CAGLIARI ROMANA - girovagando in sardegna

LA SARDEGNA ROMANA
238 A.C. - 456 D.C.
Quando i Romani nel 238 a.C. sbarcarono in Sardegna, la trovarono ormai punicizzata
ad eccezione della parte più interna.
L’amministrazione della cosa pubblica era affidata ai Sufeti, i quali rispondevano del
loro operato direttamente alla Madrepatria, Cartagine.
La classe dirigente tutta rigorosamente punica lasciava poco spazio agli indigeni, che
accettando la sottomissione trovavano spazio solo nell’esercito mercenario per
guadagnarsi il classico “tozzo di pane”.
Le legioni romane, invece, formate da cittadini della repubblica prima e dell’impero
poi, erano caratterizzate da una ferrea disciplina e da motivazioni nazionali che ne
facevano un formidabile mezzo di offesa.
Non trovarono molta resistenza quando misero piede nell’isola, anzi i residui
dell’esercito cartaginese si sfasciarono quasi subito e i mercenari isolani andarono a
rifugiarsi nelle montagne, ingrossando le schiere di quelle genti che i romani
chiamavano Barbari e la terra da loro abitata Barbaria: la futura Barbagia.
Nel 227 a.C. la Sardegna, unitamente alla Corsica, fu dichiarata provincia e governata
dal primo pretore con poteri civili e militari.
Scoppia la seconda guerra Punica.
Annibale Barca subito dopo essere diventato comandante dell’esercito Cartaginese, nel
219 a.C. assediò la città iberica di Sagunto alleata dei Romani, conquistandola e
distruggendola.
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Senza attendere la reazione romana, Annibale con un esercito stimato in 70.000
uomini e circa 40 elefanti, varcò le Alpi e si presentò, inatteso nel suolo latino,
sconfiggendo i Consoli Publio Scipione e Tiberio Sempronio Longo nelle battaglie del
Ticino e della Trebbia.
L’esercito Punico, nonostante le grandi perdite subite nella marcia massacrante e
durante il valico delle impervie Alpi, fu rinforzato notevolmente dagli apporti dei Galli
che passavano di buon grado dalla sua parte.
Mentre si addentrava nel suolo che i Romani avevano occupato nel nord Italia,
l’esercito si ingrossò
sempre più, segno del
malcontento
delle
popolazione
che
avevano conosciuto i
metodi dei padroni
romani che vennero
sconfitti ancora in una
battaglia, considerata
importantissima,
presso
il
lago
Trasimeno, aprendo le
porte ad Annibale della
strada per Roma che
Una bireme da guerra romana
ormai rimaneva senza
protezione.
Ma, per quei motivi che definiamo irrazionali ed imprevedibili, il generale cartaginese
decise di puntare verso sud, forse per rinforzare ancor più le sue schiere con l’apporto
delle popolazioni italiche meridionali.
Ciò non avvenne e le popolazioni del centro sud non passarono con i punici, rimanendo
fedeli a Roma, palesando, in questo caso, l’efficacia della politica di latinizzazione
accolta favorevolmente dai popoli meridionali.
I Romani vistosi perduti, con un ultimo sforzo, radunarono un esercito con alla testa i
Consoli Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo ed affrontarono Annibale nei pressi di
Canne.
Ripercussioni in Sardegna della sconfitta romana.
Le legioni romane subirono a Canne nel 216 a.C. una sconfitta, forse irrimediabile,
perdendo 40.000 uomini tra i quali 80 Senatori e lo stesso Console Lucio Emilio Paolo,
Annibale non aveva ormai nessun ostacolo e poteva dirigersi tranquillamente verso
Roma che non avrebbe potuto opporre alcuna resistenza.
Ma l’esercito Punico, dopo tre anni di campagne e di marce forzate in un territorio
ostile, era in quel momento molto indebolito e Annibale, forse con ragione, prima di
affrontare la battaglia decisiva e forse un lungo assedio sotto le mura dell’Urbe, volle
far riposare i suoi soldati ed attendere rinforzi che suo fratello Asdrubale stava
radunando in Spagna.
Fu così che il generale si fermò a Capua, in attesa ed in ozio, dando insperato tempo e
nuove speranze ai già rassegnati Romani, mentre le notizie della crisi latina arrivavano
in Sardegna giungendo a coloro che aspettavano l’occasione propizia per ribellarsi.
La città di Cornus, ancora indipendente, ma timorosa della minaccia Romana, colse la
palla al balzo e incominciò ad organizzare una forza di attacco da lanciare sui nemici
attestati ai margini della pianura del Campidano e, secondo le notizie, in crisi e
decisamente impediti a ricevere rinforzi per la situazione precaria in cui versavano i
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territori continentali presidiati dai Cartaginesi che controllavano anche il Tirreno con
la loro flotta.
Tentativo di rivolta in Sardegna: Ampsicora
Situazione quanto mai favorevole che Ampsicora, forse a capo della comunità di
Cornus , sardo punicizzato e grande proprietario terriero con l’aiuto di Annone, ricco
cittadino, probabilmente Punico trapiantato, cercò di cogliere al volo, mandando
ripetuti messaggi a Cartagine per richiedere un pronto intervento in Sardegna
sostenendo che l’esercito romano di presidio, poco numeroso, non avrebbe opposto
alcuna resistenza significativa. Era il 215 a.C. e Ampsicora, confidava anche sulla
sollevazione delle città meridionali già in mano romana e di tutte le popolazioni che
ormai ne avevano conosciuto l’esosità fiscale e non aspettavano altro che una occasione
propizia per scuotersi dal giogo. Ampsicora, insofferente ad un eventuale dominio
latino della sua città, forse con notevoli interessi e non solo ideali da difendere, trovò
terreno fertile anche in altri maggiorenti e nobili locali che vedevano un futuro non
certo rosa per i propri possedimenti e le proprie prerogative, ormai consolidati che i
Romani non avrebbero senz’altro conservato, imponendo la loro filosofia fiscale che
prevedeva tasse per tutti e specialmente per i più ricchi non cittadini della Repubblica.
Ampsicora cerca aiuti presso i
Sardi Pelliti.
In attesa di un contingente Cartaginese,
Ampsicora decise di cercare aiuti al di là
del confine che divideva la Sardegna
punicizzate da quella autonoma che i
Romani chiamavano già
“Barbaria“. Non era certo facile
convincere i bellicosi capi barbaricini
conformati statualmente ma divisi in
piccoli reami o principati, spesso in lotta
tra loro. Ma la pericolosità di un
invasione romana, le cui intenzioni
venivano
confermate
dall’ormai
consolidato presidio di Olbìa, vera testa
di ponte che minacciava i territori storici
Sardo-autoctoni, gli fece decidere per
l’intervento.
La missione di Ampsicora non dovette
essere
semplice
poiché
l’atavica
diffidenza dei sardi vestiti di pelli,
poneva seri ostacoli all’intervento contro
gli avversari comuni che, tutto sommato,
non avevano tentato ancora di invadere i
territori montani, loro tradizionale roccaforte e, fin quando il pericolo non fosse stato
palese difficilmente quelle genti sarebbero intervenute in massa oltre i loro confini
poiché abituate più a difendersi che ad attaccare.
Cartagine decide l’intervento.
La situazione favorevole fu decisiva per l’intervento di forze cartaginesi in Sardegna, i
punici radunarono un corpo di spedizione il cui comando fu affidato ad Asdrubale
detto “Il Calvo” che aveva l’obbiettivo di raggiungere Cornus e unirsi ad Ampsicora per
combattere contro i Romani e tentare di rimpossessarsi dell’Isola. La forza Punica era
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formata da diecimila fanti e forse cinquecento cavalieri trasportati da circa cinquanta
navi da guerra e da carico.
Roma viene informata della situazione nell’isola.
Il Senato apprese, non senza stupore, la situazione esplosiva nell'isola che stava
degenerando sempre più, comunicata con tempestività da messaggeri giunti dopo
numerose peripezie nell’Urbe. La condizione precaria dei soldati romani in Sardegna
era aggravata dall’aria insalubre (Malaria) che colpiva, con alte temperature, i militari
ed i funzionari statali costretti a rimanere indisponibili per molto tempo, fiaccati nel
corpo e nello spirito.
Il Senato dispose l’invio di una Legione (5000 uomini) al comando di Tito Manlio
Torquato che già conosceva l’isola ed il suo territorio e quindi dava tutte le garanzie per
un esito positivo della missione. A bordo di una flotta formata da cinquanta navi da
guerra e una decina da trasporto, il corpo di spedizione, non senza difficoltà, arrivò a
Caralis e si affrettò a sbarcare ed a organizzarsi per il trasferimento verso l’interno.
La flotta Cartaginese parte per la Sardegna.
Anche la flotta Punica salpò dall’Africa, ma contro ogni logica, invece di puntare
direttamente verso le coste sarde, forse per evitare scontri fortuiti con unità romane,
costeggiò l’Africa con rotta verso ovest, poi si diresse a nord raggiungendo il centro del
mar di Sardegna per convergere poi ad oriente e raggiungere Cornus. Ma una
improvvisa tempesta deviò la rotta della flotta che fu letteralmente sbattuta nella
direzione opposta, mandandola sulle isole Baleari dove riuscì ad approdare con molti
danni e con la perdita di numerosi uomini imbarcati. La spedizione fu costretta alla
sosta forzata per la riparazione dei danni e per rimpiazzare le vettovaglie perdute
durante il fortunale.
I Romani marciano verso Cornus.
Tito M. Torquato, intanto, riuscì a formare con i
regolari di stanza nell’isola quattro legioni forti
complessivamente
di
ventimila
soldati
e
milleduecento cavalieri e si affrettò a marciare verso
Nord attraverso il Campidano.
L’intento era quello di precedere l’arrivo dei
Cartaginesi che, si sapeva, in difficoltà temporanea ma
che al più presto avrebbero fatto rotta verso Cornus.
I Romani evitarono, per essere più celeri, di
trasportare le macchine da guerra, così avrebbero
raggiunto più velocemente la città nemica, se fosse
stato necessario le avrebbero costruite sul posto,
considerata l’abbondanza del legname a disposizione
nei boschi.
Le legioni schierate in fila, a tappe forzate, evitando
centri abitati, macinarono miglia su miglia,
fermandosi solo la notte per un breve riposo, la
mattina all’alba la marcia riprendeva.
I carri con i rifornimenti chiudevano la lunga teoria,
mentre la cavalleria faceva da battistrada guidata
personalmente da Tito M. Torquato. Giunto il
contingente ai piedi delle montagne oltre Tharros, nei
Un cavaliere romano
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pressi di una zona paludosa, si accinse al taglio degli alberi per costruire le macchine
necessarie per l’attacco alla non lontana città di Cornus.
I Cornensi informati dell’arrivo dei Romani decidono l’attacco. I messaggeri portarono
la notizia dell’arrivo dei nemici in città e, data l’assenza di Ampsicora, prese in mano la
situazione Iosto suo figlio che, radunato l’esercito decise che bisognasse cogliere le
legioni di sorpresa poiché un assedio sarebbe stato favorevole ai Romani e non alla
città, non preparata a resistere e senza notizie degli aiuti Cartaginesi.
I Cornensi con a capo il focoso Iosto si lanciarono verso le linee nemiche dividendosi in
due tronconi per prendere, secondo le intenzioni, tra due fuochi gli avversari.
Il numero dei soldati romani non doveva essere conosciuto da Iosto che individuata
una prima schiera in movimento, pensando che fosse l’intero esercito, diede ordine di
attaccare ai due gruppi dei suoi soldati che scendendo dalle alture avrebbero preso in
una morsa i nemici.
Plastico del tempio di Antas presso Fluminimaggiore (Carbonia-iglesias)
I Romani sbaragliano i Cornensi.
Solo una Legione era stata intercettata da Iosto e, mentre il combattimento infuriava, la
cavalleria romana seguita dalle altre tre Legioni schierate in linea orizzontale
piombarono sui Sardi che furono letteralmente accerchiati e Iosto che si batteva come
un leone, appena si rese conto della superiorità nemica diede l’ordine di ritirata,
lasciando sul campo migliaia di uomini.
Per evitare una sconfitta ancora più dura, ogni uomo abile fu schierato a difesa delle
mura di Cornus dove Iosto aveva ricondotto i superstiti della battaglia.
Nulla ora poteva fermare l’esercito Romano che si accingeva a marciare verso la città,
ma Tito Manlio Torquato decise di non attaccare e di rientrare a Caralis, forse aveva
appreso dell’arrivo della flotta Cartaginese e del contingente di Sardi Pelliti guidato da
Ampsicora, per cui il Generale Romano, esperto e pratico, considerando la stanchezza
dei suoi soldati per le marce forzate e per i postumi della recente battaglia, non se la
sentì di affrontare un altro scontro con dei nemici che oltre la voglia di rivalsa, stavano
per ricevere cospicui rinforzi.
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La vittoria sui Cornensi poi non si era dimostrata decisiva in quanto numerosi armati si
erano salvati e costituivano ancora una forza omogenea che unita ai circa diecimila
Cartaginesi con centinaia di cavalieri e forse ai cinquemila armati concessi dalle tribù
dell’interno, costituivano una forza che il generale Romano, a ben ragione non volle
affrontare immediatamente, perché, chi ha la responsabilità delle azioni deve anche
saper attendere i momenti più opportuni, anche così si vincono le guerre.
Anche l’arrivo di Ampsicora in persona era pericoloso e la lontananza delle città
romanizzate impediva l’arrivo dei necessari rifornimenti, così appare saggia la
decisione del comandante romano di non forzare gli eventi . I Latini, fecero così marcia
indietro e si diressero verso Sud per attendere gli eventi e ritemprare fisico e morale.
Il teatro romano di Nora (Cagliari)
L’esercito alleato anti- romano si organizza.
I Cartaginesi sbarcarono in tutta fretta accampandosi non lontani da Cornus raggiunti
anche dal contingente dei Sardi Pelliti. Ampsicora informato degli eventi decise i piani
d’azione e, mal interpretando la ritirata dei nemici presa come segno di difficoltà e di
debolezza, pensò che fosse opportuno approfittare della presunta crisi romana. I
Cornensi in testa, seguiti dai Sardi delle montagne ed in coda la fanteria Cartaginese
protetta sulle ali dalla cavalleria, iniziarono la marcia verso sud attraverso il
Campidano.
Di notte i fuochi del campo delimitavano i bivacchi dei soldati che cercavano di affogare
nelle libagioni i timori per il futuro. Asdrubale e Ampsicora ospiti nella tenda di
Annone che combatteva, forse per non perdere le sue ricchezze, discutevano sul da
farsi, sicuri che i Romani avrebbero resistito dentro le città fortificate in loro mani, in
attesa di rinforzi dalla capitale.
I tre alleati ignoravano che ben tre Legioni erano a disposizione dei nemici, disciplinate
ben armate e motivate, guidate da un generale esperto e valoroso dotato di carisma e
grande conoscitore delle strategie di guerra.
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Lo scontro decisivo.
Informati della avanzata Sardo-Cartaginese, quattro legioni partirono da Caralis,
mentre altre due provenienti da Nora e Sulci, puntarono verso Nord parallele alle
prime.
Resti delle terme della città punica-romana di Tharros (Oristano)
Tito Manlio Torquato intendeva intercettare i nemici in pianura ed aveva escogitato un
piano che considerava efficace vista la forza composita e disomogenea avversaria.
Due legioni schierate in linea, avrebbero affrontato i Sardo-Punici, mentre più
indietro le due restanti, con la cavalleria sulle ali, sarebbero rimaste in attesa degli
eventi.
Le forze di contatto dovevano ripiegare quasi subito, fingendo una fuga precipitosa, per
indurre i nemici all’inseguimento disordinato, a quel punto, sarebbero entrate in
azione le due legioni di riserva e la cavalleria.
Nel frattempo l’altro contingente proveniente da Nora e Sulci sarebbe intervenuto
prendendo alle spalle gli euforici nemici. Così puntualmente si verificò e l’esercito
romano a ranghi uniti ebbe facilmente la meglio sulle schiere di Ampsicora, colte di
sorpresa, disunite e accerchiate.
Fu una carneficina e, come racconta lo storico romano Livio, dodicimila alleati vennero
uccisi e 3.700 feriti o fatti prigionieri, una disfatta totale nella quale furono catturati lo
stesso comandante Cartaginese Asdrubale il Calvo ed Annone, forse secondo di
Ampsicora.
Nella cruenta battaglia rimase ucciso anche Josto, che forse non riuscì a frenare la sua
irruenza e la voglia di vendicare la sconfitta subita non molto tempo prima. Ampsicora,
con i pochi soldati scampati si rifugiò a Cornus per preparare un’ultima disperata
difesa, quando apprese della morte del figlio in battaglia e, così narra Livio, non
sopportando di essergli sopravvissuto e forse per lo sconforto della sconfitta, si uccise.
I Romani espugnarono facilmente Cornus, che probabilmente si arrese, mentre i Sardi
Pelliti, guadagnarono le montagne per riorganizzarsi ed attendere eventuali iniziative
romane.
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Conclusioni.
Ampsicora è una figura che conosciamo attraverso gli scritti di storici romani ed il suo
personaggio non risulta chiaro né ben definito, la cronaca di parte che ci è stata
tramandata, impedisce e non rende possibile, una qualche valutazione di merito sul
personaggio che appare più legato ai suoi interessi che a valori ideali e alla libertà del
suo popolo. Lo stesso suicidio, non depone a suo favore in quanto la perdita di un figlio
in battaglia, seppur grave e dolorosa, in quei tempi era motivo per riprendere la lotta
con più odio e più determinazione.
La sua assenza da Cornus, durante la prevedibile avanzata romana, sembra irreale e
dilettantesca, da far credere che non fosse un uomo d’arme né un condottiero di talento
né uno stratega.
Allontanarsi dalla
città per chiedere
aiuti,
senza
impartire
disposizioni
in
caso di attacco
appare
inverosimile così
come
il
suo
mancato ritorno
quando l’esercito
romano
fu
avvistato.
Egli, dice Livio, si
trovava
presso
Sardi
Pelliti
per
Mosaico romano in una domus di Nora (Cagliari)
chiedere aiuto, ma
era sempre più
vicino delle legioni Romane che per arrivare a Cornus furono costrette a marciare per
tutto il Campidano, in un territorio pianeggiante e quindi facilmente avvistabili.
Arrivò subito dopo la disfatta del figlio e commise l’errore di marciare verso sud per
incalzare Tito Manlio Torquato, credendolo a torto, in difficoltà e portando il suo
esercito e quello dei suoi alleati in campo aperto a sfidare le legioni nelle condizioni a
loro più favorevoli: anche questo appare un comportamento quanto mai avventato.
Rimane da credere che i fatti riportati da Livio ben 200 anni dopo l’accaduto, siano
stati falsati per convenienza o per cattiva informazione e che il personaggio Ampsicora
sia stato presentato deliberatamente in modo diverso dalla realtà.
I Romani tendevano infatti a dare descrizioni degli avvenimenti in modo tale che i
nemici risultassero inetti al loro confronto, tacendo invece atti eroici e intuizioni
strategiche degli avversari che gli avrebbe resi ridicoli. In qualunque modo si siano
svolti i fatti, traspare chiaramente che l’occupazione romana della Sardegna non fu
una passeggiata anzi, probabilmente, tanti altri Ampsicora si immolarono sull’altare
delle proprie idee di libertà e, certo, di convenienza che è sempre una molla importante
che costringe ad agire gli uomini.
La figura di Ampsicora fu ingigantita anche da una certa agiografia locale tendente a
creare miti per valorizzare forzatamente i Sardi e la sardità, che invece avevano
dimostrato nel corso di tanti secoli, la loro peculiare e autoctona cultura sfociata nei
Giudicati che da soli dimostrano la raggiunta maturità nazionale non scevra da
intuizioni politiche e amministrative, all’avanguardia per quei tempi.
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Non vi era quindi la necessità di creare, forse artificialmente, apologie di personaggi
che dalla storiografia, seppure di parte, non appaiono tali.
Fatte queste considerazioni, la rivolta di Ampsicora è la prima descrizione che gli
storici ci abbiano tramandato di una resistenza organizzata dei Sardi ed a prescindere
dai motivi che l’hanno ispirata, è importante, in quanto dimostra una opposizione
attiva e locale contro un dominatore potente, che veniva sì a sostituire il precedente
Cartaginese, ma che fu considerato estraneo alla cultura e agli ordinamenti autoctoni
che, seppure mutuati o imposti dai Punici, erano diventati “Sardi” a tutti gli effetti e
quindi facenti parte della nuova nazione, almeno per quanto riguarda le zone di
influenza o sotto il controllo Semita.
Lo storico Romano Tito Livio, come già accennato, descrisse i fatti circa duecento anni
dopo che accaddero ed è palese che il tempo trascorso abbia influenzato la narrazione,
se a questo aggiungiamo l’abitudine ad ingigantire le vittorie e minimizzare le sconfitte,
com’è d’uso quando i fatti vengono raccontati dai vincitori, ne deduciamo il logico
travisamento dei realtà.
E’ anche importante sottolineare che la storia dei Romani in Sardegna era marginale
per gli stessi latini e le notizie riportate incontrollabili nella maggior parte dei casi e
non soggette a ulteriori verifiche.
Tito Livio, al quale in maggioranza dobbiamo le notizie sull’avvenimento di Ampsicora,
visse tra il 59 a.C. ed il 17 d.C., nacque a Padova e fu maestro di retorica, repubblicano
conservatore per convinzione e filoimperiale per convenienza.
La sua opera monumentale “Ab Urbe Condita”, narra gli avvenimenti della città eterna
dalla sua fondazione ed è una ripetuta cronaca di elevazione della romanità e della sua
grandezza.
Dei 145 libri originali di questo gigantesco lavoro, ben presto circolarono nel mondo
latino dei riassunti, mentre gran parte dei volumi autentici sparirono e con essi anche
le notizie originali dei resoconti "liviani".
Risulta pertanto difficile immaginare che, le notizie in nostro possesso, siano quelle
scritte da Livio, ma è più probabile e logico, che siano attinte dai riassunti opera di
anonimi scrittori che addomesticavano le notizie secondo le convenienze e le loro
opinioni, allontanandosi quindi dalla pur sospetta verità di Livio, creando così più dei
racconti di fantasia che cronache storiche attendibili.
Questa è chiaramente, la nostra opinione, che nasce da una critica logica e dall’analisi
dei fatti che coinvolsero Ampsicora, ben lieti di essere smentiti da documenti o nuove
scoperte che facciano luce su degli avvenimenti che hanno al momento il sapore della
leggenda.
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CAGLIARI ROMANA
Quando nel 238 a.C. i Romani si impossessarono della Sardegna, la città egemone era
Nora.
Il centro fondato dai Fenici, godeva di una posizione più favorevole, ubicato sulla rotta
delle navi verso la penisola iberica che sostavano per poi continuare, per la sua
maggiore vicinanza all’Africa punica, diventò uno scalo di importanza commerciale e
politica notevoli che lo fecero diventare una opulenta città Stato.
Nora però sorgeva in un golfo formato da un promontorio e alle sue spalle aspre zone
montane dove i Nuragici facilmente potevano nascondersi e colpire.
Questa esigenza di difesa oltre che al sito più favorevole, portarono pian piano i
Romani a decentrarsi nella non lontana Caralis. La città di allora doveva estendersi nel
lato Orientale dello stagno di S. Gilla, con un porto interno con acque calme, facilmente
difendibile e con un entroterra pianeggiante e quindi agevolmente controllabile.
La corona dei colli che circondava la città, oltre ad essere osservatorio naturale
costituiva una barriera naturale
per eventuali attacchi da nordnord ovest.
Il lato orientale era protetto dalla
laguna
di
Molentargius
controllata
a
vista
dal
promontorio di S. Elia.
Oltre a questi motivi geografici e
naturali, l’entroterra pianeggiante
adatto alla coltivazione del grano
fecero la fortuna di Caralis che da
borgo diventò vera città con porto
ed economia commerciale. Con
l’arrivo di nobili romani decaduti
o trasferiti per punizione in
questa remota provincia isolana,
la vecchia città fenicio punica
mutò radicalmente aspetto.
Il vecchio sito presso S. Gilla si
trasformò
essenzialmente
in
quartiere povero e popolato da
sbandati e portuali, mentre i
nuovi signori costruirono le loro
dimore autonome e sfarzose in
zone leggermente elevate e
decentrate (Via Tigellio, Corso
Vittorio Emanuele, Viale Merello
ecc.).
I romani arrivano a Caralis
Il centro nevralgico delle città
romane – il Foro – sembra essere individuato con la piazza del Carmine, nelle cui
vicinanze sorgevano le case del ceto borghese e dei piccoli commercianti. Le terme,
altro edificio sempre presente nelle città romane, potevano essere ubicate tra la Via
Sassari ed il Largo Carlo Felice, ciò lo si può facilmente intuire con la scoperta di canali
scavati nel calcare e di cisterne nelle zona di Via Ospedale. Le ingegnose canalizzazioni
portavano l’acqua piovana a convergere in cisterne, veri e propri serbatoi, dalle quali
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all’occorrenza, forse tramite opportune chiuse si faceva defluire e giungere a
destinazione.
È assai probabile che un altro sito dove sorgevano i depositi del grano, si trovasse in un
luogo facilmente raggiungibile dall’entroterra e vicino al porto per il suo carico nelle
navi. Alcuni identificano questo sito fra la Via Nuoro e il Viale Regina Margherita; se la
localizzazione fosse esatta potremmo facilmente dedurre che al porto fenicio-punico
pian piano si affiancò un altro approdo essenzialmente commerciale, localizzato nella
zona di viale Diaz. Il mare a quei tempi raggiungeva la zona dove inizia la scalinata di
Bonaria e con una linea più o meno regolare giungeva fino alla via Crispi, lambendo la
Piazza del Carmine. Poiché quella zona era in pendenza e scoscesa (notare la pendenza
del Largo Carlo Felice) non era possibile creare un approdo che desse funzionalità e
riparo.
Cagliari: ricostruzione della domus chiamata la “casa di Tigellio”
I
Intanto il vecchio centro con annesso approdo di S. Gilla diventò probabilmente, con il
passare del tempo, un porto militare. Ritornando alla teorizzata zona portuale civile, si
può facilmente intuire che dati gli scambi ed i commerci diventò una seconda Cagliari,
collegata al centro da una supposta strada costiera. Questo giustificherebbe l’uso della
necropoli di Bonaria lontana dal foro ma vicino al nuovo centro portuale commerciale
della Via Nuoro. Intanto il continuo arrivo di militari, le varie campagne per reprimere
gli insorti, la lotta contro i barbari autoctoni delle montagne, creavano nella città
problemi di alloggio e sussistenza.
Non possiamo non pensare che non esistesse un luogo dove le legioni appena sbarcate,
venissero acquartierate e dove i militari locali risiedessero per difendere la città e il suo
entroterra con le sue colture estensive, una vera acropoli, siamo certi, doveva esistere,
posta in posizione elevata per controllare e difendersi, a ridosso della città per meglio
proteggerla.
Questo luogo potrebbe essere il colle di Castello, la costruzione dell’Anfiteatro, scavato
interamente nella roccia, può attestare questa ipotesi. Infatti questo luogo serviva oltre
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alla cittadinanza anche ai militari che si svagavano nei periodi di riposo. Quindi la
dislocazione dell’anfiteatro fu opportunamente scelta nelle vicinanze del (Castrum)
che, per ovvie ragioni di sicurezza, dava ricovero anche ai gladiatori sempre turbolenti
e pronti alla rivolta.
Perché poi costruire l’anfiteatro scavandolo nel calcare, mentre sarebbe stato più facile
edificarlo con i classici mattoni?
Indubbiamente resisteva nella Cagliari di allora il substrato cartaginese che fu
soppiantato solo col passare dei secoli, anche il modo di costruire le abitazioni, come
constatato nella casa detta di “Tigellio”, ci fornisce una prova che la tecnica muraria
punica detta a telaio era in auge fino al III secolo, così come lo sfruttamento delle
necropoli già semite come Tuvixeddu è un’altra prova della persistenza punica, ma è
anche vero che Caralis fu una delle prime città completamente latinizzate, a causa dei
commerci e del continuo arrivo di funzionari romani la parlata latina diventò l’idioma
ufficiale così come le tradizioni e gli usi. Ciò, probabilmente, non si può dire per
l’interno legato ancora a tradizioni tribali.
Nella Cagliari latina traspare un forte contrasto tra ceti ricchi e poveri, la lussuosità
delle case dei nobili, mercanti e funzionari pubblici si contrapponeva alla povertà delle
abitazioni popolari, dislocate in borghi fuori dal recinto metropolitano, forse da questi
borghi nacquero in seguito i “paesi” che attualmente formano l’hinterland cagliaritano.
Ritrovamenti fortuiti nella zona di Piazza del Carmine hanno portato alla luce statue
marmoree di indubbio pregio, le quali abbellivano case e vie.
Sotto il punto di vista religioso Cagliari ebbe libertà di culto che le permise di
soppiantare pian piano le credenze religiose puniche con quelle romane. I romani, è
notorio, applicavano la tolleranza religiosa, fin quando questa non cozzava con i loro
interessi, così le necropoli puniche diventarono luoghi sacri e i templi di Baal o Babay
furono rispettati anzi ristrutturati e lasciati al culto, anche i tephatim (luogo sacro
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fenicio-punico), vennero protetti e preservati così che i fragili vasi fittili, contenenti le
ceneri, sono stati trovati a centinaia.
La massiccia immigrazione di genti latine compì poi il miracolo della pacifica
romanizzazione.
Cagliari: l’anfiteatro romano del II secolo d. C:
Il
cristianesimo
fece i primi
passi
timidamente,
forse
attraverso i
deportati
e
solo alla fine
del II secolo
d.C.; si sa che
i sardi per
carattere non
sono inclini
alle
innovazioni,
così forse, fu
in un primo tempo anche per la nuova religione.
Tuttavia nel III secolo i cagliaritani incominciarono, in luoghi improvvisati, a riunirsi
per praticare la nuova religione che tutto sommato coincideva con i desideri di un
popolo vessato.
L’amore, la pace, la libertà, erano vocaboli ormai sconosciuti a una città che aveva
perso ogni tradizione storica e che seguiva il carro del dominatore senza sollevare la
testa.
Il cristianesimo, forse, diede quello scossone che stimolò il popolo a meglio sopportare
i soprusi, ed avere una speranza per il futuro, anche se extraterreno.
Tutto ciò portò ai primi martiri sardi, dei quali abbiamo scarse notizie, ma che
crediamo non rimasero isolati.
Sant'Efisio, tra storia e leggenda.
Efisio nasce, forse alla metà del III secolo, a Elia Capitolina, nome imposto
dall’imperatore Adriano alla città di Gerusalemme. Il padre è cristiano e la madre
pagana, perde in giovane età il genitore e subisce l’influenza della madre Alessandra
che lo educa alla idolatria che pare non faccia presa nel giovane, ma la religiosità dei
Romani e dei popoli a loro soggetti è superficiale e Alessandra non si preoccupa più di
tanto.
Il mondo romano in quel periodo è scosso da diatribe interne e l’imperatore
Diocleziano (284-305), di origine illirica, tenta di assestare lo Stato creando la
Tetrarchia (nome greco che indica la divisione dell’impero in quattro zone), che
prevede un metodo di governo affidato a due Augusti, uno a Occidente, uno a Oriente;
alle loro dipendenze, altrettanti Cesari a cui è demandata la conduzione delle province.
Diocleziano governa la parte orientale che comprende la Tracia, l’Egitto e alcune
regioni dell’Asia, Galerio è il suo Cesare; l’Occidente con l’Italia e l’Africa, è invece
governato dall’altro Augusto, Massimiliano, il suo Cesare è Costanzo Cloro.
Una riforma complessa che in quel III secolo, si dimostra efficace, ma Diocleziano si
propone come un monarca assoluto e tenta di imporre il culto della sua persona
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entrando in rotta di collisione con i cristiani che, è notorio, per il loro monoteismo
escludono qualunque atto di sottomissione verso chi detiene un potere terreno. In
questa situazione Diocleziano si reca a Antiochia, in quell’occasione conosce il giovane
Efisio, che forse, per le pressioni della madre Alessandra, viene arruolato come ufficiale
nell’esercito e inviato in Italia a combattere i cristiani.
Durante il viaggio di trasferimento, al novello ufficiale si presenta alta e splendente in
cielo una Croce, accompagnata da un gran rumore di tuoni e da luci di fulmini. Efisio
cade stordito e in quello stato ode la parola di Gesù Cristo che gli anticipa i suoi
supplizi, le sue vittorie e la sua morte da martire, grazie alla fede cristiana che
acquisterà.
Quando Efisio si ridesta dal
gradevole torpore, trova impresso
sul palmo della sua mano il segno
della croce, allo stupore segue
l’abbraccio del Cristianesimo che
segnerà la sua vita.
A Gaeta viene battezzato e ormai
immerso nella più profonda
religiosità, decide di battersi per
divulgare la sua nuova fede e
sconfiggere il paganesimo latino,
per caso viene a conoscenza che in
Sardegna delle tribù che vivono
isolate tra i monti dell’interno,
forse gli eredi dei nuragici,
adorano ancora feticci e con
continue scorrerie razziano e
devastano i territori sotto il
controllo romano.
Decide
di
intervenire
per
difendere i cristiani dell’isola dal
pericolo di quelle popolazioni
primitive, la sua è una crociata
personale, non certo una presa di
posizione a favore degli interessi
del pagano impero romano, un
impegno per cercare di convertire
quelle genti che i latini chiamano
“barbari” e la zona da loro abitata
Cagliari: L’acquedotto romano nel colle di Tuvixeddu
“Barbaria” da cui l’odierno nome
di Barbagia.
Dopo alterne peripezie, Efisio giunge in Sardegna e spinto dalla sua immensa fede,
riesce a sconfiggere i barbari delle montagne che ritiene nemici delCristianesimo, si
stabilisce poi a Caralis e cerca di diffondere la parola di Cristo e convertire sempre più
persone.
È talmente convinto del suo credo e del suo operato che non esita a scrivere
all’imperatore Diocleziano e alla madre Alessandra, pregandoli di convertirsi alla
religione cristiana.
Un gesto azzardato per chi come lui, ufficiale dell’esercito, conosce bene il pensiero
dell’imperatore che è tutto teso ad instaurare il culto della propria personalità
proponendosi al popolo come un dio da venerare: forse proprio per questo Efisio
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decide di convincere Diocleziano, perché vuole conquistarlo alla “vera fede”, pur
avendo ben presente quali sarebbero state le conseguenze del suo gesto.
L'imperatore infatti reagisce in modo deciso impartendo precisi ordini a Iulio, delegato
al governo dell’isola, di costringere l’ufficiale cristiano e tutti quelli a lui vicini già
convertiti di rinnegare la loro fede e compiere sacrifici agli dei per espiare le loro colpe;
ordina anche di intraprendere nell’isola una severa azione di persecuzione contro tutti
coloro che professano la nuova fede.
Efisio non accetta di abiurare né di onorare gli dei romani, affrontando così terribili
torture che martoriano il suo corpo.
Constatato che a nulla valgono le pene corporali, Efisio viene portato alla presenza di
Iulio, il quale nota che le ferite inflitte con i supplizi, sono scomparse dal corpo del
prigioniero ad opera di alcuni angeli che sono scesi dal cielo e lo hanno completamente
guarito.
La notizia di questo miracolo gira per la città e molti altri si convertono al
Cristianesimo, il sacrificio dell’ex ufficiale sta compiendo il miracolo di diffondere
nell’isola la fede di Cristo, Iulio, cosciente della popolarità di Efisio e del cristianesimo,
invita il futuro martire nel tempio pagano, forse per metterlo ancora alla prova e
cercare di convincerlo a rinnegare la sua Fede: Efisio si limita a pregare e gli idoli
pagani cadono a terra rompendosi in mille pezzi, così come il tempio che si riduce a un
cumulo di macerie.
Iulio, a questo punto cade in preda al terrore, in quanto comprende che ciò che è
avvenuto può essere opera solo di un intervento divino, e abbandona Caralis in preda
alla disperazione.
Diocleziano, informato dell’accaduto invia nell’isola un nuovo governatore, Flaviano,
con precise disposizioni di chiudere i conti con Efisio, che costituisce un serio pericolo
per l’impero, perché il suo comportamento sta rafforzando notevolmente il
Cristianesimo.
Flaviano tenta di convincere ancora una volta Efisio, senza riuscirci, nonostante nuove
e più pesanti torture, e dispone per la sua condanna a morte. Mentre Efisio subisce le
sue pene nella città di Cagliari, viene deciso che la sua esecuzione avvenga a Nora,
questo fatto ci fa capire come il futuro martire sia ritenuto pericoloso in quanto capace
di far scoppiare insurrezioni nella sua città d’adozione, dove i cristiani sono ormai
numerosi e mai avrebbero sopportato passivamente il suo estremo sacrificio.
Immaginiamo il trasferimento del prigioniero, di notte, lontano da occhi indiscreti e
l’arrivo a Nora in gran segreto dove tutto è già pronto per l’esecuzione.
È il 15 gennaio del 303 (forse 305). Il Codice Vaticano latino dell’XI secolo, contiene la
narrazione del presbitero Marco che avrebbe assistito personalmente all'esecuzione del
Santo che, prima di essere decapitato, si sarebbe rivolto al Signore con una toccante
preghiera.
Efisio supplica Dio di proteggere Caralis dagli attacchi di popoli nemici, chiedendogli di
guarire i cittadini ammalati che si recheranno in pellegrinaggio nel luogo dove saranno
sepolte le sue spoglie, di concedere quanto richiesto a tutti coloro che gli si
rivolgeranno perché in difficoltà in special modo ai naviganti, agli oppressi, agli affranti
e a coloro che sono colpiti dalla peste. Secondo questa testimonianza, in punto di morte
Efisio dimostra il suo attaccamento alla città di Cagliari e alla sua popolazione e a tutti
coloro che soffrono evidenziando le caratteristiche morali di un vero cristiano che sa di
passare a una vita ultraterrena che trascorrerà nell’oasi di pace che è il Paradiso.
È difficile credere che la testimonianza di Marco sia attendibile, ma è facile ipotizzare
che la leggenda di Efisio nasconda una verità storica non appurabile ma probabilmente
reale.
L'apparizione poi della croce è un tema ricorrente nella nomenclatura cristiana, così
come l’apparizione degli angeli o le comunicazioni di Dio alle persone prescelte e
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investite dalla responsabilità di propagandare il Cristianesimo e immolarsi in suo
nome.
La leggenda di Efisio, serba pertanto una base di verità incontestabile, perché dopo il
suo sacrificio, il popolo lo amerà sempre di più e lo invocherà in ogni situazione di
necessità: se una prerogativa dei santi è essere popolari tra la gente, Efisio è uno di
questi.
Dopo dieci anni dalla sua morte per decapitazione, nel 313, Costantino anch’egli
folgorato dall’apparizione della croce, con il famoso editto di Milano, dispone che la
religione cristiana sia tollerata in tutto l’impero e la Chiesa di Gesù Cristo, fino allora
clandestina, emerge di colpo, mostrando un'organizzazione mirabile che per primo atto
onorerà pubblicamente i martiri erigendo chiese sul luogo del loro sacrificio o dove
riposano i resti terreni.
Non sappiamo quando fu costruita, sul luogo del martirio di Efisio, l’antica chiesetta di
Nora, ma è certo che fu voluta dalla fede popolare che tramanda le gesta del Santo il cui
ricordo pare accrescersi sempre di più nel tempo.
La Villa di Tigellio.
In periodo romano, la città di Cagliari si estendeva lungo l’arco del golfo ed era formata
da vari centri forse staccati tra loro, con relative necropoli, nel colle di Tuvixeddu, nel
colle di Bonaria e nella zona della Basilica di San Saturno; il poeta Claudiano la definì
infatti “Tenditur in longum” (estesa in lunghezza) ed anche il nome al plurale Carales
indicava quella caratteristica. Gli edifici e gli spazi pubblici erano ubicati nell'odierna
Piazza del Carmine mentre la “Suburra” non doveva essere lontana dal porto, forse
nell’area dell’attuale quartiere Marina. I ricchi, che per loro natura vogliono stare
lontani dalla povera gente, presero le distanze dalle zone popolari e si stanziarono sulle
pendici del colle di Castello, dove potevano godere di un invidiabile panorama e della
tranquillità che andavano cercando. Lo storico canonico Spano agli inizi del secolo
scorso, conoscendo l’esistenza del musico e poeta cantante sardo Tigellio, che Cicerone
citò in alcune lettere e che il poeta Orazio descrisse come avvezzo ai lussi e alla vita
sfarzosa e sfrenata, cercò in quella zona con grande tenacia il luogo dove quel
personaggio ipotetico visse. Dopo numerosi tentativi, nel 1826, lo studioso portò alla
luce dei resti di una domus, risalente forse al II sec. d.C., che non esitò ad attribuire a
Tigellio senza avere nessuna prova né alcun riscontro oggettivo; anche il termine
“Villa”, con cui chiamò quei ruderi, è improprio ma è entrato ormai nell’uso comune
per definire quel sito.
La casa che il canonico scoprì, è chiamata dagli addetti ai lavori “degli stucchi” per le
decorazioni superbe ritrovate ed era dotata del peristilio, classico di ogni residenza
signorile romana, di cui rimangono alcune residue colonne.
Nella casa si identifica “l’Atrium” vero e proprio cortile coperto dove il tetto spiovente
(im-pluvium) convogliava le acque piovane su una vasca chiamata “compluvium”.
L’edificio mostra segni evidenti di modifiche e ristrutturazioni e colpisce il muro “a
telaio”, tipico dell’edilizia punica, che si è conservato discretamente e dimostra che la
tecnica cartaginese persisteva ancora dopo quattro secoli di dominio romano. Scavi
posteriori, effettuati nel nostro secolo, hanno consentito di identificare altre due case
adiacenti alla prima, che data la tipologia possono risalire ad un periodo compreso tra
il I sec. a.C. ed il II sec. d.C. La seconda casa, confinante e con un muro in comune con
quella di Tigellio, viene chiamata del “Tablino dipinto” dalle pitture alle pareti ritrovate
nella stanza (tablinium) adibita al ricevimento degli ospiti ed a studio del proprietario;
la terza presenta solo alcune tracce di muri. Quelle tre case non dovevano certo essere
isolate, ma facevano parte di una zona residenziale che copriva, probabilmente, tutta la
contrada di “Palabanda” che forse in antichità era coperta da una lussureggiante
vegetazione. Queste residenze patrizie romane, non avevano nessuna finestra
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all’esterno e le camere prendevano luce e aria solo da cortili interni, permettendo un
“voluto” isolamento ai residenti che trascorrevano il loro tempo tra ozi, abbondanti
libagioni, spettacoli, senza vedere le miserie della plebe che viveva in vani talmente
piccoli che venivano chiamati “Ergastula”, vocabolo che rende l’idea della loro
precarietà.
La grotta della Vipera.
Arrivare nella rada di Cagliari, dopo aver attraversato il Tirreno, doveva essere per i
Romani del I secolo, liberazione e nello stesso tempo disperazione.
Liberazione perché riuscivano ad arrivare alla meta, disperazione perché stavano per
sbarcare in una città di provincia lontana dalle ricchezze e dai fasti dell’Urbe.
La stessa sensazione devono aver provato Atilia Pomptilla e suo marito Lucio Cassio
Filippo, patrizio romano che seguì il padre, caduto in disgrazia e mandato in esilio a
Caralis:
li
possiamo
immaginare abbracciati,
immobili sul ponte, con i
mantelli al vento, mentre
la biremi doppia Cala
Mosca, a guardare la città
che il destino loro aveva
assegnato.
Cagliari: L’ingresso della “Grotta della Vipera”
Non doveva apparire
molto inebriante quel
panorama, una lingua di
terra protetta da una
corona di colli spogli di
vegetazione:
Bonaria,
Monte Urpino, Monte
Claro,
Castello,
Tuvixeddu, San Michele,
S. Elia.
Poi ancora la pianura che
andava a morire nei
monti dei Sette Fratelli,
che dalla nave dovevano
apparire
maestosi
sebbene lontani.
Il colore dominante era il
giallo, quello del grano
che i Romani avevano
imposto come coltura.
Intanto,
l’imbarcazione
aveva
guadagnato
lo
stagno di S. Gilla e
lentamente si avvicinava
all’ormeggio e il solito
trambusto, caratteristico
di ogni porto, attirò l’attenzione di Filippo e Atilia.
Sbarcarono e, sicuramente, si recarono al Foro, centro dei pubblici uffici, dove vennero
informati sulla città e sulle sue attrattive.
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Allora, sotto i Romani non vi era una sola Cagliari, ma probabilmente tre: una sorgeva
sullo stesso luogo dove i Fenici l’avevano fondata, sulle rive dello stagno di Santa Gilla
allora navigabile e le vecchie case, come abitudine dei Romani, non vennero
abbandonate ma adattate e rese abitabili per la plebe ed i lavoratori portuali.
Nel lato Est, nei pressi di S. Elia e San Bartolomeo, esisteva un altro borgo, i cui morti
venivano deposti nella necropoli di Bonaria.
Ma la Caralis “moderna” era situata nei pressi di Piazza del Carmine che ne costituiva il
centro, una strada lastricata con numerose statue ai lati, portava alla elegante zona
residenziale di Via Tigellio e del Corso, dove splendide “domus” sorgevano in posizione
leggermente elevata.
In una di queste domus, Atilia e Filippo si sistemarono e passarono lunghi anni e la
nostalgia di Roma, pian piano, scomparve confortati dal loro profondo amore e
dall’attaccamento alla loro nuova città.
Cassio Filippo e la sua consorte si recarono, senz’altro, più volte a vedere i lavori che
fervevano per la costruzione del nuovo Anfiteatro che avrebbe allietato con gli
spettacoli loro e la cittadinanza.
La tranquillità di Calaris era turbata, di tanto in tanto, da notizie portate dai legionari
sugli scontri al confine con la Barbagia dove i discendenti dei Nuragici, bellicosi e
arditi, compivano frequentemente atti di guerriglia.
Chissà quante volte Atilia e Filippo, accompagnarono degli amici all’ultima dimora, sul
colle di Tuvixeddu, deceduti per una strana malattia che portava febbre altissima fino a
distruggere la resistenza dell’organismo.
Chissà se seppero mai che quella malattia era portata dalle zanzare che infestavano gli
stagni intorno alla città.
Improvvisamente Filippo si ammalò e Atilia vegliò giorno e notte il suo amato fin
quando pregò gli dei di dare a Filippo la vita che era a lei concessa. E fu così che Filippo
guarì.
Erano gli inizi del II secolo d.C. e Atilia, dopo circa 42 anni di matrimonio e di amore,
morì.
Fu sepolta in una grotta naturale, ampliata artificialmente, ai piedi della necropoli di
Tuvixeddu e furono scolpiti, nella facciate superiore, due serpenti o vipere, che per i
Romani rappresentavano la fedeltà, con la seguente scritta lineare: “Edificato e
dedicato alla sacra memoria della figlia di Lucio, Atilia Pomptilla a spese del marito”.
All’interno, nelle pareti furono incise 12 poesie in latino e greco una delle quali recita:
“Quello che tu credi un tempio e spesso, oh viandante, veneri, serba le ceneri e le
piccole ossa di Pomptilla. Sono sepolta in terra sarda, dove ho accompagnato mio
marito ed è fama che per lui io abbia voluto morire”. La grotta fu salvata nel 1822 dal
Conte Alberto Della Marmora, che ne evitò la distruzione facendo deviare il tracciato
della costruenda Carlo Felice.
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