Immanuel Kant - Critica della ragion pratica

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Immanuel Kant - Critica della ragion pratica - II
Dunque, o il desiderio della felicità dev'esser la causa movente per la massima della virtù, o la massima della virtù
dev'esser la causa efficiente della felicità. Il primo caso è assolutamente impossibile; perché (...) la massime che
pongono il motivo determinante della volontà nel desiderio della propria felicità non sono affatto morali, e non possono
fondare nessuna virtù. Ma il secondo caso è anche impossibile, perché nel mondo ogni connessione pratica delle cause
e degli effetti, come conseguenza della determinazione della volontà, non si conforma alle intenzioni morali della
volontà, ma alla cognizione delle leggi naturali e al potere fisico di usarle per i propri fini, e quindi nel mondo non si può
attendere nessuna connessione necessaria e sufficiente per il sommo bene, della felicità con la virtù, mediante
l'osservanza esattissima della legge morale. (...) La prima delle due proposizioni, e cioè che la ricerca delle felicità
produca un motivo d'intenzione virtuosa, è falsa assolutamente; ma la seconda, e cioè che l'intenzione virtuosa produca
necessariamente la felicità, non è falsa assolutamente, ma solo in quanto vien considerata come la forma della causalità
nel mondo sensibile, e, quindi, se io ammetto l'esistenza in esso come l'unico modo di esistenza dell'essere razionale;
dunque, è falsa solo in modo condizionato. Siccome, per altro, non solo ho il diritto di concepire la mia esistenza anche
come noumeno in un mondo intelligibile, ma nella legge morale ho anche un motivo puro intellettuale determinante della
mia causalità (nel mondo sensibile), così non è impossibile che la moralità dell'intenzione abbia una connessione, se
non immediata, almeno mediata (mediante un autore intelligibile della natura), e invero necessaria come causa, con la
felicità come effetto nel mondo sensibile; il quale legame, in una natura che è semplicemente oggetto dei sensi, non può
mai aver luogo in altro modo che accidentalmente, e non può bastare per il sommo bene. Dunque, nonostante questo
contrasto apparente di una ragion pratica con se stessa, il sommo bene è il fine necessario e supremo di una volontà
moralmente determinata, un vero oggetto di essa; poiché esso è praticamente possibile, e le massime della volontà, le
quali quanto alla loro materia si riferiscono a quest'oggetto, hanno realtà oggettiva, che fu colta in principio mediante
quell'antinomia nel legame della moralità con la felicità secondo una legge universale, ma per semplice equivoco,
perché si considerò la relazione tra fenomeni come una relazione delle cose in sé con questi fenomeni. [I. Kant, Critica
della ragion pratica, Parte I, libro II, cap. II.1] Non si può agire moralmente ché in vista del sommo bene; ogni altra
ragione, inclusa la felicità, non ha un valore morale. Il distacco dal dibattito seicentesco ed empirista non può essere più
netto: ogni agire calcolato in vista di un fine non può essere morale. Ma che cosa è diventato in Kant il "sommo bene"?
Esso è un ideale regolativo. Sotto la locuzione di ideale (o idea) regolativo Kant comprende quelle credenze
indimostrabili, ma fondate razionalmente, come l'immortalità dell'anima o l'esistenza di Dio, senza le quali la legge
morale non avrebbe ragion d'essere. In un certo senso egli istituisce un "corto circuito" tra ragione e moralità: un
comportamento moralmente fondato, infatti, deve - in termini di razionalità - avere un senso ultimo, e questo senso non
può che appartenere al più elevato di tutti i principi; d'altronde, per essere morale, un comportamento non può che
essere razionale. Se ne deduce la necessità razionale di un sommo bene, che come tale non può che coincidere con la
felicità. Ma tale culmine etico non può essere di questo mondo. Intanto, perché non è conoscibile (non appartenendo
all'ambito delle esperienze sensibili); in secondo luogo, perché compete alla parte noumenica, cioè interiore, dell'uomo,
alla sua libertà. Ma se la connessione tra virtù e felicità è, in ultima istanza, necessaria, allora non rimane che postulare
un'esistenza superiore rispetto a quella sensibile, un'esistenza intelligibile: appunto i postulati dell'esistenza di Dio e
dell'immortalità dell'anima. Postulati che, insieme alla natura noumenica della coscienza morale, segnano anche i limiti
invalicabili della finitezza umana. Con ciò, la "questione morale" raggiunge il suo punto di non ritorno. Da un lato, infatti,
sorgerà nella Conversazione sul bene una dura reazione al rigido formalismo pratico istituito dalla Critica della ragion
pratica; dall'altro, la tensione etica verso l'infinito - quella felicità che è insieme meta e illusione di ogni agire umano - si
declinerà nei diversi momenti del romanticismo, fino alla sua radicale involuzione pessimistica.
Kant: «fai ciò
che devi, avvenga quel che può»
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In questa unità
Testo: Storia delle idee
Autore: Maurizio Châtel
Curatore: Maurizio Châtel
Metaredazione: Erica Pellizzoni
Editore: BBN
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