.
O. C.: Nel titolo stesso del disco credo sia insita
una primissima chiave di lettura; ho notato che
non hai voluto fornire un approccio all’ascolto
‘difficile’ ma hai cercato ugualmente di insistere
sul piano selettivo, quello della percezione. Immagino che questo aiuti anche la fruizione. O
no?
G. D. S.: Hai colto meravigliosamente bene. Ma ti
assicuro che non ho adottato ‘censure’ preventive o
facilitazioni del linguaggio. Ho davvero ricercato autenticità, e cercato (sottolineo il ‘cercato’) di evitare
ridondanza e retorica. Questo, forse, lo devo a
Brian Eno.
O. C.: Parlando di ‘complessità della riflessione’, ci fornisci un quadro sul lavoro svolto
attraverso la rivista KonSequenz?
O. C.: Durante l’ascolto, mi è sembrato di cogliere una certa malinconia di fondo. È così?
G. D. S.: Sì, hai ragione: parte del lavoro è profondamente malinconica. Alcune tracce sono dedicate
a Luciano, a Chiari, a Grossi, a Cage: sono tutti
scomparsi. Ma anche il mio temperamento più autentico è combattivo ma malinconico. Molto.
G. D. S.: Su questo ti rimanderei ad una ‘compilazione’ poderosa, presente sul sito della rivista: centinaia di musicisti hanno suonato nelle stagioni a
noi collegate, e scorrendo i sommari si può vedere
che tanti intellettuali hanno scritto per noi. Persino
Veltroni, ma allora non potevo immaginare che
avrebbe preso la piega che ha poi preso. Per questo ho demolito il suo ultimo libretto (ammesso che
non sia opera anche quello del suo ghost writer...).
alcuni dischi di
Girolamo De
Simone
O. C.: Passiamo quindi alla tua ultimissima fatica: “Shama”. Trovo il suo ‘concept’ veramente
accattivante. Ti andrebbe di illustrarcene l’ideazione?
G. D. S.: Non parlo volentieri dei miei lavori, anche
perché spesso mi annoiano subito dopo averli terminati... tralasciando il fatto che, occupandomi
anche di critica e musicologia, solo di recente ho
trovato persone che si confrontano con me con la
completezza e la passione che mi piacciono. Posso
però dirti che è il mio penultimo ‘allestimento’,
quindi quello che trovo più autentico. Ho pensato a
“Shama” come un prodotto ‘integrato’, anzi fortemente integrato. Le trame compositive sono colle-
www.girolamodesimone.com
www.konsequenz.it
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GIROLAMO DE SIMONE
SHAMA
di Oscar Cacciatore
01. Luciano
02. Vinile
03. Distrazione
04. Ribattuto
05. In Albis
06. Campane o della Solitudine
07. Zi’ Giannino
08. Sogni, Esorcismi # 1
09. Sogni, Esorcismi # 2
10. Sogni, Esorcismi # 4
11. Sogni, Esorcismi # 8
12. Chiari
13. Vinile # 2
14. Sketch
15. Questa Terra
16. Improvvisa!
17. Aure
18. Organza
Girolamo de Simone_musiche e pianoforte
[Die Schachtel, 2008]
«Ascoltare [shama] è una parola equivoca. Ha
il significato di udire ed ha anche il significato
di accettare; nel senso della scienza e della conoscenza». Con questa citazione dalla “Guida
Dei Perplessi” di Maimonide, riportata all’interno della copertina, comincia l’ascolto di
“Shama”, uniforme affresco sonoro di Girolamo
De Simone, in diciotto pezzi efficacemente articolati. L’introduzione spetta a Luciano, brano
per solo piano dal tono morbido ed introspettivo. Con i successivi Vinile e Distrazione De
Simone opera invece dei collage di spezzoni
sonori preesistenti (da materiale radiofonico o
cinematografico) con un chiaro effetto retrò, inserendo anche propri spunti elettronici: ne consegue un certo straniamento in cui si riesce
comunque a trovare un senso di orientamento.
Imboccata la ‘strada giusta’ con la dolcissima
Ribattuto, frammento pianistico in cui alla
prima melodia (effettata ed in panning) si accosta l’inciso motivico portante, con le seguenti In
Albis, Campane O Della Solitudine e Zi’ Giannino, l’ascoltatore ritrova delle coordinate spazio-temporali ben precise: un paesino con le
sue voci ed i suoi caratteristici rumori; il suono
sordo e rassegnato delle campane (sfumato
poi con sintetizzatori a rimarcare il diffuso
senso di solitudine); il canto melismatico (ed
effettato) di un uomo ‘del popolo’ completa
questa parentesi descrittiva. Andando avanti, le
quattro tracce Sogni, Esorcismi #1, #2, #4, #8
sono accomunate dal medesimo senso di ‘sospensione metafisica’ in cui suoni sintetizzati
tratteggiano un ‘paesaggio’ onirico e lontano.
La successiva Chiari è il pezzo più lungo del
disco (oltre otto minuti): una sequenza di accordi aperti e dispiegati ‘comodamente’, visualizzabili come squarci luminosi in un torbido
cielo grigio. Dopo Vinile #2, che riprende il discorso già cominciato con Vinile, si può passare alla stupenda Sketch, dove si fondono
insieme motivi pianistici ‘cristallini’, ripresi e sviluppati ‘a cascata’ nella parte intermedia del
brano che termina, poi, sui temi iniziali. Man
mano che si procede nell’ascolto si acquisisce
una sempre maggiore familiarità con le modalità espressive di De Simone: su questa falsariga l’approccio forse più ‘tradizionale’ si ha con
Questa Terra e Improvvisa!, in cui il pianoforte
sviluppa tematiche cupe ma sempre profondamente consapevoli. Concludono questo ‘tracciato di acquisizione’ le riflessive Aure e
Organza, sublimando un certo distacco contemplativo dal materiale motivico sinora affrontato e riportando il discorso musicale sui binari
della stazione di partenza.
D’ora in poi la nostra capacità percettiva non
sarà più la stessa.
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34° FESTIVAL DELLA VALLE D’ITRIA
di Beatrice Birardi
Nella densa stagione estiva dei festival musicali
italiani, il Festival della Valle D’Itria continua ad
occupare un posto di grande prestigio, conquistato
negli anni grazie ad una costante attività di ricerca
e a programmi sempre più accattivanti.
L'edizione di quest'anno esibisce un cartellone
davvero attraente che traccia un percorso tutto
italiano attraverso la storia del melodramma fra
Settecento e Ottocento.
Il Festival si svolgerà dal 17 luglio al 6 agosto a
Martina Franca e in altre città pugliesi quali Noci,
Bitonto e San Marco in Lamis e vedrà tre nuove
produzioni operistiche e cinque concerti, di cui uno
di musica sacra.
Protagonisti del ricco programma due grandi
compositori pugliesi, Niccolò Piccinni e Saverio
Mercadante. Del primo sarà rappresentata, in
prima esecuzione assoluta in tempi moderni,
l'opera seria “Il Re Pastore” (1760), scritta su
libretto di Metastasio, il quale trasse la storia dalla
favola pastorale “Aminta” di Torquato Tasso. A
dirigere l'Orchestra Internazionale d’Italia ci sarà
Giovanni Battista Rigon, mentre la regia sarà
affidata ad Alessio Pizzech.
Di Mercadante una prima rappresentazione
scenica in tempi moderni, l'opera seria
“Pelagio”(1857), su libretto di Marco D’Arienza,
con la quale il compositore pose fine alla sua
carriera operistica. Sul podio salirà Mariano Rivas,
con la regia di Jean-Louis Pichon.
La terza opera in programma è un'ulteriore
conferma della vocazione sperimentale del
Festival, che pone sempre grande attenzione alla
riscoperta e rivalutazione di opere ingiustamente
trascurate. “Don Bucefalo”, del pavese Antonio
Cagnoni, è una delle opere buffe più esilaranti di
metà Ottocento, una satira colorita sul teatro in
musica, ricca di trovate divertenti e gags musicali.
L'opera sarà diretta da Massimiliano Caldi, con la
regia di Marco Gandini.
Le opere vedranno impegnati l'Orchestra
Internazionale d’Italia, il Coro Slovacco di
Bratislava e dei cast di tutto rispetto.
La parte concertistica sarà dedicata, in larga
misura, a Giacomo Puccini, di cui quest'anno si
celebrano i 150 anni dalla nascita. Di Puccini, il
Festival proporrà un concerto vocale, Canzoni e
arie d'opera, comprendente brani di raro ascolto
della produzione del compositore, un concerto
sinfonico dal titolo Puccini e dintorni e, a chiusura
del Festival, nel tradizionale appuntamento con la
musica sacra, la giovanile “Messa di Gloria”. La
serata Il Re Pastore di Mozart e il mondo
campestre del '700 vedrà l'esecuzione di musiche
del genio salisburghese.
Infine un appuntamento che avrà ancora come
protagonista Mercadante, una serata di confronto
tra il compositore e altri musicisti a lui
contemporanei, tra cui Gaspare Spontini, intitolata
Mercadante e i suoi illustri rivali (per parafrasare il
titolo di una delle opere di successo del
compositore altamurano) con arie tratte da “Caritea
Regina di Spagna”, “Il Giuramento”, “I due illustri
rivali”, “Il Bravo”, “I Normanni a Parigi”.
PROGRAMMA del FESTIVAL
Opere
“Il Re Pastore”
Martina Franca, Palazzo Ducale, 17 e 19 luglio 2008, ore
21
“Don Bucefalo”
Martina Franca, Palazzo Ducale, 20 e 22 luglio 2008, ore
21
“Pelagio”
Martina Franca, Palazzo Ducale, 2 e 4 agosto, ore 21
Concerti
“Il Re Pastore di mozart e il mondo campestre del '700” musiche di W. A. Mozart
Martina Franca, Chiostro del Carmine, 18 luglio, ore 21
“Canzoni e Arie d'opera” - musiche di Giacomo Puccini
Martina Franca, Chiostro del Carmine, 25 luglio, ore 21
Noci, Chiostro di San Domenico, 26 luglio, ore 21
“Puccini e dintorni” - musiche di Giacomo Puccini, Pietro
Mascagni
Martina Franca, Palazzo Ducale, 27 luglio, ore 21
“Mercadante e i suoi illustri rivali” - musiche da Saverio
Mercadante a Gaspare Spontini
Martina Franca, Chiostro del Carmine, 30 luglio, ore 21
Sede da definire, 31 luglio, ore 21
“Messa di gloria” - musica di Giacomo Puccini
Martina Franca, Basilica di S. Martino, 1 agosto, ore 21
Bitonto, Cattedrale, 3 agosto, ore 21
Sede da definire, 5 agosto, ore 21
San Marco in Lamis, Cattedrale, 6 agosto, ore 21
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Fasano Jazz 2008
XI Edizione - 3-4-6-8 giugno
di Michele Carella
L'undicesimo compleanno del festival di Fasano
jazz è stato festeggiato nel migliore dei modi.
Come da cartellone la manifestazione si è aperta
con un pilastro della batteria moderna, il batterista
britannico Bill Bruford, accompagnato dal pianista
olandese Michiel Borstlap.
Difficile nascondere che buona parte
dell’attenzione era rivolta su Bruford, un artista
trasversale che partito da gruppi che ormai hanno
fatto storia (Yes e successivamente King Crimson)
ha proseguito il suo percorso artistico attraverso
collaborazioni con vari musicisti di fama
internazionale (Kazumi Watanabe, David Torn,
Patrick Clahar…). La disposizione della batteria
con cui Bruford si presenta sul palco del teatro
collegata ad un sampler che diventa fonte di
sonorità fortemente espressive.
Le composizioni presentate nella serata del 3
giugno sono tutte firmate dal pianista, in alcuni casi
in connubio con lo stesso Bruford.
Il concerto si apre con un paio di improvvisazioni
che avevano solamente la funzione di settare
meglio i volumi, dopo questi è iniziato il vero
concerto dove si è potuto godere al meglio della
sintonia che c’era tra i due musicisti: negli intrecci
tra il pianoforte e la batteria sempre coinvolgenti si
notava l’uso raffinato da parte dei due compositori
delle dinamiche.
Un occhio di riguardo era d’obbligo per lo stile
molto personale di Bruford riconoscibile dall’uso
Michiel Bortlap e Bill Bruford – foto di Mimmo Ferri
minimo della cassa utilizzata nell’accentuare solo
certi passaggi, il fraseggio era affidato agli arti
superiori e al charleston attraverso un uso delle
poliritmie coniugate ad un range di dinamiche
sorprendente, che ha dimostrato un controllo
eccellente delle bacchette in favore ad un marcato
uso dei polsi. All’interno del concerto c’è stato
naturalmente spazio per un solo in cui al
susseguirsi di un motivo che si ripeteva per tutto il
“pezzo”, Bill Bruford dava sfoggio della sua tecnica
non trascurando l’espressività.
Kennedy lo contraddistingue da ogni altro batterista
per la posizione dei tamburi e del rullante posti tutti
alla stessa altezza, quasi fossero delle tele da
dipingere di note attraverso le sue bacchette; non a
caso il suo stile venne definito percussivo-pittorico,
anche grazie all’abilità nei tempi dispari, virtuosismi
e notevole tecnica del rullante.
Michiel Borstlap: degno di grande rispetto, dotato di
una visione ampia che ben si sposa con le
intenzioni del più celebre partner. Oltre al
pianoforte acustico, utilizza una tastiera elettronica
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Il giorno di apertura è stato senz’altro di altissimo
Diversamente da quanto offerto dal gruppo di Brian
livello soprattutto per chi ha seguito la storia di
Auger, la terza sera è stata presieduta da un più
questo grande artista e per chi ne trae spunto.
formale Allan Holdsworth, un virtuoso della
Il secondo giorno della rassegna è stato “colorato”
chitarra, unanimemente riconosciuto dai fan e dai
dalle note di un quartetto storico, il “Brian Auger’s
musicisti contemporanei come uno dei più
Oblivion Express”. Proprio Auger, negli anni ’60 in
importanti chitarristi in circolazione, a metà strada
Inghilterra, intuì l’enorme potenzialità di miscelare
fra il mondo del jazz e quello del rock. Molti lo
jazz, funky e rhythm’n’blues in un nuovo ibrido
considerano una leggenda vivente, che continua a
musicale. Il suo strumento favorito resta ancora
spingere al limite estremo la tecnica strumentale. Al
oggi l’organo Hammond
fianco di questo grande
B3, dal suono caldo,
artista c’era un altro
attraverso il quale
grande musicista, Chad
l’artista ha forgiato uno
Wackerman, batterista
stile unico, rimasto
jazz rock, che annovera
intatto nel tempo.
tra le tante
La formazione
collaborazioni quella
presentata sul palco
con Frank Zappa che lo
del teatro Kennedy era
ha portato per diversi
a “conduzione
anni in tour per il
familiare”: oltre a Brian
mondo.
Auger, alla batteria e
E’ proprio il batterista ad
alla voce c’erano i suoi
essere l’elemento più
figli, Karma e
espressivo del gruppo,
Savannah Auger. La
rubando la scena al
posizione degli stessi
resto dei musicisti e allo
strumenti era molto
stesso Holdsworth
Brian Auger's Oblivion Express
raccolta tanto che
attento solamente ai
foto di Mimmo Ferri
veniva sfruttato in
suoi infiniti assoli senza
minima parte lo spazio
dinamiche che hanno
offerto dal palco.
fatto la felicità dei numerosi giovani chitarristi
A parte i soliti problemi dovuti ai volumi fra i vari
presenti nella sala.
strumenti subito settati, il gruppo è partito
La manifestazione si è conclusa al Teatro sociale
fortissimo, era chiaro che quello a cui si stava
con l’ensemble guidato dalla vocalist Gianna
assistendo era uno spettacolo perfezionato durante
Montecalvo, ed il suo progetto musicale ”Steve’s
l’interminabile attività live in tutto il mondo;
Mirror” coadiuvata da musicisti pugliesi di rilievo
lo stesso rapporto con il pubblico ne era conferma,
(Ottaviano, Lenoci, Vendola e Magliocchi). Il
Brian ad ogni canzone non disdegnava di dare
festival si chiude con il gruppo più jazz, rispetto alle
spiegazioni sui pezzi appena eseguiti,
precedenti tre serate. All’interno della esibizione del
presentazioni delle canzoni da eseguire in forma
gruppo è stato presentato il loro primo lavoro
più o meno ironica che denotava l’impostazione
(Steve’s Mirror) edito dalla Soul Note e interamente
diretta col pubblico. A fronte di quanto visto si può
dedicato alle musiche di Steve Lacy. Questo
dire che questo secondo concerto avrebbe dovuto
progetto, che ha riscosso vari consensi dalla critica
avere una collocazione diversa di quella di un
specializzata, speriamo abbia un seguito, magari
teatro in cui si era costretti a stare seduti.
con qualche altro lavoro.
Mediapartners:
JAM: www.jamonline.it
Chitarre: www.chitarre.com
MusicalNews: www.musicalnews.com
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Jazzit: www.jazzit.it
Jazzitalia: www.jazzitalia.net
Wonderous Stories: www.wonderoustories.it
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Spaziale festival 2008
2008
Tutti a torino
di Viviana Leo
I The Raconteursrs porteranno in scena il loro
nuovo album “Consolers Of The Lonely”, uscito il
25 marzo scorso su etichetta Third Man
Records/XL Recordings, la cui ossatura è rock puro
senza escludere le sue diverse sfumature.
Insieme a questi colossi, in esclusiva per Spaziale
Festival, i Vampire
Weekend, studenti della
Columbia University che
hanno dato vita, con il loro
lavoro, ad una
sperimentazione composta
dal vissuto artistico di
ciascun musicista: dalla
musica africana, all’indie
americano, al raggaeton.
Sarà poi la volta dei dEUS
il 14 luglio, band nata nel
1994 che si è lanciata dal
suo paese d’origine, una
cittadina del Belgio, al
resto d’Europa, con il loro
album d’esordio “Worst
Case Scenario”. Vantano
ad oggi ben cinque album,
il cui ultimo Vantage
Point , ha ritagliato per loro
una dimensione pop-rock.
Il giorno successivo, il 15
luglio, torna, dopo anni di
assenza in Italia, Siouxsie,
indiscussa regina del punk
rock britannico, leader storica dei Siouxsie and
Banshees. Lei che, con il primo album di questa
band ha aperto le porte a quel movimento
dark che, negli anni ’80, avrebbe spalancato la
strada a gruppi come Joy Division, Cure, Bauhaus,
Killing Joke, Sister of Mercy.
Continuano i concerti: il 16 luglio tornano, dopo 6
anni, i The Notwist con un nuovo disco, “The
Devil, You + Me”.
Un orecchio stanco di ascoltare musica già sentita
e che vuole estendere la sua percezione a tutto ciò
che convenzionale non è. È la necessita che dall’8
al 28 luglio Spaziale/Emersione festival si
propongono di soddisfare.
Siamo a Torino, Spazio 211, luogo che per dieci
giorni diventerà l’isola
felice per la diffusione
e valorizzazione
dell’innovazione
musicale.
Molteplici i nomi della
scena rock e non solo,
italiana ed
internazionale, che
calcheranno il palco
torinese.
Uno spazio parallelo in
cui il rock indipendente
affermerà la sua forza
lontano dai dettami,
vincoli ed, a volte,
obblighi del
mainstream e dei
luoghi commerciali.
Obiettivo fondamentale
del progetto è
esplorare ciò che sarà,
piuttosto che limitarsi a
constatare ciò che è
già stato.
Sesta edizione per Spaziale, quarta per Emersione,
il programma vanta un cartellone ricco di date
uniche, non solo in Piemonte, ma su tutto il
territorio nazionale.
Ad inaugurare la serie di serate saranno, l’8 luglio, i
The Raconteurs e i Vampire Weekend,
preannunciando un live che si candida ad essere
come l’evento dell’estate italiana 2008.
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luglio, gli Happy Flu: proprio nel 2008 esce l’album
“Fragile Forest” disco che, in accordo tra
l’etichetta ed il gruppo, decide di adeguarsi a ciò
che diventato il mondo musicale oggi: è possibile
infatti, trovare l’album sul sito del gruppo. Il
pubblico può cosi decidere il costo dell’album che,
potenzialmente, potrebbe anche essere gratuito;
nonostante ciò è comunque disponibile, in vendita,
la versione in edizione speciale deluxe.
A chiudere il festival saranno i The Mars Volta che
ritornano in Italia dopo il successo dell’unica data in
Italia di febbraio.
Il concerto sarà un concentrato attivo di musica che
andrà avanti per tre ore nutrendosi di rock, metal e
psichedelica.
L’ultimo album, “The Beslam in Goliath” ha fatto
ingresso nella classifica di Usa Billboard
direttamente al numero 3.
Ed ora non resta altro che iniziare il conto alla
rovescia per l’8 luglio.
Per info su costi e orari è possibile trovare
esaurienti notizie su
www.myspace.com/spazialefestival.
Nati più di 20 anni fa, non hanno perso il loro
passato hard , ma lo farciscono con nuovi elementi
maturati lungo il percorso. Si esibiranno insieme
alla band rivelazione italiana Le luci della centrale
elettrica, con Giorgio Canali.
Il 17 sarà il momento del Teatro degli Orrori,
quartetto nato agli inizi del 2005 che, dopo due
anni, mette in cantiere il il primo album
“Dell’Impero Delle Tenebre”, un lavoro che si
plasma su elementi di rock moderno e alternativo
che non perde di vista gli amori di sempre Jesus
Lizard e Scratch Acid da un lato e la tradizione
cantautorale dall’altro.
Il weekend dal 18 luglio, si apre con Offlaga Disco
Pax, miglior gruppo indipendente per il MEI 2005,
Premio Ciampi e Premio Fuori dal Mucchio per il
miglior disco d’esordio, che con il lavoro
“Socialismo tascabile”, ha venduto 8000 copie,
aprendo un vero e proprio casonel mercato delle
etichette indipendenti.
Sul palco dello Spazio 211 anche i The Hives, band
svedese che, dopo il successo dei primi 3 album ha
pubblicato, nel 2007, “The Black And White
Album”. Alla vigilia della chiusura del festival, il 27
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Jazz in Veglie 2008
Ritorna la prima rassegna Jazz salentina
di Emanuele Raganato
Con ormai già due altre edizioni di successo alle
spalle, Jazz in Veglie apre le danze delle rassegne
estive locali di jazz, per un’estate di grande musica.
Quest’anno spicca tra tutte le partnership proprio
quella con Musicaround.net che già nelle altre
edizioni aveva dato il suo contributo. Sono previste
tre serate all’insegna di temi specifici affrontati con
brevi conferenze di presentazione a partire dal 27
Giugno, dalle ore 21, del chiostro dell’ex Convento
Francescano a Veglie (Le).
La contaminazione fra Jazz e musica etnica è il
primo dei temi conduttori della rassegna vegliese e
non poteva mancare in questo contesto l’esibizione
della “BandaAdriatica”. L’ensemble guidato da
Claudio Prima, eclettico organettista salentino è un
incontro di culture e provenienze sotto il segno del
Mar Adriatico. “Contagio”, il primo lavoro
discografico della BandAdriatica, è la sintesi di un
lungo percorso di ricerca e sperimentazione sul
rapporto fra le musiche del Sud Italia, dell’Albania,
della Grecia e di tutto il versante Nord-Est adriatico,
reinterpretato con lo spirito di una banda moderna
in bilico fra le lente marce delle processioni a mare
e le rumbe e i cocek delle feste di crociera.
Per la serata dedicata alle “Origini del jazz – The
Big Band Era”, la rassegna propone il repertorio
classico degli anni dello swing ospitando la “Swing
Big Band” del maestro Luigi Bubbico. La potenza
del suono, la carica emotiva dei 20 musicisti uniti
nella condivisione di un ritmo incalzante come lo
Swing alla maniera delle orchestre americane,
fanno di questa formazione una vera occasione di
gioia e festosa atmosfera alla portata di tutti.
Nata principalmente dagli incontri e seminari tenuti
presso il Conservatorio “T. Schipa” di Lecce, il suo
organico è costituito da tre distinte sezioni di fiati:
trombe, tromboni e sassofoni composte da tre a
cinque strumenti per sezione, e da una sezione
ritmica formata da pianoforte, chitarra,
contrabbasso, batteria e percussioni. Nel repertorio
della band spiccano le migliori pagine di Glenn
Miller, Benny Goodman, Duke Ellington, Count
Basie.
La rassegna “Jazz in Veglie” si concluderà poi il 29
Giugno, con una serata di grande musica e
improvvisazione, con il concerto dello “SPECIAL
QUARTET” formato da Nicola Andrioli piano,
Fabrizio Scarafile sax, Alex Semprevivo batteria,
Michele Colaci contrabbasso.
Sarà una serata da non perdere per gli
appassionati del jazz che avranno l’occasione di
ascoltare un quartetto d’eccezione formato da
musicisti considerati tra i migliori nel panorama jazz
italiano.
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nell'orchestra, l'estensione del corno può
raggiungere quasi le 5 ottave. In orchestra viene
utilizzato come strumento armonico e solistico.
Molti compositori dei periodi barocco, classico e
romantico hanno dato importanti ruoli a questo
strumento dal suono evocativo sia in campo
sinfonico cameristico che in quello operistico. I
musicisti che suonano il corno sono chiamati
usualmente cornisti. Fin dai tempi antichi i corni
attirarono l'interesse dei compositori e furono usati
per evocare atmosfere campestri ed immagini di
caccia. Ed era così anche al tempo di Wolfgang
Amadeus Mozart. Ma in quel periodo, il suonatore
di corno (ormai parte integrante dell'orchestra), si
serviva di uno strumento diverso dall'attuale. Si
trattava ancora di un corno naturale (che
produceva solo i suoni cosiddetti armonici), tanto
che era costretto a possederne più d'uno, dotati
spesso anche di ritorte, cioè di porzioni di tubo che
potevano essere aggiunte per variare la lunghezza
del canneggio e, di conseguenza, sia il suono base
che tutta la serie degli armonici. Mentre la mano
sinistra teneva la parte iniziale dello strumento,
vicino al bocchino, la mano destra del cornista
aveva già assunto la posizione attuale, infilata nella
campana dello strumento; attraverso l'azione della
mano nella campana, potevano essere ottenuti altri
suoni, calanti o crescenti, dei quali i compositori si
servirono largamente malgrado l'evidente
differenza timbrica con i suoni naturali. Solo
nell’800 si arrivò a dotare il corno, così come tutti
gli altri ottoni, della cosiddetta macchina, ossia la
meccanica che consente i passaggi cromatici tra le
note.
In particolare, Nicola Andrioli e Fabrizio Scarafile,
che attualmente vivono tra l’Italia e Parigi, e che
sono da tutti unanimemente riconosciuti fra i più
talentuosi jazzisti pugliesi. Lo Special Quartett ha
eletto Parigi come sua seconda patria ma ritorna
nel Salento, terra natale dei magnifici quattro,
appositamente per chiudere in bellezza la terza
edizione della rassegna vegliese. Nel caso l'Italia
dovesse disputare la finale del Campionato
Europeo, prima del concerto verrà proiettata la
partita sul maxischermo per tutto il pubblico.
Il Corno
di Emanuele Raganato
Il corno è uno
strumento musicale a
fiato antichissimo, che fa parte della famiglia degli
aerofoni con bocchino a tazza, o, più
semplicemente, degli ottoni, in virtù del materiale
moderno di cui è costruito. Viene anche chiamato
Corno Francese per essere distinto da quello
inglese che fa parte della famiglia dei legni. Il corpo
dello strumento è costituito da un tubo conico più
volte arrotolato su se stesso, che termina con un
padiglione svasato molto grande, che è la
cosiddetta campana. Il corno moderno possiede
una macchina composta da cilindri, il cui numero
può variare da 3 per il corno semplice, a 4 per
quello doppio, fino a 5 per quello triplo. Il timbro è
soffice e profondo. Rispetto agli altri ottoni presenti
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L’ultimo
L’ultimo
Sorpasso
Di
Di Dino Risi
di Vito Lomartire
Il cinema italiano è in lutto. È scomparso il 7 giugno
2008 il regista Dino Risi, altra grande firma della
commedia all’italiana.
Regista e sceneggiatore tra i più amati nel Bel Paese, ci
ha lasciato alla veneranda età di 92 anni, nel suo
appartamento a Roma, quartiere Parioli, in cui viveva
ormai da trent’anni.
Dopo aver mosso i primi passi nel mondo
cinematografico con Soldati e Lattuada, la sua carriera
di regista inizia con dei cortometraggi, di ispirazione
neorealista, girati in una Milano ancora alle prese con le
fatiche del dopoguerra.
Dopo il trasferimento a Roma, comincerà anche la sua
attività di sceneggiatore.
Girerà il suo primo lungometraggio nel 1951, “Vacanze
Col Gangster” con un giovanissimo Mario Girotti
(meglio conosciuto come Terence Hill).
Il successo arriverà con la terza parte di un trittico,
“Pane, Amore e …”, i cui primi due film erano stati
diretti da Mario Monicelli. Risi dirigerà due grandi attori
italiani, Vittorio De Sica e Sofia Loren, consacrandolo tra
gli astri nascenti della cinepresa in Italia.
Anche Dino Risi avrà i suoi attori ‘prediletti’ che dirigerà
in più di una pellicola: Alberto Sordi, Nino Manfredi e
Vittorio Gassman (“Il Vedovo”, “Il mattatore”, “Una
vita difficile”).
Ma sarà “Il Sorpasso”, con un grandissimo Vittorio
Gassman e un giovane Jean-Louis Trintignant a
consacrare Dino Risi tra i migliori cineasti che il cinema
italiano abbia avuto: siamo agli inizi del boom
economico italiano, i personaggi sono psicologicamente
ben definiti, a indicare l’attenzione di Risi verso un
cinema di commedia ma certamente impegnato.
È chiaro che il film ispirò quel filone che verrà poi
chiamato road-movie.
Gassman sarà poi protagonista anche delle sue pellicole
“Il Tigre” (1967) e “Il Profeta” (1968), mentre Tognazzi
reciterà per un altro capolavoro di Risi “Straziami, Ma Di
Baci Saziami”.
Risi non rimarrà indifferente al tema della sessualità che
incomincia a imperversare nel cinema italiano dei primi
anni ’70, con i film “Vedo Nudo”, “Sesso Matto” e
“Sesso E Volentieri”.
Emozionante e profndo “Profumo Di Donna” con un
grandissimo Vittorio Gassman: il film sarà poi
interpretato dal premio Oscar Al Pacino in un remake
hollywoodiano, “Scent Of Woman”.
Ngli anni’ 80 Risi dirigerà attori come Renato Pozzetto,
Lino Banfi, Beppe Grillo (“Il Commissario Lo Gatto”,
“Sono Fotogenico”) in pellicole che non possono
certamente essere considerate all’altezza dei lavori
precedenti, tanto che l’attività di Risi verrà diminuendo
sempre più fino all’ultimo film anno 1996 “Giovani E
Belli”.
Nel 2002 riceverà meritatamente il Leone D’oro alla
carriera.
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Anno Pucciniano
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G IACOMO P UCCINI IV A TTO
L’apertura del nuovo teatro e la fase finale delle celebrazioni
di Beatrice Birardi
Dopo quattro anni di concerti, iniziative, occasioni
di incontro sulla figura di Giacomo Puccini,
coordinate e organizzate dal Comitato Nazionale
Celebrazioni Pucciniane nato a Lucca nel 2005, i
festeggiamenti per i 150 anni della nascita del
compositore raggiungono quest'anno il loro culmine
con il progetto conclusivo di questo lungo ed
elaborato percorso. Un doppio appuntamento che
ha aperto la fase finale delle celebrazioni con
l'esecuzione del IV concerto organizzato dal
Comitato Nazionale: Torre del Lago 15 giugno e
Roma 18 giugno.
L'appuntamento del 15 giugno ha visto il taglio del
nastro per il Nuovo Gran Teatro all'Aperto di Torre
del Lago. Un Teatro, in riva al Lago che ispirò il
Maestro, che potrà ospitare più di tremila persone
all'aperto e altre 500 nell'auditorium coperto. Un
grande investimento, da oltre 17 milioni di Euro,
con il quale la terra di Puccini ha voluto amplificare
ogni sforzo per celebrare al meglio il Maestro.
A seguire l'inaugurazione del Teatro pucciniano,
l'omaggio romano del 18 giugno, che ha visto lo
stesso progetto musicale eseguito presso
l'Auditorium Parco della Musica Sala Santa Cecilia.
Il IV atto della tetralogia pucciniana organizzata dal
Comitato è un concerto entusiasmante che
ripercorre le tappe più suggestive del percorso
artistico di Puccini: dalla giovanile “Edgar”
(Preludio Atto IV) fino alla conquista dello stile di
“Manon Lescaut” (Intermezzo Atto III), dal genio
de “La Bohème” (Finale Atto I) fino all'inquieto
modernismo del “Trittico” (“Suor Angelica” Finale) e di “Turandot” (Atto II Finale - Atto III
Finale).
Ad eseguire il IV atto la Filarmonica della Scala
diretta da Riccardo Chailly e il Coro Filarmonico
della Scala, diretto da Bruno Casoni. Il tema della
modernità di Puccini è stato più volte affrontato
dallo stesso Chailly, che in questi concerti ha
mostrato la sua continua ricerca nel cogliere il vero
spirito del compositore. Secondo il direttore,
Puccini è ancora troppo spesso interpretato in
chiave popolare e perfino provinciale, senza tener
conto del ruolo fondamentale della sua opera nel
favorire l'apertura della cultura musicale italiana
alle esperienze del Novecento europeo.
Il progetto del IV atto ha visto il coinvolgimento di
un ricco cast: il soprano Svetla Vassileva (premio
Abbiati 2007 come miglior cantante) nei panni di
Mimì (“La Bohème”), di Suor Angelica (“Suor
Angelica”) e di Liù (“Turandot”); il soprano Martina
Serafin nei panni di Turandot (“Turandot”); il tenore
Massimiliano Pisapia nei panni di Rodolfo (“La
Bohème”); il tenore Antonello Palombi nei panni di
Calaf (“Turandot”); il baritono Carlo Bosi nei panni
di Altoum (“Turandot”) ed il baritono Ernesto
Panariello nei panni di un Mandarino (“Turandot”).
Il Nuovo Gran Teatro all'Aperto di Torre del
Lago Puccini
Il nuovo teatro pucciniano costituisce il primo
passo per la realizzazione del Parco della
Musica dedicato a Giacomo Puccini. Il teatro è
stato collocato in uno dei luoghi di maggior
ispirazione per il compositore, grazie ad un
progetto di riqualificazione e di recupero di aree
ed impianti di archeologia industriale da
trasformare e rendere vivi attraverso la musica
e l'arte. Parallelamente tale progetto ha lo
scopo di salvaguardare e valorizzare alcuni dei
luoghi di vita di uno dei più grandi musicisti
della storia della musica. Il cantiere ha preso
avvio lo scorso 1 febbraio 2006. Dopo circa due
anni ecco già pronta la struttura, realizzata in
cemento, legno e cristallo, dotata di sofisticati
impianti tecnologici e acustici. Il Teatro è
immerso in un parco di oltre 41.500 mq,
attrezzato come foyer all'aperto, e può ospitare
3.200 persone sotto le stelle e altre 500
nell'auditorium coperto con ampi spazi dedicati
sia agli artisti che al pubblico.
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Anno Pucciniano
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L’OPERA
OPERA DEL MESE : “MADAME BUTTERFLY (1904)
di Beatrice Birardi
Nell'estate del 1900, mentre era a Londra per
curare la prima rappresentazione in inglese di
“Tosca”, Puccini assistette alla rappresentazione
del dramma “Madame Butterfly” di David Belasco
tratto dal racconto dell'americano John Luther
Long. Pur non conoscendo una parola d'inglese,
Puccini fu fortemente attratto dal pathos del
dramma di amore e morte e dall'atmosfera
orientale.
Rientrato a Milano decise di mettersi subito al
lavoro, ne parlò con Giulio Ricordi, e nell'aprile
1901 ottenne da Belasco il diritto a musicare la sua
rappresentazione. Puccini affidò l'elaborazione del
libretto a Illica e a Giacosa, che avrebbero basato il
loro lavoro sul romanzo popolare “Madame
Chrysanthème” (1887) di Pierre Loti.
L'opera fu ultimata nel dicembre 1903, dopo una
lunga pausa a cui fu costretto lo stesso Puccini a
causa di un grave incidente automobilistico
(febbraio 1903) che lo vide costretto a una lunga
convalescenza a causa del diabete.
La prima rappresentazione, nella versione originale
in due atti, andò in scena al Teatro La Scala il 17
febbraio 1904 con un cast artistico d'eccezione. Le
enormi aspettative furono tradite da un immenso
insuccesso, un vero e proprio disastro di critica e di
pubblico, il primo grande fiasco di Puccini. Forse
tra i motivi dell'insuccesso, la divisione dell'opera in
due soli atti, il secondo dei quali, comprendendo gli
attuali secondo e terzo atto, dovette risultare
eccessivamente lungo.
Solo tre mesi dopo, l'opera, con lo stesso cast, fu
rappresentata al Teatro di Brescia (28 maggio
1904) ottenendo un enorme successo, il primo di
una lunga serie che porterà “Madame Butterfly” nei
più grandi teatri europei.
La Butterfly è «l'opera più sentita e più suggestiva
ch'io abbia concepito», affermò Puccini. Ma è
anche la più moderna grazie al vocabolario
musicale arricchito (Puccini introduce le scale
pentatoniche giapponesi e l'armonia per toni interi)
e a una nuova flessibilità dovuta alla scelta di non
persistere nell'associazione fissa dei temi centrali,
tipica, invece, delle opere precedenti.
L'opera è essenzialmente incentrata sul
personaggio di Butterfly, all'ombra della quale si
muove l'ancella Suzuki. Tutti gli altri personaggi
sono pallide figure o macchiette, in contrasto con la
personalità della protagonista, finemente ritratta
dalla musica in tutto il suo sviluppo, dall'ingenuità
iniziale fino all'accettazione del proprio destino di
morte.
L'atmosfera esotica è ottenuta anche attraverso il
ricorso a ritmi e motivi giapponesi liberamente
reinventati.
“MADAME BUTTERFLY” (1904)
Tragedia giapponese in due atti (tre atti nella versione corrente)
libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
Fonte: racconto Madame Butterfly di John Luter Long (1898) poi messo in scena nel 1900 al Duke of York di Londra da
David Belasco con il dramma omonimo ridotto ad un atto unico.
Prima rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 17 febbraio 1904
Madama Butterfly (II versione: in tre atti)
Prima rappresentazione: Brescia, Teatro Grande, 28 maggio 1904
Madama Butterfly (rivisitazione della versione in tre atti)
Prima rappresentazione: Londra, Royal Opera House Covent Garden, 10 luglio 1905.
.
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Anno Pucciniano
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TRAMA
ATTO I
Giardino di una casa a Nagasaki. Pinkerton, tenente della marina degli Stati Uniti, sta per sposare una
giovanissima geisha, Cio-Cio-San detta madama Butterfly, procuratagli da Goro, sensale di matrimoni. Giunge
Sharpless, console americano, al quale Pinkerton espone la sua cinica filosofia di "yankee" che vuol godersi la
vita, sposerà Butterfly secondo la legge giapponese non riconosciuta in America, brindando al giorno in cui
avrà una vera sposa americana. Sharpless gli fa un garbato rimprovero, facendogli notare che per Butterfly è
una cosa seria. Intanto giunge il corteo nuziale con Cio-Cio-San che racconta della sua vita, della povertà
della sua famiglia che l'ha costretta a diventare geisha. La cerimonia prosegue con la presentazione dello
sposo ai parenti e Butterfly, profondamente devota al suo sposo, confessa a Pinkerton di essere diventata
cristiana. Giunge lo zio di Butterfly, Bonzo, che la maledice per aver rinnegato la religione degli avi. Pinkerton
lo scaccia e rimane finalmente solo con Butterfly, con la quale può godersi la notte.
ATTO II
Interno della casa di Butterfly. La fedele ancella di Butterfly, Suzuki, prega affinché Cio-Cio-San non pianga
più. Da tre anni Pinkerton è partito per gli Stati Uniti senza dare più notizie di sé. Butterfly, che nel frattempo
ha avuto un bambino dal matrimonio, è convinta che prima o poi tornerà. Giunge Goro con Sharpless, il quale
ha ricevuto una lettera da Pinkerton con un messaggio per Cio-Cio-San. Ella è raggiante di gioia, ma
Sharpless non ha il coraggio di comunicarle che Pinkerton si è risposato in America e che verrà presto a
Nagasaki con la sua nuova sposa. Goro ricorda a Butterfly che ormai per la legge giapponese deve ritenersi
libera e le propone dei nuovi pretendenti, fra cui il nobile e ricco Yamadori. Ma Cio-Cio-San non vuole saperne
e rimane nella sua tenace convinzione di essere ancora sposata con Pinkerton, anche secondo la legge
americana. Uscito Yamadori, Sharpless comincia con imbarazzo a leggere la lettera di Pinkerton,
continuamente interrotto da Butterfly che interpreta ogni parola alla luce della sua illusione. Sharpless la
esorta a pensare a se stessa, al suo futuro, ma Butterfly è irremovibile e ad un certi punto va nella stanza
accanto e torna col bambino in braccio. Sharpless, che ignorava l'esistenza del figlio di Pinkerton, resta
profondamente turbato e promette che informerà Pinkerton dell'esistenza del bambino. Allontanatosi il
console, giunge un colpo di cannone che annuncia l'arrivo della nave dall'America. La gioia di Butterfly è
immensa, è certa che l'amore trionferà e ordina a Suzuki di cogliere tutti i fiori del giardino per adornare la
casa e ricevere degnamente lo sposo. Dopo aver indossato l'abito da sposa, Cio-Cio-San si accoccola con
Suzuki e il bambino davanti allo shosi in attesa dell'arrivo di Pinkerton.
ATTO
III
La notte si dilegua, giunge l'alba, s'odono di lontano voci di pescatori. Butterfly, che ha vegliato tutta la notte, si
lascia convincere da Suzuki ad andare a riposare un poco, col bambino. Poco dopo, con la moglie Kate e
Sharpless, giunge Pinkerton con l'intenzione di convincere Butterfly ad affidargli il bambino. Quando apprende
da Suzuki come Butterfly lo abbia atteso in quei tre anni, si allontana col cuore gonfio di rimorso, mentre Kate
e il console attendono nel giardino che Cio-Cio-San si svegli e che Suzuki la prepari alla tragica verità.
Butterfly si desta, ma Pinkerton ha deciso di andar via non avendo il coraggio di affrontarla. La donna scorge
Kate, la quale le si avvicina chiedendole perdono per il male che inconsapevolmente le ha fatto, mostrandosi
amorevolmente disposta ad avere cura del bambino e a provvedere al suo avvenire. Butterfly risponde che
consegnerà il piccolo soltanto a "lui", se avrà il coraggio di presentarsi mezz'ora dopo. Poi torna nella sua
casa. Qui ordina a Suzuki di chiudere le imposte e di ritirarsi nell'altra stanza col bambino. Suzuki, che ha
capito le intenzioni della padrona, vorrebbe restare, ma Cio-Cio-San la spinge fuori. Rimasta sola, indossa la
sciarpa bianca del cerimoniale e prende il coltello di suo padre sulla cui lama si legge: «Con onor muore chi
non può serbar vita con onore». Sta per compiere harakiri, quando all'improvviso Suzuki spinge nella stanza il
bambino. Butterfly lascia cadere il coltello, si precipita verso il piccolo, lo abbraccia soffocandolo di baci e,
dopo avergli rivolto uno straziante addio, gli benda gli occhi e lo fa sedere, mettendogli in mano una
bandierina americana. Quindi raccoglie il coltello, si ritira dietro il paravento e si uccide. Nello stesso istante,
invocandola da lontano, accorre nella stanza Pinkerton, che s'inginocchia singhiozzante sul suo corpo.
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Wagner e la Scenografia Romantica (pt.III
(pt.III)
di Nice Costantino
indifferentemente alla realizzazione di spettacoli
ottici (diorama, panorama) e di scenografie nei
teatri d’opera e in quelli di boulevard, nei quali
imperava il mélodrame à grand spectacle,
determinando osmosi e influenze molto strette fra i
vari stili realizzativi; essi erano anche attivi come
pittori, vedutisti, decoratori, illustratori e perfino, in
qualche caso, coreografi, cosa perfettamente
plausibile in un’epoca in cui le varie
specializzazioni nei ruoli professionali del teatro
erano appena in via di definizione e separazione.
Altrettanto radicata nella tradizione teatrale era la
prassi del riutilizzo delle scene “di genere” per la
messa in scena di pièces diverse: la creazione di
scene nuove per una prima era un’operazione
costosa, anche in considerazione del fatto che,
contrariamente all’uso odierno, in ogni stagione
teatrale il rapporto numerico tra le prime e le
riprese era molto sbilanciato in favore delle novità,
e la realizzazione di nuove scenografie per ogni
nuova opera da rappresentare avrebbe costituito
una spesa insostenibile.
In questa parte
conclusiva ci
occuperemo
dell’influenza
della messa in
scena parigina
sulle
concezioni
wagneriane.
Parigi fu, nel
primo
quarantennio
dell’Ottocento,
capitale
artistica
assoluta, sia
per le arti
visive che per
quelle musicali e teatrali; vi convergevano talenti
affermati e alla ricerca della definitiva
consacrazione internazionale e l’attività artistica
godeva di spazi adeguati, dell’interesse e del
favore entusiastico di un vasto ed eterogeneo
pubblico. Proprio alle esigenze crescenti di questo
pubblico da catturare ogni sera si deve lo sviluppo
notevole e rapido dell’arte della mise en scène nei
numerosi teatri e luoghi di spettacolo parigini.
Ognuno di questi luoghi, infatti, era fucina
sperimentale per i maghi della scenografia e
dell’ottica, i cui talenti erano praticamente al
servizio di tutti i luoghi deputati nello stesso tempo.
Se si esaminano le carriere e i curricula dei nomi
più prestigiosi degli scenografi-decoratori
dell’epoca,1 infatti, si nota come essi lavorassero
Marie Bouton, aprendo poi nel ’23 una sala uguale a Londra.
Si trattava di una sala rotonda con 350 posti mobili, nella quale
venivano mostrati panorami di Roma, Napoli, Londra, Atene,
Gerusalemme; i due soci si separarono nel 1830 e Daguerre
rimase solo a Parigi, subendo l’incendio del suo Diorama nel
1839. Nello stesso anno presentò all’Académie des Sciences il
dagherrotipo. Partecipò anche lui ai Voyages Pittoresques del
barone Taylor.
Jules-Pierre-Michel Diéterle (Parigi 5 febbraio 1811 – ivi 22
aprile 1889) allievo della scuola di David, entrò in società con
Séchan, conosciuto nell’atelier di Cicéri; dal 1840 al ’52 fu
“artiste en chef” e dal ’52 al ’55 “chef de travaux d’art” alla
manifattura di Sèvres, occupandosi di modelli di arazzi e
tappezzerie e dell’organizzazione di sontuose feste pubbliche.
1
Pierre-Louis-Charles Cicéri (Saint-Cloud 17 agosto 1782 –
Saint-Chéron 22 agosto 1866) dopo una iniziale attività negli
USA, rientrò a Parigi, dove fu “peintre en chef” all’Opéra nel
1815 e, dal 1826, al Théâtre Italien; viaggiò moltissimo,
pubblicando vedute (Svizzera e Italia), anche come
accompagnatore del barone Taylor (Voyages Pittoresques).
Charles-Polycarpe Séchan (Parigi 29 giugno 1803 – ivi 14
settembre 1874), dopo aver lasciato l’atelier di Cicéri, fondò
successivamente due società: con Feuchère, Despléchin,
Diéterle (alla fine del 1831-inizio del ’32) e poi con gli ultimi
due (nel 1841). Dal 1833 al ’54 realizzò molte decorazioni per
l’Opéra e altri teatri parigini. Partecipò alla rivoluzione del ’48,
organizzando in quell’ambito le feste pubbliche; rifiutò poi di
ricoprire incari- chi sotto il Secondo Impero e si ritirò a vita
privata.
Louis-Jacques-Mande Daguerre (Cormeilles-en-Parisis 1789 –
Bry-sur-Marne 1851), inventore della fotografia, fu pittore e
decoratore teatrale: “peintre en chef” all’Opéra dal 1819 al
1822, l’11 luglio 1822 fondò il Diorama con il pittore Charles-
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L’aumento nella realizzazione di scenografie ad
hoc fu tuttavia influenzato dal crescente peso che
la figura del compositore e quella dello scenografo
andavano assumendo nel corso della prima metà
dell’Ottocento, acquistando lo status di artefici
assoluti dello spettacolo e di artisti le cui esigenze
andavano rispettate. Basti pensare alla nascita e
alla diffusione, a partire dal 1829-30, dei cosiddetti
livrets de mise en scène (sia manoscritti che a
stampa), nei quali si descrivevano e si fissavano le
realizzazioni canoniche
“secondo il pensiero
dell’autore” (drammatico), cosa
che ad esempio in Italia fu
impossibile mettere in atto fino
a Verdi e alle sue importanti
“Disposizioni sceniche”.
Inoltre, la gara dei teatri per
acquisire fama e per fidelizzare
il pubblico comportò
necessariamente la crescita
degli investimenti per la
magnificenza delle
realizzazioni sceniche, visto
che i favori del pubblico erano
notoriamente molto mutevoli e
si esaurivano presto in
mancanza di novità, varietà e
splendore che facessero
discutere.
In questa realtà teatrale di
altissimo livello, ricca di stimoli
e in rapido sviluppo approdò
nel 1839 Richard Wagner, alla
ricerca di appoggi per potervisi
inserire e di guadagni per
sopravvivere. In tali condizioni,
produsse una serie di resoconti
ai quali è meglio prestar fede solo parzialmente. E’
necessario infatti separare il personaggio letterario
impersonato da Wagner negli scritti che si
riferiscono al soggiorno nella capitale francese
dalla sua persona reale. Se negli articoli e nelle
novelle usciti sulla stampa francese e più tardi
tedesca egli amò impersonare, con forzature
ideologiche, il perseguitato, misconosciuto, povero
in canna adoratore di Beethoven, dal quale venne
investito di una sacra missione riformatrice, la sua
situazione reale, per quanto indubbiamente difficile,
frustrante e anche velleitaria, gli permise
comunque di ricevere alcune importanti esperienze
fortemente formative, la cui influenza, a nostro
parere, non è ancora stata sufficientemente
riconosciuta.
Come sottolinea Oswald Georg Bauer nel suo libro
“Richard Wagner geht ins Theater”, non è
ragionevole basarsi esclusivamente sulle
affermazioni di Wagner, che nel “Mein Leben”
asserisce di essere andato all’Opéra non più di
quattro volte perché non era in grado di pagarsi il
biglietto e non aveva vestiti adeguati; sicuramente
la conoscenza della cantante Pauline Viardot, che
aveva un ingaggio per il Théâtre Italien, del
direttore Habeneck, dei musicisti Berlioz e Halévy
sarà stata più che sufficiente a fargli avere dei
biglietti gratuiti, e inoltre egli era il corrispondente
dell’“Abendzeitung” di Dresda.
In realtà si possono contare
una decina di opere cui
sicuramente egli assistette: il
“Freischütz” di Weber (nel
1841), la “Favorita” di
Donizetti, “La Juive” di Halévy,
“Robert le Diable”di Meyerbeer
e “La Muette” di Auber nella
ripresa dell’allestimento del
1837, “Don Giovanni” di
Mozart, “La Reine de Chypre”
di Halévy (della quale produsse
su commissione la riduzione
pianistica, come aveva già
dovuto fare per la Favorita), il
“Guillaume Tell” di Rossini, il
balletto “Giselle” e soprattutto,
per la prima volta, “Les
Huguenots”, le cui scene furono
realizzate dall’atelier di Séchan,
Feuchère e collaboratori. Lo
spettacolo lo aveva “sehr
geblendet” perché la “schöne
Orchester, die auβerordentlich
sorgsame und wirkungsreiche
Scenirung” gli fornirono un
“überraschenden Vorgeschmack
der bedeutenden Möglichkeiten, zu denen so
sicher ausgebildete Kunstmittel verwendet werden
könnten.”2 (come dice nell’autobiografia).
Altrettanto importante e caratteristica è
l’affermazione di non aver sentito il bisogno
di assistere alle rappresentazioni per più di
una volta perché trovava nella “Manier der
Sänger bald die Caricatur” (“quasi la caricatura
nella maniera degli artisti”), caricatura che era a
sua volta capace di parodiare per il divertimento
degli amici.
2
La rappresentazione degli Ugonotti, alla quale assistetti per
la prima volta, m’incantò ancora: la buona orchestra, la messa
in scena accurata e piena d’effetto, mi permisero di pregustare
le grandi possibilità che si sarebbero potute trarre da mezzi
artistici così perfezionati. (Richard Wagner, Autobiografia, trad.
it. di Sergio Varini, dall’Oglio, Milano 1983, p. 204).
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pas cessé de frapper l’imagination des spectateurs
jusqu’à la fin du siècle.
Questi particolari definiscono con molta precisione
le impressioni che ricevette dalle rappresentazioni
cui assistette all’Opéra, e ci forniscono indizi
determinanti per valutare le componenti sulle quali
si formarono il suo gusto scenico e le concezioni
operistiche che lo guidarono nella composizione
del “Rienzi”, momento della sua adesione
all’estetica spettacolare del grand-opéra.
Le scenografie e la messa in scena dei
melodrammi musicali all’Opéra erano, infatti, in
quel periodo, particolarmente sontuosi. Come già
ricordato precedentemente, gli scenografi e i
decoratori erano tutti attivi su diversi fronti,
collaborando non solo agli allestimenti del teatro
principale, ma anche a quello dei boulevard, e
all’organizzazione degli spettacoli ottici che in quel
periodo costituivano la grande passione del
pubblico popolare: il diorama, il panorama, la
nascente fotografia. Quasi tutti, inoltre, avevano
avuto varie esperienze come vedutisti e perfino
come decoratori di manifatture artistiche. La loro
professionalità spaziava quindi in ogni campo del
‘visuale’, come diremmo noi adesso, e le conquiste
luministiche, ottiche e tecniche confluivano nella
creazione di spettacoli estremamente sontuosi,
studiati per stupire il pubblico con la capacità di
creare forti atmosfere e suggestioni emotive unite
ad una crescente verosimiglianza nella
ricostruzione storica.
Da queste premesse sceniche trasse la propria
spettacolarità il grand-opéra, che si basava
essenzialmente sul contrasto tra le vicende private
dei protagonisti e lo sfondo storico-sociale nel
quale essi si trovavano ad agire, sfruttando
abilmente scene di massa, colore locale delle
ambientazioni e atmosfere fortemente drammatiche
ed evocative.
Uno dei primi spettacoli di questo tipo, cui arrise un
successo unanime e rinnovato nel tempo, fu
“Robert le Diable” di Meyerbeer (1831), per il
quale Cicéri creò la celebre scenografia per il ballo
delle monache nella seconda scena del III atto: un
chiostro romanico immerso nel buio della notte,
illuminato solo dalla luce della luna a fasci
sciabolanti attraverso le arcate, nel quale le suore
biancovestite si alzano dalle tombe per danzare,
mentre la figura di Robert, sinistro deus ex
machina, si intravede appena nel buio. Come
osserva Catherine Join-Diéterle nel suo libro “Les
décors de scène de l’Opéra de Paris a l’époque
romantique” (1988, p. 24)
A questo spettacolo, come sappiamo, assistette
anche Wagner, e sicuramente l’architettura storica,
l’illuminazione fortemente evocativa e l’azione
mimica, della quale faceva parte il balletto,
ingrediente canonico del grand-opéra, agirono
fortemente anche sulla sua immaginazione
drammatica, molto esigente e critica ma pronta a
riconoscere l’efficacia della realizzazione. Su questi
elementi, come pure sulla qualità della recitazione
dei cantanti, si fondarono le premesse irrinunciabili
della sua concezione della messa in scena.
Dès la première, ce décors est devenu pour tous les
romantiques, la quintessence de la scénographie
moderne : l’émotion suscitée par l’architecture
romane, l’éclairage funèbre n’ont
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BIBLIOGRAFIA
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tempo di Pietro Gonzaga”, in AAVV 1986
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Carlo Manfio, Comune di Longarone 1986
VIALE FERRERO, Mercedes “Tre ‘maestri’ e un
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1986
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Lorenzo Bianconi e Giorgio Pestelli, vol. 5, La
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Livre, Fribourg 1983
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trad. di Sergio Varini, dall’Oglio editore, Milano
1983
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amici (Eine Mitteilung an meine Freunde), trad.
di Francesco Gallia, Ed. Studio Tesi, Pordenone
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ins Theater, Bayreuth Festspiele GmbH, Bayreuth
1996
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dell’icononauta – dalla camera oscura di
Leonardo alla luce dei Lumière, Marsilio, Venezia
1997
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Dietrich Mach, trad. di Silvano Daniele, Guanda,
Parma 1988
WESTERNHAGEN, Curt von Wagner – L’uomo,
il creatore, trad. Alfio Cozzi e Vittorio Patané, nota
editoriale p.(aolo) i.(sotta), Mondadori, Milano 1983
CALENDOLI, Giovanni, “La formazione artistica
di Pietro Gonzaga”, in AAVV 1986
GONZAGA, Pietro, Information a mon chef, ou
éclaircissement convenable du décorateurtheatral Pierre Gothard Gonzague, sur
l’exercice de sa profession, a Saint-Pétersbourg
1807
JOIN-DIÉTERLE, Catherine Les décors de
scène de l’Opéra de Paris a l’époque
romantique, Picard Editeur, Paris 1988
MAYER, Hans Richard Wagner a Bayreuth
1876-1976, Einaudi, Torino 1981
MANCINI, Franco Scenografia italiana – Dal
Rinascimento all’età romantica, Fabbri, Milano
1966
MANCINI, Franco “Scenografia romantica 1., 2.,
3.”, Critica d’arte, n. s., n. 96 (giugno 1968), pp.
45-60; n. 98 (ottobre 1968), pp. 65-80; n. 104
(giugno 1969), pp. 53-66
MANCINI, Franco Scenografia napoletana
dell’Ottocento – Antonio Niccolini e il
neoclassico, Banca Sannitica, Napoli 1980
MURARO, Maria Teresa (a cura di) Scenografie
di Pietro Gonzaga, catalogo della mostra, Neri
Pozza, Vicenza 1967
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Un viaggio intorno ad
Avleddha:
intervista a Rocco De
Santis
di Viviana Leo
V. L.: L’Esperienza di La Terra, film muto di
A. Dovzhenko del 2004, ti ha visto coinvolto
in prima persona nella stesura di
composizioni originali per la sonorizzazione
dell’opera: in che termini questo lavoro ha
inciso, a livello musicale, su Ofidea?
Avleddha è un progetto che nasce nel 1991
a Sternatia in provincia di Lecce, in una di
quelle frange di territorio ellenofono di cui
tanto si parla e di cui pochi ne conoscono
le radici, da un’idea dei fratelli De Santis,
Rocco e Gianni, Mario Spagna, Luigi
Gemma e Teodoro Fogetti, con l’obiettivo di
recuperare e valorizzare la cultura grica.
Avleddha svolge, a latere dell’attività
musicale, produzione di opere teatrali che
diffonde anche fuori dai confini nazionali.
Musicaround.Net ha intervistato Rocco De
Santis, che svelerà i segreti del nuovo
albub Ofidea e dell’attività di Avleddha.
R. D. S.: La Terra, per me è stata una
straordinaria esperienza artistica, che mi ha
permesso di confrontarmi, per la prima volta,
con la poetica dell’immagine ma soprattutto,
per la prima volta, con la composizione di
un’intera partitura strumentale: fatto
eccezionale per uno chansonnier come il
sottoscritto. Ho avuto modo di scoprire
nuove possibilità, nuove soluzioni che ho
potuto poi ulteriormente sviluppare in Ofidèa,
scrivendo ogni singola parte, per ogni
strumento componente l’ensemble della band,
determinando, così, un arrangiamento
totalmente differente dai precedenti lavori
discografici di Avleddha, laddove la ‘vestizione’
del brano si definiva, in sede di prova,
dall’interazione tra i vari strumentisti.
Viviana Leo: Avleddha in grico significa
“curte”: quanto ritieni sia importante
questo luogo e perché?
Rocco De Santis: L’avleddha, che è una sorta
di cortiletto antistante a una o più abitazioni, è
un elemento molto importante, sia dal punto di
vista
architettonico che funzionale. Architettonico
perché caratterizza fortemente i centri storici
della Grecìa
Salentina; funzionale perché è uno spazio di
mediazione fra le attività sociali e la vita privata
dei suoi abitatori; un luogo di passaggio, di
scambio, di decantazione. Questi elementi, se
presi simbolicamente, ritengo che possano
rappresentare una importante metafora
culturale.
V. L.: L’attività di Aveddha è volta anche al
recupero delle tradizioni popolari salentine:
in che termini vi fate portatori di questa
salvaguardia?
Per noi tradizione è soprattutto continuità. Una
cultura può considerarsi viva finché sia in
grado di esprimersi in termini contemporanei.
Tradizione vuol dire recuperare le esperienze
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del passato per avere un’identità forte che ti
permetta di esistere e di esprimerti, oggi e
domani, attraverso le proprie peculiarità, ma
senza chiusure e soprattutto senza estremi
campanilismi e all’insegna dell’universalità.
Questo è il nostro pensiero a riguardo; un
pensiero che cerchiamo di esprimere
originalmente e soprattutto in termini poeticomusicali.
piacioneria, che se eccessiva può diventare
dannosa.
V. L.: Se dovessi raccontare il vostro
viaggio musicale dal primo album “Otranto”
e arrivare fino ad “Ofidea”, cosa è cambiato
e cosa è rimasto, sia in termini musicali,
che in termini di contenuti testuali?
R. D. S.: Gli inizi di un viaggio artistico, sono
sempre contraddistinti da uno spirito
pionieristico, da un giovane entusiasmo e da
una poetica freschezza. Questi sono gli
elementi che identificano “Otranto”, sia
musicalmente che testualmente. A mio avviso,
quello che passa, in termini emozionali,
dall’ascolto di questo nostro primo cd, rispetto
al nostro percorso musicale, è finora
insuperato. Le ingenuità date dall’inesperienza
passano in secondo ordine, sopravanzate da
un bellissimo
amalgama di
voci e di suoni
che in
qualche modo
sottolineano
la fortissima
coesione e
l’unità d’intenti
che
regnavano
nella band.
“Otranto” era
il biglietto da
visita di un
gruppo di
persone che
affermavano,
con i fatti, che tradizione non è solo l’infinito
reiterare del solito, se pur nobile, repertorio,
ma è anche continuità, contemporaneità e
capacità, da parte di una cultura, di uscire fuori
dal “museo”.
Lasciato alle spalle il ‘museo’, forti di una viva
identità, l’esigenza, ora, era quella di sentirsi
parte di un progetto dalla connotazione più
universale. Con “Senza Frontiere”, si cercava
di varcare i confini, fisici e mentali, di una
cultura minoritaria, quale quella grecosalentina, il cui rimorso della diversità aveva
portato alla quasi estinzione del logos grico.
V. L.: In tempi come questi, con operazioni
di recupero, si può correre il rischio di
restituire l’immagine di un quadretto
folklorico all’eventuale fruitore? Come fare
per evitare il rischio di banalizzare e
‘turistizzare’ senza scrupoli un patrimonio
culturale?
R. D. S.: Il folklore, inteso come esposizione e
spaccio di usi, costumi e prodotti tipici del
luogo, non è mai
appartenuto al
Salento, a differenza
di altre zone d’Italia
con una più radicata
vocazione turistica
incentivata da
sempre attraverso lo
sventolio di amene
tipicità. Ma ora anche
il Salento,
fortunatamente, è
diventato un ambìto
approdo di vacanzieri
e, di conseguenza,
le tipicità vanno
rispolverate, magari
reinventate
attraverso miriadi di sagre. Purtroppo, il
processo di banalizzazione è inevitabile nel
momento in cui un prodotto viene massificato.
Nel nostro caso, l’impetuosa pizzica, è
diventata via via sempre più tracotante per un
uso che da meritorio spesso diventa
sconsiderato ed egemonizzante riguardo ad
una visibile eterogeneità culturale che rischia di
essere oscurata dai clamori estivi.
Bisognerebbe necessariamente dare più
spazio e valorizzare le espressioni più
autentiche ed alternative di cui una cultura è
capace, ridimensionando un po’ di quella
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carattere positivo o negativo?
Affermare la propria identità dialogando con
stilemi musicali che tradizionalmente non ci
appartengono ma che appartengono alla
musica pop, che in qualche modo ormai unisce
tutte le culture del mondo. “Senza Frontiere” è
un viaggio che parte da “Otranto”, e passando
da Costantinopoli a Baghdad, porta in America.
Poi “Ofidèa”, completamente diverso dai primi
due cd.
Reduce dall’esperienza cinematografica, ho
voluto portare il cinema nell’ambito Avleddha;
unica regia identitaria, la mia. E come gli attori
nel cinema, gli strumenti seguono una
sceneggiatura, un copione; e ognuno dà il
meglio di sé nell’interpretare un pensiero
“altro”. In “Ofidèa”, la fisionomia musicale che
contraddistingue il percorso di Avleddha, si
afferma in modo netto e totalizzante.
In questo nostro cammino ogni cd è stato
sempre diverso dal predente, sia
musicalmente che testualmente, relativamente
al messaggio che si voleva dare. D’altra parte
le esperienze, nel tempo, ti fanno acquisire
nuovi modi di interpretare la realtà; e questo
succede normalmente anche nella musica e
nella poesia. Quello che fortunatamente non è
cambiato è la voglia di esprimersi; esprimersi
con onestà intellettuale, e senza snaturarsi nel
cercare di piacere a tutti, ad ogni costo.
R. D. S.: Per l’appunto, la sacara è un
serpente molto diffuso nel Salento e, in linea
con la tradizione, molto temuto – a torto – e
molto perseguitato. Così a un animale del tutto
innocuo, la diceria popolare attribuisce,
falsamente, un morso terrificante tale da
seccare persino gli alberi, e altre malefatte a
iosa. La costante e ingiustificata persecuzione
ha poi portato alla quasi estinzione del povero
rettile. In qualche modo, la cultura grecofona
ha subìto la medesima sorte della sacara. La
maldicenza, il pregiudizio e la fobia nei
confronti di una cultura altra, ha decimato, nel
tempo, il numero dei suoi parlanti. “Gente con
due lingue” venivano apostrofati con disprezzo,
e alla stregua dei serpenti, i griki. Ecco perché
bene si identifica la Grecìa Salentina con la
sacara, la cui lingua biforcuta può essere una
metafora del bilinguismo grico; il cui tormentato
destino sintetizza il difficile cammino di questa
enclave linguistica. Ma come per la sacara, il
mimetismo, la prudenza e la longevità, sono
doti che hanno permesso alla cultura grica di
esistere fino ai nostri giorni, quindi penso
proprio che l’accostamento non può essere
altro che positivo.
V. L.: Una nota anche alla ricchezza grafica
che caratterizza i libretti degli album di
Avleddha: è solo un aspetto estetico o
vuole essere parte integrante e significativa
dell’intera opera che proponete?
V. L.: Ofidea è un viaggio, una specie di
Odissea, che racconta la storia di Ofis, un
serpente. Andando oltre il senso letterale,
qual è il messaggio dell’intero viaggio?
R. D. S.: Il serpente è forse l’animale più
discriminato al mondo. Simbolicamente ha
sempre rappresentato il Male, che subdolo si
insinua e inietta il veleno della dannazione. In
realtà, il serpente non è altro che una creatura
di questo mondo che ha la sfortuna di respirare
polvere strisciando per terra; che si, a volte
può essere velenoso, ma d'altronde chi di noi
umani non serba in sé un po’ di quel veleno,
pronto ad essere dispensato a danno altrui?
Diciamo che l’Ofidèa e un viaggio di
redenzione di chi, per vari motivi, è reietto dalla
società.
R. D. S.: Noi pensiamo che le componenti che
costituiscono il contenuto di un cd, debbano
essere connesse e in linea con il messaggio
che si vuole comunicare. Così come la musica
è legata filologicamente al testo, anche la
grafica deve sottolinearne i significati.
Personalmente credo molto all’interazione tra i
diversi linguaggi artistici. In “Senza Frontiere”,
ad esempio, il coinvolgimento del pittore Gigi
Specchia ha dato vita alla creazione di un
libretto dal grande contenuto artistico, in cui le
immagini, ispirate dai testi, restituiscono al
fruitore un’ulteriore chiave di lettura. Peraltro,
“Senza Frontiere” è anche cd rom, per cui le
stesse immagini si possono vedere al
computer insieme alla traduzione in inglese dei
V. L.: Cosa significa identificare la Grecìa
con la sacara? E questa associazione ha un
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R. D. S.: Certamente c’è una coerenza
musicale, data da un’analogia timbrica che si
ripete in ogni brano, in virtù degli strumenti che
formano l’ensemble e in virtù di uno stile
compositivo. Dal punto di vista testuale,
diciamo che il filo principale che identifica
Ofidèa è l’alternanza linguistica tra grico e
dialetto romanzo, che sta a sottolineare il
bilinguismo greco-salentino che in questo disco
si vuole evidenziare. Ma, fermo restando che
un cd fortunatamente non è un monolite,
comunque ci sarebbe anche una connessione
di significati fra un brano e l’altro. Si parte dai
desideri sognati, in Quiddhu ca volia, per poi
passare al desiderio del ritorno in I màghissa.
E ancora il desiderio del riscatto, in Ofidèa; e
poi la tregua che si cerca nel sonno, in “Inno”.
L’amara constatazione dello stato di ingiustizia
sociale a cui spesso il popolo è soggetto, di
Fuddha, dulìa ce cannò. Ancora il desiderio di
comprensione, di redenzione, in “Canzone
sporca”; la redenzione che spesso passa dalla
ricerca dell’amore, in Travudàci atsilò; e la
canzoncina alta diventa canto di protesta, di
invettiva, in “Io zappatore sono”. Poi la durezza
delle parole lascia strada alla dolcezza di Loja
jà sena, in cui il testamento d’amore vuole
lasciare un legame indissolubile che vada oltre
la morte. E’ sempre il desiderio che porta alla
ricerca di una ideale identità, di uno stato di
bastevolezza; alla ricerca di Itaca. In questa
Odissea, in questa Ofidèa, il desiderio è il filo
conduttore, e forse il ritorno a Itaca è presagito
in Fiuri de San Martinu, nella nostalgia di un
paesaggio governato dal ritmo della natura e
nella semplicità di gesti quotidiani.
testi; certamente un interessante esperimento
da riproporre in futuro.
V. L.: Spostando l’attenzione su alcuni dei
pezzi di Ofidea, I maghissa è un testo
tradizionale greco, presentato nell’album
con musiche originali: cosa rappresenta
questa maga?
R. D. S.: I màghissa, parla di un incantesimo ai
danni di uno straniero, causato da una donna
che è un po’ maga Circe e un po’ Calipso
(giusto per restare nella tradizione greca), che
impedisce all’uomo di tornare in patria dalla
sua donna, e in qualche modo gli impedisce di
recuperare la propria identità. La forza di alcuni
testi sta nella possibilità di prestarsi a varie
interpretazioni. Io ci vedo dentro l’esilio delle
identità culturali, prigioniere dell’effimero
richiamo della globalizzazione. Ma come non si
potrebbe pensare, ad esempio, ai vincoli della
tossicodipendenza?
V. L.: Canzone Sporca e Travudàci Atsilò
(canzoncina alta), entrambe originali
sembrano essere in antitesi, per lo meno
basandosi sul titolo. In che rapporto sono
le storie che raccontano?
R. D. S.: In effetti sono antitetiche. “Travudàci
atsilò” è canzoncina alta in quanto leggera; di
una leggerezza che serve ad alleviare le pene
d’amore di chi la canta. E sebbene l’amore dia
spesso dolore, il dolore descritto in “Canzone
sporca” è di tuttaltro tenore. In “Canzone
sporca” si parla della disperazione di un reietto,
a cui la società, ipocrita, non perdona la
“maledizione”. Egli troverà un ultimo conforto
pregando di fronte a una icona diroccata e
dimenticata ai margini della città. Solo chi
condivide le stesse miserie può capire. In
quella madonnina emarginata troverà un ultimo
gesto di pietà e di redenzione.
V. L.: Avleddha ha qualcosa di nuovo in
cantiere per il prossimo futuro?
R. D. S.: Avleddha ha molte cose nuove per il
prossimo futuro; qualcosa è già presente,
come un recital con musiche composte su testi
di Antonio Verri,dal titolo “Il pane sotto la
neve”, che stiamo rappresentando in questo
periodo. Per il resto sentiamoci l’anno
prossimo….
V. L.: I testi dei brani sono tra loro molto
differenti, eppure alcuni fraseggi melodici
sembrano collegare i pezzi uno con l’altro
in una logica non necessariamente
consequenziale: qual è il filo che mette in
relazione tra loro i brani?
www.avleddha.it
www.myspace.com/avleddha
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Avleddha
Ofidea
di Viviana Leo
01. Quiddhu ca volia
02. I maghìssa
03. Ofidèa
04. Inno
05. Fuddha, dulia ce cannò
06. Canzone sporca
07. Travudàci atsilò
08. Io zappatore sono
09. Lòja jà sena
10. Fiuri de San Martino
11. Lòja jà sena (remix di Stefano Miele)
[Anima Mundi, 2007]
Rocco De Santis
Gianni De Santis
Nadia Martina_
Giuseppe Giannuzzi
Rocco Nigro
Stefania Fracasso
Pino Basile
Giuseppe Ciancia
voce, chitarra
voce
voce
violino
fisarmonica
basso
percussioni
percussioni
Sena. Avleddha, assume la sacara, come metafora
della Grecìa, territorio ellenofono della penisola
salentina, per la caratteristica del suo popolo di
parlare due lingue: l’album infatti si distende su
un’alternanza di testi in dialetto grico e dialetto
romanzo, proprio a sottolineare questa particolare
coesistenza che ha, nel corso dei secoli, innescato
dicerie e maldicenze relative ad i possibili inganni e
raggiri. La lingua grica, al pari del serpente, si è autopreservata, come afferma lo stesso ideatore
dell’opera, attraverso mimetismo, prudenza, capacità
di adattamento, longevità che le hanno permesso di
resistere fino ai nostri giorni. Questa esperienza
musicale nasce dalla penna di Rocco De Santis che,
dopo il lavoro di composizione musicale per il film La
Terra di A. Dovzhenko, ha voluto creare, sotto
un'unica regia, la sua, un percorso raccontato
attraverso le immagini di parole e musica, sbrogliato
sulla strada, sulla terra, sui sassi e sulle buche dei
bisogni umani. Stilisticamente non è semplice dare
una catalogazione chiusa e stantia alla musica di
Ofidea, così come rigido non è l’album stesso.
Avleddha si manifesta con un etnico d’autore: i pezzi,
assolutamente originali per testi e musiche, hanno
colori e timbri della fisarmonica, del violino, delle pelli
delle percussioni. I ritmi mediterranei e latini si
plasmano su fraseggi melodici che richiamano
elementi etnici e non solo. L’ossessività e la
ripetizione di certi arpeggi descrive in modo quasi
didascalico lo stato emotivo del pezzo, allo stesso
modo della dilatazione melodica e ritmica di altri, che
diventa talvolta dolcezza, talvolta nostalgia. E se i
serpenti potessero provare emozioni, allora Ofis…
«E strisciu ca li peti no’ li tegnu, ca se tenia doi ali pe
sostegnu potia volare su’ n’alitu de vientu cu visciu se
lu mare è bellu comu sentu» [E striscio perché non ho
piedi, perché se avessi due ali per sostegno potrei
volare su un alito di vento per vedere se il mare è
bello come sento n.d.r.]. A chi, quando si parla di
desideri, è venuto mai in mente che anche un
serpente potrebbe averne qualcuno? Lui, il simbolo
cattolico del peccato, del male, del tentatore che
merita la punizione di respirare la polvere…
Com’è il mondo dal punto di vista di un serpente?
Per scoprirlo non è necessario strisciare per terra…
c’è chi, al posto nostro lo ha già immaginato, e lo
propone in un nuovo viaggio artistico fatto di immagini
così definite che sembrano reali. Ofidea è l’Odissea di
Ofis, un serpente, conosciuto nel Salento con il nome
autoctono di sacara, che riceve qui, per la prima volta,
la possibilità di redimersi. Traslando questa metafora,
Ofis diventa il simbolo dei reietti della società,
dell’uomo e dei suoi desideri, delle pulsioni, del
percorso di riconciliazione di chi è emarginato da se
stesso e dal mondo. Ofis si muove sulla terra
lentamente e con fare sinuoso, al passo dei sogni e
delle aspirazioni di cui si fa bandiera: il desiderio
sognato, espresso in Quiddhu Ca Volia, primo pezzo,
in ordine di scaletta; il desiderio del ritorno in I
Màghissa; il bisogno di riscattarsi che si lascia
raccontare in Ofidèa, brano che dà il titolo all’intera
opera; l’umano desiderio di comprensione, di
redenzione e accettazione che raggiunge livelli di alta
poesia in Canzone sporca; la necessità di ricerca
dell’amore con Travudàci Atsilò e il forte desiderio che
esso valichi anche i confini della morte in Loja Jà
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L’Organo Parie
L’unico vero concorrente dell’Hammond
di Emanuele Raganato
La popolarità che l’organo Hammond riuscì a
conquistare in tutto il mondo fu tanta e tale da
riuscire ad eclissare in vari modi tutti i tentativi e
tutti i progetti di altri strumenti similari che, talvolta,
sarebbero stati meritevoli e degni di tutti gli onori e
l’accoglienza del caso. Una storia importante,
soprattutto in Italia, fu quella dell’organo Parie. Il
suo inventore fu l’ingegnere Anton Parie, che
tutt’ora vive in Belgio. Iniziò a dedicarsi alla
costruzione dei suoi organi tra gli anni '50 e '60.
In questo periodo Parie aveva una piccola azienda
che produceva
antenne per televisori e
amplificatori. Nel 1955
acquistò, in uno dei più
grandi e famosi negozi
di Rotterdam, un
pianoforte che sistemò
a casa. Furono proprio i
titolari di questo
negozio che ben
conoscevano il
background di
meccanica ed
elettronica di Parie,
unitamente alla sua
cultura musicale (aveva
infatti studiato
pianoforte) a suggerirgli
Parie XTO
di sviluppare un nuovo
organo con generatore
“tonewheel”. Il mercato
degli organi elettromagnetici era all’epoca in forte
incremento e a Parie l’idea di aprire un nuovo
settore di business nella sua azienda sembrò
essere una buona idea. Il primo progetto fu
realizzato con un generatore elettrostatico
“tonewheel” e nei primi anni Sessanta furono
prodotti i modelli “RP”, “RL” e “PROF”. Se ne
vendettero tantissimi nel nord Europa e con grande
successo tra i musicisti. Nel frattempo,
parallelamente iniziò lo studio del generatore
magnetico “tonewhell”. L’impresa di Parie è
senz’altro degna di lode, considerando a quanti
vincoli doveva attenersi il progettista a fronte dei
numerosi brevetti di Hammond. Dopo aver aperto
un capannone per la produzione esclusiva degli
organi, Parie, iniziò a produrre il modello XTO
(simile all’M100 Hammond, ma meno costoso
all’epoca), facendo uscire dalla produzione i vecchi
“RP”,”RL”, e “PROF ”. Il successo fu enorme e
l’azienda si trovò a dover soddisfare una domanda
alla quale non era preparata. In questo periodo
Parie, dopo aver avuto una parentesi negativa con
un socio incompetente, decise che era arrivato il
momento di guardare altrove. Uno dei suoi fornitori
di semilavorati era Alfredo Gioielli, produttore
italiano di strumenti musicali di Castelfidardo (AN),
il quale comprese
immediatamente, nel
corso di una visita in
Belgio, l'enorme
potenziale che tale
strumento poteva
avere nei mercati
internazionali, sulla
scia del successo che
stava avendo l' XTO
nei mercati europei.
In questo scenario
brillava come un
prezioso diamante,
l'industria musicale
italiana, che aveva
nel polo
marchigiano e più
specificatamente
nel comprensorio di Castelfidardo, una fiorente
attività imprenditoriale rivolta a questo settore, che
poi in generale diede impulso ad aziende
elettroniche, elettrotecniche, meccaniche e dello
stampaggio delle plastiche, che tutt' oggi
sopravvivono alla crisi che ha spazzato via
l'industria degli strumenti musicali.
Tra queste aziende, vi era quella gestita da Alfredo
Gioielli, che come già detto, in occasione di una
visita in Belgio, all'azienda Parie, con cui stava
collaborando per la fornitura di particolari di
semilavorati per organi, proprio quando Parie
accusava difficoltà con la gestione del nuovo socio,
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incredibili, al punto che ancora oggi molti ricordano
con nostalgia ed ammirazione. Anche il M° Guido
Mazzella , musicista molto noto nell'ambito di
questi strumenti elettromagnetici, acquistò l' ultimo
PARI K61 prodotto dalla cooperativa di
Castelfidardo.
Erano anche gli anni in cui la PFM (Premiata
Forneria Marconi), tanto per fare un nome molto
noto agli appassionati di musica, aveva scelto il
PARI per il loro genere
musicale e numerosi
furono i gruppi italiani che
lo utilizzarono; all'estero, il
gruppo francese dei
Rockets ne fu a lungo
endorser.
Ma la grande crisi degli
strumenti musicali che si
abbattè negli anni '80 sul
settore, unitamente
all'avanzata dei produttori
giapponesi, che, dopo aver
preso piene mani, dalle
esperienze dei produttori
italiani, si imposero
prepotentemente nella
totalità dei mercati, e
decretarono la inesorabile fine della maggior parte
delle esperienze industriali italiane. La PARI SpA
non fu risparmiata da quest'ondata di crisi, ed in un
primo tempo, per non affondare completamente
l'iniziativa, propose ai dipendenti di continuare
l'attività sotto forma di cooperativa, che tuttavia
dopo qualche anno cessò anch'essa di esistere.
Oggi l’azienda è ritornata in vita, gestita sempre
dalla famiglia Gioielli e può vantarsi di essere
l’unica realtà mondiale a produrre, attualmente,
l'unico organo elettromagnetico al mondo.
Nella sua breve storia, sono state prodotte poco più
di 20.000 unità di organi PARIE così ripartite fra i
modelli prodotti:
gli fu prospettata l'idea di acquisire le attrezzature e
gli impianti grazie ai quali produrre l'organo Parie.
La decisione fu immediata e l'accordo fu
perfezionato in breve tempo.
Inizio così la produzione italiana dell'organo Parie.
Era l'anno 1969 e l'industria italiana poteva così
fregiarsi di aver aggiunto un altro tassello alle
importanti produzioni delle aziende di
Castelfidardo. L'impegno fu immenso, ma le
soddisfazioni non
mancarono. L' XTO
venne prodotto per
diversi anni, ed a
questo venne
affiancata la
produzione di un
modello denominato
SKORPIOS che si
contraddistingueva
dall' XTO per
l'aggiunta
dell'elettronica che
già caratterizzava
diversi strumenti
dell'epoca (come la
batteria elettronica) e
che veniva richiesto
dalla generalità della clientela diversa dai musicisti,
i quali, di questa caratteristica facevano a meno.
I risultati furono soddisfacenti, ma anche Gioielli
arrivò presto alla conclusione che tale strumento
aveva bisogno di risorse più importanti per poter
essere accreditato del successo che meritava in
campo mondiale. Pensò pertanto di coinvolgere
nell'iniziativa diversi industriali di Castelfidardo, che
condividendo il potenziale dello strumento, si
associarono nella PARI SpA, società che diede
nuova linfa e visibilità allo strumento.
Alla produzione dell' XTO fu affiancato
immediatamente il mitico K61, doppio manuale a
61 tasti, ed il glorioso ed affascinante modello
KOTRA.
Una nota particolare va fatta per il KOTRA che fu
così denominato e prodotto in onore del sig.
Nicotra, d'origini siciliane, che durante una vista
presso la società PARI SpA, riferì come fu lui ad
ideare negli anni '30 l'organo elettromagnetico,
durante il suo soggiorno americano e che
Hammond, a dir suo, s'interessò “furtivamente” di
questo prodotto, arrogandosene pienamente l'idea.
Negli anni '70 con l'azienda di Castelfidardo
collaborava il M° Claudio Calzolari appassionato di
questo tipo di strumento ed eccezionale musicista
che durante le Fiere degli strumenti musicali era in
grado di catalizzare l'attenzione dei visitatori,
esaltandosi nel suonare il PARI, con esibizioni
1 Mod. XTO
N. 11.000
2 Mod. NAVAHO N. 1.000
3 Mod. ATTACK
N. 6.000
4 Mod. SKORPIOS N.
500
5 Mod. K 61
N. 2.000
6 Mod. KOTRA
N. 100
Bibliografia:
- http://www.parieorgan.it
- http://www.tonewheel.net
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vst
benvenuti nell’era dell’orchestra virtuale
di Antonio Marchello
La Virtual Studio Technology è una tecnologia
nata grazie ad un idea di casa Steinberg e la sua
evoluzione è vista oggi come una vera rivoluzione
per il musicista moderno. La VST permette difatti a
tutti i musicisti di poter suonare qualsiasi
strumento. Ebbene si perché la VST non è una
tecnologia mediante la quale si infonde per osmosi
la conoscenza di uno strumento ma piuttosto un
sistema software capace di codificare tutti i segnali
in entrata in una scheda audio e straformare questi
ultimi in suoni pre-campionati e associati a
qualunque strumento. Detta così la VST non
sembra essere alla portata di tutti, ma, al contrario,
la praticità d’uso di questi strumenti e le potenzialità
di questi ultimi, contribuiscono ulteriormente a
rendere il musicista moderno “autonomo”.
Ricordate quando per formare un’orchestra, al
netto degli strumenti, era indispensabile trovare i
musicisti…bene concetto superato.
La VST ha risolto anche questo problema, è
sufficiente difatti solo un musicista con un minimo
di competenze informatiche per sopperire alla
necessità di reperire degli strumentisti. Seguiamo il
semplice schema
proposto in questa
pagina per
comprendere in cosa
consiste questa
tecnologia. La
strumentazione
Mixer
minima consiste in
una tastiera con un
Out
In
uscita MIDI, un PC,
un Mixer, una coppia
di casse stereo. Nella
dotazione domestica
potremmo addirittura
shuntare il mixer
andando direttamente
dall’uscita audio del PC alle stesse casse. In
questo schema ovviamente la tecnologia VST la
collochiamo necessariamente all’interno del PC. Il
segnale MIDI in uscita dalla tastiera entrerà
all’interno del PC dopo averlo opportunamente
collegato all’ingresso MIDI del PC stesso. Dopo
aver preventivamente scelto lo strumento che si
vuole riprodurre sul nostro software con tecnologia
VST, il nostro segnale uscirà dal PC con la timbrica
Casse
di un nuovo strumento. Sarà quello il segnale che
noi ascolteremo, quindi non più il suono originale
prodotto in dalla nostra tastiera. Esposto già in
modo banalmente semplicistico è facile intuire quali
possano essere le potenzialità di un tale strumento.
Alla fine degli anni ’80 tutti noi ricorderemo le
chitarre elettriche, bassi, e soprattutto le
percussioni prodotte nei CD dei grandi musicisti
internazionali di musica pop nei loro dischi. Quella
timbrica, oggi estremamente evoluta è molto più
vicina (per non dire migliore per alcuni casi) a
quella dei reali strumenti, è per noi oggi un
contrassegno inconfondibile della musica di quegli
anni, ovvero le prime espressioni musicali
riprodotte da strumenti virtuali. Ma i VST servono
solo a sostituire i musicisti? Ovviamente no.
Questa tecnologia, ha subito negli ultimi anni una
tale evoluzione da sostituire non più solo gli
strumentisti ma anche gli strumenti! Spieghiamo
meglio. Un musicista che oggi vorrebbe incidere il
suo disco per pianoforte solo su di uno Steinway &
Sons, senza necessariamente recarsi in sala
d’incisione può farlo? Certamente basterebbe
avere lo Steinway in casa. E se non
ha neanche quello? Può farlo lo
stesso. Certo perché l’evoluzione
della VST di cui parlavamo, dopo
VST
aver capito come riprodurre
qualsiasi tipologia di strumento, si è
Out
In
concentrata sulla somiglianza
timbrica di questi ultimi portando
alcuni prodotti a risultati dapprima
apprezzabili poi davvero
impensabili. Solo per dirne uno,
l’ultimo prodotto della Steinberg si
chiama proprio The Grand 2. Il
software è racchiuso in un DVD da
4GB che ha un’estrema facilità
d’uso e che contiene solo 2 tipologie
di pianoforti. Dai numeri che ho appena dato è
facile capire in 4GB quale lavoro di fino hanno fatto
i tecnici della Steinberg. Il musicista insoddisfatto
della timbrica della sua tastiera non dovrà più
acquistarne un'altra ma semplicemente
compendiarla con questi strepitosi strumenti. Tra i
tanti pregi forse un difetto potrebbero averlo…il
prezzo (The Grand 2 della Steinberg viene venduto
ad un prezzo consigliato di circa €230,00).
PC
Tastiera
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Michelle Mercer
Wayne Shorter
Il filosofo col Sax
di Marco Leopizzi
STAMPA ALTERNATIVA
Collana: New Jazz People
ISBN: 978-88-6222-023-1
ISBN-13: 9788839714206
2008
pagg. 224
euro 15
Le note di Wayne sono
come agopunture. la sua
musica riordina
immediatamente la tua
struttura molecolare; i
tuoi occhi mutano, sono
come pacificati. Costringe
le persone a sentire la
totalità. Coltrane e Miles e
Wayne erano gli unici a
rendermi consapevole che
non c’è bisogno di morire
per sentire l’assoluto e la
totalità.
Carlos Santana
si appassionò alla musica sudamericana, che
informerà alcuni fra i suoi più begli album solisti dei
primi ’70 (“Moto Grosso Feio”, “Odyssey Of Iska” e
“Native Dancer”), prima di fondare assieme a Joe
Zawinul e Miroslav Vitous i Weather Report, la sua
band più importante, inimitabile icona della Fusion.
La Mercer racconta molti particolari dei Report e
propone la tesi che l’isolamento del sassofonista
verso la fine dei ’70 (quando partecipò a dischi di
artisti pop vicini al Jazz, dagli Steely Dan a Joni
Mitchell e Santana) non fosse dovuto alla perdita di
peso nella band, o all’entrata di Pastorius, ma al
processo di crescita interiore che stava affrontando
ed al conflitto tra la religione e lo stile di vita imposto
dalla carriera. Dopo lo scioglimento Shorter suonò in
molte colonne sonore (con “‘Round Midnight” vinse
un Grammy Award) e ricominciò a pubblicare a suo
nome, e nel ‘99 riuscì anche a realizzare alcune
composizioni sinfoniche (“Dramatis Personae” e
“Syzygy”). Un paio d’anni dopo costituì un altro
quartetto con cui riuscì finalmente a trovare l’intesa
giusta e a rinascere.
La scrittrice narra, inoltre, dei tanti incontri con Lester
Young, John Coltrane, Milton Nascimento, Sonny
Rollins, e chiarisce come il processo creativo di
Shorter possa prendere spunto dalla scena di un film
o da un romanzo.
Anche se a volte un po’ celebrativa ed indulgente
verso il protagonista, l’opera della Mercer è preziosa
tanto per gli appassionati quanto per gli studiosi,
perché scolpisce su carta la figura di uno dei massimi
compositori del Jazz, riuscendo a farcene quasi
sentire la voce.
A quasi cinquant’anni dal primo disco solista di
Wayne Shorter (il ’59 fu inoltre quello del primo con i
Jazz Messengers) arriva in Italia la biografia ufficiale
di uno degli ultimi giganti del Jazz, pubblicata da
Stampa Alternativa come traduzione dell’originale
“Footprints: The Life And Work Of Wayne Shorter”,
opera della critica Michelle Mercer. Impreziosito dalla
premessa di Herbie Hancock, amico intimo del
sassofonista, e dalla prefazione dello stesso Shorter il
libro ne ricostruisce minuziosamente, grazie a
numerose testimonianze dei tanti musicisti e amici
che l’autrice ha intervistato, non solo la carriera ma la
vita tutta, muovendo dall’infanzia e passando
attraverso le prime passioni (film, pittura e fumetti), gli
studi, la riluttanza ad esprimersi verbalmente, la
scoperta del bebop alla radio, i suoi tre matrimoni, i
prolungati problemi con l’alcool, la dolorosissima
malattia della figlia Iska, il misticismo e la conversione
al buddismo di Nichiren. Tuttavia, nucleo centrale
rimane la lunga esperienza musicale del compositore.
Shorter ha percorso il Jazz dal suo periodo d’oro fino
ad ora, dall’hard bop dei Jazz Messengers di Art
Blackey (con cui incise alcune delle meraviglie del
genere come “A Night In Tunisia” e “Free For All”) ai
capolavori con il secondo quintetto di Miles Davis al
fianco di Hancock, Ron Carter e Tony Williams (su
tutti lo storico “Live At The Plugged Nickel” e
“Nerfertiti”, che prende il nome da una sua
composizione), accompagnando poi il trombettista
nella sua prima avventura elettrica di “In A Silent
Way” e “Bitches Brew”, in cui Shorter cominciò ad
utilizzare il soprano. Successivamente Wayne prese
un periodo di pausa dalla frenetica routine musicale e
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LUCA AQUINO
SOPRA LE NUVOLE
NUVOLE
di Alessandra Margiotta
01. Il Ciclista Che Corre Col Suo Sax Tenore Sempre In Testa
02. Bossando Con Mapà
03. Dancing With Sarè
04. La Stazione
05. You Don’t Know
06. Sopra Le Nuvole
07. Soft Shoulders
08. Il Crepuscolo Della Dea
09. Van Laar Sounds
10. Ballad For Nhalì
11. Zeta
12. A
13. Micettina
Luca Equino,_ tromba e flicorno
Mirko Signorile, piano
Gianluca Grasso, tastiera
Luca Bulgarelli, contrabbasso
Vincenzo Bardaro: percussioni
Ospite speciale: Ack Van Rooyen (flicorno 3,5,7,12)
[Universal, 2008]
Ospiti: Vincenzo Saetta, Giacinto Piracci, Antonio
Salvador Conte, Raffaele Matta, Aldo Galasso, Aldo
Pareo, Sergio Casale
Luca Aquino è un giovane musicista di Benevento
da sempre impegnato nella musica jazz.
La sua audacia e il suo talento lo portano verso un
lungo e articolato cammino, quello di un ciclista che
corre con la sua ‘tromba’ imperterrito alla ricerca di
svariate sonorità. Con il suo primo lavoro
discografico, “Sopra Le Nuvole”, ha messo in
evidenza non solo il fascino della musica jazz ma
anche la grandezza della musica elettronica. Poche
e semplici contaminazioni ma efficaci, come lo si
nota nel primo brano, Il Ciclista Che Corre Col Suo
Sax Tenore Sempre In Testa, tali da creare una
visione più ampia del concetto musicale per chi lo
ascolta. Il viaggio continua arrivando a La Stazione,
un brano che con le percussioni e i fiati che si
alternano sembra dare l’idea di un treno, che ora
viaggia e ora rallenta come per fermarsi ma che
riprende subito il cammino. E sì, il cammino,
perché l’esplorazione sonora e timbrica di Aquino
non si ferma certamente qui.
La Stazione non è la fine ma solo una fermata, una
tappa raggiunta, uno stile consolidato, per
proseguire con Van Laar Sounds dedicato proprio
a Hub Van Laar (artigiano olandese ideatore di
trombe e flicorni per cui suona gli strumenti durante
le dimostrazioni).
Non a caso è proprio lo strumento a fiato che
primeggia e si cimenta ad esplorare le diversità
timbriche. La timbrica infatti, sia alla tromba che al
flicorno, è molto precisa e dimostra grande
personalità. Il brano che dà il nome all’album,
Sopra Le Nuvole, ne è la dimostrazione.
Una melodia limpida, chiara, posata, costruita su
una successione di frasi nelle quali il pianoforte e lo
strumento a fiato dialogano, e alla fine delle quali il
primo esegue un veloce arpeggio, sempre
ascendente, richiamando il significato stesso del
titolo. Un lavoro, insomma, quello di Aquino, non
basato solo su rigidi schemi del jazz, ma che
propone delle novità ricche di contaminazioni e
sperimentazioni.
Che sia solo un singolo lavoro o il primo a
contenere queste particolarità non lo si può dire,
ora non rimane che ascoltare ed apprezzare le
caratteristiche compositive e d’improvvisazione che
il compositore stesso ci propone con questo suo
primo capolavoro.
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