Mario Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli 2009. Mauro Magatti, docente e preside della facoltà di Sociologia dell'Università Cattolica di Milano, ha pubblicato nel 2009, per i tipi di Feltrinelli, un testo dal titolo Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista. Si tratta di un'ampia ricerca – più di 400 pagine – in cui fa convergere le riflessioni di molti autori, di diversa estrazione linguistica e culturale. Il testo propone un'analisi delle trasformazioni intervenute negli ultimi trent'anni nei paesi occidentali, in coincidenza con la svolta neoliberista, secondo un processo unitario che coinvolge al tempo stesso “l'esperienza soggettiva, gli assetti istituzionali, il piano politico-economico e la sfera culturale” (dalla terza di copertina). In effetti Magatti non si limita a considerare i diversi versanti di questa trasformazione, ma ritiene di poterla far risalire ad una specifica congiunzione fra quello che Lacan chiama il “discorso del capitalista” e un “immaginario della libertà che si forma fra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni ottanta” (9). In questo senso il “capitalismo tecno-nichilista” denomina non semplicemente una nuova configurazione dell'economia, ma definisce piuttosto il “nuovo rapporto che si è andato costruendo” in questi anni “tra individui progressivamente più liberi e mondi sociali sempre più organizzati e potenti” (10). In altri termini, il libro è costruito sulla tesi della convergenza fra determinati indirizzi filosofici della modernità e certi sviluppi del tardo capitalismo. In questo senso si potrebbe dire che Magatti costruisce la sua analisi sul modello con cui Max Weber ha elaborato la sua teoria della connessione fra etica protestante e spirito del capitalismo. Weber cercava di capire come “la genesi di una “mentalità economica, l' “ethos” di una forma economica [fosse] condizionato da determinati contenuti della fede religiosa”, partendo dall'assunto che “in passato, tra i principali elementi che davano forma alla condotta della vita c'erano ovunque le forze magiche e religiose e le idee etiche del dovere legate a tale fede” (L'etica protestante, p. 47). Nella indagine di Magatti il ruolo delle idee religiose è stato assunto dalla diffusione di dottrine “filosofiche” che hanno permeato di sé intere forme di vita. In questa prospettiva, esse sono indagate per il loro produrre una “mentalità” che favorisce ed è a sua volta “incrementata” dalla forma assunta dal capitalismo nella sua fase neoliberista, iperconsumista, postfordista. La tesi di Magatti, che qui si richiama del resto direttamente a Weber, è che il processo di razionalizzazione che presiede allo sviluppo del capitalismo si stia sviluppando in maniera sempre più unilaterale, macinando “risultati sul versante della razionalità strumentale, ma incapace di affrontare le altre dimensioni della vita umana” (11). Vengono cioè accresciute le nostre capacità tecniche, ma diveniamo sempre più incapaci di dare un senso alla nostra vita. Il prologo del libro è dunque costituito da una “piccola storia della modernità”, incentrata sul concetto di libertà e “sul suo tormentato rapporto con la “verità”” (15). La tesi di Magatti è la seguente: nel corso del Novecento si è verificata la traduzione all’interno della vita sociale di alcuni passaggi filosofici che hanno sempre più largamente diffuso la convinzione che l’idea di verità attenga unicamente al piano esistenziale e soggettivo. L’idea di un ordine sociale legittimo e di una verità istituita è stata indebolita dall’azione congiunta delle due principali tradizioni moderne di pensiero sulla libertà: la tradizione liberale, che ha esaltato l’individuo nella sua singolarità e concretezza, sciogliendo l’idea di libertà da quella di relazione, una libertà esasperata a tal punto da creare le condizioni per la distruzione dell’unità psichica e corporea dell’individuo stesso; la tradizione critica, che considera la libertà come una sfida continua ad andare oltre, finendo però per assumere un atteggiamento puramente negativo, che lavora sistematicamente per “decostruire ogni tentativo di giudizio collettivo” (21). Quindi, per un verso un liberalismo esasperato che non solo svincola artificiosamente l'individuo da ogni legame “comunitario”, ma che può inoltre produrre l'effetto paradossale di 1 “smontare quell’unità individuale che ne costituisce il fondamento” - e qui penso che Magatti si riferisca a quei temi che vanno sotto il nome di “biopolitica”. Per un altro verso una demolizione dell'idea di verità che conduce all'impossibilità di costruire progetti comuni. Nel corso del Novecento, inoltre, è entrata in crisi secondo Magatti la visione che si era affermata nel corso della modernità e che identificava la ragione con la razionalità, separando quanto più nettamente possibile la sfera cognitiva da quella emotiva. Tale visione, che aveva segnato un drastico ridimensionamento del progetto rinascimentale di uomo, aveva trovato il suo culmine nell’Illuminismo e nella sua convinzione del ruolo emancipatore della ragione. Nel secolo che si è appena concluso si è diffusa invece una sempre maggiore sfiducia nella capacità della ragione di costruire universali condivisi: tale deriva, già colta da Nietzsche e Weber, ha trovato la sua accelerazione nella svolta linguistica di Wittgenstein. Dal canto suo Freud, riprendendo alcune questioni che erano state sollevate dal Romanticismo ottocentesco e fondendole con il nichilismo nietzschiano, delineava un’idea di essere umano alla cui base si trovano le pulsioni e il principio del piacere, ribaltando in tal modo il primato della ragione (35). Dal punto di vista politico-istituzionale, tale sfiducia nella capacità della ragione di fornire universali condivisi induce alla trasformazione dell’idea di democrazia, vale a dire del principale strumento impiegato per canalizzare la spinta libertaria che la modernità aveva evocato: si passa cioè da una impostazione sostantiva di difesa di determinati valori, a un approccio procedurale che, assumendo la sostanziale “equivalenza dei significati”, si limita alla definizione di regole istituzionali riguardanti le decisioni comuni (22-23). In altri termini, la democrazia, obiettivo delle lotte per l'emancipazione e il progresso, si svuota dei suoi contenuti – in primo luogo del suo essere veicolo della realizzazione dell'uguaglianza fra i cittadini – per limitarsi a proporsi come un profilo istituzionale, procedurale – una metodologia per assumere decisioni secondo il criterio della maggioranza - (e qui l'obiettivo polemico dovrebbe essere Habermas), che riduce la democrazia a un involucro formale, e la svuota del suo motore ideale. L’effetto più incisivo dell’indebolimento del concetto di verità è però individuato da Magatti nello spazio sempre maggiore che il teukein viene ad occupare rispetto al legein. La terminologia è tratta da C. Castoriadis (L’istituzione immaginaria della società, Bollati Boringhieri, 1996), che intende con legein l’azione del pensiero destinata a mettere ordine nella caotica sequenza delle esperienze umane - è la sfera della donazione di senso -, e indica invece con teukein l’ambito del saper fare, della tecnica. “Nel prendere le distanze dall’impianto religioso che ancora dominava nel Medioevo – scrive Magatti -, la modernità ha dapprima cercato di spostare il fulcro di tale processo dalla religione alla ragione, pur rimanendo all’interno di un orizzonte in cui il legein svolgeva un ruolo fondamentale. Ma via via che essa si affermava, il baricentro del processo di significazione si è progressivamente spostato dal legein al teukein. Fino al punto che (...) si è cominciato a pensare che il legein potesse essere solo una questione individuale e che l’unico impegno collettivo potesse riguardare la sfera del teukein” (195). Nel passaggio dalla religione alla ragione già si verifica un mutamento fondamentale, in quanto in un caso il contenuto è dato, nell'altro è da costruire – dall'autorità della tradizione alla scoperta scientifica. Nel caso in cui la ragione si trovi poi esposta, come è avvenuto, all'azione distruttrice di un relativismo che finisce con l'affermare l'equivalenza dei significati, l'individuo e l'intera sfera della donazione di senso si trovano esposti a un rischio mortale, oramai affidati unicamente a una tecnica che ha perso ogni relazione con i fini che l'uomo autonomamente da essa si propone. Lo spostamento dal legein al teukein comporta inoltre, secondo Magatti, un indebolimento del logos a favore del pathos, cioè della dimensione affettiva ed emotiva dell’esperienza umana e pone le premesse per una visione radicalmente immanente, che fa dell’innovazione tecnica il motore di un divenire non solo senza finalità, ma anche esente da qualunque possibilità di critica (26-7): “Noi oggi siamo i figli di questa triplice dinamica. La rinuncia a utilizzare il legein come 2 risorsa collettiva per la costruzione del senso, la riduzione del logos al teukein, la rivalutazione del pathos, ridefiniscono per intero la questione sociale nelle società avanzate” (37). Delineata in questi termini la condizione della modernità, Magatti opera una netta distinzione fra quello che egli definisce il “capitalismo societario” (CS), vale a dire la configurazione sociale che si afferma in Europa e nel Nordamerica nel secondo dopoguerra, e il “capitalismo tecno-nichilista” (CTN) che si è invece imposto negli ultimi tre decenni “sulla base di un nuovo immaginario della libertà”, formatosi fra gli anni sessanta e gli anni ottanta” (43). Il primo è considerato un modello che cerca di stabilire un legame esplicito fra legein e teukein mediante il ruolo assegnato alle istituzioni dello Stato nazionale. Esso è stato in grado di ottenere importanti risultati in ambito economico e sociale, ma dal punto di vista dell’esperienza soggettiva tale ordine societario era destinato a rivelare i suoi tratti oppressivi e soffocanti (51), il suo “eccesso di socializzazione” (55). Esso in effetti comportava la costruzione di universi culturali integrati e tendenzialmente rigidi che, oltre a essere costosi e difficili da riprodurre, avevano il problema di tollerare un grado contenuto di eterogeneità interna e di essere costitutivamente limitati a spazi sociali circoscritti. (95) Con “capitalismo societario” possiamo intendere dunque quella forma di capitalismo che dà vita allo Stato sociale di impronta socialdemocratica – fatta di difesa sociale e servizi pubblici per tutti i cittadini, di intervento dello Stato nelle questioni economiche, di aliquote di tassazione progressiva – un “Welfare State” che, nel suo imporsi all'indomani della seconda guerra mondiale, ma già, per gli Stati Uniti, negli anni Trenta con New Deal, era stato il prodotto di un movimento tellurico che aveva completamente rovesciato le concezioni liberiste prima prevalenti, per dirla con Tony Judt. Ora, questo Stato sociale fu vissuto dalle generazioni dei baby boomers, ovvero da coloro che erano nati dopo il 1945, innanzitutto come qualcosa di scontato e in secondo luogo come qualcosa di oppressivo, di autoritario, che non si poteva più tollerare sulla base di esigenze individualistiche che mettevano in primo piano i bisogni e i diritti di ognuno. La svolta decisiva è così segnata dal movimento del maggio ‘68, il cui effetto, secondo Magatti, fu quello di inoculare una sensibilità spiccatamente soggettivistica che finirà per trovare soddisfazione, attraverso il neoliberismo, con esiti assai diversi da quelli immaginati dai movimenti di protesta (61). Il neoliberismo, da parte sua, è l’agente fondamentale di una nuova ondata di accumulazione capitalistica. Esso rimuove la questione relativa alla necessità di un certo grado di integrazione sociale e culturale, favorendo l’idea che l’unico valore su cui si deve trovare un accordo sia la libertà di scelta e che l’unica idea di bene comune che si può sottoscrivere sia quella dell’interesse del singolo. Il criterio tecnico diventa il canone dell’organizzazione sociale (63-64). Allo stesso tempo viene abbandonata la visione che era alla base dell’ortodossia keynesiana, la quale aveva animato il CS (capitalismo societario), e che era fondata sulla spesa pubblica e sulla costruzione di un quadro stabile di rapporti monetari e finanziari internazionali (64). La decolonizzazione, prima, e la caduta dell’Unione Sovietica, poi, creano le condizione per una convergenza planetaria intorno al modello neoliberista (66-7). La tesi di Magatti è dunque che le rivendicazioni libertarie della nuova sinistra del '68 si trovano paradossalmente ad alimentare la spinta neoliberista che segna il tramonto del primato dell'interesse comune e l'attenzione unilaterale e senza limiti ai bisogni del singolo e alla sua affermazione. Il movimento studentesco avrebbe dunque non solo, come ritiene ad esempio Judt, favorito la reazione conservatrice, ma avrebbe visto i propri obiettivi confluire direttamente nella nuova configurazione politica che doveva dare impulso all'ipercapitalismo degli ultimi trent'anni. La mercificazione a oltranza, la spinta incessante al consumismo si sarebbero cioè nutriti proprio di quella ventata di ribellione contro l'autorità – libertaria – e di affermazione dei diritti e delle libertà del singolo, che pretendeva di porsi in termini antagonistici rispetto al capitalismo. Il nuovo ciclo di crescita del capitalismo si realizza, oltre che superando i limiti nazionali del mercato, attraverso l’immissione nel ciclo della valorizzazione della dimensione immateriale. L’istanza soggettivistica – portato di alcuni degli sviluppi filosofici del XX secolo – e la formazione 3 di un complesso di risorse simboliche, diffuse e riprodotte attraverso un sistema di comunicazione mediale sempre più complesso e pervasivo, permette una accresciuta manipolabilità dei significati disponibili a livello individuale e collettivo (94). Si realizza in tal modo uno spostamento dal ‘bisogno’ – legato ancora a un’idea oggettiva e materiale – al ‘desiderio’, regno della soggettività e dell’immaterialità e dal desiderio al ‘godimento’. Il core business del capitalismo è divenuto quello di creare nuove opportunità di crescita mediante una combinazione sempre più stretta tra lo sfruttamento tecnico-razionale delle risorse e la mobilitazione della sfera affettivo-emozionale (126). Il processo in effetti va di pari passo con un mutamento dello sfondo psicoanalitico che sta alla base della nostra vita sociale. In seguito alla spinta soggettivista, impressa dai movimenti degli anni sessanta e connessa con il diffondersi della società del benessere e dei consumi, viene disattivata la matrice edipica della socializzazione. L’indole permissiva e pulsionale del nostro tempo tende a rendere di fatto superflua la repressione: invece che al contenimento, siamo invitati all’espressione di quanto si muove nelle nostre profondità. (133) Quindi: Magatti sottolinea il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa nel promuovere un consumismo sempre più sfrenato, in cui al centro non è più il “bisogno” materiale, ma il “desiderio immateriale”. Tali mezzi sono cioè in grado di mettere in moto un'arte della persuasione che opera sulla nostra sfera emozionale, facendosi forte del prevalere dell'individualismo, dell'egocentrismo, della disponibilità di significati resa possibile dall'aver relativisticamente affermato la loro equivalenza. Ciò può avvenire in quanto si è verificato un cambiamento profondo nella nostra struttura psicoanalitica (Recalcati). Il venir meno della funzione del Padre – una funzione di castrazione che però, secondo l'insegnamento di Lacan, è anche quell'esperienza del limite che sola garantisce lo sviluppo del desiderio – ha provocato una liberazione fittizia del desiderio stesso che in realtà si è tramutato in qualcosa di diverso, in un puro godimento compulsivo, che alimenta ed è alimentato dal “discorso del capitalista”. Alla radice della sopravvenuta disponibilità di significati che rende possibile lo sfruttamento della dimensione immateriale vi è una “autonomizzazione di funzioni e significati” di cui Magatti sottolinea ancora una volta la matrice filosofica, presentandola come conseguenza dei profondi mutamenti epistemologici che si sono susseguiti nel Novecento (l’abbandono di una scienza comprensiva a favore del criterio di falsificabilità in Popper; la svolta linguistica di Wittgenstein e il successivo affermarsi di costruttivismo e decostruttivismo; la teoria della relatività di Einstein; la crisi dell’idea freudiana di soggetto). A partire dagli anni sessanta il quadro si ricompone intorno a una posizione neodarwiniana, secondo cui l’ordine che si osserva non è il prodotto di un disegno centralizzato, ma è l’esito casuale di equilibri provvisori e precari che si susseguono senza alcuna direzione, semplicemente sulla base di dinamiche interattive governate da criteri di adattamento e di selezione (101). Nella configurazione che si forma sul finire del XX secolo il nichilismo - un approccio filosofico presente fin dall’antichità, tendente a distruggere più che a costruire e per questo normalmente associato all’idea di declino delle civiltà – ha per la prima volta “la pretesa di porsi come sostrato spirituale di un’epoca che non si pensa in decadenza. Anzi, esso si presenta come una sorta di Weltanschauung in grado di sostenere una crescita indefinita”. Per far questo, il nichilismo stringe un’alleanza con la tecnica e con il capitalismo, dando vita a quello che Magatti chiama ‘capitalismo tecno-nichilista’. “Per potersi sostenere, una realtà imbevuta di nichilismo – che, come tale, perde continuamente di valore – deve essere assoggettata a una logica di cambiamento continuo, in modo tale da garantire, senza alcun intervallo, il ‘cambiamento della scena’. In un mondo in cui i significati sono altamente volatili, solo a questa condizione è possibile riprodurre – seppur provvisoriamente – la ‘certezza’ di quella realtà nella quale noi conduciamo la nostra vita quotidiana, anche se ciò non cancella la consapevolezza che non c’è nulla di duraturo, nulla per cui valga davvero la pena di vivere” (105-106). L’ontologia di riferimento del CTN può essere dunque esemplificata secondo Magatti dalla descrizione che Emanuele Severino fornisce della filosofia contemporanea in quanto affermazione della coincidenza di divenire ed essere. Il divenire come continuo passaggio dall’essere al non 4 essere si incarna nella tecnica, che, attraverso il processo di innovazione, continua a fare e disfare la realtà (199). Nel CTN i rapporti sociali non vengono più stabilizzati sulla base di significati, valori, credenze, ma sulla base di ciò che ‘funziona’. Un progetto, dunque, che affonda le sue radici nello sviluppo del linguaggio formalizzato della matematica, il quale non lascia spazio alla discussione e all’interpretazione, e dell’approccio empirista e pragmatista, che spinge senza sosta alla sperimentazione (201). La capillare diffusione dei codici tecnici e degli artefatti tecnologici trasforma in senso comune la convinzione che tutto ciò che è tecnicamente possibile sia vero e dunque dotato di senso (203). Di fronte a tale configurazione i settori più critici del CTN subiscono il fascino dei ‘nietzschiani di sinistra’ (particolarmente forti in Francia, dove si può rintracciare una genealogia complessa che inizia con Bracke-Desrousseaux, Daniel Halévy e Charles Andler, per proseguire al Collège de Sociologie con Roger Caillois, Michel Leiris e George Bataille, per arrivare fino a Henri Lefebvre, Gilles Deleuze e Félix Guattari, Michel Foucault, Toni Negri e Michael Hardt). Abbandonata la centralità della politica, la linea di opposizione punta a mettere in discussione l’idea stessa di individualità, vista come una creazione ideologica, tanto nella dimensione psichica quanto in quella fisica. Si propone una ‘politica affermativa della vita’ in cui la potenzialità e l’immanenza possono manifestarsi in modo aperto, senza la chiusura di una norma che dall’esterno ne regoli il dispiegamento (147). In realtà politica neoliberista e sinistra nietzschiana, apparentemente su posizioni antitetiche, si alimentano a vicenda e sostengono la spirale su cui si basa la logica del CTN: “La destra neoliberista lavora sul piano economico-sociale, sostenendo l’infrastrutturazione degli scambi su scala planetaria e la destabilizzazione dei gruppi sociali, e, sul piano politico, smantellando tutte le sacche di resistenza al modello prevalente. La sinistra nietzschiana si concentra sul piano culturale, promuovendo un individualismo radicalizzato e edonista, che presuppone e rafforza una visione nichilista e neomaterialista; in questo modo essa contribuisce a indebolire i legami sociali e a eliminare ogni residua resistenza alla sperimentazione antropologica che il CTN porta avanti” (148). “Il capitalismo scrive una nuova tappa della sua storia cercando di costruire un’alleanza tra uno sviluppo tecnico straordinario e una cultura nichilista che accetta la polverizzazione di qualunque significato. Ne dovrebbe derivare il regno della libertà. Ma così non è, perché il gusto viene educato, l’emozione provocata, il corpo sanitarizzato. E così l’Io contemporaneo, che si pretende indiscutibilmente libero nell’inseguire il proprio desiderio (che non conosce), si trova invischiato in sabbie mobili che sfuggono alla sua comprensione” (332). “L’autenticità (...) si rivela una trappola. (...) Nel momento in cui siamo esposti alla sistematica pressione a conformarci al comando del godere, la soggettività si riduce a mero prodotto sociale, senza più alcun residuo” (323). La crescita della libertà individuale va di pari passo con l’aumento della potenza complessiva del sistema, potenza che è in buona parte fuori controllo e i cui effetti negativi gravano sulle spalle dei singoli e dei gruppi. Quanto più aumenta il potere di agire individuale, tanto più si rafforza il controllo funzionale sul singolo individuo (346). Per capire il nostro tempo occorre dunque partire da una critica dell’immaginario della libertà che si è affermato negli ultimi anni e dalla limitatezza della concezione antropologica che esso presuppone (350). L’idea di un individuo autonomo e indipendente, serenamente appoggiato alle infrastrutture tecniche del CTN è un’illusione. La libertà umana si dà, infatti, solo in relazione alla complessità sociale di cui la personalità individuale è una sorta di luogo di incrocio (368). Se è giusto favorire l’apertura di contesti culturali chiusi, è invece un errore celebrare “lo sradicamento sistematico, il nomadismo eclettico, l’universalismo puro” (370). Il problema è costruire equilibri sostenibili fra chiusura e apertura, fra identità e differenza: il reale che si oppone alla deriva postmoderna dell’Io nomadico è la dimensione dell’oikos, del radicamento, dell’abitare, della casa, del prendersi cura”, la dimensione della custodia del senso (371-2). Tutto ciò passa attraverso il recupero del linguaggio simbolico – contrapposto al linguaggio del concetto -, che costituisce una risorsa irrinunciabile nel 5 contesto contemporaneo e che chiama in causa innanzi tutto (anche se non solo) le grandi confessioni religiose (378). Il libro si chiude con un richiamo a pensatori apparentemente agli antipodi – Georges Batailles e Romano Guardini -, i quali hanno entrambi sostenuto che l’unico modo di vivere in un’epoca nichilista sia la forza della ‘nuda fede’. Una fede concepita non come ‘credenza’, ma come un ‘fidarsi’, un rimanere alla ricerca di una verità che non si può mai pretendere di possedere, ma dalla quale si desidera essere posseduti; una fede intesa come apertura alla trascendenza – creare lo spazio affinché qualcosa esista prima che siano disponibili tutte le condizioni per la sua esistenza – e che ci permette di evitare le due derive cui siamo esposti, l’accettazione acritica e passiva della logica tecno-nichilista per la quale l’unica significazione effettiva è quella del teukein, oppure la reazione fondamentalista che immagina di poter contrapporre rigidamente il legein al teukein (389). Ho cercato di ricostruire nella mia esposizione le grandi linee dell'analisi di Magatti, che è infinitamente più articolata e interessante di quanto io non sia riuscita a mostrare e che è effettivamente un tentativo molto serio di “leggere” il presente. Vi invito dunque alla lettura del libro per poter cogliere nel dettaglio la ricchezza di tale fenomenologia del nostro tempo. In conclusione, provo ad avanzare, seppur sommessamente, qualche rilievo critico. È evidente che il libro di Magatti si inserisce nell'ambito di quelle riflessioni postmoderne che segnano il distacco dal progetto illuministico. Se quest'ultimo era fondamentalmente basato sull'attribuzione alla razionalità scientifica di un potenziale di emancipazione per gli uomini – oltre che sull'accento posto sul concetto di autonomia -, la riflessione postmoderna appare invece incentrata sulla volontà di smascherare il vero volto della ragione, imputata di proporsi come “soggettività assoggettante e al contempo assoggettata” (Habermas). Ora, Magatti svolge questo paradigma in una versione “conservatrice”, che si differenzia dagli esiti delle analisi dei nietzschiani di sinistra, come vengono definiti nel libro. Una posizione analoga assume Recalcati. Di fronte alla morte del Padre – alla fine dei grandi ideali, degli universali condivisi – si possono prendere due strade: una è quella di considerare tale “liberazione” della soggettività come una grande opportunità offerta alla creatività, un'altra è quella di considerare soprattutto i costi che questo comporta e di tornare a considerare la possibilità di richiamare in vita delle “risorse simboliche” - ritrovare luoghi della trascendenza. Ma se pure gli esiti della sua analisi vanno in direzione opposta a quella dei “libertari”, pure egli, a me pare, fa proprie le premesse del loro discorso. Non esce cioè dall'ambito di un postmodernismo che è, innanzitutto, ribellione contro e in definitiva rigetto della modernità. (Bisognerebbe allora chiedersi: ai cambiamenti degli ultimi trent'anni si è accompagnata una trasformazione del nostro apparato concettuale? Oppure siamo ancora del tutto all'interno delle analisi critiche sviluppate nella prima parte del Novecento?) Occorrerebbe chiedersi se questa posizione sia consapevole della propria unilateralità, nella misura in cui assimila interamente la modernità al capitalismo nella sua versione neoliberista e iperconsumista, e trascura senza tentennamenti il “contenuto razionale della modernità” stessa (Habermas), in riferimento alla scienza o, più in generale, alle conquiste in ambito culturale e artistico, in riferimento al diritto moderno. La mia sensazione è che di questo ipersoggettivismo lo stesso Magatti non riesca a liberarsi: tutto si muove dentro questa bolla “postmoderna” in cui il virtuale e l'immateriale hanno conquistato completamente la scena, in modo tale che sembrano sfuggire all'analisi quei pezzi di realtà che a questo quadro non si confanno. In un senso più preciso, pur scontando la specificità del punto di vista da cui guarda al suo oggetto, la tesi fondamentale del libro – quella dell'alleanza fra sviluppo tecnico e cultura nichilistica, che vanifica la libertà rivendicata dal moderno soggettivismo, che pure a quell'alleanza 6 ha dato vita – sembra forzare la possibilità di ridurre a idee le evoluzioni sociali, secondo quello che Castoriadis definisce una sorta di “marxismo rovesciato”. Quello stesso “marxismo rovesciato” che costituirebbe “il debole di Heidegger” e della sua tesi del predominio della techne come risultato della metafisica occidentale. 9 maggio 2011 Fiorinda Li Vigni 7