PARROCCHIA S. IPPOLITO MARTIRE
PARLAMI D’AMORE…
5 Febbraio 2012 (con la neve)
‘non è invidioso ‘
L’invidia è uno dei primi sentimenti dell'uomo. La vediamo manifestarsi molto presto, già
subito dopo che Adamo ed Eva sono stati allontanati dal giardino dell'Eden: Caino, primogenito
di Adamo, è anche il primo esempio di uomo invidioso.
“Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu
molto irritato e il suo volto era abbattuto.. ” (Genesi, 4,4-5). Il nome di Caino (Qayin) deriva da un
verbo che significa “acquistare” (Genesi, 4,1) e che ha una radice molto vicina a quella che
significa “invidiare”. La radice che significa “acquistare” è difatti qanah, mentre quella che
significa “invidiare” è qana'. Ma oltre alla vicinanza delle due radici, tra i due verbi possiamo
anche vedere una stretta connessione spirituale. Caino invidiò Abele, il cui sacrificio era stato
gradito da Dio, invidiò, cioè, il favore di Dio che non aveva ottenuto e che voleva
acquistare.
La Bibbia narra di vari casi di invidia, in molti dei quali questo sentimento porta addirittura
all'omicidio, almeno a tentarlo o a meditarlo. Vediamo che i fratelli di Giuseppe lo invidiarono e lo
vendettero come schiavo, che Saul invidiò i successi di Davide, e tentò più volte di ucciderlo, che
i Farisei invidiarono Gesù e lo diedero in mano ai Romani perché lo condannassero a morte.
Ma l'invidia, nella Bibbia, non è rimproverata solo indirettamente. Dai dieci comandamenti
è più che evidente che l'invidia verso il prossimo è un sentimento contrario alla volontà di Dio:
“Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo
schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo
prossimo”. Nei Salmi e nei Proverbi non solo è detto più volte di non invidiare gli empi ma anche
parlando in generale l'invidia è chiamata “la carie delle ossa” (Proverbi, 14, 30).
Eppure l'invidia riappare e continua a riapparire, anche in mezzo ai cristiani come si legge
più volte nelle Lettere di San Paolo.
L'invidia si avvicina anche alla gelosia. Saul non solo invidiò Davide, ma divenne
anche geloso del regno che sentiva di avere perduto.
In ebraico, la gelosia si chiama addirittura con la stessa parola (qin'ah) che si usa per
nominare l'invidia.
Nel testo greco del Nuovo Testamento, a questi due sentimenti corrispondono due parole
diverse, rispettivamente phthonos e zelos. Phthonos ha quasi sempre il senso peggiorativo di
invidiare, mentre zelos, è spesso usato, come vedremo, per riferirsi oltre che alla gelosia carnale
anche allo zelo spirituale.
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Entrambi i termini, comunque, sono usati nell'elenco che definisce le opere della carne:
“… Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria,
stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, (zeloi),
dissensi, divisioni, fazioni, invidie
(phthonoi),ubriachezze, orge e cose del genere.” (Galati, 5, 19-21). Gelosie e invidie sono il
risultato del desiderio della carne, che opera sempre in vista di un interesse, verso cui orienta
anche i più intensi sentimenti. Pensieri e sentimenti che non producono pace, ma spesso
violenza. Come è scritto poche righe più sopra “…Ma se vi mordete e divorate a vicenda,
guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!” (Galati, 5, 15).
La nostra “parte terrena”, quella che dobbiamo mettere a morte se non vogliamo morire,
ancora secondo le parole dell'apostolo Paolo, consiste “ Quanto alla fornicazione e a ogni specie
di impurità o cupidigia, neppure se ne parli tra voi, come si addice a santi; lo stesso si dica per le
volgarità, insulsaggini, trivialità: cose tutte sconvenienti. Si rendano invece azioni di
grazie! Perché, sappiatelo bene, nessun fornicatore, o impuro, o avaro - che è roba da idolàtri avrà parte al regno di Cristo e di Dio.” (Efesini, 5, 3-5).
Fornicazione è una strana parola che ricalca il termine greco porneia (da pornè,
“prostituta”) che indica l'atto di dare il proprio corpo per un rapporto carnale fuori dal matrimonio,
fuori cioè dall'unico contesto in cui quest'atto può essere veramente puro da qualsiasi interesse
(sottolineo il può, perché se la purezza fosse garantita dal solo patto matrimoniale, l'apostolo non
avrebbe sentito il bisogno di aggiungere all'elenco la parola impurità). Cupidigia o avarizia (nel
testo greco a entrambe queste corrisponde pleonexia, cioè “[voler] avere [sempre] di
più”) sono chiamate esplicitamente idolatria. Perché l'oggetto del nostro desiderio (sia
questo rivolto a una cosa o a una persona) diventa per noi ciò che consideriamo la fonte
del nostro bene, una specie di dio. Ma questa è solo una nostra idea e di quella cosa o
persona finiamo con l'amare in realtà solo l'immagine, cioè il pensiero del suo possesso,
dell'illusoria possibilità di disporne a piacimento.
Più che tra invidia e gelosia, la parola di Dio marca quindi la differenza tra due tipi di
amore. Uno egoista e tendenzialmente idolatra; l'altro altruista e diretto verso (oltre che originato
da) il Signore che è Spirito. Uno è l'amore carnale, l'altro è l'amore spirituale.
Da questo punto di vista, effettivamente, la differenza tra invidia e gelosia non è così
essenziale. In un caso si tratta del desiderio di ciò che non si possiede ancora, nell'altro
del desiderio di ciò che si possiede già. Ma, a parte l'averne o non averne diritto,
l'orientazione del desiderio rimane sempre la stessa.
Inevitabilmente, prima o poi, il nostro dare si orienterà verso il prendere, come
accade tipicamente quando compriamo qualcosa, ma anche quando ci aspettiamo un
ritorno affettivo dal bene che diamo o che vogliamo. Allora, se il nostro dare si orienterà
verso il prendere, non solo invidieremo quelli che sono riusciti ad avere di più di noi, ma
diventeremo anche gelosi di quello che siamo riusciti ad acquistare.
Per questo l'amore naturale è sempre, alla fine, egocentrico e interessato. Così anche,
sfacciatamente, la religione idolatra. Do ut des (“do perché tu dia”), dicevano candidamente gli
antichi Romani. Tutta la nostra vita naturale, da quella degli affari a quella degli affetti, è più o
meno coscientemente organizzata attorno al nostro amore per certe cose o certe persone nelle
quali vediamo appagati i nostri desideri o incarnate le nostre aspirazioni.
Questo modo di amare, anche se può dare intense emozioni (il suo effetto assomiglia
parecchio a quello di una droga), non porta vera gioia, né vera libertà.. La vera gioia è dare (“Vi è
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più gioia nel dare che nel ricevere!” At, 20, 35), ma per l'uomo non è possibile dare senza
pensare anche a prendere e questo, prima o poi, di fronte a un rifiuto, a una stonatura o a
un'incomprensione, corrompe prima o poi la purezza e la spontaneità dell'amore, trasformandolo
in interessato desiderio di possesso o esercizio di potere.
L'amore di Dio, invece, è sempre altruista, puro, disinteressato: “L'amore è paziente, è
benevolo l‟amore; l'amore non invidia (ou zeloi)”.
Agapè ou zeloi “l'amore non si ingelosisce”, scrive letteralmente Paolo. Molte
traduzioni preferiscono rendere con non invidia: forse per evitare il problema di far conciliare
questa affermazione con quella fatta dal Signore a Mosè: “Tu non devi prostrarti ad altro Dio,
perché il Signore si chiama Geloso: egli è un Dio geloso.” D'altra parte,Giacomo nella sua lettera
rammenta che la Scrittura dice di Dio che Egli “fino alla gelosia ci ama lo Spirito che egli ha fatto
abitare in noi?”.
È verso l’amore idolatra e interessato che si accende la gelosia dell'amore di Dio. La
gelosia di chi teme che l'amato sia preso dall'amore della carne e non possa più seguire quello
puro dello spirito.
La gelosia di Dio è la gelosia dello Spirito di purezza verso l'amore interessato per gli
idoli e le loro false promesse di abbondanza e di felicità.
La gelosia di Dio è la gelosia di chi ci ama di un amore vero. Come quello del buon
pastore che vuole proteggere la vita delle sue pecore e che a questo scopo mette a repentaglio
la sua stessa vita.
Questa gelosia è anche essere quella dello sposo. Non per niente in ebraico le parole
per pastore e per coniuge si scrivono con le stesse lettere. Ma l'amore è fiducia e non sospetto.
La gelosia può effettivamente corrodere la struttura stessa (“le ossa”) di un matrimonio.
L'amore di cui ci parla la parola di Dio, al contrario dell'amore naturale, non è né
sospettoso né possessivo, perché dona sempre, perfino la vita; si misura, anzi, in base a quello
che porta a donare. Difatti, Gesù ha detto che “nessuno ha amore più grande di quello di dar la
sua vita per i suoi amici.”
Questo è l'amore di Dio per il suo popolo e questo, secondo la parola di Dio, deve anche
essere l'amore del marito verso la moglie. Dice infatti sempre l'apostolo Paolo: “ E voi, mariti,
amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei,” (Efesini,
5,22).
Caino si sentiva defraudato del favore di Dio, perché credeva di averne acquistato il diritto
con quello che aveva fatto per Lui.
Sgridando Adamo ed Eva per la loro disubbidienza, Dio aveva detto, rispettivamente, a lei
che avrebbe partorito con dolore e a lui che avrebbe lavorato la terra con fatica (Genesi, 3,1619). Eva aveva chiamato Qayin il frutto del suo primo parto come se con quel dolore avesse
acquistato qualcosa presso l'Eterno (Genesi, 4,1) e Caino era caduto nello stesso inganno,
perché ciò che donava a Dio con il suo sacrificio erano proprio i frutti della terra che era riuscito a
produrre con il sudore della sua fronte. Caino, abbiamo già visto, si adirò con suo fratello Abele,
che era stato a guardare le greggi moltiplicarsi da sole e che otteneva il favore di Dio dandogli
parte di quello che aveva ricevuto per grazia. Ma l'amore che Dio vuole piantare in noi è proprio
quello che nasce dalla gratitudine per ciò che non abbiamo meritato, né avremmo mai potuto
meritare. La gratitudine per la sovrabbondante grazia di Dio.
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Non era perché l'aveva avuto Abele che Caino non poteva avere il favore del Signore.
Difatti “Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se
agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla
tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dòminalo”. Dio non ce l'aveva con Caino, era lui che
sbagliava tutto.
Il Signore, che ci ha fatti come siamo e che conosce molto bene tutti i nostri bisogni, dello
spirito, dell'anima e anche del corpo, ha visto che non era bene per l'uomo stare da solo e gli ha
dato una moglie perché vivessero felici assieme, aiutandosi e sottomettendosi reciprocamente
nell'amore (che “copre una grande quantità di peccati”). Vivere per fede non significa vivere
d'aria: significa fidarsi di Dio e non di quello che si vede, che è sempre limitato e ci porta a
cercare quello che non si ha.
Cercando e provando la bontà di Dio, conoscendo per esperienza quale sia la sua buona,
si può concretamente vincere sulle passioni che divorano la nostra anima. Amando Dio di un
amore sincero, impariamo ad amare anche il nostro prossimo, a cominciare dal coniuge (in
ebraico anche prossimo e coniuge sono espresse dalla stessa parola: rea'). Impariamo cioè ad
amare gli altri per quello che sono e non per quello che ci possono dare (proprio come anche noi
vorremmo essere amati). Se non amiamo attivamente tutte le cose che possiamo dire
resteranno soltanto chiacchiere.
Perché lui sì e io no? Questa è la domanda principale, forse la sola, che gli invidiosi si
pongono. Ma l'invidia è qualcosa di più, o di meno, del desiderio di possedere quello che ha
l'altro - ricchezza, amore, potere -; è un «negativo»: impedire all'altro quel possesso.
E’ significativo che i padri del deserto accostavano la tristezza all’invidia, ricordando che
se la prima provoca una sorta di paralisi di senso nell’oggi, la seconda è un’afflizione che nasce
dal bene degli altri. L’etimologia di invidia ne rivela il legame con il “vedere”: in-videre
significa avere un occhio cattivo fino a non vedere più l’altro, fino a volerne la sparizione,
e così l’invidia può condurre all’omicidio. Sì, c’è anche una tristezza che nasce dalla
constatazione della felicità altrui, reale o presunta che sia: terribile sentimento che nasce ancora
una volta dal fuggire il presente, solo che anziché rifugiarci in un passato idealizzato o in un
futuro sognato, ci volgiamo verso un presente che non appartiene a noi ma ad altri… Nasce
allora il desiderio di avere noi, qui e subito, la “roba” degli altri, anche se a volte si vorrebbe
semplicemente che l’altro non avesse quei beni, quelle caratteristiche, quei determinati doni. Per
questo l’invidia è un sentimento che si cerca di nascondere, un sentimento inconfessabile, di cui
non ci si vanta ma ci si vergogna perché equivarrebbe a una dichiarazione pubblica di inferiorità.
Più in profondità, l’invidia è un riflesso che consiste nel paragonarsi sistematicamente agli altri,
nell’incapacità personale di ammettere con gratitudine i doni rispettivi di cui ciascuno è dotato. Ci
sono sempre qualità che gli altri hanno e io no; fissandomi su queste, finisco per cadere nella
profonda tristezza verso la vita quale essa è e si presenta. Ecco perché l’invidioso dovrebbe
sapere di essere condannato all’isolamento: infatti, non appena gli altri si accorgono di questo
suo sentimento, lo abbandonano perché ai loro occhi diviene insopportabile. Non a caso anche
la gelosia eccessiva– patologia che si declina in mille modi, non solo nei rapporti coniugali –
appartiene a questa medesima suggestione, a questa tentazione della tristezza: essa nasce dal
vivere gli uni accanto agli altri, dal confronto continuo, dal verificare ciò che gli altri sono e fanno
e, di conseguenza, l’approvazione e il riconoscimento che essi ricevono. Va detto con estremo
realismo: questi sentimenti, se lasciati crescere senza freno, trasformano anche somaticamente
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chi ne è preda e si manifestano con il pallore del volto, con labbra tese e piatte, con lo sguardo
glaciale…
Chi ha raffigurato bene l’invidia è Giotto nella Cappella degli Scrovegni, dove appare una
donna anziana, avvolta dalle fiamme che indicano il suo tormento interiore e dalla cui bocca
esce un serpente che si ritorce contro i suoi occhi; le sue orecchie spropositate narrano la sua
attitudine alla curiosità, ad ascoltare maldicenze per nutrirsi di contestazione e antagonismo,
concorrenza e gelosia: un male veramente triste che si contrappone alla comunicazione, alla
gioia che viene dal condividere con gli altri la ricerca di senso e il tesoro della nostra comune
condizione umana.
L'invidia, sostenevano ancora i Padri della Chiesa, è connessa alla maldicenza e
all'avidità, e discende dalla superbia che è il primo dei sette peccati capitali. Invidia da «invidere», guardare male, di malocchio: l'invidioso è uno che non vede bene, l'invidioso sperimenta
il peccato senza piacere: il suo è un tarlo interiore che lo rode, una ruggine interna. Il che capite – è il contrario della benevolenza e nasconde un fretta di possedere che non è
sicuramente assimilabile alla pazienza (intesa con la doppia accezione del termine). I Padri
avevano capito che l'invidia produce un rovesciamento: provare dolore per il piacere degli altri.
San Tommaso scrive che l'invidioso vede nel bene degli altri un male per se stesso, mentre già
Aristotele ribadiva che non si invidiano i lontani, bensì i vicini: l'invidia come sentimento che
serpeggia nella famiglia, tra gli amici, nelle comunità ristrette.
Per far comprendere meglio cosa è l’amore Paolo ci fa vedere quello che non è. Come
una luce risplende più nitida sullo sfondo buio, così l’amore manifesta meglio i suoi tratti se
paragonato con ciò che lo contrasta. Il primo sfondo contrastante la luminosità dell’amore è l’invidia:
„l‟amore non è invidioso‟. Quanto l’invidia impedisca all’amore di sciogliersi nella generosità e
quanto la generosità dell’amore superi i rigidi calcoli dell’invidia è raccontato nella parabola degli
operi mandati alla vigna.
“Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata
lavoratori per la sua vigna. Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna.
Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati e disse loro:
Andate anche voi nella mia vigna: quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono. Uscì di nuovo
verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che
se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi? Gli risposero: Perché
nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna.
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e dà loro la
paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero
ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma
anch'essi ricevettero un denaro per ciascuno. Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone
dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi. che abbiamo
sopportato il peso della giornata e il caldo. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse:
Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e
vattene: ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello
che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi
ultimi (Mt 20, 1-16).”
La parabola narra di come l'amore divino trasgredisca la logica da supermercato in
nome di una generosità che si dona e fa credito anche a chi non ha diritti. La straordinaria
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misura della generosità di Dio assume i tratti dell'immensità di un mare, il quale stupisce non
solo per la sua smisurata grandezza, ma anche per la sua sovrabbondante energia. Il mare non
è un contenitore d'acqua che, per quanto abbondante, potrebbe stagnare e imputridirsi. Il mare è
un gigantesco movimento di correnti, la cui furia impressiona durante la burrasca, ma la cui
infaticabile continuità è costantemente segnalata dal ritmico e sempre nuovo distendersi dell'onda sulla riva. Così appare la generosità di Dio nella parabola: ritmicamente, il padrone
della vigna si ripresenta sulla piazza e rinnova la sua offerta, così che ciascuno degli operai,
comparsi a ore diverse, possa sempre trovare pronta l'offerta generosa di Dio. Come il mare
perennemente rinnova l'onda, anche quando nessuno la raccoglie, così la generosità di Dio mai
smette di offrirsi, in modo tale che gli uomini, non appena si rendono disponibili, ne siano lambiti.
La generosità di Dio, oltre a manifestarsi nell'instancabile suo riproporsi in ogni tempo,
brilla nel suo proporsi anche quando non potrà essere ricambiata. Il padrone della vigna, ancora
nel tardo pomeriggio, «verso le cinque», assume gli ultimi oziosi nella sua vigna, ben sapendo
che la sera ormai prossima concluderà pressoché subito il loro lavoro: la loro resa non sarà che
minima.
La smisurata generosità di Dio risalta evidente al momento della paga. Gli ultimi assunti
nella vigna non solo vengono pagati per primi, ma addirittura ricevono lo stesso salario dei primi.
L'inaspettata mossa del padrone suscita la reazione irosa di costoro, i quali «mormoravano
contro il padrone». Nella mormorazione dei lavoratori che hanno «sopportato il peso della
giornata e il caldo» si sente l'eco del popolo d'Israele nel deserto che, rimpiangendo «i cocomeri,
i meloni, i pani, le cipolle e l'aglio» dell'Egitto, diffidano della cura di Dio (Es 16,3-8).
La modalità tipica della mormorazione (modalità di esprimere-non esprimere
l’invidia), che avviene a voce sommessa, ben esprime l'atteggiamento di chi cova il
risentimento come brace ardente sotto la cenere, e insieme è trattenuto dal timore di
protestare apertamente. Risentimento e paura sono una miscela che giunge, o prima o
poi, alla esplosione aperta e violenta o corrode silenziosamente l'intimo - il fegato si dice
popolarmente - di coloro in cui si trova.
L'invidia ardente nell'intimo, e lì per paura e con fatica trattenuta, trapela nella
mormorazione della voce, ma ancora più nello sguardo degli occhi, che sono la finestra
dell'anima. Proprio in riferimento allo sguardo, la parabola definisce l'invidia. L'espressione del
padrone della vigna che replica alle proteste di uno dei lavoratori della prima ora - «sei invidioso
perché io sono buono?» - suona nel testo originale: «Il tuo occhio è cattivo perché io sono
buono?». Lo sguardo cattivo (NB contrario alla benevolenza o benignità) appartiene alla
sintomatologia caratteristica della malattia invidiosa.
L'invidia insidia l'amore distogliendo lo sguardo da Colui che è buono per concentrarlo sul
guadagno che da lui si può trarre. Preoccupati di guadagnare, i lavoratori invidiosi stabiliscono
un contratto, in modo da cautelarsi contro l'ingiustizia del padrone. La relazione che
intrattengono con lui è regolata dalla logica del do ut des – di cui dicevamo prima-: a
prestazione corrisponde proporzionale ricompensa. In questa logica, il guadagno è affidato
alla giustizia umana, sulla cui bilancia stanno in equilibrio le opere dei lavoratori e il salario del
padrone. Il contratto regolato dalla giustizia commutativa mette forse al riparo dall'ingiustizia, ma
impedisce di sperimentare la generosità dell'amore. Può certo limitare i danni, ma non può dare
«il di più». Evita la trasgressione della legge, ma non la oltrepassa nella gratuità. La gratuità
generosa, d'altro canto, oltrepassa la legge, ma non la trasgredisce. Al lavoratore invidioso della
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generosità con cui gli ultimi sono stati trattati, il padrone della vigna non può che ricordare il
contratto al quale il lavoratore stesso si era legato: “Non hai convenuto con me...”.
La generosità dell'amore non contravviene alla giustizia, la quale, tuttavia, sta sui gradini
inferiori della scala amorosa. La giustizia è un gradino irrinunciabile ma incompiuto dell'amore.
Quando la giustizia, trattenuta dall'invidia, non sale al grado dell'amore, finisce per scivolare
nell'ingiustizia. Questo evento nefasto è illustrato in un'altra parabola con a tema la vigna. Si
tratta della parabola dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-44). Invidiosi dell'eredità del figlio del padrone
della vigna, essi bramano quello che lui, giustamente, possiede. La bramosia mimetica, il voler
essere destinatari dei beni di cui gode il figlio, li istiga a sostituirsi a lui: “Costui è l'erede; venite,
uccidiamolo, e avremo noi l'eredità” (Mt 21,38).
L'invidia mimetica è nemica mortale della bontà/benevolenza dell'amore. La bontà
dell'amore, che supera la calcolata misura della giustizia, se non è riconosciuta e accolta avvia il
risentimento o la violenza. Fissandosi sul confronto con gli altri, preoccupato dalla paura di
non essere riconosciuto migliore e dunque di essere superato, dominato quindi dallo
spirito di concorrenza, l'invidioso perde di vista la bontà dell'amore. La bramosia del guadagno fa dimenticare la gratuità del lavoro. Una giornata intera nella vigna sottrae dall'ozio
pericoloso e dalla noia mortale, cui gli ultimi sono stati sottoposti. Una giornata intera nella vigna
consente anche di produrre assai più che il poco effettuato lavorando l'ultima ora. Se il contratto
non fosse impugnato contro gli altri, allora è immaginabile che il padrone della vigna possa
ricompensare chi ha più lavorato oltre ogni misura - come è nel suo stile dichiarato: “io sono
buono...”.
A mantenere questa purezza di vita io vi esorto: Il regno dei cieli appartiene a quelli
che sono come loro che sono cioè umili, spiritualmente piccoli. Non abbiate per loro
disprezzo o avversione: è segno di vera grandezza l'esser piccolo, mentre la superbia è
fallace grandezza di chi è debole. E quando la superbia si sia impadronita di un animo,
sollevandolo in alto lo fa precipitare, gonfiandolo lo svuota, riempiendolo lo spezza.
Mentre la persona umile non può fare del male, il superbo non può non farne: intendo
riferirmi all'umiltà di chi non aspira a eccellere per transitori successi mondani, ma è
volto sinceramente a un bene eterno che sa di poter raggiungere, non con le proprie
forze ma con l'aiuto che riceve. Chi ha questa umiltà non può desiderare il male di
nessuno perché nessun male potrebbe accrescere il suo bene. La superbia invece
produce subito invidia, e chi prova invidia non può che desiderare il male di colui il cui
bene lo tormenta. Anche l'invidia quindi porta subito a volere il male, e di qui derivano
imbrogli, ipocrisie, maldicenze e tutto quel male che non si vorrebbe mai ricevere da un
altro. Se conservate quindi intatta la pia umiltà, che secondo le Scritture è il segno
distintivo della santa infanzia, godrete sicuramente della immortalità dei beati: A
costoro appartiene il regno dei cieli. (S. AGOSTINO)
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Chi ha raffigurato bene l’invidia è Giotto nella Cappella degli
Scrovegni, dove appare una donna anziana, avvolta dalle
fiamme che indicano il suo tormento interiore e dalla cui
bocca esce un serpente che si ritorce contro i suoi occhi; le
sue orecchie spropositate narrano la sua attitudine alla
curiosità, ad ascoltare maldicenze per nutrirsi di
contestazione e antagonismo, concorrenza e gelosia: un male
veramente triste che si contrappone alla comunicazione, alla
gioia che viene dal condividere con gli altri la ricerca di
senso e il tesoro della nostra comune condizione umana.
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