gennaio 2011 gennaio 2011 - Istituto del Nastro Azzurro

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GIUSEPPE MAZZINI
(Genova 1805 - Pisa 1872). Politico italiano. Figlio di un medico, Giacomo, e di Maria Drago, fu avviato allo studio della medicina, che abbandonò, attratto dalla lotta politica.
Le riflessioni sul fallimento dei moti del 1820-1821 lo spinsero nel 1827 ad affiliarsi alla carboneria. Laureatosi in giurisprudenza, elaborò i
suoi primi saggi letterari per i quali conobbe il carcere. Rilasciato nel gennaio 1831, riparò prima in Svizzera, poi in Francia. Alla notizia
dell’insurrezione nei ducati e nelle legazioni emiliano-romagnole (1831), scrisse a Carlo Alberto in nome della libertà e del sentimento
nazionale.
A Marsiglia, fondò la Giovine Italia (e l’omonimo periodico), associazione a carattere repubblicano, che si differenziava dalle sette carbonare per la chiarezza del disegno politico, noto a tutti gli aderenti, il ripudio dei rituali clandestini, la volontà di formare con l’apostolato un’opinione pubblica di sentimenti italiani. La Giovine Italia conobbe un immediato successo, presto vanificato dalla dura repressione operata dalla
polizia del regno sardo. Arresti e fucilazioni spinsero Mazzini a trasferirsi a Ginevra.
Fallito sul nascere il progetto di una spedizione armata in Savoia (1834), durante un nuovo soggiorno in Svizzera Mazzini fondò la Giovane
Europa (aprile 1834), un’associazione rivoluzionaria sempre d’ispirazione repubblicana, sorta grazie al coinvolgimento di esuli italiani, tedeschi e polacchi. Il nuovo sodalizio si proponeva di attivare un programma di azione comune ai vari gruppi democratici europei, nella prospettiva di una carta continentale ridisegnata sulla base del principio di nazionalità. Costretto a fuggire anche dalla Svizzera, Mazzini, agli
inizi del 1837, giungeva a Londra dove continuò a lavorare per una soluzione rivoluzionaria della questione italiana. Il moto dei fratelli
Bandiera (1844), da lui ispirato, ancora una volta fallì.
Scoppiata la rivoluzione a Parigi (febbraio 1848), si spostò in Francia, dove
fondò l’Associazione Nazionale Italiana; passò poi a Milano insorta contro
l’Austria, per battersi contro la fusione con il Piemonte e in favore dell’unità
repubblicana e democratica. Riparato a Lugano in seguito alla repressione dell’insurrezione milanese, raggiunse fortunosamente Firenze, dove un governo
democratico, retto da Montanelli, Guerrazzi e Mazzoni, aveva rovesciato il
granduca. Nel frattempo, i mazziniani, avevano dato vita alla Repubblica
Romana (9 febbraio 1849). Mazzini cercò invano di favorire la fusione fra i due
centri rivoluzionari, primo nucleo di una possibile repubblica italiana; si trasferì quindi a Roma, dove, il 29 marzo, insieme con Aurelio Saffi e Carlo Armellini
fu eletto Triumviro dall’Assemblea. Caduta la repubblica, braccato dalle polizie
europee, Mazzini fu costretto di nuovo all’esilio in Francia, poi in Svizzera, infine in Gran Bretagna.
A Londra fondò un Comitato Democratico Europeo (1850) e tentò di ricostituire la tela della cospirazione, distrutta per l’ennesima volta dalle autorità
austriache (fatti di Milano del febbraio 1853), affidandosi alla nuova struttura
del Partito d’Azione.
Contrario alla soluzione diplomatica della questione italiana prospettata da
Cavour, Mazzini tuttavia, nel 1859, spinse i suoi a mettere da parte la pregiudiziale istituzionale e a combattere sotto le insegne sabaude. A Napoli nel 1860
cercò di convincere Garibaldi a trattare alla pari con Vittorio Emanuele II l’annessione del Mezzogiorno. Ritiratosi a Lugano, poi a Londra, non riconobbe la
soluzione monarchica del processo unitario, diffidò dei tentativi garibaldini su
Roma (1862 e 1867) e si dedicò nuovamente alla cospirazione.
La Falange Sacra (1864) e l’Alleanza Repubblicana Universale (1866) furono le
ultime associazioni cui diede vita. Arrestato a Palermo nel 1870 mentre si
apprestava a guidare un moto nell’isola, rinchiuso a Gaeta, fu poi amnistiato e
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1921: D’Annunzio lascia
Fiume
1860: Cavour è ancora
Primo Ministro
1922: Muore Benedetto XV
1859: Trattato segreto di
alleanza tra Francia e
Piemonte
1924: Annessione di
Fiume all’Italia
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1850: Il parlamento sardo ratifica il trattato di pace
1878: Muore Vittorio Emanuele
II
1855: Il Piemonte entra
nell’Alleanza francoinglese
1859: Il “Grido di dolore”
1848: Insurrezione di
Palermo
1858: Felice Orsini attenta
alla vita di Napoleone III
tornò in esilio. Fondò quindi “La Roma del popolo” (1871), dalle cui pagine, in base alle
sue convinzioni sansimoniste, maturate nel primo dei soggiorni francesi, si scagliò contro
la Comune di Parigi e l’Internazionale manifestando la sua ostilità a Marx e al suo concetto di lotta di classe. Nel novembre 1871, a Roma, ispirava il Patto di Fratellanza fra le
Società Operaie, che segnava l’atto di nascita del movimento operaio democratico in Italia.
Morì il 10 marzo 1872 a Pisa, sotto il falso nome di dottor Brown.
IL FIASCO MAZZINIANO DEL 1834 E LA
PRIMA MEDAGLIA AL VALOR MILITARE
La “Giovine Italia”, organizzazione segreta fondata dal Mazzini per unire l’Italia con forma di
stato repubblicana, dopo una serie di gravi colpi subiti da parte delle polizie di tutti gli stati
italiani, in particolare da quella piemontese, e dopo un tentativo di sollevazione totalmente
abortito nel sud, tentò il colpo grosso contro il Regno di Piemonte e Sardegna. Il piano prevedeva l’invasione della Savoia che si sarebbe dovuta ribellare, mentre a Genova si sarebbero
dovuti ammutinare numerosi equipaggi di navi.
Il piano, pur ben congegnato sulla carta, contava su persone completamente inaffidabili e su
una del tutto improbabile sollevazione popolare che, secondo Mazzini, sarebbe avvenuta non
appena “… la scintilla della rivolta fosse stata gettata sulla paglia del malcontento …”. Inoltre,
la polizia sabauda era a conoscenza da tempo di tutto.
L’azione, compiuta da poco più di un centinaio di persone tra le quali lo stesso Mazzini, ebbe
luogo il 3 febbraio 1834 e si ridusse ad una semplice scaramuccia nella zona di Les Echelles,
villaggio al confine tra la Savoia (all’epoca territorio piemontese) e la Svizzera, dove il carabiniere Giovan Battista Scapaccino, di rientro in caserma dopo un servizio, ebbe la sfortuna di
incappare, nei pressi di Le Pont de Beauvoisin in un manipolo di rivoltosi che gli ordinarono
di giurare fedeltà al tricolore e alla repubblica. Egli rispose coraggiosamente, affermando che
il suo giuramento di fedeltà rimaneva per il suo Re Carlo Alberto e i rivoltosi lo uccisero. Per
questo fu Decorato con la prima Medaglia d’Oro al Valor Militare dell’esercito sabaudo.
Poco dopo, gli stessi carabinieri di Les Echelles ebbero ragione dello sparuto gruppo di mazziniani, ne arrestarono due e li fucilarono sul posto, mentre Mazzini e gli altri si ritiravano precipitosamente in Svizzera.
Nel frattempo, a Genova solo due marinai raggiunsero il luogo convenuto per l’azione, ma
dovettero fuggire immediatamente perché vi trovarono la polizia. Uno di essi era Giuseppe
Garibaldi che riparò in Francia inseguito da una condanna a morte.
In pratica, la prima Medaglia d’Oro al Valor Militare della storia è stata conferita per un atto
eroico compiuto proprio contro il governo che poi opererà con successo l’unità d’Italia.
L’azione costituì uno dei più gravi fallimenti di Mazzini, poiché ebbe anche negative ripercussioni politiche. La peggiore fu la definitiva rottura tra la Giovine Italia e la Carboneria che intese così dissociarsi dalle metodologie mazziniane giudicate atte solo a creare l’isolamento attorno alle attività per unificare l’Italia.
La Carboneria, fondata e diretta da Filippo Buonarroti, infatti mal sopportava l’idea di vedere coinvolte le proprie “vendite” nelle epurazioni sempre più estese che le polizie di tutta
Europa compivano tra gli adepti delle numerose società segrete operanti con l’obiettivo dell’unità d’Italia.
Giovanni Battista Scapaccino (Incisa
Belbo, 15 febbraio 1802 – Le Pont de
Beauvoisin, 3 febbraio 1834), appartenente al neo costituito Corpo dei Reali
Carabinieri (13 luglio 1814), fu ucciso da
fuoriusciti italiani durante un tentativo di
insurrezione messo in atto da Giuseppe
Mazzini in Savoia.
Il paese natale di Scapaccino, Incisa
Belbo, divenne nel 1928 Incisa
Scapaccino in suo onore. Il comune inoltre gli ha dedicato una via e un monumento.
MOTIVAZIONE DELLA MEDAGLIA D’ORO AL VALOR MILITARE CONFERITA A GIOVANNI
BATTISTA SCAPACCINO
«Per aver preferito farsi uccidere dai fuorusciti nelle mani dei quali era caduto piuttosto che gridare “viva la Repubblica”, cui
volevano costringerlo, gridando invece
“viva il Re”.»
Pont des Echelles (Savoia) 3 febbraio
1834
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1834: Invasione mazziniana in Savoia poi fallita
1849: Leopoldo II abbandona la Toscana
1922: Eletto Papa Pio XI
1878: Muore Pio IX
1861: Vittorio Emanuele II
inaugura il primo parlamento italiano
1849: Proclamata la
Repubblica Romana
1848: Re Ferdinando II concede la Costituzione
1929: Patti Lateranensi si chiude la “Questione Romana”
LA PRIMA GUERRA D’INDIPENDENZA (I PARTE)
Nel 1848 una serie di moti insurrezionali ebbero luogo prima a Palermo e Messina, contro il potere borbonico, poi a Parigi, Vienna, ed infine Venezia
e Milano. Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, liberati dal carcere dall’insurrezione popolare di Venezia, proclamarono la repubblica dopo aver
costretto gli austriaci ad abbandonare la città. A Milano, il feldmaresciallo Radetzky, comandante dell’esercito del Lombardo-Veneto, fu costretto
ad abbandonare la città dopo cinque giorni di furiosi scontri (Cinque giornate di Milano). Contemporaneamente si ebbero diverse manifestazioni
in molte città del Regno Sabaudo mentre a Como l’intera guarnigione si consegnò agli insorti. Proprio il giorno dopo la conclusione delle cinque
giornate di Milano, 23 marzo 1848, il re di Sardegna Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria dando inizio alla prima guerra di indipendenza.
L’esercito sardo-piemontese varcò il Ticino con cinque divisioni che ricevettero una nuova bandiera: il tricolore. Ma esso muoveva con lentezza,
inseguendo le forze austriache lungo la direttrice Pavia-Lodi-Crema-Brescia: lo raggiunse al di là del Mincio, sotto le fortezze del quadrilatero.
Ai circa 30.000 soldati piemontesi se ne erano aggiunti 7.500 pontifici, 7.000 toscani e 16.000 napoletani. Questi ultimi il 15 maggio 1848 vennero richiamati in patria; tuttavia numerosi appartenenti ai corpi dell’artiglieria e del genio, fra cui lo stesso comandante Guglielmo Pepe, proseguirono la guerra come volontari.
Il 30 aprile la carica dello Squadrone dei Reali Carabinieri di scorta al re Carlo Alberto che aprì la strada alla battaglia di Pastrengo, non fu assolutamente decisiva ma dette morale ai Piemontesi e ai patrioti di tutta Italia. La successiva vittoriosa battaglia di Santa Lucia, sotto le mura di
Verona, il 6 maggio, il respingimento della controffensiva austriaca partita da Mantova, il 30 maggio nella battaglia di Goito (aiutato dall’eroica
resistenza dei volontari toscani a Curtatone e Montanara, il 28), la resa, lo stesso 30 maggio della fortezza austriaca di Peschiera, infusero ottimismo nel movimento anti austriaco nazionale. Quel giorno Carlo Alberto venne acclamato dalle sue truppe “Re d’Italia”.
La guerra, in effetti, veniva combattuta dal Piemonte contro l’Austria in condizioni politiche quanto mai favorevoli contro un esercito austriaco
che era l’ombra di se stesso: la Francia repubblicana non nascondeva la sua simpatia per la causa dell’indipendenza italiana contro il retrivo impero austro ungarico, che aveva numerosi e gravi focolai di rivolta in tutto il suo sterminato territorio. Ai primi successi militari dell’esercito piemontese seguirono improvvisati plebisciti che sancirono la volontà popolare del Lombardo Veneto, della Toscana, di Parma e Piacenza di transitare
col Piemonte per formare l’Italia. A suggello di quanto stava accadendo, occorreva solo una vittoria militare che ponesse la parola fine al dominio austriaco. E le condizioni c’erano eccome. L’esercito piemontese superava numericamente le truppe di cui disponeva sul campo il maresciallo Radetsky, che si arroccò nel quadrilatero difensivo di Verona, Mantova, Legnago
e Peschiera.
Ma il Re Carlo Alberto, sempre indeciso e
irresoluto per il timore che l’iniziativa bellica venisse strumentalizzata politicamente
dai numerosi repubblicani milanesi che si
collegavano apertamente alla vicina
Francia e a Mazzini, non seppe sfruttare le
eccellenti occasioni che lo sviluppo delle
operazioni gli offrirono per chiudere la
partita, concedendo tempo sufficiente a
Radetsky per ricevere ingenti rinforzi grazie ai quali, e ad una serie di errori strategici e tattici dei piemontesi, ottenne la vittoria finale a Custoza.
Il 9 agosto 1848 il generale Salasco firmò
l’armistizio. Ne seguì un periodo politicamente confuso che terminò l’8 marzo
1849 con la ripresa delle ostilità del
Piemonte, che rivendicava il valore politico dei plebisciti dell’anno precedente, nei
confronti dell’Austria.
LA CARICA DI PASTRENGO
Con Carica di Pastrengo si indica un’epica carica di cavalleria
avvenuta il 30 aprile 1848 a Pastrengo (nei pressi di Verona),
portata dagli “Squadroni da Guerra” dei Carabinieri Reali assegnati alla protezione del Re Carlo Alberto di Savoia. Il Re si era
spinto in prima linea, spostandosi da un casolare dove era stato
fino ad allora. L’imponente seguito attorno a una persona certamente di rango furono sicuramente la causa della sparatoria che
gli venne rivolta dallo schieramento austriaco. La carica dei
Carabinieri Reali servì quindi a far cambiare idea agli austriaci,
impedendo che il sovrano potesse essere fatto prigioniero ma
contribuendo anche al felice espletamento di un’azione niente
affatto secondaria per le sorti della battaglia. Carlo Alberto, portatosi tra la brigata Cuneo e la brigata Piemonte, partecipò
all’azione condotta dal maggiore Alessandro Negri di Sanfront
con i tre squadroni di Carabinieri Reali, precedentemente fatti
segno di una nutrita scarica di fucileria. La carica valse a rompere la linea nemica, composta da due battaglioni austriaci.
Un’abile contromossa del generale Josef Radetzky, che minacciò
il centro dello schieramento sabaudo, valse a frenare l’entusiasmo dei comandi, impedendo che l’esercito piemontese varcasse già in quella giornata l’Adige per piombare sulla strada che conduceva a
Trento. Si dice che Re Carlo Alberto dichiarasse allora, nel francese normalmente usato a corte:
«Pour aujourd’hui il y en a assez» (“Per oggi ne abbiamo avuto abbastanza”).
Oggi l’episodio viene fatto rivivere dal Gruppo Squadroni del 4°Reggimento Carabinieri a cavallo
nell’ambito del loro Carosello Storico, con una impetuosa carica esaltata dal luccichio delle sciabole sguainate e dai colori nero e rosso dell’uniforme dei Carabinieri.
MAVM ALLA
BANDIERA DI
GUERRA DELL’ARMA
DEI CARABINIERI
“Per la gloriosa carica che con impeto irrefrenabile e rara intrepidezza, eseguirono i tre
squadroni di guerra dei Carabinieri Reali decidendo le sorti della battaglia in favore
dell’Esercito Sardo”.
Pastrengo, 30 aprile 1848.
R.D. 17 giugno 1909.
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1848: Il Granduca di
Toscana promulga la
Costituzione
1861: Prima riunione del
Parlamento Italiano
MARZO 2011
CARLO ALBERTO
Re di Sardegna (1831-1849). Figlio di Carlo Emanuele di Savoia, principe di Carignano, e di Albertina Maria Cristina di Sassonia, ricevette la prima educazione a Ginevra e compì i suoi studi a Parigi, dove subì l’influsso delle idee politiche francesi.
Rientrato a Torino, dopo la caduta di Napoleone, e la restituzione del Piemonte alla casa di Savoia, non condivise l’impostazione reazionaria data dal re Vittorio Emanuele.
Amico dei giovani esponenti del liberalismo piemontese, era al corrente della cospirazione che sboccò nel moto del marzo 1821. Una
volta assunta la reggenza, dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele I e data la lontananza del nuovo re, suo zio Carlo Felice, concesse agli insorti la costituzione di Spagna che essi reclamavano (14 marzo), ma subito dopo fu sconfessato da Carlo Felice e costretto
ad abbandonare il Piemonte.
Dopo che Carlo Felice non volle riceverlo a Modena, Carlo Alberto si ritirò per qualche tempo a Firenze, finché l’Austria decise di
appoggiare la sua successione al trono di Sardegna, nonostante l’opposizione di Carlo Felice. Per non perdere il suo diritto di successione al trono, Carlo Alberto fu quindi costretto ad impegnarsi con Metternich a non modificare il regime assoluto ristabilito in
Piemonte, e si piegò a partecipare alla spedizione francese che voleva reprimere la rivoluzione liberale in Spagna, dove si distinse nell’assedio della fortezza del Trocadero (1823).
Morto Carlo Felice, Carlo Alberto poté finalmente succedergli (1831) e, nonostante una lettera di incitamento inviatagli da Mazzini,
egli iniziò una politica assolutista e reazionaria, la cui espressione maggiore fu la repressione della cospirazione diretta dalla ‘Giovine
Italia’ (1833-1834).
Fondamentalmente antiaustriaco Carlo Alberto
attuò una serie di riforme che resero il Piemonte
la regione più evoluta della penisola e gli scritti
di Gioberti, Balbo e d’Azeglio rafforzarono la
tendenza filo piemontese nata in Italia.
Nel 1848 Carlo Alberto entrò in guerra contro
l’Austria, scossa dalle rivoluzioni di Vienna e di
Milano, ma la campagna, dopo un inizio fortunato, prese un andamento sfavorevole, anche
per le personali esitazioni del re, e si chiuse con
la grave sconfitta di Custoza (25 luglio).
Carlo Alberto, temendo di vedere le idee repubblicane trionfare nel proprio Stato, chiamò dapprima alla carica di primo ministro Gioberti
(dicembre 1848) e successivamente (12 marzo
1849) ruppe l’armistizio con l’Austria anche per
sottrarsi alla rinnovata accusa di tradimento che
gli rivolgevano i patrioti. Ma la guerra si concluse quasi subito con la disfatta di Novara (23
marzo 1849). Carlo Alberto, avocando su di se
tutte le responsabilità del conflitto perduto,
abdicò a favore del figlio Vittorio Emanuele II,
e si recò in esilio in Portogallo, dove morì alcuni mesi più tardi (28 luglio).
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1924: Proclamata Fiume
italiana
1861: Proclazione del
Regno d’Italia
1848: Iniziano le Cinque
Giornate di Milano
1848: Proclamata la
Repubblica di San Marino
1848: Il Piemonte dichiara guerra all’Austria
1849: Carlo Alberto Abdica, Vittorio Emanuele
II è Re
1860: Trattato di Torino, Nizza e Savoia cedute
alla Francia
1849: Firma dell’Armistizio
di Vignale
1849: Vittorio Emanuele II
giura davanti al
Parlamento
1849: Vittorio Emanuele II
scioglie il Parlamento e
indice le elezioni
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1922: Colpo di mano cessa
lo stato libero di Fiume
1848: Carlo Alberto promulga lo Statuto
1849: Riprendono le ostilità tra Piemonte e Austria
1872: Muore Giuseppe
Mazzini
1917: Scoppia la rivoluzione russa
1821: Carlo Alberto, reggente, concede la
Costituzione di Spagna
LA PRIMA GUERRA D’INDIPENDENZA (II PARTE)
L’8 marzo 1849 il Piemonte, che rivendicava il valore politico dei plebisciti dell’anno precedente, riprese le ostilità nei confronti dell’Austria.
La condotta strategica delle operazioni da parte piemontese fu una brutta copia di quella
del ’48: lentezza ed errori di valutazione si susseguirono perdendo molte occasioni favorevoli per chiudere vittoriosamente la campagna. La battaglia decisiva si svolse nei pressi di
Novara, in territorio piemontese, dove due eserciti di pressoché uguale forza, ma molto
diversamente condotti e guidati, si affrontarono in più scontri separati e distinti.
L’evento bellico conclusivo, fu la battaglia della Bicocca, combattuta tra il 22 e il 23 giugno
1849. Fu soprattutto una somma di grossolani errori compiuti dal Comandante in capo
delle truppe piemontesi Charnowsky, generale polacco voluto dal Re Carlo Alberto più
perché si sentiva rassicurato dalla sua piaggeria, che per effettivi meriti e capacità militari.
La situazione venutasi a creare nella zona di Novara, con cui si concluse la giornata del 22,
era estremamente favorevole ai piemontesi, ma non venne sfruttata in nessuna maniera.
L’indomani 23, lo schieramento austriaco ricevette abbondanti rinforzi, sicché per i piemontesi la grande occasione era sfumata. La battaglia divampò su un fronte di quattro chilometri, ed ebbe per epicentro la Bicocca, perduta e ripresa più volte. Ci furono episodi di
autentico eroismo. Il generale Giuseppe Passalacqua perì in un assalto alla baionetta. Il
generale Perrone, che era stato anche Presidente del Consiglio prima di Gioberti, si fece
portare morente davanti al Re per salutarlo. Il Duca di Genova, secondogenito di Carlo
Alberto, che alla testa della sua Divisione si era comportato non solo con grande coraggio,
ma anche con grande perizia, dovette cambiare due volte cavallo perché gliel’avevano ucciso. Ma alla sera tutto era finito. In tre giorni Radetzky aveva liquidato la partita.
Carlo Alberto, presagiva la sconfitta e sembrava cercare la morte sul campo di battaglia. In
una lettera, il generale Durando acutamente annota che il suo coraggio era solo rassegnazione: «Mai uno slancio da parte sua, mai una parola d’incitamento ai soldati: niente insomma di
ciò che trascina e sostiene nel momento del pericolo». Chiuso nella sua tristezza, non rivolgeva
parola a nessuno, e mentre ancora i suoi uomini si accanivano sulla Bicocca, non faceva
che mormorare: «Tutto inutile, è finita...». Apparve tranquillo e come rilassato solo quando
fu finita davvero, “segno - dice Cibrario – ch’egli aveva già preso le sue decisioni”.
Le annunziò la sera stessa nel palazzo Bellini di Novara, subito dopo il ritorno dell’emissario che, tre ore prima, aveva mandato al Quartier Generale austriaco per chiedere una tregua. Dopo aver letto le condizioni, che prevedevano l’occupazione di Alessandria e del territorio fra il Ticino e la Sesia,
abdicò in favore del figlio
Vittorio Emanuele, affermando
che solo lui aveva la possibilità
d’indurre il nemico a più miti
consigli, e all’una di notte, mentre tutti ormai dormivano, lasciò il palazzo con un calesse, seduto accanto al cocchiere. Lo seguiva un cameriere senza livrea. Senza scorta, per due volte fu fermato dagli austriaci che ormai circondavano la città, rischiando di esserne preso prigioniero. Prese residenza a Oporto, in
Portogallo, come aveva già pianificato da tempo.
I parlamentari piemontesi Cadorna e Cossato, inviati al comando austriaco per chiedere un prolungamento della tregua, informarono Radetzky anche dell’abdicazione. La notizia non sembrò ammorbidirlo. Ribadì le sue dure condizioni ma concesse ulteriori sei ore per l’inizio delle trattative. Ai due inviati ne
occorsero quattro per rincorrere il nuovo Re da Novara a Oleggio, da Oleggio a Novara, da Novara a
Momo, nella calca dei soldati sbandati.
GIUSEPPE PASSALACQUA
Il generale Giuseppe Passalacqua, nel novembre 1849 è al comando della Brigata Piemonte, inquadrato nella
Quarta Divisione guidata dal sabaudo Duca di Genova. Compì fino in fondo correttamente il proprio dovere.
Purtroppo, durante la battaglia di Novara, il 23 marzo 1849, nei pressi della chiesa del sobborgo novarese della
Bicocca un colpo di fucile, sparato dalla vicina cascina Galvagna, colpì mortalmente il Passalacqua al fianco sinistro. Il 13 luglio 1849 il Passalacqua era insignito di Medaglia d’Argento al Valor Militare, con la seguente motivazione: “Morto sul campo di battaglia alla testa della sua brigata”. Nel 1925, il volume “Le Medaglie d’Oro al Valor
Militare” cita il gen. Passalacqua come Decorato al Valore con Medaglia d’Oro. Purtroppo, nessuno è riuscito a
recuperare l’eventuale provvedimento che trasformò la Medaglia d’Argento di Giuseppe Passalacqua in Medaglia
d’Oro. Ad ogni buon conto, dal 1925 in poi, del marchese Passalacqua si parla come di una Medaglia d’Oro.
APRILE 2011
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1866: Alleanza tra Prussia e Italia
1856: Cavour presenta la questione
italiana al Congresso di Parigi
1854: Alleanza francoinglese contro la Russia
1850: Pio IX rientra a
Roma
LA RESTAURAZIONE DI RADETSKY
La fine della guerra fra il Piemonte e l’Austria fu segnata dall’armistizio di Vignale, concordato il 24 marzo, firmato il 26 e seguito dalla pace di Milano del 6 agosto 1849.
La battaglia di Novara aveva sancito la supremazia austriaca in Lombardia. Il nuovo sovrano sardo, Vittorio Emanuele II, si rese
immediatamente conto che doveva concentrarsi sulla caotica situazione politica interna.
Nelle giornate successive Radetzky chiuse anche la partita con i patrioti lombardi, soffocando sanguinosamente sul nascere i
tentativi di ribellione di Como e Brescia. Continuava strenuamente la resistenza all’assedio di Venezia.
La strada era, quindi, libera per le nuove invasioni straniere. Il primo a muovere fu Luigi Napoleone, che il 24 aprile fece sbarcare a Civitavecchia un corpo di spedizione francese, guidato dal generale Oudinot. Questi tentò l’assalto a Roma il 30 aprile,
ma venne malamente sconfitto. Ripiegò a Civitavecchia e chiese rinforzi. La strada era libera per le nuove invasioni di Radetzky
in Toscana, Emilia, Marche.
Seguì un corpo di spedizione napoletano, fermato da Garibaldi a Palestrina, il 9 maggio. Poi una prima armata austriaca, guidata dal d’Aspre, che assalì e saccheggiò Livorno l’11 maggio ed occupò Firenze il 25 maggio, seguita da una seconda, che assediò e prese
Bologna il 15 maggio. Verso la fine di maggio arrivò a Gaeta un corpo
di spedizione spagnolo, che occupò l’Umbria senza scontri memorabili.
Contro Ancona, che aveva aderito alla Repubblica Romana ed aveva
promesso a Garibaldi concreto aiuto nel difenderla, gli Austriaci
incontrarono un’eroica ed imprevista resistenza (premiata nel 1899
con Medaglia d’Oro al Valor Militare). L’assedio vide impegnati nella
difesa di Ancona italiani provenienti da tutte le Marche e dalla
Lombardia, in totale circa cinquemila uomini contro più di cinquantamila austriaci. In gioco non era né la sorte di una città, ormai quasi
segnata a causa della sproporzione di forze, né solo quella della
Repubblica Romana; ma si trattava di dimostrare che gli Italiani,
anche senza reali speranze di vittoria, perseguivano comunque i propri ideali di libertà ed indipendenza. L’assedio fu navale e terrestre
contemporaneamente, e si segnalarono Antonio ed Augusto Elia,
padre e figlio, molto legati a Garibaldi. Ora, a resistere agli Austriaci,
in Italia erano rimaste solo Roma, Venezia ed Ancona. Dopo 26 giorni di aspri combattimenti (cadde il capitano cremonese Giovanni
Gervasoni) il 21 giugno il capoluogo marchigiano cedette, e gli
Austriaci concessero l’onore delle armi ai difensori. La brutale fucilazione di Antonio Elia mostrò che oramai Ancona aveva fatto il possibile; ora il vessillo della libertà doveva essere difeso a Roma e a
Venezia.
La necessità di riscattare la sconfitta del 30 aprile, e il desiderio di
compensare i successi del Radetzky in Toscana, Emilia e Marche,
indussero Luigi Buonaparte, non ancora Imperatore, ad inviare con-
tro Roma complessivamente oltre 30.000 soldati ed un possente parco d’assedio. Il 1º giugno il generale francese Oudinot rinnegò un trattato di alleanza
negoziato dal Lesseps ed annunciò la ripresa delle ostilità: Roma venne assaltata all’alba del 3 giugno. La resistenza fu assai più ostica del previsto, nonostante i duri bombardamenti, tanto da ottenere la resa della Repubblica solo il
2 luglio.
Lo stesso giorno Garibaldi radunò in piazza San Pietro 4.700 volontari ed uscì
verso est con il vago intento di sollevare le province per poi raggiungere
Venezia assediata; venne inseguito dal d’Aspre sino a Comacchio, perse la
moglie, fuggì miracolosamente sino in Liguria e, di lì, nel 1850 si rifugiò a New
York presso Antonio Meucci.
Dopo la resa di Ancona e di Roma, la città di Venezia rimase l’ultima a non
aver ancora ceduto ai nemici dell’indipendenza italiana. Gli Austriaci avevano
tentato di avvicinarsi alla città lagunare lungo il ponte della ferrovia, ma, a
causa della forte resistenza, furono costretti a retrocedere. Iniziarono allora un
pesante bombardamento contro la città stessa. Una prima richiesta di resa da
parte del comandante in capo delle forze austriache, feldmaresciallo Radetzky,
fu sdegnosamente respinta. Dopo lunghissima resistenza, ultima tra tutte le
città italiane, stremata anche dalla fame e da un’epidemia di colera, dovette
infine arrendersi, sottoscrivendo la resa il 23 agosto 1849.
La città di Ancona Decorata per il Risorgimento
La città di Ancona è la sedicesima tra le 27 città decorate con Medaglia d’Oro come “benemerite del Risorgimento nazionale” per le
azioni altamente patriottiche compiute dalla città nel periodo del Risorgimento. Periodo, definito dalla Casa Savoia, compreso tra i
moti insurrezionali del 1848 e la fine della prima guerra mondiale nel 1918.
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1857: Rottura rapporti
diplomatici tra Regno
Sardo e Austria
1860: Savoia e Nizza cedute alla Francia
1919: Orlando e Sonnino
abbandonano la conferenza di
Parigi
- Pasqua di Resurrezione
dell’Angelo
Medaglia alle Città Benemerite del Risorgimento Nazionale
«In ricompensa del valore dimostrato dalla cittadinanza negli episodi militari del 1849. Il riferimento è all’assedio di Ancona, dopo che la città aveva
seguito le sorti della Repubblica Romana. Mentre Roma era stretta dai
francesi, Ancona sosteneva con soli 4.000 uomini l’attacco di 11.000
austriaci del maresciallo von Wimpffen, iniziato il 24 maggio 1849 e sostenuto da una squadra navale. Dopo una strenua resistenza, la città fu
costretta a capitolare.»
È stata insignita il 18 maggio 1899.
Ancona ha avuto anche la medaglia d’oro al valor civile per il comportamento della popolazione durante l’occupazione tedesca e i bombardamenti alleati.
1859: L’Austria dichiara
guerra al Piemonte
1915: Patto di Londra
l’Italia nella Triplice Intesa
1831: Muore Carlo Felice,
Carlo Alberto è Re di
Sardegna
1859: L’Austria dichiara la
guerra al Piemonte
1848: Carica di Pastrengo
VITTORIO EMANUELE II
Nacque a Torino e trascorse i primi anni di vita a Firenze. Nel 1831 Carlo Alberto salì al trono e Vittorio Emanuele lo seguì a Torino, ove la sua educazione fu affidata al conte Cesare di Saluzzo, affiancato da uno stuolo di precettori. Ma Vittorio Emanuele preferiva dedicarsi ai cavalli, alla caccia
ed alla sciabola e all’escursionismo in montagna.
Più tardi, ottenuto il grado di generale, nel 1842 sposò la cugina Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena. Ebbe inoltre un’intensa relazione con Laura Bon
dalla quale ebbe una figlia, Emanuela (1853) che, divenuto poi Re, creò contessa di Roverbella.
All’abdicazione del padre, Carlo Alberto, egli ereditò insieme
l’infausto epilogo della prima guerra d’Indipendenza, le dure
condizioni dell’armistizio firmato in gran fretta a Vignale, e la
rivolta di Genova, che fece sedare nel sangue dal generale La
Marmora.
In base allo Statuto Albertino, l’armistizio doveva essere ratificato dalla Camera, per poter siglare l’Atto di Pace. Il 29
marzo 1849 il nuovo Re giurò davanti al Parlamento e, il
giorno dopo, lo sciolse indicendo le elezioni per il 15 luglio,
che espressero un parlamento troppo “democratico” che si
rifiutò di approvarle. Vittorio Emanuele sciolse subito il
Parlamento, indisse nuove elezioni ed emanò il proclama di
Moncalieri, con cui si invitava il popolo a scegliere rappresentanti consci della tragica ora dello Stato. Il nuovo
Parlamento, più moderato, il 9 gennaio 1850 ratificò il trattato di pace.
Già in questi primi atti da sovrano Vittorio Emanuele II
dimostrò il carattere risoluto e sanguigno, talvolta ai limiti
della temerarietà che ne fecero il condottiero ideale del
Risorgimento italiano.
Il 4 novembre 1852 Camillo Cavour divenne primo ministro
del Regno. Vittorio Emanuele II non nutriva grande stima
nei suoi confronti, ma ne apprezzò il pragmatismo con cui
questi gestì la politica piemontese in tutto il “decennio di preparazione” fino alla seconda guerra d’indipendenza, al punto
di accettare che sua figlia Maria Clotilde, appena quindicenne, andasse in sposa a Napoleone Giuseppe Carlo
Bonaparte, cugino degenere di Napoleone III a suggello dell’alleanza sardo-francese siglata a seguito degli accordi di
Plomdieres.
Il 10 gennaio 1859 Vittorio Emanuele II si rivolse al parlamento sardo con la celebre frase del «grido di dolore».
Scoppiata la guerra, come previsto da Cavour, Vittorio
Emanuele seguì tutte le operazioni dal fronte e partecipò
personalmente alla vittoriosa Battaglia di Palestro guadagnandosi il titolo di “Caporale degli zuavi”.
L’epilogo politico della seconda guerra d’indipendenza non
lo soddisfece (era amareggiato soprattutto per la cessione
alla Francia della Savoia, culla del suo casato) e Cavour,
nonostante avesse dato il meglio di se in tale circostanza,
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1882: Triplice alleanza
Germania-Austria-Italia
1859: Battaglia di Montebello
1915: Mobilitazione generale
1915: L’Italia dichiara
guerra all’Austria
1849: Occupazione austriaca di Firenze
1860: Battaglia di Palermo
1848: Battaglia di Goito Le truppe acclamano
Carlo Alberto Re d’Italia
1859: Battaglia di Palestro
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1860: Partenza dei Mille
da Quarto
1849: Garibaldi ferma a
Palestrina il corpo di spedizione napoletano contro Roma
1849: Saccheggio di
Livorno - Leopoldo III
ritorna in Toscana
1871: Legge delle guarentigie
1860: Garibaldi proclama
Salemi Capitale d’Italia
per un giorno
1849: Gli austriaci a Bologna
1860: Vittoria di Garibaldi a Calatafini
1861: Leone XIII emana la “Rerum
novarum”
1916: Strafexpedition
negoziando la cessione di Nizza e Savoia al prezzo dell’annessione non solo della Lombardia, ma di Toscana, Emilia e Romagna insorti, dovette
dimettersi.
Di lì a pochi mesi si venivano a creare le opportunità per l’unificazione dell’intera Penisola e proprio Vittorio Emanuele II, affine di carattere all’impulsivo Garibaldi, vinse le riserve di Cavour, nel frattempo tornato al governo, che temeva gravi ripercussioni internazionali, e diede il via all’impresa dei mille, a patto che apparisse come iniziativa personale del nizzardo.
Dopo il successo dei mille, all’unità d’Italia mancavano ancora importanti tasselli, tra cui il Veneto, il Trentino, il Friuli, il Lazio, l’Istria e la VeneziaGiulia, ma Vittorio Emanuele II decise che era venuto il momento di indire le prime elezioni del parlamento italiano. La nuova assemblea si riunì il
18 febbraio 1861 e, il 17 marzo, proclamò Vittorio Emanuele II di Savoia Re d’Italia. La formula venne aspramente contestata dalla sinistra, che avrebbe preferito il titolo “Vittorio Emanuele I d’Italia”.
Occorreva ora “spiemontesizzare” il nuovo stato italiano. Anche Napoleone III ci mise del suo chiedendo di spostare la capitale da Torino ad un’altra città in cambio del ritiro della guarnigione francese dal Lazio.
Sebbene riottoso, Vittorio Emanuele II fu allettato dall’argomento e, sulla base di considerazioni puramente militari, accettò lo spostamento a Firenze.
I torinesi non ci stettero e, tra il 21 e il 22 settembre 1864, scoppiarono sanguinosi tumulti per le vie della città. Vittorio Emanuele II, risoluto come
sempre quando aveva deciso, fece pubblicare sulla Gazzetta l’annuncio del trasferimento a Firenze del governo a cose fatte.
Il nuovo regno, intanto, aveva siglato l’alleanza con la Prussia contro l’Austria. Il 21 giugno 1866 Vittorio Emanuele lasciava Palazzo Pitti diretto al
fronte, per conquistare il Veneto. Sconfitto a Lissa e a Custoza, il Regno d’Italia ottenne comunque Venezia in seguito ai trattati di pace succeduti
alla vittoria prussiana.
Roma rimaneva l’ultimo territorio ancora non inglobato dal nuovo
regno. L’impresa poté avvenire solo con la caduta, nel 1870, di
Napoleone III. Il 20 settembre il generale Cadorna aprì una breccia
nelle mura romane. Vittorio Emanuele ebbe a dire:
«Con Roma capitale ho sciolto la mia promessa e coronato l’impresa che ventitré anni or sono veniva iniziata dal mio magnanimo genitore».
In realtà, Vittorio Emanuele II non faceva mistero della sua insoddisfazione per non poter aspirare ad altre conquiste. Con Roma capitale si
chiudeva la pagina del Risorgimento, anche se mancavano ancora le
cosiddette “terre irredente”. Inoltre, Pio IX, che rifiutava di riconoscere
lo stato italiano e impediva ai cattolici di partecipare alla vita civile del
regno, inflisse la scomunica a Casa Savoia.
Il Re non amava la vita di corte preferendo dedicarsi alla caccia, al
gioco del biliardo più che ai salotti mondani. Per la propria amante, e
poi moglie, Rosa Vercellana, acquistò i terreni ora Parco regionale La
Mandria e vi fece realizzare la residenza nota come Appartamenti Reali
di Borgo Castello. Per i figli avuti da lei, Vittoria e Emanuele di
Mirafiori costruì all’interno della Mandria le cascine per l’allevamento
dei cavalli “Vittoria” ed “Emanuella”, quest’ultima ora nota come
Cascina Rubbianetta.
A fine dicembre 1877 Vittorio Emanuele II, durante una battuta di caccia, passò una notte all’addiaccio. L’umidità gli risultò fatale: la sera del
5 gennaio 1878 avvertì i brividi della febbre. Il 9 gennaio alle 14:30 era
morto. Papa Pio IX, messi da parte i veti pontifici, accordò al Re
morente i sacramenti.
Vittorio Emanuele II aveva espresso il desiderio di essere tumulato in
Piemonte, nella Basilica di Superga, ma il figlio Umberto, su richiesta
del Comune di Roma, approvò che la salma riposasse nel Pantheon.
In onore di Vittorio Emanuele II vennero eretti numerosi monumenti
in tutta Italia. I più importanti sono il “Vittoriano” a Roma, sede della
tomba del “Milite ignoto”, e la galleria Vittorio Emanuele II a Milano.
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1846: Muore Gregorio XVI
1849: Sconfitta la
Repubblica Romana
1882: Muore Giuseppe
Garibaldi
- Festa della Repubblica
1859: Battaglia di Magenta
1861: Muore Camillo
Cavour
1859: Napoleone III e
Vittorio Emanuele II
entrano a Milano
1918: Affondamento corazzata austriaca S. Stefano
1865: Firenze è capitale
d’Italia
CAMILLO BENSO CONTE DI CAVOUR
Nacque a Torino il 10 agosto 1810. Fu ufficiale del Genio. All’età di ventidue anni divenne sindaco di Grinzane,
sede di possedimenti di famiglia, e lo rimase fino al 1848, quando fu eletto deputato per la prima volta. Nei suoi
viaggi giovanili si recò più volte a Parigi e Londra, dove incontrò intellettuali e politici e affinò la sensibilità per
i problemi sociali. Fu un buon imprenditore. Scrisse anche saggi politico economici e, nel 1847, fondò, assieme
al cattolico liberale Cesare Balbo, il periodico politico “Risorgimento”, di cui fu direttore.
Dopo la prima guerra d’Indipendenza, Cavour divenne guida della maggioranza moderata in parlamento e poi
ministro del governo presieduto da Massimo D’Azeglio, portando avanti riforme ispirate al liberismo commerciale. All’inizio del 1852, aprì la via politica
al centrosinistra di Urbano Rattazzi stringendo con lui un “connubio” tra moderati e
progressisti. Il governo D’Azeglio crollò e, il
4 novembre, con i voti del “connubio” e
forte di un ampio consenso, Cavour diveniva Presidente del Consiglio. Si diede al
potenziamento
economico-industriale
dello stato, favorendo la realizzazione di
opere pubbliche di vasta portata (ferrovie,
porto di Genova, ecc …) e introducendo
nuove coltivazioni. A seguito della promulgazione della legge di soppressione degli
ordini religiosi, veniva scomunicato il 26
luglio 1855 da Papa Pio IX insieme al Re
Vittorio Emanuele II, reo di averla firmata.
La guerra di Crimea (1854) fu per Cavour
l’occasione per ottenere il sostegno politico
delle maggiori potenze europee alla causa
del risorgimento italiano. Offrì l’alleanza del
Piemonte a Francia e Gran Bretagna,
inviando in Crimea un corpo d’armata di
18.000 uomini, che al comando del
Generale Alfonso La Marmora, si distinse
nella battaglia della Cernaia.
Al Congresso di pace di Parigi (1856),
Cavour non chiese compensi per il
Piemonte, ma una seduta dedicata espres-
samente al problema italiano nella quale egli sostenne che la repressione dei governi reazionari e la politica
dell’Austria erano i veri responsabili dell’inquietudine rivoluzionaria (carboneria, Mazzini, ecc …) che covava
nella penisola e che avrebbe potuto costituire una minaccia per tutte le corone d’Europa.
Ciò allettò Napoleone III il quale, volendo consolidare in Italia la sua già forte egemonia sull’Europa, nel 1858
stipulò con Cavour gli accordi segreti di Plombières in base ai quali la penisola italiana sarebbe stata divisa in
quattro stati, legati in una futura Confederazione presieduta dal pontefice, dei quali il Regno dell’Alta Italia
sarebbe stato affidato a Vittorio Emanuele II. Ne sarebbe derivata un’egemonia francese su tre dei quattro stati
con l’esclusione della futura unità italiana, alla quale, in quel momento storico, Cavour e Vittorio Emanuele II
non pensavano. Gli accordi di Plombières, furono ratificati l’anno successivo dall’Alleanza sardo-francese che,
in caso di attacco austriaco al Piemonte, prevedeva l’intervento Francese in sua difesa con il compenso dei territori di Nizza e Savoia.
Ora occorreva solo il “casus belli”. Cavour diede il via ad esercitazioni militari sul confine del Ticino. L’Austria,
allarmata, lanciò al Piemonte un ultimatum che fu rigettato, quindi aprì le ostilità il 26 aprile 1859, facendo scattare le condizioni degli accordi con la Francia. Napoleone III, che pretese il comando delle forze alleate indispettendo il Re di Piemonte, iniziò la guerra con una serie di scontri vittoriosi ma con molte perdite specie tra
i suoi soldati, suscitando polemiche nell’opinione pubblica francese. Garibaldi, con i suoi Cacciatori delle Alpi,
marciava vittoriosamente verso Trento, mentre nei ducati di Modena e Parma, nelle legazioni pontificie settentrionali e nel Granducato di Toscana, grandi manifestazioni popolari chiedevano l’invio di commissari regi piemontesi e cacciavano i governi filo austriaci. La spartizione dell’Italia prevista a Plombières così era saltata.
Napoleone III, spinto da questo, oltre che dall’opposizione interna, con atto quasi unilaterale, firmò l’armistizio
di Villafranca l’11 luglio 1859, che prevedeva che a Vittorio Emanuele II sarebbe andata la sola Lombardia e,
per il resto, tutto restava come prima. Cavour, deluso e amareggiato, diede le dimissioni da Presidente del
Consiglio il giorno dopo. Ma i governi provvisori filo sabaudi di Firenze, Parma, Modena e Bologna, rifiutarono ogni tentativo di restaurazione austriaca.
Cavour, rientrato alla presidenza del Consiglio dei Ministri il 21 gennaio 1860, a nome del Re, ottenne che la
cessione dei territori di Nizza e Savoia fosse la contropartita delle annessioni al Piemonte delle regioni liberate,
il tutto sancito da plebisciti. Tale conclusione fece balenare, più a Vittorio Emanuele II che a Cavour, la prima
idea dell’unità d’Italia. Per minimizzare i rischi politici, si decise di affidare l’impresa a Garibaldi con i suoi mille.
Il successo fu superiore alle aspettative, e Cavour che temeva, più di Garibaldi, Giuseppe Mazzini, appena si
concluse la campagna con la decisiva battaglia del Volturno, organizzò l’annessione immediata della Sicilia e di
Napoli tramite plebisciti (2 e 21 ottobre 1860).
Nel gennaio 1861 si tennero le elezioni per il primo Parlamento italiano unitario; il 17 marzo il Parlamento proclamò il Regno d’Italia e Vittorio Emanuele suo re, mentre Cavour veniva confermato alla guida del governo.
Nei primi mesi di vita del nuovo Parlamento vi furono diverse riunioni burrascose, che impegnarono pesantemente Cavour. Il 29 maggio, dopo una di queste riunioni, lo statista ebbe un malore, attribuito dal medico ad
una crisi malarica. La crisi si aggravò e, a meno di tre mesi dalla proclamazione del Regno d’Italia, Cavour moriva a Torino il 6 giugno 1861.
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1846: Eletto Papa Pio IX
1866: La Prussia apre le
ostilità contro l’Austria
1849: Resa di Ancona agli
austriaci
1849: Inizia la Battaglia
della Bicocca
1918: L’esercito italiano
resiste sul Piave
1849: Piemontesi sconfitti alla Bicocca
1915: Prima battaglia dell’Isonzo
1866: Inizio III Guerra
d’Indipendenza
1849: Vittoria di San
Martino a Solferino
1866: Battaglia di Custoza
1866: Garibaldi attacca a
Ponte ????
1914: Attentato a Sarajevo
L’INTERVENTO IN CRIMEA
Cavour realizzò il suo programma di portare il Piemonte al rango di Stato - guida nel processo di unificazione nazionale con una politica estera abile e diplomatica. L’occasione per fare assumere al Piemonte un ruolo nei giochi d’equilibrio
che le grandi potenze compivano in Europa fu data dalla guerra di Crimea (1853-1856). Si trattò di un episodio che rimise in moto la competizione e la conflittualità tra gli Stati che ambivano al predominio nell’Europa. La guerra rappresentò un momento della cosiddetta “questione d’oriente”: la disgregazione, ormai in atto, dell’Impero ottomano poneva agli
Stati europei il problema di una spartizione dei territori ad esso soggetti, primo fra tutti il territorio balcanico.
Ad iniziare le ostilità fu lo zar di Russia Nicola I che occupò i principati danubiani di Moldavia e Valacchia (l’odierna
Romania) appartenenti all’Impero ottomano. Scoppiata così la guerra, Francia e Inghilterra scesero subito in campo contro la Russia, pronte ad impedire un suo allargamento territoriale nell’area balcanica. Direttamente interessata alle sorti
dei Balcani, ma timorosa di mettersi a fianco delle tradizionali nemiche (Francia e Inghilterra), l’Austria ostentò una neutralità che tuttavia le consentì di occupare, col consenso del sultano turco, i due principati danubiani abbandonati dalle
truppe d’occupazione russe.
Fu a questo punto che si inserì la diplomazia piemontese: Cavour, che non aveva previsto la neutralità austriaca, si era
adoperato per stringere accordi con Francia e Inghilterra in vista di una comune azione contro Austria e Russia; e si
trovò costretto a prendere parte al conflitto sollecitato dagli alleati che avevano anche l’interesse di garantire all’Austria
che, se fosse intervenuta al loro fianco, nulla sarebbe accaduto alle sue spalle, cioè in Italia. Tuttavia Cavour ritenne che
l’intervento piemontese, pur nella mutata situazione, fosse opportuno, ed i fatti successivi gli diedero ragione.
Così un corpo di spedizione di
18.000 uomini al comando del
generale Alfonso La Marmora
partì, verso la metà del 1855, per
la Crimea (dove appunto si svolgeva il conflitto e prese parte alla
battaglia della Cernaia ed all’assedio di Sebastopoli, la potente
piazzaforte russa che resistette
circa un anno all’assedio delle
truppe anglo - franco - piemontesi).
L’obiettivo che Cavour si prefiggeva era la partecipazione del
Piemonte alle trattative di pace e
la conseguente possibilità di
porre le condizioni dell’Italia sul
tappeto degli interessi generali
delle potenze europee. Ciò
avvenne al Congresso di Parigi
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1870: Dogma della infallibilità
del Papa
1866: Cialdini occupa San
Donà di Piave
1866: Cialdini occupa
Valdobbiadene e Oderzo
1866: Battaglia di Lissa
1858: Accordi di Plombierres
1866: Cialdini occupa Vicenza
1866: Vittoria di Bezzecca
1866: Armistizio tra
Austria e Prussia - Cialdini
occpa Udine
1914: Ultimatum
dell’Austria alla Serbia
1844: Fucilati i fratelli
Bandiera
1848: Sconfitta di Custoza
1848: Sconfitta di Custoza
1914: Cadorna è Capo di
Stato Maggiore
1849: Muore a Oporto Carlo
Alberto
1914: L’Austria attacca la Serbia,
inizia la prima guerra mondiale
1900: Gaetano Bresci
assassina Umberto I
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1857: Ucciso Carlo Pisacane
1871: Vittorio Emanuele II
entra a Roma capitale
1866: Garibaldi attacca a
Monte Svelto - Vittoria
prussiana a Sadoma
1847: Pio IX concede la
creazione della Guardia
Civica
1859: Armistizio di
Villafranca
1866: Cialdini occupa
Rovigo
1859: Vittorio Emanuele II
firma l’Armistizio - Dimmisioni
di Cavour
1866: Cialdini occupa Padova
1866: Cialdini occupa
Treviso
1870: La Francia dichiara
guerra alla Prussia
dove, caduta Sebastopoli, i rappresentanti delle potenze europee si riunirono per le trattative di pace (1856).
Il gioco di Cavour era perfettamente riuscito: come rappresentante del piccolo Stato piemontese egli sedeva, a parità di
rango, accanto a quelli di Francia, Inghilterra, Austria, Russia, e, l’8 aprile 1856, poteva illustrare, in una seduta suppletiva chiesta ed ottenuta, nonostante le proteste austriache, le penose condizioni di soggezione e vassallaggio in cui le
popolazioni del Lombardo Veneto e dell’Italia meridionale erano tenute dagli Asburgo e dai Borboni. La questione italiana era posta come qualcosa di cui l’Europa progressista doveva in qualche modo occuparsi. Oltre a ciò, con la partecipazione al Congresso di Parigi, il Piemonte si guadagnò definitivamente, agli occhi del movimento liberale italiano, il
ruolo di protagonista della lotta contro l’Austria.
La guerra di Crimea aveva peraltro reso Napoleone III arbitro della politica europea. L’isolamento dell’Austria, la sconfitta dell’iniziativa russa, l’alleanza con l’Inghilterra, davano all’imperatore dei Francesi la possibilità di portare a compimento l’influenza francese sull’Europa appoggiandosi ai movimenti nazionali.
In questo quadro Francia e Piemonte firmarono a Plombières, il 21 luglio 1858, un trattato segreto di alleanza antiaustriaca. L’alleanza fu resa possibile dal fatto che la politica di Cavour aveva dato ampie garanzie alla Francia di muoversi su un piano antidemocratico (vedi le dure polemiche del Cavour contro Mazzini e i suoi metodi insurrezionali).
Gli accordi segreti di Plombières riguardavano l’assetto da dare al territorio italiano dopo una eventuale vittoria
sull’Austria, contro la quale l’imperatore si impegnava a scendere in campo accanto al Piemonte soltanto se quella avesse dichiarato per prima la guerra. Si prevedeva una confederazione di Stati italiani comprendente il regno dell’Italia settentrionale (Piemonte, Lombardo - Veneto, Romagna, Emilia) su cui avrebbe regnato la dinastia sabauda, un regno
dell’Italia centrale, da assegnare ad un principe francese ma che al proprio interno avrebbe consentito il mantenimento
dell’autorità pontificia sulla città di Roma, ed il regno dell’Italia meridionale dove, ai Borboni spodestati, sarebbe succeduto un discendente di Gioacchino
Murat.
Nizza e la Savoia, due province del
Regno di Sardegna confinanti con la
Francia, costituirono il compenso chiesto al Piemonte dall’imperatore in cambio del suo intervento.
Queste
condizioni,
dettate
da
Napoleone III, vennero accettate da
Cavour, convinto che il processo di unificazione nazionale avrebbe avuto tempi
più lunghi di quanto pensassero i democratici e tutto il movimento unitario, e
che al Piemonte fosse possibile assumere un ruolo dominante nella confederazione italiana. Da parte francese vi era
tutta l’intenzione di porre sotto la propria egemonia gli Stati italiani confederati.
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1870: Napoleone III dispone ritiro truppe francesi da Roma entro fine agosto
1914: Dichiarazione di neutralità
dell’Italia
1914: La Germania invade
il Belgio
1849: Pace di Milano tra
Austria e Piemonte
1848: Armistizio di Salasco
1866: Garibaldi: “obbedisco”
1859: Plebiscito in Toscana
1866: Armistizio di Cormons
1920: D’Annunzio proclama la
reggenza italiana del ???
- Assunzione di Maria Vergine
LA SECONDA GUERRA D’INDIPENDENZA
Il 26 aprile 1859, l’Austria dichiarò guerra al Regno di Sardegna. L’esercito austriaco, al comando del maresciallo Gyulai, attraversò il Ticino nei pressi di Pavia il 29 e giunse in pochi giorni sino a 50 km da Torino, senza incontrare resistenza. Poi, inspiegabilmente, Gyulai rientrò in Lombardia dando sufficiente tempo all’esercito piemontese per il ricongiungimento con quello francese.
Il 20 maggio il primo scontro a Montebello fu vinto dai francesi, col concorso determinante della cavalleria sarda. Il 22 maggio i
Cacciatori delle Alpi, il corpo di volontari arruolati da Garibaldi tra i fuoriusciti dal Lombardo-Veneto, entrarono in Lombardia
con l’obiettivo di operare sulle Prealpi in appoggio all’offensiva principale. In pochi giorni liberarono tutto il nord lombardo fino
a Brescia. Il 30 ed il 31 maggio i piemontesi riportarono una brillante vittoria a Palestro. Inquadrato nel terzo reggimento degli
zuavi, vi partecipò anche Vittorio Emanuele II, per questo fu gratificato del titolo di caporale degli zuavi. Parallelamente i francesi, che il 2 giugno avevano varcato il Ticino, sconfissero gli Austriaci a Turbigo e il 4 giugno a Magenta.
Il 5 giugno l’esercito austriaco lasciava Milano e si ritirava oltre l’Adda, tappa per le fortezze del Quadrilatero. La sera del 6 giugno, una brigata di retroguardia con due squadroni di dragoni ed ussari, si insediò a Melegnano, ma la sera dell’8 giugno la città
venne presa dai francesi dopo sanguinosissimi combattimenti: i caduti furono 1.000 fra gli attaccanti e 1.200 tra i difensori.
Quello stesso 8 giugno vi era stato l’ingresso trionfale di Napoleone III e di Vittorio Emanuele II in Milano. Il giorno dopo, il consiglio comunale della città, ribadendo la validità del plebiscito del 1848, votò l’annessione della Lombardia al Regno sabaudo.
Nel frattempo, era giunto a Verona l’imperatore Francesco Giuseppe che, indispettito dall’apparente arrendevolezza del Gyulai,
aveva assunto personalmente il comando delle operazioni. I franco-piemontesi ripresero la marcia il 12 giugno e il 21 erano già
oltre il Chiese, dove Gyulai li aveva attirati. Ma l’imperatore d’Austria diede ordine ai suoi di ripassare il Mincio e rioccupare le
posizioni evacuate pochi giorni prima. Il 24 giugno i franco-piemontesi vinsero una grande battaglia sviluppatasi in due eventi
separati: a Solferino e a
San
Martino.
Gli
Austriaci furono rigettati
oltre il Mincio, ma lì avevano la possibilità di
appoggiarsi alle loro
grandi fortezze e attendere i rinforzi.
Napoleone III, preoccupato per l’opinione pubblica francese, sempre
meno favorevole alla
guerra, e per la piega
politica indesiderata che
stava prendendo, contattò Francesco Giuseppe e
l’11 luglio sottoscrisse
con lui l’armistizio di
Villafranca, firmato il 12
anche
da
Vittorio
Emanuele II.
Con la pace di Zurigo, l’11 novembre 1859, gli Asburgo cedevano
la Lombardia alla Francia, che l’avrebbe assegnata ai Savoia, mentre l’Austria conservava il Veneto e le fortezze di Mantova e
Peschiera. I sovrani di Modena, Parma e Toscana avrebbero dovuto essere reintegrati nei loro Stati, e il governo papale a Bologna.
Tutti gli stati italiani, incluso il Veneto ancora austriaco, avrebbero dovuto unirsi in una confederazione feudale italiana, presieduta dal papa Pio IX. Il trattato era tanto lontano dalla realtà politica, da presentare almeno tre vantaggi per il regno sabaudo:
– continuava, di fatto, la presenza austriaca nella penisola, sgradita anche ai francesi;
– le popolazioni dell’Emilia e dell’Italia centrale erano così insofferenti al ritorno dei loro governanti che Cavour poté evidenziare i rischi della cospirazione repubblicana mazziniana;
– il vantaggio territoriale per il Piemonte non corrispondeva a
quanto pattuito a Plombières, quindi esso non avrebbe ceduto
Nizza e la Savoia, di cui Napoleone III necessitava per giustificare all’opinione pubblica francese l’enorme prezzo in vite
umane sostenuto.
Costituito questo ampio margine di manovra, il Piemonte poté
annettersi, anche Parma, Modena, l’Emilia, la Romagna
e la Toscana. Le Marche e l’Umbria venivano nel frattempo riprese dai papalini. Solo a seguito di detti avvenimenti il 24 marzo 1860, il Piemonte accettò di firmare il Trattato di Torino, in base al quale venivano cedute la Savoia e Nizza.
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1855: Parte la Spedizione
in Crimea
1859: Plebiscito nelle legazioni
1860: Garibaldi passa Stretto
di Messina
1870: Lettera del Card.
Antonelli ai Governi europei
contro l’Italia
1914: Muore Pio IX
1860: Vittoria di Garibaldi a
Reggio Calabria
1849: La Repubblica di Venezia
si arrende agli austriaci
1919: I Grantieri di Sardegna
lasciano Fiume
1862: Garibaldi è ferito
sull’Aspromonte
1823: Battaglia del
Trocadero. Carlo Alberto
si distingue
GIUSEPPE GARIBALDI
Nasce a Nizza, secondogenito di Domenico, capitano di cabotaggio di Chiavari, e Rosa Raimondi, originaria di Loano. I genitori avrebbero voluto
avviare Giuseppe alla carriera o di avvocato, o di medico o di prete, ma Giuseppe predilige gli esercizi fisici e la vita di mare, e presto lascia gli studi
per imbarcarsi come mozzo. Nel 1833, in uno dei suoi viaggi conosce Emile Barrault, seguace di Saint-Simon, e ne rimane influenzato poi, giunto a
Taganrog, sul mar d’Azov, incontra un patriota mazziniano che lo sensibilizza alla causa dell’unità d’Italia.
Nello stesso anno, incontra Giuseppe Mazzini in esilio a Londra e si iscrive alla Giovine Italia, quindi si arruola nella Marina Sabauda con lo scopo di
fare proseliti alla causa, ma si espone con leggerezza e viene sorvegliato dalla polizia. L’11 febbraio 1834, Garibaldi tenta di partecipare all’insurrezione mazziniana in Piemonte ma il piano fallisce e lui diserta. Indicato come uno dei capi della cospirazione, è inseguito da una condanna a morte. Per
circa due anni fugge tra Francia, medio oriente e nord Africa, poi, l’8 settembre 1835 parte per il Sud America.
Nel 1842 Garibaldi comanda la flotta uruguaiana in una battaglia navale contro gli argentini e partecipa quindi alla difesa di Montevideo con i suoi
volontari, vestiti per la prima volta con camicie rosse. Qui sposa Ana Maria de Jesus Ribeiro, nota come “Anita”, che gli da quattro figli. Garibaldi rientra in Italia nel 1848, poco dopo lo scoppio della prima guerra di indipendenza, alla quale partecipa come volontario al servizio del governo provvisorio di Milano. Con la sua Legione batte gli Austriaci a Luino e Morazzone.
Dopo la sconfitta piemontese di Novara (22-23 marzo 1849), Garibaldi combatte in difesa della Repubblica Romana, caduta la quale, nel 1849, con la
fedele Anita, tenta di raggiungere la Repubblica di Venezia che ancora reggeva l’urto delle potenze imperiali europee. Giunto alle Valli di Comacchio,
Anita spossata dalla fuga e dalla gravidanza, muore lasciando un grande dolore nel cuore del generale.
Venezia nel frattempo cade e Garibaldi lascia di nuovo rocambolescamente l’Italia e, dopo sei mesi trascorsi ospite dell’ambasciatore piemontese a
Gibilterra, va a New York (agosto 1850) e poi in Perù.
Tornato in Italia nel 1854, compra con un’eredità di 35 mila lire metà dell’isola di
Caprera, dove si dà all’agricoltura ed all’allevamento.
Allo scoppio della seconda guerra d’indipendenza gli viene affidato un corpo di
volontari, i Cacciatori delle Alpi, che guida in una brillante campagna nella
Lombardia settentrionale fino all’occupazione di Como.
Avuto poi l’incarico di controllare il confine con lo Stato della Chiesa tra Rimini e Pesaro,
invade Marche e Umbria. L’iniziativa era prematura ed e viene bloccata. Per evitare imbarazzi, Garibaldi si dimette dal comando in seconda della Lega dell’Italia Centrale.
Nel 1860, Garibaldi compie la più nota ed importante delle sue imprese. Con mille
uomini, parte da Quarto, presso Genova con due piroscafi, il Piemonte e il Lombardo,
sosta a Talamone per rifornirsi di armi e raggiunge Marsala. Il 14 maggio viene accolto con grande entusiasmo a Salemi dove, insieme ai picciotti del barone di Alcamo
assume il dominio della città in nome di Vittorio Emanuele II Re d’Italia e la proclama per un giorno prima capitale d’Italia.
Il 15 maggio, anche col rinforzo di centinaia di volontari, batte i borbonici a
Calatafimi e, il 27 maggio assalta Palermo provocando una insurrezione popolare alla
quale i borbonici reagiscono bombardando i quartieri ribelli. Ma solo un armistizio
consente alla guarnigione borbonica di imbarcarsi e fare ritorno sul continente.
Vinta la resistenza della piazzaforte di Milazzo, e pattuita il 20 luglio una lunga tregua
con la guarnigione di Messina, il 19 agosto i garibaldini sbarcano in Calabria a Melito,
quindi aggirano e sconfiggono i borbonici a Reggio Calabria il 21 agosto. Comincia
una rapida marcia verso nord, che si conclude, il 7 settembre, con l’ingresso in Napoli,
già abbandonata dal re Francesco II, spostatosi con l’esercito a nord del fiume
Volturno. La battaglia del Volturno (1° ottobre) è la più brillante tra quelle combattute da Garibaldi e Francesco II, perse le speranze di recuperare Napoli, si ritira nelle
fortezze di Capua e di Gaeta.
Il 26 ottobre 1860, Garibaldi incontra A Teano Vittorio Emanuele II, che aveva disceso la penisola alla testa dell’esercito regolare piemontese, lo saluta come Re d’Italia e
lo accompagna poi a Napoli il 7 novembre dove gli viene impedito di entrare con le
sue “camicie rosse”. Il giorno seguente, Garibaldi si ritira a Caprera, rifiutando qualsiasi ricompensa per i suoi servigi.
Nelle intenzioni di Garibaldi, convinto anticlericale, la spedizione dei Mille avrebbe
avuto come obiettivo non Napoli ma Roma. Aveva in ogni caso ottenuto un incredibile successo e su quell’onda, nel 1862, organizza una nuova spedizione: imbarcatosi
a Caprera, raggiunge Palermo. Attraversa indisturbato la Sicilia raccogliendo volontari e passa lo Stretto.
Napoleone III, l’unico alleato del neonato Regno d’Italia, aveva posto Roma sotto la
propria protezione. In grave imbarazzo il governo italiano decide di fermare Garibaldi
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1870: Breccia di Porta Pia
1859: Parma vota annessione al Piemonte
1919: Tre battaglioni di bersaglieri disertano e si uniscono ai legionari di Fiume
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1847: Insurrezioni di
Messina e Reggio Calabria
1859: Annessione di
Modena al Piemonte
1870: Proclamata la III
Repubblica Francese
1860: Garibaldi entra a
Napoli
1847: Appello di Mazzini a Pio
IX per unità d’Italia
1870: Lettera di Vittorio
Emanuele II a Pio IX
1920: Carta del Carnaro
1874: Non expedit
1919: Trattato di Saint
Germain
1845: Moti di Rimini
1919: I legionari partono
da Ronchi
1919: D’Annunzio ammette Fiume al Regno d’Italia
in Calabria, schierando contro di lui l’esercito regolare che, sull’Aspromonte, lo intercetta. Ai primi
combattimenti Garibaldi si interpone, gridando ai
suoi di non sparare, ma viene ferito all’anca e al
piede sinistro. Arrestato, Garibaldi venne è rinchiuso nel carcere del Varignano (La Spezia).
Nel 1867 Garibaldi organizza una terza spedizione
su Roma, nota come “Campagna dell’Agro Romano
per la liberazione di Roma” con circa 10.000 volontari: presa, il 26 ottobre, la piazzaforte pontificia di
Monterotondo, non riesce a suscitare la rivoluzione
in Roma e viene sconfitto dalle truppe del papa, aiutate dai rinforzi francesi dotati del fucile Chassepot
a retrocarica, nella battaglia di Mentana. L’Eroe dei
Due Mondi scampa alla cattura grazie a Francesco
Crispi, che lo scorta da Monterotondo in treno fino
a Figline dove è nuovamente arrestato.
Il brutto epilogo della vicenda brucia anche le possi-
1860: Vittoria piemontese
a Castelfidardo
1864: Rivolta torinese contro il trasferimento della capitale a Firenze
1919: Regia nave “Cortellazzo”
giunge a Fiume
SETTEMBRE 2011
bilità di Garibaldi di ottenere un prestigioso alto comando militare da parte di Abrahm
Lincoln nella guerra di Secessione americana.
All’inizio della Terza guerra di indipendenza a Garibaldi è affidato il comando del
Corpo Volontari Italiani con l’obiettivo strategico di tagliare la via fra il Tirolo e la fortezza austriaca di Verona.
Garibaldi attacca a Ponte Caffaro il 25 giugno 1866, il 3 luglio a Monte Suello, mentre
costringe al ripiegamento gli austriaci, è ferito alla coscia per errore da un suo volontario. Si apre, con la vittoria di Bezzecca e Cimego del 21 luglio, la strada verso Riva del
Garda e quindi Trento. Nel frattempo viene firmato l’armistizio di Cormons. Ricevuta
la notizia dell’armistizio e l’ordine di abbandonare il territorio occupato, risponde col
famoso “Obbedisco”.
Durante la guerra franco-prussiana del 1870-1871, Garibaldi guida un corpo di volontari a sostegno dell’esercito della nuova Francia repubblicana. Dopo la resa francese, nel
1871 prende posizione in favore della Comune di Parigi e dell’Internazionale Socialista
ed è eletto deputato alla nuova Assemblea Nazionale francese nelle liste dei repubblicani radicali. L’elezione, tuttavia, viene invalidata dall’Assemblea, col pretesto della contrarietà di Garibaldi all’annessione della Contea di Nizza alla Francia.
Nello stesso anno Garibaldi promuove la prima società in Italia per la protezione degli
animali. Accentua inoltre la polemica anticristiana intervenendo, come ospite d’onore,
a varie riunioni della Società Nazionale Anticlericale. La sua ultima campagna politica
riguarda l’allargamento del diritto di voto.
Nel 1880 ufficializza la sua unione con la piemontese Francesca Armosino, sua compagna da 14 anni che gli
aveva dato tre figli la
prima dei quali, Clelia
Garibaldi, racconterà
«Per le prove d’intrepidezza e bravura nei combattimenti
in un libro “Mio
contro gli austriaci a Varese e Como.»
padre” gli ultimi anni
– maggio 1859
della vita dell’eroe dei
due mondi.
Giuseppe Garibaldi è stato anche insignito della Croce di
Muore a Caprera il 2
Grand’Ufficiale dell’Ordine di Savoia, della Medaglia comgiugno 1882.
memorativa dei 1000 di Marsala e della Medaglia d’Argento
ai Benemeriti della Liberazione di Roma 1849-1870
Medaglia d’Oro al V.M.
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1860: Garibaldi vince sul
Volturno
1860: Plebiscito in Sicilia
1870: Plebiscito a Roma
1866: Trattato di Vienna
NASCE IL REGNO D’ITALIA
L’8 febbraio 1861 Vittorio Emanuele II, con un solenne discorso rivisto da Cavour, inaugurò a Torino il nuovo Parlamento
formato dai rappresentanti di tutti gli Stati e territori italiani
annessi al regno di Sardegna, al fine di esaminare il progetto
governativo di Unità nazionale. Il sovrano rifiutò il titolo di Re
degli italiani con l’ordinale iniziale (Vittorio Emanuele I), da
ché nasceranno successivamente polemiche ancora oggi non
sopite.
Il 17 marzo 1861 firmò con Cavour la legge che, con un unico
articolo, proclamava il Regno d’Italia:
Vittorio Emanuele II, Re di Sardegna, di Cipro e di
Gerusalemme, … OMISSIS ... Il Senato e la Camera
dei Deputati hanno approvato; Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:
Articolo unico.
Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli Atti del governo mandando a chiunque
spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.
“Ma non vi fu — dicono i manuali di Diritto Costituzionale — né in tale occasione, né in alcuna altra antecedente o susseguente, alcuna costituzione ex novo di una entità politica statale. Lo stesso appellativo di Regno d’Italia, assunto con legge
17 marzo 1861 n. 4671, è solo il nuovo nome, più appropriato alla nuova situazione di fatto, assunto dallo Stato Sardo. Per
cui, concludono: L’attuale stato italiano non è altro che l’antico Regno di Sardegna ...”
(Francesco Cesare Casula, Breve storia di Sardegna, pp. 244p-245)
Istituzionalmente e giuridicamente, il Regno d’Italia venne configurandosi come un ingrandimento del Regno di Sardegna,
esso fu infatti una monarchia costituzionale, governato dallo Statuto Albertino concesso a Torino nel 1848; il Re nominava il governo, che era responsabile di fronte al sovrano e non al parlamento; il Re manteneva inoltre prerogative in politica estera e, per consuetudine, sceglieva i ministri militari (Guerra e Marina). Il diritto di voto era attribuito, secondo la
legge elettorale piemontese del 1848, in base al censo; in questo modo gli aventi diritto al voto costituivano appena il 2%
della popolazione. Le basi del nuovo regime erano quindi estremamente ristrette. Nel 1861 il Regno d’Italia si configurava come una delle maggiori nazioni d’Europa a livello di popolazione e di superficie (22 milioni su una superficie di
259.320 km2), ma non poteva considerarsi una grande potenza, a causa soprattutto della sua debolezza economica e politica. Le differenze economiche, sociali e culturali ereditate dal passato ostacolavano l’unità dello stato. Accanto alle grandi città, tradizionalmente industrializzate e in rapida modernizzazione, esisteva un arcaico estesissimo mondo rurale.
Ulteriore elemento di fragilità era costituito dall’ostilità della Chiesa cattolica e del clero nei confronti del nuovo Stato,
ostilità che si sarebbe rafforzata dopo il 1870 con la presa di Roma.
A far fronte a queste difficoltà si trovò la Destra storica, raggruppamento erede di Cavour, espressione della borghesia
liberal-moderata. I suoi esponenti erano soprattutto
grandi proprietari terrieri e industriali, nonché militari
(Ricasoli, Sella, Minghetti, Spaventa, Lanza, La
Marmora, Visconti Venosta). Essi affrontarono i problemi del Paese con energica durezza: estesero a tutta
la Penisola gli ordinamenti legislativi piemontesi (la
“Piemontesizzazione”), da cui nacque un sistema di
governo fortemente accentrato, e affrontarono l’ingentissimo disavanzo del bilancio con onerose tassazioni
sui beni di consumo (tassa sul macinato), che gravava
soprattutto sui ceti meno abbienti. Non affrontarono i
problemi creati dalle notevoli differenze tra il nord e il
Sud, che rimase in condizioni di povertà e arretratezza. Tali condizioni, di quasi estraneità del mezzogiorno
rispetto al nuovo Stato, provocarono una serie di sommosse e rivolte, fino a un’estesa guerriglia popolare
contro il governo unitario, il cosiddetto brigantaggio,
che interessò principalmente le province meridionali
(1861-1865), impegnando gran parte del neonato esercito in una repressione spietata, quasi una guerra civile, uno dei primi e più tragici aspetti della cosiddetta
questione meridionale.
In politica estera, gli uomini della Destra storica vennero assorbiti dai problemi del completamento
dell’Unità. Nel 1864 venne stipulata con la Francia la
Convenzione di settembre, che imponeva all’Italia il
trasferimento della capitale da Torino ad un’altra città;
la scelta cadde su Firenze, suscitando l’opposizione dei
Torinesi.
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1866: La Francia consegna
il Veneto all’Italia
1860: Plebiscito a Napoli
1866: Plebiscito in Veneto
1918: Vittorio Veneto
1860: Incontro di Teano
1867: Garibaldi conquista
Monterotondo
1918: Consiglio Nazionale
Italiano di Fiume
NOVEMBRE 2011
LA TERZA GUERRA D’INDIPENDENZA
Al nuovo Regno d’Italia, proclamato il 17 marzo 1861, mancavano ancora Venezia e Roma, chiave di volta della sua politica estera.
Le crescenti tensioni fra Austria e Prussia per la supremazia in Germania, sfociate infine nel 1866 nella guerra austro-prussiana offrì
l’opportunità di effettuare un consistente guadagno territoriale a spese degli Asburgo. L’8 aprile 1866 il Governo Italiano, grazie anche
alla mediazione della Francia di Napoleone III, concluse una alleanza militare con la Prussia di Otto von Bismarck. I due Stati condividevano nell’Impero Austriaco l’ostacolo ai disegni di unificazione nazionale.
Una volta firmato il trattato con la Prussia, scoppiò una diatriba sull’attribuzione del comando delle forze armate, rivendicato al contempo dal Re, dal generale Enrico Cialdini e dal presidente del Consiglio, generale Alfonso La Marmora. Il 20 giugno, cioè appena
tre giorni prima dell’entrata in guerra, si decise di attribuire la direzione delle operazioni al Re mentre La Marmora fu nominato capo
di stato maggiore. Ma Cialdini, non sentendosi affatto inferiore a La Marmora, reclamava piena libertà d’azione. Alla fine i due generali si accordarono e elaborarono un piano basato sull’ipotesi di un duplice attacco: le truppe agli ordini di La Marmora e del re, numericamente più forti, avrebbero dovuto attraversare da ovest il Mincio ed attaccare le fortezze austriache del Quadrilatero. Cialdini invece, una volta superato da sud il Po, avrebbe dovuto aggirare le fortificazioni austriache e puntare verso Venezia e Padova e da lì con
il concorso della Marina puntare al cuore stesso dell’Impero Asburgico.
Tale disposizione, tuttavia, poneva troppo distanti fra loro i due eserciti con evidenti rischi di coordinamento, confermati dagli eventi successivi. Inoltre, non era stato fissato un obiettivo strategico comune. Ciascuno dei generali credeva che l’altro avrebbe solo fatto
una diversione per costringere il nemico a dividere le proprie forze. In questo caos iniziale il Re risultò del tutto impari al compito di
comandante supremo.
Infine, pesavano come fattori negativi anche la ancora non completa fusione fra il già esercito del Regno Sardo e quello del fu Regno
delle Due Sicilie, e la fortissima rivalità fra le principali marinerie confluite nella Regia Marina, posta sotto il comando del vecchio ammiraglio Carlo Persano, le marine piemontese e napoletana erano scarsamente disposte a riconoscersi “primogeniture” di alcun tipo.
Il 16 giugno 1866 la Prussia iniziò l’ostilità contro l’Austria. L’Italia attaccò il 23 giugno sulle due direttrici previste dai piani. Il capo di
Stato Maggiore generale La Marmora mosse per primo, incuneandosi fra Mantova e Peschiera, ove subì una sconfitta a Custoza il 24
giugno. Ne seguì l’arresto delle operazioni,
con gli italiani che riorganizzavano nel timore di una controffensiva austriaca. Gli austriaci ne approfittarono per compiere due piccole puntate offensive in Valtellina ed in Val
Camonica (battaglia di Vezza d’Oglio). L’esito
generale della guerra venne, tuttavia, determinato dalle importanti vittorie prussiane sul
fronte tedesco, in particolare quella di
Sadowa del 3 luglio 1866, ad opera del generale von Moltke. A seguito di questi avvenimenti gli austriaci ritirarono su Vienna uno
dei tre corpi di armata schierati in Italia e diedero priorità alla difesa del Trentino e
dell’Isonzo.
Il 5 luglio, con un telegramma, l’imperatore di
Francia Napoleone III comunicava l’intenzione di avviare una mediazione generale, che
avrebbe permesso all’Austria di ottenere condizioni onorevoli di fronte alla Prussia, ed
all’Italia di annettere Venezia. La situazione
appariva particolarmente imbarazzante, in
quanto le forze armate non avevano saputo
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1859: Proclama di
Moncalieri
1916: Muore Francesco
Giuseppe
1919: Il Governo italiano si
impegna ad impedire l’annessione di Fiume alla Jugoslavia
1848: Pio IX fugge a Gaeta
guadagnare alcun successo sul campo. Le forze disponibili, d’altra parte, apparivano
consistenti, mentre gli austriaci andavano ritirando truppe verso la difesa di Vienna. Il
governo italiano cercò quindi di guadagnare tempo, ingiungendo, al contempo, al
generale La Marmora di ottenere «...una buona battaglia e per essere in condizioni ancora più favorevoli per la pace».
Il 14 luglio, nel corso di un consiglio di guerra tenuto a Ferrara, si stabilì che il Cialdini
avrebbe guidato un esercito principale di 150.000 uomini avanzando attraverso il
Veneto, mentre La Marmora, con circa 70.000 uomini, avrebbe mantenuto il blocco
sulle fortezze del Quadrilatero. La marina italiana dell’ammiraglio Persano avrebbe
dovuto cercar gloria, uscendo dal porto di Ancona, ma trovò, il 20 luglio, solo una
memorabile sconfitta alla battaglia di Lissa.
Il corpo dei volontari di Garibaldi, rinforzato da una divisione, avrebbe dovuto penetrare a fondo in Trentino, avvicinandosi il più possibile al capoluogo.
Infatti, ora che l’acquisizione del Veneto era certa, appariva soprattutto urgente procedere all’occupazione del Trentino, per non vederselo sfuggire alle trattative di pace.
Enrico Cialdini, col grosso dell’esercito, passò il Po ed occupò Rovigo l’11 luglio, Padova
il 12 luglio, Treviso il 14 luglio, San Donà di Piave il 18 luglio, Valdobbiadene ed Oderzo
il 20 luglio, Vicenza il 21 luglio, Udine il 22 luglio, ma si era dovuto fermare sull’Isonzo poiché, nel frattempo, la Prussia e l’Austria
avevano firmato l’armistizio lasciando l’Italia nelle condizioni di
scegliere se continuare da sola le ostilità o cessarle a sua volta.
Nel frattempo i volontari di Giuseppe Garibaldi si erano spinti dal
Bresciano in direzione di Trento aprendosi la strada il 21 luglio
con la vittoriosa durissima battaglia di Bezzecca, mentre una
seconda colonna italiana guidata dal Medici arrivava, il 25 luglio,
in vista delle mura di Trento.
Queste ultime vittorie italiane vennero tuttavia oscurate, nella
coscienza collettiva, dalla sconfitta di Lissa mentre non erano sufficienti per essere considerate la tanto cercata “buona battaglia”.
La Marmora inviò a Garibaldi un telegramma col quale gli ordinava di fermare la sua avanzata e, solo il 9 agosto, Garibaldi rispose con il celebre «obbedisco».
La cessazione delle ostilità venne sancita all’Armistizio di
Cormons, il 12 agosto, seguito il 3 ottobre 1866 dal trattato di
Vienna secondo i termini del quale, l’Italia guadagnò Mantova, il
Veneto, escluso l’Ampezzano, e il Friuli occidentale. Rimanevano
in mano austriaca il Trentino, il Friuli orientale, la Venezia Giulia
e la Dalmazia. In considerazione della pessima condotta italiana
in guerra, gli austriaci ottennero di consegnare le province perdute alla Francia, che ne avrebbe fatto dono al Regno d’Italia, cosa
che avvenne il 19 ottobre, e fu poi sancita da un plebiscito svoltosi il 21 e 22 ottobre.
Il 4 novembre 1866 i Savoia ebbero consegnata dagli Asburgo la
Corona Ferrea, già usata dai re longobardi, dagli Imperatori del
Sacro Romano Impero Germanico e dallo stesso Napoleone
Bonaparte tutti in quanto Re d’Italia. La corona tornò così alla sua
sede storica nel Duomo di Monza.
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1867: Garibaldi sconfitto a
Mentana
1918: Armistizio di Villa
Giusti
1852: Cavour Primo Ministro
1918: Festa della Vittoria
1866: Gli Asburgo consegnano
la Corona Ferrea ai Savoia
1917: Convegno interalleato di Rapallo
1860: Vittorio Emanuele II
entra a Napoli con Garibaldi
senza le Camice Rosse
1860: Garibaldi si ritira a
Caprera e rifiuta qualsiasi
ricompensa
1917: Il Gen. Cadorna è esonerato da Capo di S.M. L’incarico
è affidato al Gen. Armando
Diaz
1859: Pace di Zurigo
1920: Trattato di Rapallo:
creato lo stato libero di
Fiume
1919: D’Annunzio è a Zara
MEDAGLIA D’ORO AL
VALOR MILITARE del
PRINCIPE UMBERTO DI
SAVOIA
«Per brillantissimo coraggio dimostrato nel condurre la sua divisione al fuoco e per le savie disposizioni date pel suo piazzamento
nel fatto d’armi di Villafranca il 24
giugno»
— 6 dicembre 1866
Il Regno d’Italia dopo la Terza Guerra d’Indipendenza
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1893: Scandalo della
Banca Romana
1917: Gli USA dichiarano
guerra all’Austria
- Immacolata Conc. B.V.M.
1906: Accordo italo-franco-inglese sull’Etiopia
1922: Costituito il Gran
Consiglio del Fascismo
Giacomo Pagliari
Persico (Cr) 1822-1870
Alla sua memoria fu concessa la
Medaglia d’Oro al Valore Militare con
regio decreto del dicembre 1870.
Motivazione: “Per avere con intelligenza
e ammirabile slancio condotto il proprio
battaglione all’attacco della breccia di
Porta Pia, rimanendo a pochi passi da
essa mortalmente ferito. - Roma, 20 settembre 1870.”
ROMA CAPITALE
Il desiderio di porre Roma a capitale del nuovo regno d’Italia era già stato esplicitato da Cavour nel suo discorso al parlamento italiano nel
1860. Fallite alcune trattative tese ad assicurare l’indipendenza del papa e la contemporanea libertà di coscienza dei cattolici, Cavour nel
1861 affermò in parlamento che riteneva che prima o poi Roma sarebbe stata la capitale e, per ottenere il necessario il consenso della
Francia, nell’aprile scrisse al principe Napoleone per aprire, per il suo tramite, trattative in tal senso con l’Imperatore. Le trattative sembrarono avere un buon inizio, però non si poté giungere a conclusione per la morte del grande statista, il 6 giugno del 1861.
Bettino Ricasoli, successore di Cavour, cercò di riaprire i contatti con il segretario di stato vaticano, cardinale Antonelli, con una nota del
10 settembre 1861, ma Antonelli e Pio IX si mostrarono contrari. Allo stallo diplomatico seguirono le azioni di Garibaldi e dei mazziniani:
quella più nota si concluse sull’Aspromonte.
Agli inizi del 1863, il governo Minghetti riprese le trattative con Napoleone III. Si arrivò quindi alla convenzione di settembre che prevedeva il ritiro delle truppe francesi in cambio di un impegno da parte dell’Italia a non invadere lo Stato Pontificio. A garanzia dell’impegno
italiano, la Francia chiese ed ottenne il trasferimento della capitale da Torino ad un’altra città: fu scelta Firenze. L’Italia si riservava completa libertà d’azione nel caso che una rivoluzione scoppiasse a Roma, la Francia accettò, riconoscendo così implicitamente i diritti dell’Italia
su Roma.
Nel 1867 ci fu un primo tentativo, fallito con la battaglia
di Mentana. Il 3 novembre i
francesi
sbarcarono
a
Civitavecchia e si unirono
alle truppe pontificie scontrandosi vittoriosamente con
i garibaldini. Le truppe italiane che, in base alla convenzione, avevano varcato i confini dello stato pontificio, si
ritirarono, mentre i soldati
francesi, nonostante quanto
previsto nella medesima,
rimasero a protezione di
Roma.
Il 14 luglio 1870 il governo di
Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia.
La perdurante presenza di
truppe francesi a Roma fu
una delle cause che impedì
accordi di alleanza militare
fra Francia e Italia. Il 2 agosto
la Francia, cercando di recuperare un rapporto amichevole con l’Italia, si dichiarò
disponibile a ripristinare la
convenzione del 1864 e a ritirare le truppe da Roma, cosa
che avvenne effettivamente a fine agosto. Ma ciò non fu considerato sufficiente dal governo italiano. Quando le vicende della guerra franco-prussiana peggiorarono per i francesi,
e Napoleone III cercò soccorsi in Italia, gli furono negati. Il 4 settembre 1870 cadeva il
Secondo Impero, e in Francia veniva proclamata la Terza Repubblica. Questo stravolgimento aprì di fatto all’Italia la strada per Roma.
Già prima, alla propria richiesta di risolvere la questione romana, la diplomazia italiana
aveva ottenuto assicurazioni oscillanti tra l’aperto favore e la semplice non ingerenza da
parte dei principali governi europei. Sull’opposto fronte, il 20 agosto il cardinale Antonelli
a sua volta aveva inviato una richiesta ai governi stranieri affinché si opponessero «… alle
violenze dal governo sardo (sic!) minacciate …». La maggior parte dei governi si limitò a non
rispondere, altri invece espressero l’opinione che la cosa non li riguardava.
L’Italia costituì il Corpo d’osservazione dell’Italia centrale e lo pose sotto il comando del generale Raffaele Cadorna con disposizioni formalmente tese al semplice mantenimento dell’ordine sul confine, ma con l’implicito invito a che:
«… lo scopo che il governo si propone, sarà pienamente raggiunto».
Il totale dei militari del Corpo arrivò a superare le 50.000 unità distribuite
in cinque divisioni. Lo stato pontificio disponeva di circa 15.000 militari di
varie nazionalità.
L’8 settembre, il re Vittorio Emanuele II inviò un’epistola al “Beatissimo
Padre” in cui esplicitava «… l’indeclinabile necessità per la sicurezza dell’Italia
e della Santa Sede, che le mie truppe, già poste a guardia del confine, inoltrinsi
per occupare le posizioni indispensabili per la sicurezza di Vostra Santità e pel
mantenimento dell’ordine …».
Nella sua succinta risposta, il Papa in particolare scrisse:
«… io non posso ammettere le domande espresse nella sua lettera, né aderire ai
principii che contiene …».
Dopo tre giorni di inutile attesa della dichiarazione di resa, la mattina del
20 settembre l’artiglieria italiana aprì una breccia di circa trenta metri nelle
mura della città, accanto a Porta Pia, che consentì a due battaglioni (uno
di fanteria, l’altro di bersaglieri) di occupare la città incontrando una resistenza poco più che simbolica da parte delle truppe schierate a difesa.
Anche a Roma fu indetto un plebiscito per sancire l’avvenuta riunificazione della città con il Regno d’Italia, che si svolse il 2 ottobre 1870. In tutto
il territorio annesso i risultati furono 133.681 “sì” contro 1.507 “no”.
Gli Stati europei non riconobbero ma accettarono l’azione italiana.
Pio IX invece, condannato aspramente l’atto, si ritirò in Vaticano dichiarandosi “prigioniero” fino alla morte, e intimò ai cattolici - con il celebre
decreto Non expedit - di non partecipare più da quel momento alla vita
politica italiana. Il parlamento italiano, per cercare di risolvere la questione, promulgò il 13 maggio 1871 la Legge delle Guarentigie, con cui si
davano importanti riconoscimenti alla chiesa nel suo insieme, ma il Papa
non accettò la soluzione unilaterale di riappacificazione proposta dal
governo e non mutò il suo atteggiamento. Questa situazione, indicata
come “Questione Romana”, perdurò fino ai Patti Lateranensi firmati l’11
febbraio del 1929.
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1914: L’Italia occupa Valona
1920: L’Esercito italiano sgombra i legionari da Fiume
1920: Natale di sangue
- Natale di Gesù
- s. Stefano
1920: D’Annunzio lascia la
Reggenza di Fiume
1920: D’Annunzio firma la
resa - Lo stato libero di
Fiume è effettivo
“CALENDARIO AZZURRO 2011” inserto redazionale allegato al n. 6/2010 de “IL NASTRO AZZURRO”
Periodico Nazionale dell’Istituto del Nastro Azzurro fra Combattenti Decorati al Valor Militare
Direz. E Amm.: Roma 00161 – piazza Galeno, 1 – tel. 064402676- 064402555 Direttore: Carlo Maria Magnani – Presidente Nazionale dell’Istituto
– Direttore Responsabile: Antonio Daniele – Comitato di Redazione: Carlo Maria Magnani, Antonio Daniele, Giorgio Zanardi, Giuseppe Picca,
Francesco Maria Atanasio, Antonio Teja, Antonio Valeri, Graziano Maron, Federico Vido – Segretaria di Redazione: Barbara Coiante - Autorizzazione
del Tribunale Civile e Penale di Roma con decreto n.° 12568 del 1969 - Progetto Grafico e stampa: Arti Grafiche San Marcello s.r.l. – viale Regina
Margherita, 176 – 00198 Roma - Finito di stampare: novembre 2010
IL RISORGIMENTO
La Rivoluzione francese prima, la grande avventura napoleonica poi avevano sconvolto e distrutto l’ordine che faceva sopravvivere quegli Stati, staterelli, regni e ducati in cui era frammentata la penisola. L’Italia, come scrisse Stendhal, aveva riassaporato, almeno per quanto riguarda i suoi uomini più illuminati, quel gusto per la libertà che avrebbe prodotto inesorabilmente il Risorgimento che, tra mille incertezze e tentennamenti, avrebbe portato alla nascita dell’Italia unita, ultima a raggiungere questo traguardo tra gli Stati europei.
Negli anni seguenti al Congresso di Vienna (1815), con cui si procedette alla cosiddetta “Restaurazione” dei regnanti sui rispettivi troni, dai quali erano stati spodestati dall’ondata libertaria francese incarnata da Napoleone, si assiste, per reazione, al
sorgere confuso e contraddittorio degli ideali risorgimentali. Confuso e contraddittorio
perché ancora oggi è difficile individuare con precisione chi volle in realtà questa
unità: Casa Savoia? I generosi idealisti mazziniani? Le altre potenze Europee? La
volontà corale di un popolo? E proprio questo l’argomento principale approfondito di
più dagli storici: Unità e Libertà furono perseguite con il sostegno delle masse popolari o esse rimasero indifferenti, perfino avverse (come nella tragedia della Rivoluzione
napoletana del 1799), agli ideali di giustizia e libertà importati d’Oltralpe?
Indubbiamente, l’opera della Massoneria, della Carboneria e di tante altre “società
segrete” che all’inizio dell’ottocento proliferarono in tutta Europa, ebbero una grande
influenza nei primi moti rivoluzionari del 1821 e ‘31 che aprirono la via al
Risorgimento. Anche figure come quella di Giuseppe Mazzini ebbero grandissima
importanza, sebbene egli fosse sempre oscillante tra uno spocchioso atteggiamento filo
intellettuale e timidi tentativi, tutti destinati al fallimento pratico, di aprirsi verso un
popolo che raramente poteva comprendere un messaggio così aulico e lontano.
Il Risorgimento ebbe in quel convulso periodo i natali ideali, ma poté effettivamente
tradursi in azione pratica solo quando uno dei regnanti italiani ne sposò la causa: si
trattò di Carlo Alberto di Savoia, che già da principe ereditario, ancor prima di succedere sul trono di Piemonte e Sardegna allo zio Carlo Felice, fece comprendere a tutti
le sue simpatie per la causa italiana.
Carlo Alberto fu incoronato Re nel 1831. Lo ricordiamo anche come ideatore della
Medaglia al Valor Militare, istituita proprio da lui col suo Regio Viglietto del 1833.
Il sovrano non diede subito l’idea di essere il futuro iniziatore dell’indipendenza italiana, anzi, semmai il contrario. Fu solo nel 1845, dopo che Massimo D’Azeglio gli
aveva riferito del suo lungo pellegrinaggio tra le società segrete e le organizzazioni
liberali italiane, che pronunciò il suo famoso proclama “Faccia sapere a que’ signori
che stiano in quiete e non si muovano, non essendovi per ora nulla da fare; ma che
stiano certi che, presentandosi l’occasione, la mia vita, la vita de’ miei figli, le mie
armi, i miei tesori, il mio esercito: tutto sarà speso per la causa italiana”.
Indro Montanelli – Storia d’Italia
LE MEDAGLIE D’ORO, D’ARGENTO E DI BRONZO AL VALOR MILITARE
Le Medaglie d’Oro e d’Argento al Valor Militare vennero istituite
da Vittorio Amedeo III di Savoia il 21 maggio 1793 e soppresse
nell’agosto 1815 con la creazione dell’Ordine
Militare di Savoia da parte di Vittorio Emanuele I,
che le sostituì rispettivamente con la decorazione di
Cavaliere e di Milite dello stesso Ordine Militare di
Savoia.
La concessione della Medaglia d’Oro e d’Argento al
Valor Militare venne ristabilita con Regio Viglietto
del 26 marzo 1833 da re Carlo Alberto per premiare
le bandiere dei Corpi e le azioni di segnalato valore
dei militari di ogni grado delle armate di terra e di
mare che non potessero ottenere l’Ordine Militare di
Savoia per la severità del suo Statuto.
Con R.D. 8 dicembre 1887 Umberto I istituì la
Medaglia di Bronzo al Valor Militare, destinandola a
sostituire la Menzione Onorevole al Valor Militare.
La prima Medaglia d’Oro al Valor Militare dell’Esercito sardo-piemontese, e quindi
dell’Esercito italiano,
venne assegnata alla
Memoria del carabiniere
a
cavallo
Giovan
Battista
Scapaccino per l’atto
di eroismo compiuto
il 3 febbraio 1834 a
Les Echelles, allorché, catturato da una
banda di seguaci di Mazzini invasori che gli intimavano di gridare “Viva la Repubblica”, preferì la morte al disonore rispondendo
con il grido di “Viva il Re!”.
Tra i primi ad essere fregiati della Medaglia
d’Argento al Valor Militare furono i carabinieri a
cavallo Feliciano Bobbio e Carlo Gandini distintisi
individualmente nella stessa circostanza per intrepida azione.
All’atto dell’istituzione delle Medaglie d’Oro e
d’Argento al Valor Militare (26 marzo 1833) venne
anche stabilito un soprassoldo annuo di lire 100 e 50,
portato rispettivamente a L. 200 e 100 con la legge
31 dicembre 1848 a firma Carlo Alberto.
I soprassoldi relativi alle Medaglie d’Oro, d’Argento
e di Bronzo al Valor Militare sono stati poi regolati
da varie disposizioni di legge, tra le quali ricordiamo
le seguenti per il loro succedersi più vicino all’attualità:
– legge 17 marzo 1953 n. 259;
– legge 5 marzo 1961 n. 212, che sostituì la denominazione assegno a quella di soprassoldo, stabilendo annualmente L. 60.000
per la Medaglia d’Oro, L. 18.750 per la Medaglia d’Argento, L.
7.500 per la Medaglia di Bronzo;
– legge 30 ottobre 1969 n. 831: assegno straordinario a vita di L.
(non indicato) per la Medaglia d’Oro, di L. 80.000 per la
Medaglia d’Argento, L. 30.000 per la Medaglia di Bronzo, L.
20.000 per la Croce di Guerra al Valor Militare (ammessa all’assegno straordinario dall’art. 3 della citata legge 5 marzo 1961).
Gli assegni attuali sono stati regolati dalla legge n. 342 dei 1989.
CONCLUSIONE STORICA
L’annessione di Roma al Regno d’Italia e il successivo spostamento della capitale da Firenze alla
città eterna aveva concluso la fase risorgimentale dell’unità d’Italia. Il territorio della penisola era
ormai unificato: mancavano ancora Trento e Trieste e i territori dell’altra sponda dell’Adriatico
appartenuti per secoli alla repubblica di Venezia.
Si dovettero attendere circa 45 anni prima che, con lo scoppio della grande guerra, si ripresentasse l’occasione di allargare il confine orientale verso le terre “irredente”. In tale lasso di tempo, il
neonato stato italiano si dedicò a “… fare gli italiani …” come ebbe a dire Cavour all’indomani
della vittoriosa impresa dei mille. Gli eventi più importanti del periodo sono:
– le prime imprese coloniali italiane tra cui l’amaro ricordo della sconfitta di Adua, che pure non
impedì di allargare i possedimenti africani;
– le grandi opere pubbliche, tra cui la costruzione in circa vent’anni dell’intera rete ferroviaria italiana, grazie a ingenti finanziamenti bancari, alcuni “dirottati” ad altri scopi (scandalo della
Banca Romana, antesignano dei futuri scandali economico politici italiani);
– l’assassinio del re Umberto I° da parte dell’anarchico Gaetano Bresci;
– la guerra italo turca che portò all’Italia l’acquisizione della Libia, di Rodi e del Dodecaneso,
quali possedimenti coloniali nel Mediterraneo.
In pratica, il neonato stato italiano unitario si stava rapidamente conquistando un ruolo di potenza medio grande sulla ribalta internazionale con pari dignità nei confronti degli altri stati nazionali europei di molto più antico lignaggio. In tale contesto, maturò l’atteggiamento meno apertamente ostile nei confronti dell’Italia dell’impero austro ungarico, ormai non più la massima potenza europea, atteggiamento che portò alla stipula della “Triplice Alleanza” (20 maggio 1882), trattato diplomatico militare “a carattere difensivo” in funzione anti francese ed antirussa tra Austria,
Germania e Italia. A quest’ultima venne riconosciuto, in caso di conflitto vittorioso con conquiste nei Balcani per l’Austria, il diritto ad annettersi le città irredente di Trento e Trieste ancora saldamente in mano austriaca.
L’Italia si trovò ad aderire al trattato poiché, nonostante la questione non risolta delle terre irredente, aveva notevoli convergenze politiche con l’Austria nel controllare i paesi balcanici, in particolare la Serbia, che stava rapidamente intraprendendo una politica di espansione verso l’Adriatico, assolutamente non gradita e pericolosa sia per l’Italia, sia per l’Austria.
Francia e Russia, insieme alla Gran Bretagna, stipularono il trattato della “Triplice Intesa” (1907) che aveva più o meno le stesse finalità nei confronti dell’Alleanza.
Il delitto di Sarajevo (28 giugno 1914), in cui il principe ereditario Francesco Ferdinando d’Asburgo in visita ufficiale di stato in Serbia fu assassinato con la moglie, precipitò la
situazione e il conflitto, in pochi mesi, deflagrò. L’Italia, legata all’Alleanza, poté inizialmente evitare il coinvolgimento poiché l’Austria prese l’iniziativa, quindi la funzione “difensiva” del trattato lo rendeva non applicabile alla situazione dei fatti. In realtà, gli interessi italiani si erano rapidamente spostati in funzione anti austriaca, mentre il rischio dell’espansionismo serbo sembrava essersi ridimensionato alla luce del conflitto in corso.
Mentre infuriavano i combattimenti, in Italia si faceva sentire sempre più forte la voce degli “irredentisti”, inizialmente una minoranza di estremisti che vedevano nella guerra
all’Austria l’atto finale del Risorgimento ormai stancamente lasciato ad un passo dalla sua conclusione, che in pochi mesi,
ingrossarono sempre di più le proprie file giungendo a fare notevole pressione sull’opinione pubblica, costantemente timorosa delle avventure militari.
Le iniziali vittorie dell’Alleanza, fecero seguito ad un rapido contenimento da parte francese e russa, favorito anche dalla
neutralità italiana. L’Austria, molto a malincuore, offrì all’Italia compensi territoriali in trentino e Venezia Giulia (escluso
Trieste) purché essa intervenisse nel conflitto. Il governo alzò la posta a Trieste e al Sud Tirolo (l’attuale Alto Adige) ottenendone uno scontato rifiuto, utile solo a giustificare il via a trattative segrete con l’Intesa.
La segretezza e la lentezza delle trattative, dovute prevalentemente a cause di politica interna, resero le potenze dell’Intesa
molto caute nei confronti dell’Italia. Anche la garanzia delle concessioni territoriali richieste dall’Italia in caso di vittoria,
molto più sostanziose, quasi esagerate, non venne accettata subito: si opponeva soprattutto la Russia che sperava di estendere il proprio controllo su tutte le popolazioni slave dei Balcani. L’Italia, giocando al rialzo su entrambi i tavoli diplomatici dell’Intesa e dell’Alleanza, infine ottenne, con la firma del patto di Londra (26 aprile 1915), la promessa da parte dell’Intesa
di: Trento, il Sud Tirolo, Trieste con le Alpi Giulie, tutta l’Istria, gran parte della Dalmazia, Valona con mezza Albania, il
Dodecaneso (già posseduto, ma contestato dall’Inghilterra per conto della Turchia) e successive spartizioni coloniali in Africa a spese della Germania. Era molto di più di quanto
l’Austria, anche volendo, potesse offrire. L’Alleanza venne rotta e, non senza ulteriori ritardi, l’Italia entrò in guerra dichiarandola alla sola Austria, il 24 maggio 1915.
Tre anni e mezzo di prova terribile, seicentomila morti, tre milioni e mezzo di feriti dei quali mezzo milione di mutilati e invalidi permanenti, e una crisi economica senza precedenti servirono per ottenere la gloria di Vittorio Veneto a seguito della quale l’Italia sedette al tavolo dei vincitori alla conferenza di pace di Parigi.
Alla conferenza, che si svolse nella reggia di Versailles, l’Italia trovò nel presidente americano Woodrow Wilson un accanito contestatore delle annessioni forzate in area balcanica, poiché egli sosteneva nei suoi famosi 14 punti, che i territori dell’Istria e della Dalmazia e Valona col suo entroterra, che il Trattato di Londra prevedeva che fossero assegnati all’Italia, contenevano oltre un milione di cittadini slavi, non italiani, che in base al principio di autodeterminazione dei popoli, non potevano essere assegnati ad una diversa
nazione come in una partita a scacchi.
L’Inghilterra e la Francia non avevano preclusioni a rispettare il trattato di Londra nei confronti dell’Italia, ma non volevano inimicarsi gli Stati Uniti, l’unica potenza mondiale in
grado di aiutarli ad uscire dalla terribile crisi economica post bellica. La rottura fu inevitabile e l’Italia si ritirò dalla conferenza. Le colonie tedesche furono spartite tra Francia ed
Inghilterra, senza riguardi all’Italia.
La conferenza si trascinò tra mille cavilli e polemiche, ma l’Italia, infine dovette accontentarsi di Trento, il Sud Tirolo, Trieste, parte della Venezia Giulia, Zara e qualche isolotto
della costa dalmata. La delusione fu grande. Gabriele D’Annunzio, parlando apertamente di “Vittoria Mutilata”, diede il via all’impresa dei legionari di Fiume con la quale, superando le clausole del trattato firmato tanto faticosamente dalla diplomazia italiana, riuscì, tra alterne
vicende, a consegnare, infine, anche la città istriana,
con tutto il suo retroterra, all’Italia. Ma ciò avvenne
solo nel 1924, con il governo di Mussolini che stava
ormai consolidando il suo potere mentre le potenze
europee lo osservavano con quell’iniziale timorosa
attenzione che gli permise di ottenere con un abile
colpo di mano diplomatico e militare ciò che era già
previsto dal patto di Londra e anche una piccola concessione coloniale, l’Oltregiuba, sempre rivendicata
come previsione del già citato patto di Londra.
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