SGUARDI CRITICI N°2 • Marzo 2014 Voci e immagini dal PimOff Alla ricerca di uno spazio. Fuori e dentro la scena A cosa tendiamo? Due corpi si muovono, uno di fianco all’altro, senza riuscire a incontrarsi. Un giovane uomo cerca la sua identità adulta. Tutti vogliamo sentirci a casa in una casa, tutti cerchiamo (e abbiamo paura) dell’alieno che c’è in noi. Creare (e fare critica) vuol dire non smettere di cercare: un senso, un’immagine, una chiave. Trovarli significa aver scoperto e conquistato un proprio spazio COSA RICORDEREMO DI... ................................................................................ Inbalìa Riccardo Buscarini Quartiatri Abbondanza/Bertoni .................... .................... .................... .................... Tre giovani con abiti improbabili e un bagaglio improvvisato si muovono guardinghi nello spazio. Vagano srotolando qua e là una striscia di tappeto verde, che delinea il loro percorso a zonzo e diventa una pedana sulla quale esibirsi, un primo embrionale palcoscenico. Sono in fuga, diretti verso un fantomatico centro d’accoglienza, si stanno difendendo dagli alieni (o da se stessi?). Illuminati da luci verdi e rosse, si accampano intorno al fuoco, stendono un’amaca. È il tentativo di trovare un rifugio, il proprio posto nel mondo. B.Z. Dieci pacchi di sale da cucina attendono sul proscenio. Ogni fine del mondo è un assolo e Buscarini, nell’asettico spazio bianco, disegna quasi ritualmente un ‘1O’ (IO) con il sale. Il rito è interrotto da convulsione, disordine, nevrosi. Il danzatore tenta disperatamente di raggiungere il microfono per parlare e affermarsi: si tende, vi si aggrappa, abbozza una pole dance intorno all’asta… Ma l’obiettivo resta lontano: l’IO e la sua costruzione sono sostanze sfuggenti e impalpabili come il sale. G.F. di Beatrice Zuffi e Gloria Frigerio Tre amici sono allineati al centro del palcoscenico, in riga di fronte al pubblico. Hanno anfibi neri, camicie bianche e bretelle. Alzano contemporaneamente il braccio destro e battono forte i piedi a terra: un saluto romano e una marcia, a gran voce cantano slogan fascisti al ritmo del Gioca Jouer. Ma Walter abbassa il braccio teso, tenta di allontanarsi. Qualcosa sta succedendo dentro di lui, forse sta prendendo corpo un dissenso, forse un “io me ne vado”, che si ferma intorno a un tavolo, davanti a una pizza. G.F. In venti neri metri quadri si muovono due danzatori vestiti di un bianco antico sul quale spicca solo la cravatta scura di Michele Abbondanza. Danzano quasi fianco a fianco – soli – per un’ora. Alla fine, una appoggiata all’altro, percorrono un corridoio di luce come una coppia di sposi, ritratta da giovane in una vecchia fotografia. Poi cala il buio. Sentiamo il suono vibrante dei respiri e i passi degli autoriinterpreti. Si riaccendono le luci di sala: li vediamo sorridere tra le gocce di sudore e, in un inchino, stringersi finalmente le mani. B.Z. SGUARDI CRITICI di Valentina Sorte Voci e immagini dal PimOff N°2 • Marzo 2014 di Alessandra Cioccarelli Scomporre la luce Tre uomini a zonzo in Ricomporre lo sguardo cerca dell’alieno A teatro – dal greco theâsthai, guardare – siamo interpellati dalla scena a esercitare attivamente il nostro sguardo e allo stesso tempo come spettatori (critici) chiediamo alla scena – parafrasando Klee – non tanto di rendere mimeticamente il visibile quanto di rendere visibile. Negli spettacoli di questi ultimi decenni il disegno luci ha assunto una valenza drammaturgica, diventando insieme all’interpretazione, alla regia, alla coreografia e al testo uno degli elementi della scrittura scenica. Non solo per le nuove soluzioni offerte da una strumentazione sempre più sofisticata e tecnologica ma grazie a una diversa concezione dell’illuminotecnica. La scena tradizionale si sta sempre più smaterializzando per cedere il passo a uno spazio dove la luce è sia un elemento strutturante, in termini di volumi e perimetri, che un elemento espressivo e narrativo. Se all’estero questa sensibilità è ormai diffusa e consolidata, in Italia – complice il pubblico – l’occhio si sofferma su regista e interpreti e scorre rapido sul resto. Anche per questo la programmazione di un workshop condotto da uno dei più importanti light designer della danza è preziosa. Nei due giorni di lavoro con Michael Mannion, l’occhio è stato allenato a guardare diversamente. Non solo come organo ma anche come filtro di emozioni. Dopo un’introduzione all’illuminotecnica e alla strumentazione, ogni partecipante ha potuto sperimentare e osservare l’effetto visivo ed emozionale delle luci – distinte per temperatura, intensità, posizionamento – sul proprio corpo e sul palcoscenico. Se il primo tema è stato quindi un affondo sulle sensazioni, il secondo ha introdotto quello più razionale della costruzione dello sguardo. Dopo aver mostrato alcuni suoi lavori – tra cui Cameo di Buscarini – Mannion ha invitato i partecipanti a elaborare una breve regia luci. Che si avvalga di strumenti illuminotecnici molto semplici o tecnologici, il Light Design può creare un montaggio così sofisticato da veicolare l’itinerario dell’attenzione senza perdere lo slancio vitale della performance. Tutti – dentro e fuori dalla scena – seguono le tracce di qualcosa che le luci rendono più visibile. U na catastrofica invasione aliena annunciata in televisione è all’origine della fuga pretestuosa dei tre giovani della compagnia Inbalìa. In un mondo in pericolo, dove ogni parvenza di certezza è crollata, i tre, costretti a una convivenza forzata e armati di un bagaglio modesto e improvvisato, incrociano i loro sentieri e si dirigono insieme verso un fantomatico centro di accoglienza che possa offrire loro un’ancora di salvezza. Ma chi sono davvero gli alieni da cui tutti fuggono? Niente di spaventoso e straordinario, si direbbe ascoltando le confidenze dei tre fuggiaschi. Non hanno la pelle verdastra e molliccia, né tanto meno mani palmate e occhi deformi. Sono come noi, anzi si nascondono tra di noi, ci spiano e inseguono le nostre scie ormonali. Ed ecco affiorare il sospetto: i tre vagabondi si scrutano in tralice per scoprire se ad essere un “alieno”, uno straniero, non sia proprio il loro vicino, il loro compagno di viaggio. Se dietro ogni volto può celarsi un extraterreste, un potenziale nemico, qual è il vero punto di arrivo del bizzarro trio? Le note di regia parlano di “uno smarrimento generazionale, una perdita di orizzonti, la ricerca di una terra promessa”; eppure si ha l’impressione che a prevalere sia piuttosto un continuo giocare metateatrale. Ecco allora svelato il senso di tanti piccoli ingredienti: la striscia di tappeto verde, srotolata a zonzo un po’ a destra un po’ a sinistra, che disegna la pedana per eccellenza su cui dare inizio alla recita, le battute continuamente ripetute dal medesimo personaggio (“Io vado ad intuito”; “Dobbiamo andare avanti”; “Da quando è cominciata questa avventura io, senza di voi, ero solo”); il repertorio di situazioni impiegato una volta dall’uno, una volta dall’altro attore; i brevi e frequenti sketch che spesso fanno ridere di gusto e, infine, gli insistiti giochi di luci ed effetti ottici che investono la sala, annullando completamente anche solo l’illusione di ogni quarta parete. Sullo sfondo di uno scenario apocalittico degno della migliore fantascienza, i tre interpreti sembrano parlarci piuttosto del loro percorso di ricerca teatrale e la necessità di motivare la loro presenza in scena. L’insieme è gradevole, il trio è stravagante al punto giusto e attoralmente efficace, il ritmo è vivace e non manca una buona dose di humour. Si ha la sensazione, però, che il disegno di insieme manchi ancora di una reale tenuta, di una struttura solida: alla lunga il girovagare a zonzo corre il rischio di stancare e non portare in nessuna direzione. Sebbene ancora decisamente acerbo e abbozzato, lo spettacolo si mostra capace di proporre un linguaggio fresco e attuale, anche per un pubblico poco avvezzo alle sale teatrali. “ Mi è piaciuta l’idea di portare sul palcoscenico tematiche da fantascienza. Le gag sono divertenti, ma sconclusionate.” Corrado, 29 anni, studente universitario A zonzo | testo e regia Inbalìa | con Marco Cocciola, Michelangelo Dalisi, Francesco Villano | luci Luigi Biondi Sale sparso sulla fine del mondo ................................................................................ Le dieci tracce di Riccardo Buscarini sono altrettanti momenti della vita di un giovane che riflette su di sé come se il mondo dovesse finire il 12 dicembre del 2012, secondo l’antica profezia Maya. Lo spettacolo è stato scritto in quell’anno e avendo presente quella data, che coincideva con la soglia dei trent’anni, l’ingresso in una fase della vita che porta con sé timori e perplessità. La prima delle tracce è un richiamo storico-mitologico alla fine intesa come desertificazione voluta. Dieci pacchi di sale allineati sul bordo della scena e poi versati a pioggia sul palco a formare il numero ‘10’. Un numero esatto come il cerchio tracciato in manege sul palco bianco da Riccardo Buscarini, e poi tagliato a metà nel secondo movi- mento. Qui prevale la musica (My body is a cage, di Arcade Fire) e su quella linea che il ballerino taglia, l’energia della canzone attraversa lo spazio scenico, vibrando sul suo corpo. Si passa poi a una danza dell’autocontrollo, quello di un’età adulta da cui fino all’ultimo ci si protegge. La quinta traccia, quella delle cadute, continue e irrecuperabili figura come un corpo debole che perde brandelli. E chi, almeno una volta non si è sentito così? Il sesto movimento è un tentativo di ‘alzare la testà, mentre il settimo la volontà di cancellazione: viene disperso il sale prima ordinato a formare il 10, ora lanciato agli angoli del palco. Da un angolo comincia il dondolio dell’ottava traccia, un sogno d’amore forse, una veglia notturna in attesa di qualcosa, qualcuno. L’amore di quando l’amore sembra la cosa più importante, e forse lo è. I manege dell’inizio ritornano schiacciati nelle due dimensioni del nono: a terra, di spalle, col sale che sfrega sulla pelle e brucia, forse, brucia sulle ferite. Sulle note famose dello Schiaccianoci si ‘autodecompone’ lo spettacolo, come annunciato all’inizio dalla voce cuori campo. Un autocombustione che lascia a terra il sale e negli spettatori il ritmo di un percorso che riguarda la vita di tutti. Il periodo dei primi bilanci, di un’età giovanile oggi sempre più difficile, di un mondo che doveva finire, e forse ci avrebbe liberati. Mentre oggi ci richiama ad anticipare un’età di bilanci, a cui, no, non eravamo pronti. Nonostante l’alto di Maria Teresa Santaguida livello di astrazione di una danza contemporanea i cui strumenti non sono accessibile a tutti, lo spettacolo arriva, come conferma anche il pubblico presente in sala. L’espressione e il movimento sono equilibrati, il linguaggio risulta in questo modo mai chiuso, sempre semplice, sempre comprensibile. “ Ho apprezzato l’essenzialità dello spettacolo e il misto classico-moderno della musica, che mantiene gli equilibri in modo sapiente.” Angela, 49 anni, insegnante 10 tracce per la fine del mondo |coreografia e interpretazione Riccardo Buscarini |drammaturgia e coreografia in collaborazione con Elisabetta Consonni SGUARDI CRITICI Voci e immagini dal PimOff N°2 • Marzo 2014 L’abbraccio del PimOff alle solitudini di Abbondanza/Bertoni ................................................................................ G li applausi commossi del teatro PimOff suonano come un premio alla carriera; un lungo e sincero ringraziamento alla danza di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, di nuovo insieme a teatro con Esecuzioni. Va in scena il privato degli artisti; un privato non edulcorato né forzatamente adeguato alle esigenze del pubblico ma lasciato vivere – rigorosamente s’intende – come tale sul palco. Con profonda sincerità, quella senza retorica che solo i maestri possono permettersi, la coppia lascia fluire da questi due assoli, la propria vita così com’è stata, creando un magma indistinguibile di realtà, arte, scena. Agli spettatori la possibilità di farsi coinvolgere (o meno), di rompere una quarta parete che questa volta gli autori sembrano volontariamente interporre tra loro e la platea. Solo la danzatrice tenta per un momento di avvicinarsi al pubblico in sala per poi rifugiarsi di nuovo e immediatamente nel privato. In scena (nel privato) i due si perdono e ritrovano di continuo, da lontano o da vicino, creando giochi speculari e descrivendo una solitudine che procede inesorabilmente in parallelo come evoca anche lo slash che taglia in due il binomio Abbondanza / Bertoni. Nel finale il dubbio di un possibile incontro: i di Camilla Lietti due danzatori tentano di trovare un incastro tra i loro corpi, un modo per sostenersi e procedere insieme, accompagnati dal suono di uno scroscio di pioggia, come fosse un lungo applauso. In platea (nel pubblico) c’è chi entra in sintonia con ciò che accade sulla scena, chi è folgorato a caldo da un’immagine, chi, invece, ammira un dramma lontano, lì dove i bellissimi corpi bianchi dei danzatori si muovono tra loro lontani, illuminati dalla luce soffusa di un lampadario di una volta. Di fronte a uno spettacolo impeccabile per costruzione ed esecuzione, ma allo stesso tempo profondamente intimo, anche il giudizio diventa una questione personale, percettiva, di freddo o di caldo. “ Da donna ho letto nello spettacolo soprattutto la condizione della solitudine femminile, qualcosa che va ben al di là della rappresentazione”. Eleonora, 51 anni, avvocato Esecuzioni | di e con Michele Abbondanza e Antonella Bertoni | regia Michele Abbondanza | luci Andrea Gentili ................................................................................ ESECUZIONI. DUO DI ASSOLI di Alessia Calzolari Si può danzare in coppia ma distanti? Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, dopo gli ultimi spettacoli che li hanno visti separati sul palco, tornano a condividere la scena. Insieme, ma in parallelo, danzano le rispettive paure. Una linea immaginaria divide le loro Esecuzioni solitarie creando un cortocircuito tra frammenti di vita e linguaggio artistico ........................................ ....................................... Lui Lei • Lui è Michele Abbondanza, classe 1960, danzatore e coreografo. • Incontra Antonella Bertoni nel 1988 a Parigi, che sarà la sua compagna di vita per 20 anni. • Nel 1995 fonda con Antonella Bertoni la Compagnia Abbondanza/Bertoni. • Lui è in abito avorio, completo di gilet, d’altri tempi, piedi nudi e capelli raccolti. Sembra ‘impolverato’, uscito da una vecchia foto dimenticata in soffitta. • Cade e si rialza. Lingua, mano e piede rispondono immediatamente ad ordini autodiretti… e poi non più. Non sono solo gli arti a non rispondere, ma tutto il corpo “Esci, esci!”. Ma il corpo vuole tornare a danzare, segue l’impulso elettrico, non vuole uscire di scena. • Tra occhi storti e linguacce si riconoscono passi di danza classica. I piedi e i muscoli sono in tensione anche nei motivetti jazz e nelle piccole coreografie eseguite in intimità come davanti a uno specchio. • Lei è Antonella Bertoni, classe 1964, danzatrice e coreografa. • Incontra Michele Abbondanza nel 1988 a Parigi, che sarà il suo compagno di vita per 20 anni. • Nel 1995 fonda con Michele Abbondanza la Compagnia Abbondanza/Bertoni. • Lei indossa un lungo abito di raso avorio. Lo stretto bustino mette in risalto le spalle muscolose e il corpo scolpito. Eterea come una ballerina di un carrilon, ma allo stesso tempo umana, nervosa e intensa. • La sua danza è un continuo prendere e dare, aprirsi al pubblico per poi averne improvvisamente paura, uscire e poi rientrare nel privato (il palcoscenico). Urla, dirige una classe immaginaria, trasforma mani e piedi in becchi pigolanti. • Tra diagonali di classica e movimenti quotidiani, arrotola e srotola frammenti di solitudine insieme alla sua gonna. SGUARDI CRITICI Voci e immagini dal PimOff N°2 • Marzo 2014 L’amaro “viva la vita” di Miele ................................................................................ La vita è insopportabile nella sua insensatezza: la pensa così Grimaldi, il vecchio ingegnere che irrompe nella quotidianità di Miele mandandone in frantumi il fragile equilibrio. La ragazza, che ha scelto come ‘professione clandestina’ quella di aiutare a morire pazienti (malati terminali) che lo desiderano, crede nel suo compito, lo considera necessario e caritatevole. Ci sono condizioni in cui la vita non è vita, sembra continuamente affermare Miele: utilizza termini medici precisi, indugia su descrizioni dettagliate dello stato terribile a cui la malattia può ridurre il corpo di un essere umano. Il tono è incalzante, angosciante, la luce soffusa. Il sentimento che domina è l’angoscia. Intervalli malinconici e strazianti restituiscono l’idea di come doveva essere stata dolce, un tempo, la vita delle persone che ora si rivolgono a Miele: la signora Carla, mentre è dilaniata da un tumore, viene ricordata coi suoi guantini in pelle in sella a un vespino, il giovane giocatore di pallacanestro immobilizzato della SLA viene immortalato in una fotografia proprio mentre schiaccia a canestro davanti a un avversario. E infine, la madre della protagonista, ricordata come instancabile nuotatrice e sciatrice, diventata una “fetida rana” per una inarrestabile malattia al pancreas. Poi, però, entra in scena lui. Colto ed energico, l’ingegnere se ne sta seduto su una poltroncina in pelle davanti a un tavolino colmo dei ‘farmaci’ di Miele. Ed ecco emergere il nodo dello spettacolo: il vecchio non è malato eppure vuole morire. “Non bisogna INTERVISTA A BARBARA TOMA essere terminali per avere il diritto di scegliere”: quando ci si sente di aver esaurito il proprio compito nel ‘mondo dei vivi’, bisogna poter scegliere di uscire di scena, così come i saggi stoici più volte chiamati in causa, o la virgiliana Didone evocata nel finale. Con impressionante lucidità Grimaldi riesce ad argomentare come non ci sia bisogno della malattia perché la vita diventi insopportabile, e come sia ben poca cosa senza significato. Miele alla fine cederà, controvoglia, all’insistenza del vecchio; ma spera ancora che un epilogo diverso sia possibile, ossia che la vita abbia senso, che non abbia ragione il vecchio ingegnere, che esista quella ‘pienezza delle cose’ che da piccola cercava. Il ‘viva la vita’ disegnato sulla neve dalla madre di Miele – evocato alla fine di Paolo Torri dello spettacolo attraverso un video – non è risolutivo, non fornisce risposte. Ciò che rimane è un’amara considerazione: la perdita del gusto del vivere è uno spettro che, in alcuni casi, finisce per essere ben peggiore della malattia. “ Di solito apprezzo di più un teatro di intrattenimento, che faccia ridere. Ma questo spettacolo mi ha colpito!” Teresa, 65 anni, pensionata A nome tuo | liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Mauro Covacich (Giulio Einaudi Editore) | adattamento Cinzia Spanò | regia Roberto Recchia | con Cinzia Spanò e Riccardo Dondi | scenografia Romeo Liccardo di Evangelia Kopidou ........................................ Italia sosta vietata? di Maria Teresa Santaguida Una scommessa da giocare col pubblico Prosegue lo spazio dedicato al confronto con Barbara Toma, direttrice artistica del PimOff, per ragionare con lei sulla stagione come un costante work in progress Che cosa resterà della stagione del Pim Off di quest’anno? Una stagione è una domanda che io faccio al pubblico in cerca di risposte. Molti degli spettacoli che abbiamo visto hanno cercato di rispondere alla domanda da cui siamo partiti: cosa ci serve per essere felici? Gli artisti che hanno indagato e riflettuto sulla nostra società l’hanno ritratta scontenta: pare che alla felicità contribuiscano solo fattori al di fuori del nostro potere. Siamo sicuri che ci serva un cambiamento dall’alto per essere felici? Questa è la domanda e questo è il teatro in cui credo: un teatro sociale fortemente interconnesso al pubblico. Come scegli gli spettacoli che siano in linea con le tue domande? Innanzi tutto non scelgo mai uno spettacolo senza averlo visto prima; non faccio favoritismi e non faccio parte di nessuna rete di scambio. Cerco di avere rispetto per il pubblico, non lo sottovaluto mai perchè è lo specchio del palcoscenico. Proteggo i valori che mi hanno portato qui e cerco di proteggere quelli che portano gli spettatori in questo luogo. Tento di essere felice io per prima del mio lavoro perché così i risultati sono migliori. Come risponde il pubblico? Il pubblico risponde bene quando è accompagnato in un percorso di formazione. Deve imparare a non applaudire comunque e sempre. Se il teatro è meritocratico e si dimostra tale, allora deve aspirare a un uditorio davvvero critico, e deve crescere insieme a lui. È un lavoro di lunga semina, ma porta grandi risultati. Chi non ama il teatro viene al PimOff pimoff.it stratagemmi.it Parla della crisi Krisiskin, della giovane compagnia palermitana Quartiatri, vincitrice l’anno scorso del Napoli Fringe Festival. Il gruppo porta uno sguardo inedito e il meno retorico possibile sulla società di oggi, in uno spettacolo pieno di energia, apprezzato dal pubblico del Pim. Quella che si mette in scena è una crisi a tutto tondo: protagonisti tre giovani in cerca di una casa, del proprio futuro, della propria identità. Su un palco quasi nudo, unici elementi scenografici sono dei cartelloni stradali in continuo spostamento e trasformazione: un incrocio diventa in una svastica, un divieto d’accesso una croce celtica. Regnano confusione e smarrimento. È faticoso trovare il proprio percorso, sembra impossibile destreggiarsi in questa precarietà esistenziale. Quello del lavoro che non c’è - e che se c’è non è soddisfacente e non premette di vivere dignitosamente - è solo uno dei tanti volti della strada incerta e sgangherata in cui si incamminano i tre protagonisti Walter, Viola e Luca, con la fragile speranza di costruirsi un futuro, magari anche recuperando qualche sogno. L’immagine di un tavolo improvvisato, al centro del palco, è l’unica consolazione: ci si ritrova lì per mangiare una pizza, ci si siede per parlare della vita che scorre o non scorre. I bravissimi Marcella Vaccarino, Dario Mangiaracina e Dario Muscato, in un ritmo variegato, passano dall’ironia alla frenesia del dire, facendo uso della mimica nell’espressione corporea. Arrivano fino allo svuotamento, al punto zero in cui tutto deve ancora incominciare: il primo passo è la ricerca di uno spazio in cui vivere, senza essere obbligati a lasciare il proprio paese. Lo spettacolo chiude con l’immagine di una casa e una pizza. Non quelle che si possono trovare in una di quelle città europee meta di fughe sempre più frequenti, ma quelle che l’Italia è ancora in grado di offrire: prima di tutto la pizza, poi (eventualmente) la casa. Forse è tutto quello che ci basta. O, forse, è quello che ci siamo illusi ci potesse bastare. “ Vive e concrete le immagini raggiungono direttamente la pancia e da lì muovono il pensiero, con forza e immediatezza”. Claudia, 41 anni, giornalista Krisiskin|di Compagnia Quartiatri|regia Chiara Muscato|con Marcella Vaccarino, Dario Mangiaracina, Dario Muratore|luci e scene Petra Trombini SGUARDI CRITICI - Voci e immagini dal PimOff Giornale del laboratorio di scrittura critica a cura di Stratagemmi In redazione: Alessia Calzolari, Alessandra Cioccarelli, Giovanna Di Martino, Gloria Frigerio, Evangelia Kopidou, Camilla Lietti, Maria Teresa Santaguida, Valentina Sorte, Paolo Torri, Beatrice Zuffi