Famiglia, parentela, gruppi sociali di Nicoletta Bazzano e Francesco Benigno La famiglia sembra aver perduto la sua tradizionale centralità nella vita sociale degli europei e pare attraversata da spinte contrastanti che la incrinano, la trasformano, e minacciano perfino di dissolverla. Quote consistenti di popolazione, soprattutto nelle grandi città, vivono la condizione di singoli (in inglese singles) mentre gli anziani spesso vengono ricoverati in apposite residenze collettive, definite case di riposo o crudamente ospizi. Sempre più rilevante, a causa della frequenza di separazioni e divorzi, è poi il numero delle famiglie monoparentali, in cui è stabilmente presente solo uno dei due genitori, per lo più la madre. Il risultato è che il numero medio di componenti del nucleo familiare è da vent’anni in continuo calo. Quello che era una volta il momento centrale della vita familiare, il pasto di mezzogiorno, tende a scomparire, sostituito da uno spuntino consumato presso il posto di lavoro, mentre le cene sono dominate dalla presenza ingombrante e invadente della televisione. L’esperienza familiare diventa così solo un aspetto parziale della vita quotidiana e si riduce a una specie di momento di recupero delle energie spese altrove, in primo luogo nell’attività lavorativa. Il lavoro femminile, enormemente cresciuto in tutta Europa dal dopoguerra a oggi, costringe la vita familiare a ritmi e tempi differenti dal passato. I cosiddetti lavori di casa, resi più leggeri dall’uso degli elettrodomestici e dall’industria del cibo precotto e surgelato, non sono più automaticamente un dovere femminile, e nei giorni di vacanza si tende a evadere dall’ambiente domestico, per cercare, al di fuori della propria residenza abituale, relax e divertimento. Anche la vita affettiva non è più circoscritta al nucleo familiare. Gran parte della formazione emotiva, e poi della socializzazione degli individui, avviene, infatti, fuori dalle strutture familiari e dalle reti di parenti. In molti paesi europei già all’età di tre anni la grande maggioranza dei bambini frequenta la scuola materna, e ancora prima l’asilo nido; in tutto il continente l’età dell’obbligo scolastico si è allungata fino ai 14-16 anni, Ed è proprio nel mondo scolastico e universitario, o in quello del lavoro, che gli individui scelgono liberamente le persone di cui circondarsi, le proprie famiglie d’elezione, gli amici. La composizione delle famiglie è cambiata: si è fatta più complessa che nel passato. Molti, prima di sposarsi o di risposarsi, scelgono di restare per un certo periodo di tempo in regime di convivenza. Il matrimonio si è trasformato: caduta in disuso la consuetudine della dote nuziale, la scelta del partner è sempre più una questione personale, in cui le famiglie di origine giocano un ruolo marginale. E visto l’elevato numero di individui divorziati con prole, non è infrequente che sotto lo stesso tetto vivano figli di genitori diversi. Inoltre, le coppie omosessuali, un tempo costrette alla clandestinità, convivono ora apertamente, chiedendo di essere riconosciute come unità familiari a tutti gli effetti e, recentemente, di poter adottare bambini. Perfino i single aspirano a poter costituire una sorta di nucleo familiare, anch’essi chiedendo di poter adottare bambini privi di genitori o, se donne, scegliendo di procreare attraverso le nuove tecniche di fecondazione artificiale. È sintomatico che le componenti biologiche della riproduzione – lo sperma maschile, l’ovulo e l’utero femminili – tendano a diventare autonome dalla dinamica di coppia e a venire sempre più gestite come un affare individuale. A questa famiglia contemporanea, la cui fisionomia ci appare incerta e in parte frantumata, si contrappone sul piano ideale, ma anche su quello giuridico, un’immagine molto differente della famiglia-modello: una coppia indissolubile con figli, che mantiene al suo interno il monopolio affettivo e riproduttivo, nonché le principali funzioni di formazione primarie, di educazione sentimentale e di selezione dei consumi. La notevole distanza tra questa immagine e la realtà tende oggi a generare frustrazione e un senso di incertezza verso il futuro. Per comprendere la condizione della famiglia contemporanea, è necessario però rivolgere lo sguardo verso il passato: confrontata non con un modello ideale ma con la varietà delle esperienze storiche succedutesi nel vecchio continente, la realtà odierna risulta meno anomala e sicuramente più comprensibile. Le strutture fondamentali della famiglia europea Per famiglia si intende comunemente un gruppo di persone coresidenti, che vivono cioè insieme, sotto lo stesso tetto. Questo gruppo ha avuto storicamente una composizione molto variabile nel tempo e nello spazio. La struttura familiare di base è in Europa quella della famiglia semplice o nucleare, vale a dire composta da una coppia con o senza figli. Semplice non vuol dire di piccole dimensioni, essendo la consistenza del nucleo familiare variabile in ragione del numero dei figli generati dalla coppia, che in passato era mediamente molto elevato. Alla forma della famiglia semplice appartengono anche le famiglie composte da vedove o vedovi con figli. Emerge qui un problema fondamentale nell’analisi dei vari tipi di famiglia, e cioè il fatto che la forma dei gruppi di persone coresidenti muta nel tempo. A differenti fasi della vita di un individuo e della famiglia cui appartiene corrispondono quindi differenti modi di convivenza. L’esperienza del vivere da soli, ad esempio, non è necessariamente una scelta alternativa a quella della famiglia semplice o nucleare, ma può essere il risultato di una sua disgregazione per la morte di uno dei coniugi, o invece di una sua evoluzione, quando i figli si rendono autonomi. Peraltro va sfatata l’idea che i singoli siano un’espressione tipica della società attuale. Anche in passato esistevano persone che vivevano da sole e, come oggi, questa condizione corrispondeva spesso solo a una fase della loro vita. Quando la famiglia semplice si estende inglobando uno o più nuclei, si ha la cosiddetta famiglia allargata o estesa. L’estensione può essere diretta verso la generazione precedente, ad accogliere nonni anziani – a volte non più in grado di badare a se stessi – oppure lateralmente, includendo per varie ragioni zii e zie, o ancora verso il basso, abbracciando le generazioni successive di figli e nipoti che abbiano la necessità di permanere nella famiglia di origine. Una famiglia semplice può dunque per certe fasi allargarsi, per poi eventualmente tornare al nucleo base o ancora disgregarsi dando luogo a individui che vivono soli. Nella maggioranza dei casi prevale, nella storia europea, la preferenza della coppia a formare una famiglia semplice, andando a vivere per proprio conto all’indomani delle nozze: tale attitudine è detta neolocalismo. Ma vi sono regioni e aree in cui, vigendo il regime della famiglia allargata, ancora è costume che la coppia si sistemi nella casa del padre dello sposo (orientamento patrilocale). Molto più raro è il caso opposto, quello in cui gli sposi risiedono nella stessa casa della madre della sposa (orientamento matrilocale). L’orientamento patrilocale da parte di un figlio maschio appena sposato ha, nel passato, per lo più un significato preciso, quello si assicurare la continuità del patrimonio di famiglia, in genere una proprietà agricola ma talvolta anche un’attività commerciale. Questo tipo di famiglia, incentrato sulla preservazione dei beni lungo una linea di discendenza maschile, è stato chiamato famiglia ceppo. In linea generale, nel passato europeo, le famiglie possidenti e abbienti tendono a formare gruppi di coresidenza complessi, mentre le persone senza beni vivono per lo più in nuclei semplici. Inoltre la conduzione collettiva di tenute agricole o di terreni a pascolo obbliga alla coresidenza più del lavoro in città, realtà nella quale prevalgono invece le famiglie semplici. Questi criteri, peraltro, non escludono molte altre possibili combinazioni e varianti. In primo luogo possono essere parte di un gruppo familiare anche soggetti coresidenti privi di legami di parentela. Per esempio, nel passato, le famiglie abbienti hanno l’abitudine di mantenere e stipendiare personale di servizio coresidente, strettamente integrato nella struttura della vita familiare. Non a caso, nei secoli del medioevo e dell’età moderna, il termine familiare, piuttosto che indicare, come oggi, un congiunto, denota piuttosto un servitore domestico, un dipendente che vive in casa. Si dà anche il caso contrario: quello di gruppi familiari, semplici o allargati, che non sono coresidenti in senso stretto perché vivono senza fissa dimora. Si può avere una famiglia ma non una casa: nel passato, come e più che nel presente, la miseria e il problema della mancanza di alloggi costringe individui e famiglie a sistemazioni precarie, quando non al vagabondaggio. E ancora, sono esistite nel passato e esistono nel presente, popolazioni nomadi, come gli indiani del Nordamerica prima della conquista del continente da parte degli europei, gli arabi nell’alto Medioevo o gli zingari, o rom come essi si definiscono, ancora oggi: si tratta di popolazioni che per cultura e tradizione non fissano la propria residenza in un luogo determinato ma cambiano continuamente sede, utilizzando strutture abitative trasportabili, come le tende, o semoventi, come le roulotte delle popolazioni rom odierne. Matrimonio ed eredità nella tradizione europea Una fondamentale differenza tra i sistemi di parentela dell’area europea e quelli di altri continenti consiste nella relativa mancanza di regole costrittive in materia di scelta matrimoniale. In molte culture africane e asiatiche le coppie vengono formate in ragione di consuetudini molto rigide, che prescrivono per esempio che gli sposi appartengano allo stesso gruppo tribale o familiare. In Europa, invece, anche in ragione dell’avvento del cristianesimo, il matrimonio è stato regolato in base a criteri di convenienza familiare o personale oppure di semplice attrazione e desiderio tra individui, ma sempre e comunque in maniera non obbligatoriamente prestabilita. La motivazione di questa differenza risiede nella diversa configurazione del meccanismo della trasmissione ereditaria dei beni, detta tecnicamente devoluzione. In Africa, per esempio, i gruppi familiari, sia in passato che ancora oggi, sono organizzati in lignaggi patrilineari, cioè per gruppi di individui che riconoscono la parentela e la trasmissione ereditaria agnatica, cioè lungo la linea di discendenza maschile: solo i maschi, in altre parole, ereditano. Viceversa, in Europa, i beni familiari, sebbene in misura non equa, passano storicamente in successione anche alle donne secondo due modalità principali: partecipano di una quota dell’eredità o ricevono, in sostituzione di essa, una dote nuziale equivalente a una somma di denaro o ad altri beni mobili e immobili. A loro volta, le donne vedono riconosciuta la parentela e la trasmissione ereditaria cognatica, cioè lungo la linea di discendenza della famiglia acquisita con il matrimonio. Il sistema di relazioni matrimoniali è, quindi, nella cultura europea meno rigido e regolato che in altri contesti, poiché sotto il profilo economico e patrimoniale si configura come un sistema di scambio di beni che consolida ed estende le reti parentali. Nel lungo periodo, la famiglia europea è caratterizzata da un sostanziale impianto cognatico. Ciò non vuol dire che non vi siano state tendenze a costruire sistemi agnatici, ma alla fine queste non hanno prevalso. Nella Roma antica, ad esempio, al centro della vita sociale sta una struttura di chiara origine agnatica, la gens. Essa consiste in un gruppo di famiglie i cui capifamiglia e i loro figli nati o adottati si considerano discendenti da un comune antenato, dal quale prendono il nome. Tuttavia, in età storica le figlie ricevono una dote nuziale e la parentela sul versante femminile appare ampiamente riconosciuta; inoltre, le donne eredita con gli stessi diritti dei fratelli, possono far testamento e i loro beni, ereditati o ricevuti in dote, non si trasferiscono al marito. Nel 543 d.C. l’imperatore bizantino Giustiniano, promotore della raccolta e del riordino di tutta la legislazione romana, il Corpus iuris civilis, cancella definitivamente ogni differenza fra agnati e cognati e, da quel momento in poi, nella tradizione giuridica europea il concetto di consanguineità, consanguinitas, la parentela creata dall’avere il medesimo sangue, include anche i parenti della moglie. Durante il Medioevo e la prima età moderna, a tratti, in varie regioni europee si ha una reviviscenza delle strutture agnatiche, come ad esempio nelle Highlands scozzesi, in Irlanda, in alcune aree dei Balcani e tra l’aristocrazia cittadine dell’Italia centrosettentrionale. Questi sistemi di parentela, spesso chiamati clan, delimitati secondo la discendenza patrilineare, non sono però dirette derivazioni della gens romana quanto piuttosto costruzioni autonome rispondenti a specifiche esigenze successive. Infatti, al di là del tratto unificante costituito dal generale impianto cognatico, la storia della famiglia europea presenta, nel suo concreto svolgimento, una molteplicità di differenti sistemi ereditari e di consuetudini locali, a volte fissate per iscritto e a volte no. A fianco di sistemi che prevedono la divisione egualitaria dell’eredità fra tutti gli eredi, maschi o maschi e femmine, numerose sono le pratiche tese a privilegiare un erede maschio, al fine di mantenere integre le proprietà di famiglia. Si tratta del figlio maschio più anziano, ma anche del più giovane, talvolta, o di uno a scelta dei genitori. In questi casi, in generale, le femmine possono ereditare solo in assenza di fratelli, essendo a loro comunque riservata la dote nuziale. Presso la nobiltà feudale, questa attitudine conservativa nei confronti del patrimonio si esprime generalmente nel maggiorascato, il privilegio ereditario riservato al figlio maschio più anziano e, a partire dal Medioevo, nella generalizzazione del fedecommesso, una pratica testamentaria che vincola i beni a un solo erede obbligandolo, pena l’annullamento del testamento, a riprodurre il medesimo comportamento per la propria successione. La prassi di privilegiare un solo erede comporta frequenti frizioni all’interno della famiglia. Per questa ragione nelle società europee vengono attuate varie strategie compensative nei confronti dei figli esclusi dall’eredità. In generale, mentre le donne ricevono la dote, nei confronti dei figli maschi non titolari di diritti ereditari, i cadetti, si prevedevano delle misure di sostegno alla carriera militare o ecclesiastica e, a partire dalla tarda età moderna, si offriva loro una buona istruzione per poter entrare nelle amministrazioni pubbliche o nel mondo delle professioni. I dispositivi che regolano le successioni all’interno delle singole famiglie, specialmente nel caso delle famiglie nobili e abbienti, vengono spesso registrati dai notai, professionisti delle scienze giuridiche ma non pubblici ufficiali fino all’età contemporanea, che forniscono assistenza nel definire le volontà testamentarie, danno a esse un’adeguata forma scritta, garantiscono la custodia e la conservazione dei documenti. Attraverso gli atti notarili siamo in possesso di una fonte di grande importanza per la conoscenza delle pratiche ereditarie di una parte della popolazione. Più difficile è, invece, conoscere i comportamenti della maggioranza povera, che non ricorre al notaio e si regola secondo i costumi locali. Il matrimonio cristiano Il matrimonio costituisce il momento centrale e per così dire il fondamento della vita sociale della famiglia europea. È in occasione del matrimonio che si stabiliscono legami e, attraverso il trasferimento della dote nuziale, si scambiano beni tra gruppi familiari diversi. Ed è ancora il matrimonio a conferire legittimità e condizione di eredi ai discendenti. Mentre, infatti, la maternità può avvenire al di fuori di qualunque rito nuziale, è solo il matrimonio a conferire formalmente la certezza della paternità. Il matrimonio non è quindi un’istituzione naturale, ma è la risposta, storicamente determinata, a ben precise esigenze sociali, economiche e giuridiche. Nella sua configurazione essenziale, l’istituzione matrimoniale viene modellata secondo i principi del cristianesimo delle origini. Queste insieme di norme, stabilite inizialmente per regolare la vite dei fedeli di un movimento minoritario circondato da un mondo ostile, divengono con il tempo, a seguito della cristianizzazione dell’Europa occidentale, norme universali. I principali fondamenti e obblighi del matrimonio cristiano sono quattro. Il primo obbligo è quello della monogamia eterosessuale che impone di contrarre un solo matrimonio a fine di procreazione. In altre culture, per esempio nel mondo musulmano, si pratica la poligamia, un sistema per il quale un uomo può avere più mogli legittime. L’obbligo alla monogamia comporta nel cristianesimo una manifesta avversione per il divorzio, ampiamente praticato nella Roma antica. Dopo alcuni secoli di relativa tolleranza, esso viene proibito dalla Chiesa. Viene proibita anche la pratica della convivenza, chiamata concubinato, anch’essa molto diffusa in precedenza. Per lo stesso ordine di motivi permane a lungo l’ostilità nei confronti delle seconde nozze di vedovi e di vedove. L’omosessualità viene condannata come tendenza contro natura perché comporta una vita sessuale fine a se stessa, che non sfocia nell’atto procreativo. L’aborto, l’abbandono dei figli e gli abusi sui minori sono rigorosamente proibiti. Il secondo obbligo è quello del matrimonio distanziato o esogamico, cioè tra persone estranee: è vietato cioè, pena l’annullamento delle nozze, sposare membri della parentela più stretta, salvo che per esplicita autorizzazione dell’autorità ecclesiastica. Anche in questo caso va detto che la proibizione, spesso indicata con la parola polinesiana tabù, dell’incesto, l’accoppiamento sessuale e matrimoniale fra parenti prossimi, non è affatto universale: per rimanere nel bacino del Mediterraneo, nell’Egitto e nel Medio Oriente nell’antichità il matrimonio fra fratelli e sorelle era consentito e diffusissimo come, un po’ ovunque, il matrimonio fra cugini primi. In particolare, in Grecia, nel mondo ebraico e arabo, il matrimonio con un figlio o con una figlia degli zii paterni era non solo consentito, ma favorito per rafforzare i legami familiari. Il terzo obbligo è quello di non interrompere i vincoli matrimoniali e parentali sanciti dalla Chiesa e di evitare di crearne di nuovi. Per questo, oltre che il divorzio, tanto la pratica dell’emancipazione, che consente a un uomo di troncare il vincolo di paternità che lo lega al proprio figlio, quanto quella dell’adozione di figli non propri, sono proibite. La Chiesa, viceversa, crea un nuovo tipo di parentela, la parentela spirituale. Al momento del battesimo si nominano un padrino e una madrina che, custodi della fede del neonato, divengono parenti acquisiti, e come tali ricadono nei divieti matrimoniali. La quarta regola stabilisce che l’unica condizione irrinunciabile per le nozze è la libera volontà dei contraenti, espressa al raggiungimento della maggiore età: il che favorisce, nel lungo periodo, la libertà di scelta delle coppie e limita l’autorità dei genitori. Inoltre, le strategie familiari che puntano a privilegiare la linea maschile vengono vigorosamente contrastate con l’equiparazione dei parenti delle due linee, agnatica e cognatica. Quella che è possibile definire come la rivoluzione cristiana della vita familiare non si impone tuttavia in breve tempo né mancano resistenze alla sua diffusione. La principale fra esse dipende dal fatto che tali norme, che vengono articolate sin dal VII secolo limitano drasticamente la libertà di manovra delle famiglie: pur restando nei fatti decisivo l’orientamento dei genitori, un matrimonio, pur conveniente, non può essere imposto a figli non consenzienti; inoltre, l’impossibilità di ripudiare una moglie sterile, insieme al divieto di adozione, sono poderosi ostacoli al perpetuarsi di una stirpe; la proibizione di sposare parenti restringe il numero dei possibili partner, soprattutto nelle piccole comunità isolate. In particolare, in Francia, all’ascesa di Pipino il Giovane che, fondando la dinastia carolingia (751 d.C.) si presenta come un campione della fede, la lotta per applicare universalmente i principi della Chiesa è lunga e difficile. I sovrani carolingi, a partire dall’VIII secolo, impongono a tutti il vincolo del matrimonio a vita e aboliscono la pratica del ripudio, cioè il divorzio, mentre il concilio di Parigi nell’829 decreta la proibizione di sposare individui ricadenti entro il settimo grado di parentela. Il conflitto tra le precedenti consuetudini e la nuova morale cristiana raggiunge il suo apice all’indomani dell’anno Mille. Lo studioso francese Georges Duby, riferendosi alla nobiltà francese del periodo, ha definito questo scontro come il conflitto fra due differenti mentalità e due diverse morali, quella del prete e quella del cavaliere; la prima volta a difendere la dottrina cristiana; la seconda i valori e gli interessi delle famiglie nobili. Il re di Francia stesso, Filippo I (1052-1108) viene scomunicato dal papa nel 1095 per aver ripudiato, senza il consenso della Chiesa che potrebbe procedere all’annullamento del matrimonio, la moglie Berta d’Olanda e per aver sposato un’altra donna, per giunta sua lontana parente acquisita. Al di là del caso esemplare di Filippo I, la tendenza della Chiesa sarà quella di conquistare il consenso delle famiglie facendo del matrimonio un sacramento e creando una cerimonia specifica, le nozze, con una forte caratterizzazione religiosa. Ancora nel IX secolo, il matrimonio è infatti essenzialmente un contratto tra privati e la religione vi ha ben poca parte, non esistendo un vero e proprio rito nuziale. Il matrimonio ha origine a quel tempo da un accordo, una promessa – la parola sposi viene dal latino spondeo, prometto – che ha come protagoniste le famiglie dei contraenti. Segue poi lo scambio dei consensi tra i due promessi, un atto che si svolge spesso davanti una chiesa, ma anche in casa e presso un notaio. Nel momento fondamentale dell’unione delle mani e della cessione della sposa, la figura essenziale è quella del padre e non del prete, che al più, quando è presente, benedice l’unione. Vi sono infine i festeggiamenti per l’evento, con un corteo che accompagna la sposa, con i beni portati in dote, alla sua nuova dimora. A partire dall’XI secolo, invece, il rito matrimoniale in chiesa assume l’aspetto di un unico atto solenne che conferisce legittimità all’unione di due persone. I diversi momenti del matrimonio vengono riunificati in un solo evento incentrato sulla sua sacralizzazione e sulla libera e pubblica espressione dei consensi, suggellata dallo scambio delle fedi nuziali. Desacralizzazione e laicizzazione del matrimonio tra Cinque e Settecento Il conflitto fra i sistemi consuetudinari e la disciplina della Chiesa cattolica, pur risolvendosi, nell’XI secolo, con la vittoria della seconda, continua a manifestarsi episodicamente nei secoli successivi. Il contrasto riguarda soprattutto il tentativo di controllo da parte delle famiglie sui matrimoni e la tendenza della Chiesa ad appoggiare unioni contrastate per ragioni di interesse economico e politico: una dinamica illustrata esemplarmente dal drammaturgo inglese William Shakespeare nel dramma Romeo e Giulietta, ambientato a Verona e incentrato sull’insanabile frattura fra i casati dei due fidanzati, i Montecchi e i Capuleti. Un momento di svolta è segnato, all’inizio del XVI secolo, dalla rottura dell’unità cristiana a seguito della Riforma protestante. Nelle aree convertitesi alle religioni riformate, parte dell’edificio dottrinario elaborato dalla Chiesa relativamente alla famiglia viene abbandonato o modificato. Significativamente, al centro del dibattito dottrinale e politico portato avanti dal movimento riformatore c’è l’eccessiva ingerenza della Chiesa nelle questioni familiari ed ereditarie. Ne è un esempio macroscopico la vicenda che conduce, nel 1534, alla separazione della Chiesa anglicana dalla Chiesa cattolica. Negli anni Trenta del Cinquecento è da poco avvenuta la frattura fra il mondo cattolico e quello protestante. Il re d’Inghilterra Enrico VIII Tudor (1491-1547) si schiera a favore del cattolicesimo e merita così da papa Leone X il titolo di Defensor fidei, difensore della fede. Ma il sovrano mal sopporta le costrizioni cattoliche: egli vuole divorziare dalla moglie Caterina d’Aragona che non gli ha dato eredi maschi, ma solo una bambina Maria. Papa Clemente, nel frattempo asceso al trono pontificio, si rifiuta di sciogliere il matrimonio perché il ripudio sarebbe indirizzato alla nipote dell’imperatore Carlo V, in quel momento l’uomo più potente d’Europa. Inutilmente, Enrico sottolinea come il matrimonio con Caterina non possa procedere, in quanto la donna è stata da lui condotta all’altare quando era già vedova del fratello, incorrendo così in un divieto biblico. In effetti, il re vuole divorziare dalla prima consorte per condurre a nozze la sua amante Anna Bolena. Si rivolge pertanto ai vescovi inglesi, che non hanno difficoltà ad annullare le nozze. Dinanzi a questo atto, il pontefice reagisce comminando al sovrano la scomunica; Enrico, di converso, fa proclamare dal Parlamento inglese l’Atto di supremazia, che lo dichiara capo supremo della Chiesa d’Inghilterra, sciogliendolo da ogni obbedienza al papa. Nasce così, da uno scisma senza eresia, l’autonoma Chiesa nazionale anglicana, che conserva sostanzialmente i dogmi, le gerarchie e i riti della Chiesa cattolica, pur autorizzando nel corso del tempo alcuni mutamenti, come il matrimonio dei preti, la soppressione delle immagini sacre nelle chiese, la sostituzione dell’inglese al latino nella liturgia della messa. La Corona inoltre decide la soppressione dei conventi: i beni ecclesiastici secolarizzati e messi in vendita finiscono nelle mani della piccola nobiltà campagnola e dei gruppi mercantili. Così la ragione dinastica – assicurare una successione maschile al trono d’Inghilterra – e la ragione politica – liberare il regno dalla gravosa ipoteca della Curia romana – non coincidono con la morale e gli interessi della Chiesa, costretta in un atteggiamento difensivo. Un altro punto di contrasto tra cattolici e protestanti riguarda la questione dei beni della Chiesa: l’enorme accumulazione di ricchezze da parte della Chiesa cattolica è infatti, a ben vedere, il risultato dell’applicazione delle regole che limitano fortemente le possibilità delle famiglie di scongiurare la mancanza di eredi e che favoriscono così le libere donazioni testamentarie a favore della Chiesa, con risultati straordinari: in Francia, ad esempio, tra il V e l’VIII secolo, la Chiesa era entrata in possesso di circa un terzo delle terre arabili del regno. Altri argomenti di dissenso relativi alla sfera familiare riguardano aspetti più strettamente dottrinali. Martin Lutero, principale artefice della Riforma protestante, sancisce che il matrimonio non è un sacramento e dal 1563 anche la Chiesa anglicana dichiara il carattere non sacramentale delle nozze. In molte aree protestanti viene ammesso il divorzio, sia pure con molte difficoltà, e generale solo per adulterio o abbandono da parte del coniuge; le restrizioni cattoliche al matrimonio fra parenti vengono inoltre in gran parte superate, consentendo, come nel caso degli anglicani, il matrimonio fra cugini di primo grado. Infine, mentre nel mondo cattolico si incoraggia il modello di vita casta delle donne non maritate e delle vedove, idealmente tutte dedite alla preghiera e alla beneficenza, nei paesi protestanti il matrimonio e la formazione di una famiglia sono indicati alle donne come la migliore via per la salvezza dell’anima. In ambiente protestante si registrano, tuttavia, alcuni importanti elementi di continuità con la tradizione cattolica. L’ostilità all’adozione ne è un esempio: questa pratica rimane proibita sino al XIX secolo negli Stati Uniti e fino al XX in Europa. La Chiesa cattolica, per parte sua, provvede, in risposta alla Riforma protestante, nell’ambito della strategia della Controriforma, a rivedere la sua politica verso le famiglie. Ribadita la sacralità del matrimonio e accentuata la lotta alla pratica del sesso al di fuori della coniugalità, con l’equiparazione di concubinato e prostituzione, viene però ridotta l’area di parentela in cui è interdetto il matrimonio, diminuendo da sette a quattro i gradi di parentela proibiti. Inoltre la Chiesa tende ad attenuare il conflitto, mai interrottosi, sulla questione dei matrimoni clandestini, cioè privi del consenso delle famiglie e svolti alla sola presenza del prete e dei testimoni, confermandone la validità ma rendendone più difficile la praticabilità concreta. Il controllo dei genitori sul matrimonio dei propri figli, oggi relativamente inusuale, è, infatti, largamente praticato nell’Europa medievale e moderna. In altri termini, il consenso espresso dagli sposi non esclude che ci debba essere l’approvazione delle rispettive famiglie. Anzi, se nei paesi protestanti tale approvazione viene formalmente ristabilita, anche nella cattolica Francia il re prescrive nel 1556 che i matrimoni celebrati senza il consenso dei genitori da individui di età inferiore ai 30 anni, se maschi, e a 25, se femmine, sono illeciti e i coniugi passibili di essere diseredati, Questo intervento della corona francese segnala come gradualmente, a fianco della Chiesa, il potere statale tenda a intervenire più direttamente nelle questioni relative alla sfera familiare. L’interesse delle autorità pubbliche per la vita della famiglia è originariamente circoscritto alla sola area fiscale. L’unità di prelievo fiscale è infatti il fuoco, cioè il focolare, la casa: i beni dei soggetti coresidenti sono conteggiati unitariamente, anche se di fatto appartengono a individui diversi. Soprattutto a partire dalla prima età moderna, maturano inoltre nelle autorità civili iniziative volte a ridimensionare problemi sociali che suscitano allarme. È il caso ad esempio dell’abbandono dei bambini, una pratica che, pur vietata dalla Chiesa cattolica, costituisce una sorta di rudimentale forma di controllo delle nascite da parte delle famiglie povere. A partire dalla metà del XVI secolo in molti Stati europei si proclamano leggi che, oltre a proibire l’infanticidio, dispongono il ricovero dei bambini abbandonati in strutture specializzate. Simili misure vengono adottate, tanto nei paesi protestanti quanto in quelli cattolici, anche per i figli illegittimi. Un problema poi particolarmente sentito è quello delle giovani donne che non possono sposarsi perché le famiglie d’origine non sono in grado di fornire loro una dote appropriata. Nel 1425 nasce a questo fine a Firenze il Monte delle doti, la prima di una miriade di istituzioni incaricate di offrire sostegno economico alle giovani donne in vista delle nozze. In taluni casi tale aiuto viene erogato a quote rilevanti della popolazione: a Roma, ad esempio, sembra che tra il 1637 e il 1752 un terzo delle donne abbia usufruito di un qualche sussidio dotale offerto dalla Confraternita dell’Annunziata. In Inghilterra già nella seconda metà del Cinquecento la legislazione sui poveri promossa dalla regina Elisabetta I, figlia dell’unione fra Enrico VIII e Anna Bolena, stabilisce provvidenze nei confronti delle donne non maritate, oltre che degli orfani e delle vedove. Gradatamente l’espansione delle competenze statali sulle questioni familiari sottrae spazio all’influenza ecclesiastica fino al punto da introdurre una distinzione tra matrimonio civile, valido per lo Stato, e matrimonio religioso. Stabilito alla fine del Settecento in una compagine statale di grandi dimensioni, l’Impero asburgico, dall’imperatore Giuseppe II d’Austria, il matrimonio civile si fa spazio lentamente nel corso dell’Ottocento per poi essere ampiamente riconosciuto nel corso del Novecento. Un deciso cambiamento in direzione della laicizzazione della vita familiare e del matrimonio avviene con la Rivoluzione francese. Con essa il matrimonio cessa di essere un evento religioso e ritorna a rappresentare un contratto tra individui sancito dall’autorità pubblica. Nel 1793, inoltre, l’Assemblea legislativa stabilisce che tutti i figli, compresi gli illegittimi, godano alla pari dei diritti ereditari. Un anno prima era stato ammesso il divorzio, una possibilità cui ricorrono le donne in numero tre volte maggiore che gli uomini. In Francia il divorzio, soppresso all’indomani della caduta del regime napoleonico (1816), viene ristabilito nel 1884. A testimoniare la lunga durata del divieto sociale di divorzio nella società europea sta la vicenda emblematica di re Edoardo VII d’Inghilterra, costretto ad abdicare nel 1936 per poter superare l’ostilità del governo, della Chiesa anglicana e dell’opinione pubblica alle sue nozze con la signora Wally Simpson, già due volte divorziata. In Italia il divorzio viene legalizzato solo nel 1970 a seguito di una forte spinta dell’opinione pubblica e malgrado l’aperta avversione della Chiesa cattolica. La rivoluzione industriale: nuovi assetti e ideali della famiglia europea Nell’Europa preindustriale, la famiglia costituisce un’unità lavorativa fortemente integrata e relativamente autonoma. Nelle famiglie contadine, gli uomini lavorano la terra, mentre le donne e i bambini svolgono, oltre alle incombenze domestiche, attività agricole complementari in determinati periodi dell’anno, come al momento del raccolto. Nei tempi morti del lavoro agricolo, donne e uomini svolgono inoltre a domicilio attività di tipo manifatturiero, come la filatura e la tessitura. Tra gli allevatori è usuale la condivisione della cura e della gestione del bestiame fra più fratelli. Anche in ambito urbano, soprattutto fra le famiglie che praticano il commercio, i gruppi familiari costituiscono la base principale per lo svolgimento delle attività economiche, con i figli dei bottegai, per esempio, impiegati come garzoni o apprendisti. I gruppi familiari sono poi collegati a una serie di organizzazioni collettive il cui compito è quello di mantenere coese le comunità, sanare i contrasti e sostenere le famiglie e gli individui bisognosi. Per esempio, nelle campagne le comunità di villaggio e le parrocchie rurali, oltre a svolgere i propri specifici compiti – rispettivamente, il controllo dell’uso e della gestione del territorio e la cura delle anime – sono luoghi in cui si consolidano le relazioni interne alle comunità locali e si sviluppano reti di solidarietà che integrano o sostituiscono, quando vengono a mancare, quelle familiari. Nelle città, le corporazioni di mestiere, cui deve essere affiliato ogni artigiano, svolgono mansioni simili, prestando aiuto ai soci o alle loro famiglie in difficoltà. L’Europa preindustriale è dunque un mondo caratterizzato da una forte coesione sociale basata su una rete fittissima di organizzazioni collettive. Con l’avvento della rivoluzione industriale, in Inghilterra, le basi dell’economia familiare e delle antiche organizzazioni collettive vengono gravemente minate. Le solidarietà di villaggio, per esempio, vengono erose e poi cancellati per l’azione di due fattori concomitanti: il massiccio trasferimento di popolazione dalle campagne alle città dove si concentrano le fabbriche e, nello stesso tempo, lo sviluppo delle attività agricole su scala imprenditoriale e con criteri di gestione che ignorano le secolari consuetudini locali. La famiglia cessa di essere un’unità lavorativa integrata: tutti i membri del nucleo familiare, anche le donne e i bambini piccoli, sono impiegati, fuori dalle mura domestiche, in fabbrica e non esiste più relazione alcuna fra i lavori svolti da ciascuno di essi; la durezza dell’orario di lavoro che va dalle dodici alle sedici ore al giornaliere per un operaio, anche se si tratta di un bambino in tenera età, rende impossibile lo svolgimento delle attività lavorative complementari svolte un tempo nell’ambito della famiglia. Nelle periferie dei centri industriali le condizioni di vita sono durissime: i quartieri operai sono agglomerati di case fatiscenti e sovraffollate; la situazione igienica e sanitaria è pessima; alla piaga degli incidenti sul lavoro si aggiunge anche quella dell’alcolismo e delle malattie professionali contratte nell’ambiente lavorativo (per esempio, le numerosi affezioni polmonari che colpiscono i minatori che respirano le polveri di carbone). In questa cornice, la famiglia contadina inurbata si disgrega inesorabilmente. L’abbandono della casa da parte del padre, o la sua prematura scomparsa, le separazioni e i divorzi, i rapporti di convivenza, le gravidanze al di fuori del matrimonio, le interruzioni di gravidanza diventano fatti ordinari. Nelle famiglie operaie è frequente che, venuto meno per qualsivoglia motivo il padre, il ruolo di capofamiglia sia assunto dalla madre e che l’asse fondamentale sia rappresentato dal rapporto fra madre e figlia, un legame che consente a quest’ultima quando diventa madre a sua volta di poter continuare a lavorare, affidando alla nonna i figli. Ciò si deve anche alla maggiore indipendenza economica acquisita dalle donne e al loro affrancamento dal controllo della famiglia di origine o del marito. Esattamente in parallelo a queste grandi trasformazioni, nell’Inghilterra ottocentesca, le fasce sociali più abbienti danno vita alla cosiddetta famiglia modello, imperniata sulla concezione della vita familiare come regno della privacy, della riservatezza, e sulla divisione dei compiti e degli ambiti di intervento fra uomo e donna. Il marito, nella veste di capofamiglia, lavora e guadagna denaro sufficiente per mantenere la famiglia; la moglie cura le faccende domestiche, si occupa dell’educazione dei figli, preparati, a casa ancor prima che a scuola, ad affrontare le prove che la vita riserverà loro, siano – come recitano i titoli di due famosi romanzi per la gioventù del tardo Ottocento – di «piccole donne» che crescono o di futuri «capitani coraggiosi». Si delinea così una netta separazione tra la sfera pubblica, appannaggio degli uomini, e la sfera privata, riservata alle donne. La concezione della famiglia modello godrà di enorme fortuna e verrà assorbita nel tardo Ottocento anche dagli strati degli impiegati e degli operai specializzati i quali, godendo di trattamenti salariali più elevati, possono permettersi di rinunciare al contributo del lavoro femminile e minorile al reddito familiare e di inseguire l’ideale di decoro coltivato dalle classi superiori. Per concludere Per la sociologia tedesca tra XIX e XX secolo, e poi per quella americana, la società odierna si differenzia da quella tradizionale per il modo di porsi rispetto alla vita economica ma anche per la diversa natura delle relazioni fra individui. Mentre nella società tradizionale esse sarebbero state dirette, personali, coinvolgenti, nella società contemporanea esse sarebbero divenute fredde, burocratiche e impersonali. Secondo questa prospettiva, i modelli di famiglia si sarebbero disposti in un ordine evolutivo molto regolare: dal più tradizionale (le famiglie allargate e le famiglie ceppo) al più attuale (la famiglia semplice). Esisterebbe quindi uno stretto rapporto tra la condizione dell’uomo contemporaneo che si ritrova solo ad affrontare i disagi della modernità e la trasformazione e riduzione della famiglia da organismo articolato e complesso a stretto nucleo della famiglia semplice. La nascita di quest’ultima coinciderebbe con l’irrompere della rivoluzione industriale e dei suoi effetti distruttivi sulle strutture familiari tradizionali. Uno storico-sociologo dell’università di Cambridge, Peter Laslett, a partire dagli anni Sessanta, ha tuttavia dimostrato l’infondatezza di questa tesi, documentando che in Inghilterra la famiglia semplice esisteva già nel Cinquecento ed era un tratto originario caratterizzante la struttura sociale del paese. Le ricerche di Laslett e del gruppo di studiosi di Cambridge riuniti attorno a lui hanno segnato la nascita della storia della famiglia come branca degli studi storici. L’approccio storico consente di osservare che, pur essendoci modelli familiari prevalenti in diverse epoche storiche, spesso essi convivono e di fatto le singole strutture familiari sono soggette a variazione anche in archi temporali relativamente brevi. L’attenzione degli storici che hanno indagato l’evoluzione della famiglia nel passato si è rivolta non solo alle strutture di coresidenza, ma anche alle dinamiche affettive. Per lo storico francese Philippe Ariès, ad esempio, i concetti di infanzia e di attenzione specifica all’infanzia si precisano – con la riduzione della mortalità infantile e il miglioramento delle aspettative di vita – solo a partire dal Cinquecento. Di recente, tuttavia, gli storici dell’antichità e del Medioevo hanno negato risolutamente che prima del XVI secolo la dimensione dell’infanzia sia stata completamente ignorata. Più in generale gli storici hanno cercato di stabilire un rapporto preciso tra dinamiche affettive interne alle famiglie e modernità – vera o presunta – del contesto economico in cui esse sono collocate, ma senza ottenere risultati particolarmente convincenti. Per esempio, è tutto da dimostrare che la modernità è contraddistinta dalla nascita di una dinamica affettiva nuova, incentrata sulla famiglia nucleare, perché ciò è funzionale alle logiche dell’economia di mercato, che vogliono la famiglia svincolata dai vincoli col parentado più esteso e con le organizzazioni collettive, come le comunità di villaggio. Né è risultato convincente il concetto di familismo – un’eccessiva concentrazione sulla sorte del proprio nucleo familiare a scapito degli interessi collettivi – coniata da alcuni sociologi e antropologi anglosassoni per spiegare le ragioni dell’arretratezza delle aree dell’Europa meridionale rispetto a quelle del Nordovest del continente. In conclusione, nessuna teoria è riuscita a dimostrare efficacemente il nesso causale tra un particolare modello di famiglia o di relazioni affettive e le situazioni di sviluppo o sottosviluppo economico. Ciò si è verificato soprattutto perché, negli ultimi decenni, è venuta cambiando la nostra concezione di cosa si debba intendere per modernità. Nel secondo dopoguerra i simboli della modernità – la città, l’industria, la velocità dei mezzi di comunicazione – appaiono circonfusi di un magico alone di successo e di consenso, mentre tutto ciò che sembra appartenere alla tradizione appare sinonimo di vecchio, stantio, arretrato. Oggi che abbiamo dubbi crescenti sui caratteri benefici della modernità che inquina l’ambiente, non garantisce lavoro e sicurezza per tutti, non assicura un’adeguata qualità della vita, sperimentiamo una crescente nostalgia per il mondo tradizionale, o per lo meno per quello che noi immaginiamo che sia stato, e cerchiamo nella storia della famiglia i caratteri distintivi delle diverse epoche e culture e non più le premesse e le ragioni dello sviluppo economico dell’Occidente industriale.