Alla ricerca di uno spazio. Fuori e dentro la scena

SGUARDI CRITICI
N°2 • Marzo 2014
Voci e immagini dal PimOff
Alla ricerca di uno spazio. Fuori e dentro la scena
A cosa tendiamo? Due corpi si muovono, uno di fianco all’altro, senza riuscire a incontrarsi. Un giovane
uomo cerca la sua identità adulta. Tutti vogliamo sentirci a casa in una casa, tutti cerchiamo (e abbiamo
paura) dell’alieno che c’è in noi. Creare (e fare critica) vuol dire non smettere di cercare: un senso,
un’immagine, una chiave. Trovarli significa aver scoperto e conquistato un proprio spazio
COSA RICORDEREMO DI...
................................................................................
Inbalìa
Riccardo Buscarini Quartiatri
Abbondanza/Bertoni
.................... .................... .................... ....................
Tre giovani con abiti improbabili e
un bagaglio improvvisato si muovono guardinghi nello spazio. Vagano srotolando qua e là una striscia di tappeto verde, che delinea
il loro percorso a zonzo e diventa
una pedana sulla quale esibirsi,
un primo embrionale palcoscenico.
Sono in fuga, diretti verso un fantomatico centro d’accoglienza, si
stanno difendendo dagli alieni (o
da se stessi?). Illuminati da luci
verdi e rosse, si accampano intorno al fuoco, stendono un’amaca.
È il tentativo di trovare un rifugio,
il proprio posto nel mondo. B.Z.
Dieci pacchi di sale da cucina
attendono sul proscenio. Ogni fine
del mondo è un assolo e Buscarini,
nell’asettico spazio bianco,
disegna quasi ritualmente un ‘1O’
(IO) con il sale. Il rito è interrotto
da convulsione, disordine, nevrosi.
Il danzatore tenta disperatamente
di raggiungere il microfono per
parlare e affermarsi: si tende, vi si
aggrappa, abbozza una pole dance
intorno all’asta…
Ma l’obiettivo resta lontano: l’IO e
la sua costruzione sono sostanze
sfuggenti e impalpabili come il
sale. G.F.
di Beatrice Zuffi e Gloria Frigerio
Tre amici sono allineati al centro
del palcoscenico, in riga di fronte
al pubblico. Hanno anfibi neri,
camicie bianche e bretelle. Alzano
contemporaneamente il braccio
destro e battono forte i piedi a
terra: un saluto romano e una
marcia, a gran voce cantano slogan
fascisti al ritmo del Gioca Jouer.
Ma Walter abbassa il braccio teso,
tenta di allontanarsi. Qualcosa sta
succedendo dentro di lui, forse sta
prendendo corpo un dissenso,
forse un “io me ne vado”, che si
ferma intorno a un tavolo, davanti
a una pizza. G.F.
In venti neri metri quadri si muovono due danzatori vestiti di un
bianco antico sul quale spicca solo
la cravatta scura di Michele Abbondanza. Danzano quasi fianco a
fianco – soli – per un’ora. Alla fine,
una appoggiata all’altro, percorrono un corridoio di luce come una
coppia di sposi, ritratta da giovane
in una vecchia fotografia. Poi cala
il buio. Sentiamo il suono vibrante
dei respiri e i passi degli autoriinterpreti. Si riaccendono le luci di
sala: li vediamo sorridere tra le
gocce di sudore e, in un inchino,
stringersi finalmente le mani. B.Z.
SGUARDI CRITICI
di Valentina Sorte
Voci e immagini dal PimOff
N°2 • Marzo 2014
di Alessandra Cioccarelli
Scomporre la luce
Tre uomini a zonzo in
Ricomporre lo sguardo cerca dell’alieno
A
teatro – dal greco theâsthai, guardare – siamo interpellati dalla scena a
esercitare attivamente il nostro sguardo e allo stesso tempo come spettatori (critici) chiediamo alla scena – parafrasando Klee – non tanto di rendere mimeticamente il visibile quanto di rendere visibile. Negli spettacoli di questi ultimi decenni il disegno luci ha assunto una valenza drammaturgica,
diventando insieme all’interpretazione, alla regia, alla coreografia e al testo uno
degli elementi della scrittura scenica. Non solo per le nuove soluzioni offerte da
una strumentazione sempre più sofisticata e tecnologica ma grazie a una diversa concezione dell’illuminotecnica. La scena tradizionale si sta sempre più smaterializzando per cedere il passo a uno spazio dove la luce è sia un elemento
strutturante, in termini di volumi e perimetri, che un elemento espressivo e narrativo.
Se all’estero questa sensibilità è ormai diffusa e consolidata, in Italia – complice
il pubblico – l’occhio si sofferma su regista e interpreti e scorre rapido sul resto.
Anche per questo la programmazione di un workshop condotto da uno dei più
importanti light designer della danza è preziosa. Nei due giorni di lavoro con Michael Mannion, l’occhio è stato allenato a guardare diversamente. Non solo come
organo ma anche come filtro di emozioni. Dopo un’introduzione all’illuminotecnica e alla strumentazione, ogni partecipante ha potuto sperimentare e osservare
l’effetto visivo ed emozionale delle luci – distinte per temperatura, intensità,
posizionamento – sul proprio corpo e sul palcoscenico. Se il primo tema è stato
quindi un affondo sulle sensazioni, il secondo ha introdotto quello più razionale
della costruzione dello sguardo. Dopo aver mostrato alcuni suoi lavori – tra cui
Cameo di Buscarini – Mannion ha invitato i partecipanti a elaborare una breve
regia luci.
Che si avvalga di strumenti illuminotecnici molto semplici o tecnologici, il Light
Design può creare un montaggio così sofisticato da veicolare l’itinerario dell’attenzione senza perdere lo slancio vitale della performance. Tutti – dentro e fuori
dalla scena – seguono le tracce di qualcosa che le luci rendono più visibile.
U
na catastrofica invasione aliena annunciata in televisione è all’origine
della fuga pretestuosa dei tre giovani della compagnia Inbalìa. In un
mondo in pericolo, dove ogni parvenza di certezza è crollata, i tre, costretti a una convivenza forzata e armati di un bagaglio modesto e improvvisato, incrociano i loro sentieri e si dirigono insieme verso un fantomatico
centro di accoglienza che possa offrire loro un’ancora di salvezza.
Ma chi sono davvero gli alieni da cui tutti fuggono? Niente di spaventoso e
straordinario, si direbbe ascoltando le confidenze dei tre fuggiaschi. Non hanno la pelle verdastra e molliccia, né tanto meno mani palmate e occhi deformi.
Sono come noi, anzi si nascondono tra di noi, ci spiano e inseguono le nostre
scie ormonali. Ed ecco affiorare il sospetto: i tre vagabondi si scrutano in tralice per scoprire se ad essere un “alieno”, uno straniero, non sia proprio il loro
vicino, il loro compagno di viaggio.
Se dietro ogni volto può celarsi un extraterreste, un potenziale nemico, qual è
il vero punto di arrivo del bizzarro trio? Le note di regia parlano di “uno smarrimento generazionale, una perdita di orizzonti, la ricerca di una terra promessa”; eppure si ha l’impressione che a prevalere sia piuttosto un continuo giocare metateatrale. Ecco allora svelato il senso di tanti piccoli ingredienti: la
striscia di tappeto verde, srotolata a zonzo un po’ a destra un po’ a sinistra,
che disegna la pedana per eccellenza su cui dare inizio alla recita, le battute
continuamente ripetute dal medesimo personaggio (“Io vado ad intuito”; “Dobbiamo andare avanti”; “Da quando è cominciata questa avventura io, senza
di voi, ero solo”); il repertorio di situazioni impiegato una volta dall’uno, una
volta dall’altro attore; i brevi e frequenti sketch che spesso fanno ridere di
gusto e, infine, gli insistiti giochi di luci ed effetti ottici che investono la sala,
annullando completamente anche solo l’illusione di ogni quarta parete. Sullo
sfondo di uno scenario apocalittico degno della migliore fantascienza, i tre
interpreti sembrano parlarci piuttosto del loro percorso di ricerca teatrale e la
necessità di motivare la loro presenza in scena.
L’insieme è gradevole, il trio è stravagante al punto giusto e attoralmente efficace, il ritmo è vivace e non manca una buona dose di humour. Si ha la sensazione, però, che il disegno di insieme manchi ancora di una reale tenuta, di
una struttura solida: alla lunga il girovagare a zonzo corre il rischio di stancare
e non portare in nessuna direzione. Sebbene ancora decisamente acerbo e
abbozzato, lo spettacolo si mostra capace di proporre un linguaggio fresco e
attuale, anche per un pubblico poco avvezzo alle sale teatrali.
“
Mi è piaciuta l’idea di portare sul palcoscenico tematiche da fantascienza.
Le gag sono divertenti, ma sconclusionate.”
Corrado, 29 anni, studente universitario
A zonzo | testo e regia Inbalìa | con Marco Cocciola, Michelangelo Dalisi, Francesco Villano | luci Luigi Biondi
Sale sparso sulla fine del mondo
................................................................................
Le dieci tracce di Riccardo Buscarini
sono altrettanti momenti della vita di
un giovane che riflette su di sé come se
il mondo dovesse finire il 12 dicembre
del 2012, secondo l’antica profezia Maya.
Lo spettacolo è stato scritto in quell’anno e avendo presente quella data, che
coincideva con la soglia dei trent’anni,
l’ingresso in una fase della vita che porta con sé timori e perplessità.
La prima delle tracce è un richiamo
storico-mitologico alla fine intesa come
desertificazione voluta. Dieci pacchi di
sale allineati sul bordo della scena e
poi versati a pioggia sul palco a formare il numero ‘10’. Un numero esatto
come il cerchio tracciato in manege sul
palco bianco da Riccardo Buscarini, e
poi tagliato a metà nel secondo movi-
mento. Qui prevale la musica (My body
is a cage, di Arcade Fire) e su quella
linea che il ballerino taglia, l’energia
della canzone attraversa lo spazio scenico, vibrando sul suo corpo.
Si passa poi a una danza dell’autocontrollo, quello di un’età adulta da cui fino
all’ultimo ci si protegge. La quinta traccia, quella delle cadute, continue e irrecuperabili figura come un corpo debole che perde brandelli. E chi, almeno
una volta non si è sentito così? Il sesto
movimento è un tentativo di ‘alzare la
testà, mentre il settimo la volontà di
cancellazione: viene disperso il sale
prima ordinato a formare il 10, ora lanciato agli angoli del palco. Da un angolo comincia il dondolio dell’ottava traccia, un sogno d’amore forse, una veglia
notturna in attesa di qualcosa, qualcuno. L’amore di quando l’amore sembra
la cosa più importante, e forse lo è. I
manege dell’inizio ritornano schiacciati
nelle due dimensioni del nono: a terra,
di spalle, col sale che sfrega sulla pelle
e brucia, forse, brucia sulle ferite.
Sulle note famose dello Schiaccianoci
si ‘autodecompone’ lo spettacolo, come
annunciato all’inizio dalla voce cuori
campo. Un autocombustione che lascia
a terra il sale e negli spettatori il ritmo di
un percorso che riguarda la vita di tutti.
Il periodo dei primi bilanci, di un’età giovanile oggi sempre più difficile, di un
mondo che doveva finire, e forse ci avrebbe liberati. Mentre oggi ci richiama ad
anticipare un’età di bilanci, a cui, no,
non eravamo pronti. Nonostante l’alto
di Maria Teresa Santaguida
livello di astrazione di una danza contemporanea i cui strumenti non sono
accessibile a tutti, lo spettacolo arriva,
come conferma anche il pubblico presente in sala. L’espressione e il movimento sono equilibrati, il linguaggio risulta in questo modo mai chiuso, sempre
semplice, sempre comprensibile.
“
Ho apprezzato l’essenzialità dello
spettacolo e il misto classico-moderno della musica, che mantiene
gli equilibri in modo sapiente.”
Angela, 49 anni, insegnante
10 tracce per la fine del mondo |coreografia
e interpretazione Riccardo Buscarini |drammaturgia e coreografia in collaborazione con
Elisabetta Consonni
SGUARDI CRITICI
Voci e immagini dal PimOff
N°2 • Marzo 2014
L’abbraccio del PimOff alle
solitudini di Abbondanza/Bertoni
................................................................................
G
li applausi commossi del teatro PimOff suonano come un premio alla
carriera; un lungo e sincero ringraziamento alla danza di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, di nuovo insieme a teatro con Esecuzioni. Va in scena il privato degli artisti; un privato non edulcorato né forzatamente adeguato alle esigenze del pubblico ma lasciato vivere – rigorosamente
s’intende – come tale sul palco. Con profonda sincerità, quella senza retorica
che solo i maestri possono permettersi, la coppia lascia fluire da questi due
assoli, la propria vita così com’è stata, creando un magma indistinguibile di
realtà, arte, scena.
Agli spettatori la possibilità di farsi coinvolgere (o meno), di rompere una quarta parete che questa volta gli autori sembrano volontariamente interporre tra
loro e la platea. Solo la danzatrice tenta per un momento di avvicinarsi al
pubblico in sala per poi rifugiarsi di nuovo e immediatamente nel privato.
In scena (nel privato) i due si perdono e ritrovano di continuo, da lontano o da
vicino, creando giochi speculari e descrivendo una solitudine che procede
inesorabilmente in parallelo come evoca anche lo slash che taglia in due il
binomio Abbondanza / Bertoni. Nel finale il dubbio di un possibile incontro: i
di Camilla Lietti
due danzatori tentano di trovare un incastro tra i loro corpi, un modo per sostenersi e procedere insieme, accompagnati dal suono di uno scroscio di
pioggia, come fosse un lungo applauso.
In platea (nel pubblico) c’è chi entra in sintonia con ciò che accade sulla scena, chi è folgorato a caldo da un’immagine, chi, invece, ammira un dramma
lontano, lì dove i bellissimi corpi bianchi dei danzatori si muovono tra loro
lontani, illuminati dalla luce soffusa di un lampadario di una volta.
Di fronte a uno spettacolo impeccabile per costruzione ed esecuzione, ma allo
stesso tempo profondamente intimo, anche il giudizio diventa una questione
personale, percettiva, di freddo o di caldo.
“
Da donna ho letto nello spettacolo soprattutto la condizione della solitudine femminile, qualcosa che va ben al di là della rappresentazione”.
Eleonora, 51 anni, avvocato
Esecuzioni | di e con Michele Abbondanza e Antonella Bertoni | regia Michele Abbondanza
| luci Andrea Gentili
................................................................................
ESECUZIONI. DUO DI ASSOLI
di Alessia Calzolari
Si può danzare in coppia ma distanti? Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, dopo gli ultimi spettacoli
che li hanno visti separati sul palco, tornano a condividere la scena. Insieme, ma in parallelo, danzano
le rispettive paure. Una linea immaginaria divide le loro Esecuzioni solitarie creando un cortocircuito tra
frammenti di vita e linguaggio artistico
........................................ .......................................
Lui
Lei
• Lui è Michele Abbondanza, classe 1960, danzatore e coreografo.
• Incontra Antonella Bertoni nel 1988 a Parigi, che sarà la sua compagna di
vita per 20 anni.
• Nel 1995 fonda con Antonella Bertoni la Compagnia Abbondanza/Bertoni.
• Lui è in abito avorio, completo di gilet, d’altri tempi, piedi nudi e capelli raccolti.
Sembra ‘impolverato’, uscito da una vecchia foto dimenticata in soffitta.
• Cade e si rialza. Lingua, mano e piede rispondono immediatamente ad ordini
autodiretti… e poi non più. Non sono solo gli arti a non rispondere, ma tutto
il corpo “Esci, esci!”. Ma il corpo vuole tornare a danzare, segue l’impulso
elettrico, non vuole uscire di scena.
• Tra occhi storti e linguacce si riconoscono passi di danza classica. I piedi e
i muscoli sono in tensione anche nei motivetti jazz e nelle piccole coreografie
eseguite in intimità come davanti a uno specchio.
• Lei è Antonella Bertoni, classe 1964, danzatrice e coreografa.
• Incontra Michele Abbondanza nel 1988 a Parigi, che sarà il suo compagno
di vita per 20 anni.
• Nel 1995 fonda con Michele Abbondanza la Compagnia Abbondanza/Bertoni.
• Lei indossa un lungo abito di raso avorio. Lo stretto bustino mette in risalto
le spalle muscolose e il corpo scolpito. Eterea come una ballerina di un
carrilon, ma allo stesso tempo umana, nervosa e intensa.
• La sua danza è un continuo prendere e dare, aprirsi al pubblico per poi
averne improvvisamente paura, uscire e poi rientrare nel privato (il palcoscenico). Urla, dirige una classe immaginaria, trasforma mani e piedi in
becchi pigolanti.
• Tra diagonali di classica e movimenti quotidiani, arrotola e srotola frammenti
di solitudine insieme alla sua gonna. SGUARDI CRITICI
Voci e immagini dal PimOff
N°2 • Marzo 2014
L’amaro “viva la vita” di Miele
................................................................................
La vita è insopportabile nella sua insensatezza: la pensa così Grimaldi, il
vecchio ingegnere che irrompe nella
quotidianità di Miele mandandone in
frantumi il fragile equilibrio. La ragazza, che ha scelto come ‘professione
clandestina’ quella di aiutare a morire pazienti (malati terminali) che lo
desiderano, crede nel suo compito, lo
considera necessario e caritatevole.
Ci sono condizioni in cui la vita non è
vita, sembra continuamente affermare Miele: utilizza termini medici precisi, indugia su descrizioni dettagliate
dello stato terribile a cui la malattia
può ridurre il corpo di un essere umano. Il tono è incalzante, angosciante,
la luce soffusa. Il sentimento che domina è l’angoscia. Intervalli malinconici e strazianti restituiscono l’idea di
come doveva essere stata dolce, un
tempo, la vita delle persone che ora
si rivolgono a Miele: la signora Carla,
mentre è dilaniata da un tumore, viene ricordata coi suoi guantini in pelle
in sella a un vespino, il giovane giocatore di pallacanestro immobilizzato
della SLA viene immortalato in una
fotografia proprio mentre schiaccia a
canestro davanti a un avversario. E
infine, la madre della protagonista,
ricordata come instancabile nuotatrice e sciatrice, diventata una “fetida
rana” per una inarrestabile malattia
al pancreas.
Poi, però, entra in scena lui. Colto ed
energico, l’ingegnere se ne sta seduto su una poltroncina in pelle davanti
a un tavolino colmo dei ‘farmaci’ di
Miele. Ed ecco emergere il nodo dello
spettacolo: il vecchio non è malato
eppure vuole morire. “Non bisogna
INTERVISTA A BARBARA TOMA
essere terminali per avere il diritto di
scegliere”: quando ci si sente di aver
esaurito il proprio compito nel ‘mondo
dei vivi’, bisogna poter scegliere di
uscire di scena, così come i saggi stoici più volte chiamati in causa, o la
virgiliana Didone evocata nel finale.
Con impressionante lucidità Grimaldi
riesce ad argomentare come non ci
sia bisogno della malattia perché la
vita diventi insopportabile, e come sia
ben poca cosa senza significato. Miele alla fine cederà, controvoglia, all’insistenza del vecchio; ma spera ancora che un epilogo diverso sia
possibile, ossia che la vita abbia senso, che non abbia ragione il vecchio
ingegnere, che esista quella ‘pienezza
delle cose’ che da piccola cercava. Il
‘viva la vita’ disegnato sulla neve dalla madre di Miele – evocato alla fine
di Paolo Torri
dello spettacolo attraverso un video
– non è risolutivo, non fornisce risposte. Ciò che rimane è un’amara considerazione: la perdita del gusto del
vivere è uno spettro che, in alcuni casi,
finisce per essere ben peggiore della
malattia.
“
Di solito apprezzo di più un teatro
di intrattenimento, che faccia ridere. Ma questo spettacolo mi ha
colpito!”
Teresa, 65 anni, pensionata
A nome tuo | liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Mauro Covacich (Giulio
Einaudi Editore) | adattamento Cinzia Spanò | regia Roberto Recchia | con Cinzia
Spanò e Riccardo Dondi | scenografia Romeo Liccardo
di Evangelia Kopidou
........................................ Italia sosta vietata?
di Maria Teresa Santaguida
Una scommessa da
giocare col pubblico
Prosegue lo spazio dedicato al confronto con Barbara
Toma, direttrice artistica del PimOff, per ragionare
con lei sulla stagione come un costante work in progress
Che cosa resterà della stagione del Pim Off di quest’anno?
Una stagione è una domanda che io faccio al pubblico in cerca di risposte.
Molti degli spettacoli che abbiamo visto hanno cercato di rispondere alla domanda da cui siamo partiti: cosa ci serve per essere felici? Gli artisti che
hanno indagato e riflettuto sulla nostra società l’hanno ritratta scontenta: pare
che alla felicità contribuiscano solo fattori al di fuori del nostro potere. Siamo
sicuri che ci serva un cambiamento dall’alto per essere felici? Questa è la
domanda e questo è il teatro in cui credo: un teatro sociale fortemente interconnesso al pubblico.
Come scegli gli spettacoli che siano in linea con le tue domande?
Innanzi tutto non scelgo mai uno spettacolo senza averlo visto prima; non
faccio favoritismi e non faccio parte di nessuna rete di scambio. Cerco di avere rispetto per il pubblico, non lo sottovaluto mai perchè è lo specchio del
palcoscenico. Proteggo i valori che mi hanno portato qui e cerco di proteggere
quelli che portano gli spettatori in questo luogo. Tento di essere felice io per
prima del mio lavoro perché così i risultati sono migliori.
Come risponde il pubblico?
Il pubblico risponde bene quando è accompagnato in un percorso di formazione. Deve imparare a non applaudire comunque e sempre. Se il teatro è meritocratico e si dimostra tale, allora deve aspirare a un uditorio davvvero critico,
e deve crescere insieme a lui. È un lavoro di lunga semina, ma porta grandi
risultati.
Chi non ama il teatro viene al PimOff
pimoff.it
stratagemmi.it
Parla della crisi Krisiskin, della giovane compagnia palermitana Quartiatri,
vincitrice l’anno scorso del Napoli Fringe Festival. Il gruppo porta uno sguardo
inedito e il meno retorico possibile sulla società di oggi, in uno spettacolo
pieno di energia, apprezzato dal pubblico del Pim. Quella che si mette in scena è una crisi a tutto tondo: protagonisti tre giovani in cerca di una casa, del
proprio futuro, della propria identità. Su un palco quasi nudo, unici elementi
scenografici sono dei cartelloni stradali in continuo spostamento e trasformazione: un incrocio diventa in una svastica, un divieto d’accesso una croce
celtica.
Regnano confusione e smarrimento. È faticoso trovare il proprio percorso,
sembra impossibile destreggiarsi in questa precarietà esistenziale. Quello del
lavoro che non c’è - e che se c’è non è soddisfacente e non premette di vivere
dignitosamente - è solo uno dei tanti volti della strada incerta e sgangherata
in cui si incamminano i tre protagonisti Walter, Viola e Luca, con la fragile
speranza di costruirsi un futuro, magari anche recuperando qualche sogno.
L’immagine di un tavolo improvvisato, al centro del palco, è l’unica consolazione: ci si ritrova lì per mangiare una pizza, ci si siede per parlare della vita che
scorre o non scorre. I bravissimi Marcella Vaccarino, Dario Mangiaracina e
Dario Muscato, in un ritmo variegato, passano dall’ironia alla frenesia del dire,
facendo uso della mimica nell’espressione corporea. Arrivano fino allo svuotamento, al punto zero in cui tutto deve ancora incominciare: il primo passo è
la ricerca di uno spazio in cui vivere, senza essere obbligati a lasciare il proprio
paese. Lo spettacolo chiude con l’immagine di una casa e una pizza. Non
quelle che si possono trovare in una di quelle città europee meta di fughe
sempre più frequenti, ma quelle che l’Italia è ancora in grado di offrire: prima
di tutto la pizza, poi (eventualmente) la casa. Forse è tutto quello che ci basta.
O, forse, è quello che ci siamo illusi ci potesse bastare.
“
Vive e concrete le immagini raggiungono direttamente la pancia e da lì
muovono il pensiero, con forza e immediatezza”.
Claudia, 41 anni, giornalista
Krisiskin|di Compagnia Quartiatri|regia Chiara Muscato|con Marcella Vaccarino, Dario
Mangiaracina, Dario Muratore|luci e scene Petra Trombini
SGUARDI CRITICI - Voci e immagini dal PimOff
Giornale del laboratorio di scrittura critica a cura di Stratagemmi
In redazione: Alessia Calzolari, Alessandra Cioccarelli, Giovanna Di Martino, Gloria
Frigerio, Evangelia Kopidou, Camilla Lietti, Maria Teresa Santaguida, Valentina Sorte,
Paolo Torri, Beatrice Zuffi