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L’EPPI TRA PASSATO E FUTURO: INTERVISTA AL PRESIDENTE VALERIO BIGNAMI
Welfare, previdenza, sostegno alla professione, ma anche necessità di confrontarsi con il “mondo
reale” e non con la sola cosiddetta “economia reale”: intervista a Valerio Bignami, Presidente
dell’Ente di Previdenza dei Periti Industriali e dei Periti Industriali Laureati
Risposte alle esigenze di natura previdenziale, ma anche a questioni professionali e sociali prodotte
da un contesto, economico e non solo, sempre più complesso, competitivo e mutevole: questo – a
vent’anni dalla loro costituzione - il ruolo delle Casse privatizzate agli occhi dei loro iscritti, che agli
Enti istituiti con il D.lgs. 103/96 fanno oggi riferimento in un’ottica di welfare integrato,
personalizzato e flessibile. Non solo di previdenza e assistenza quindi, ma anche di mercato del
lavoro e sostegno alla professione abbiamo parlato con Valerio Bignami, Presidente Eppi, per
tracciare un bilancio, tra passato e prospettive future, dell’attuale situazione delle Casse privatizzate
italiane. Senza dimenticare il ruolo determinante dei policy makers e le possibili ripercussioni, in
termini operativi ma non solo, di due provvedimenti che presto potrebbero vedere la luce: il Testo
Unico sugli enti previdenziali privati, che a breve sarà presentato in Parlamento, e lo schema di
decreto sugli investimenti delle Casse privatizzate, in pubblica consultazione dal 2014, ma del quale
si erano perse le tracce.
La previdenza privata ha da poco compiuto vent’anni: quale il bilancio per Eppi? E come, a suo
avviso, è cambiato il sistema delle Casse in questi primi venti anni?
La nostra è una Cassa molto giovane, la cui costituzione fa riferimento al D.Lgs. 103/96. Questi primi
vent’anni sono serviti per consolidare una struttura autonoma e soprattutto per stabilizzare i vari
sistemi contributivi degli iscritti (nel 2019, il 18% di contributo soggettivo e il 5% di contributo
integrativo). Abbiamo ottenuto importanti riconoscimenti, la possibilità di distribuire parte del
contributo integrativo sui montanti individuali (100% negli anni 2012-2013, 80%, in fase di
approvazione, per gli anni 2014-2015), e inoltre, a fronte di dimostrata sostenibilità finanziaria, di
riconoscere una rivalutazione dei montanti superiore a quella di legge (media quinquennale del PIL).
Quindi sostenibilità dei conti, ma anche adeguatezza delle prestazioni.
Oggi si pongono nuove esigenze, anche condizionate dallo scenario socio-economico
profondamente mutato. La priorità va alla creazione di un sistema assistenziale strutturato e
organico rispetto alle peculiarità della nostra categoria: occorre sostenere innanzitutto il lavoro,
perché se non c’è lavoro non c’è previdenza.
Va detto poi che il mondo delle Casse, in questi ultimi anni, ha fatto passi da gigante in tema di
aggregazioni e ciò ha aumentato sicuramente l’autorevolezza nei confronti della politica. C’è però
tanto da lavorare, è necessario rinunciare al proprio particolare ed essere più disponibili a mettere
a fattor comune i nostri patrimoni di idee, progetti, servizi. Oltre a ciò il mondo delle professioni
deve comunque conquistare credibilità ed autorevolezza nei confronti della società civile che ancora
oggi, troppo spesso, ci guarda con diffidenza e ci considera dei privilegiati e tutelati. Al contrario, le
professioni ordinistiche sono una garanzia per la collettività e i singoli cittadini.
Quali le peculiarità di Eppi nell’approccio alla funzione affidata e nell’assetto di governance che
vi siete dati?
Senza fare confronti fuorvianti e non necessari, peculiarità di Eppi è sicuramente il forte sistema di
assistenza che, ritengo essere già oggi, al netto di ulteriori rafforzamenti, il più alto in assoluto (oltre
400 € per iscritto).
Per quanto riguarda la governance, direi invece che siamo fra le poche Casse ad aver introdotto
limiti ai mandati degli organi e incompatibilità con altre cariche istituzionali ricoperte nella categoria
rappresentata. La governance di tutto il sistema Casse, mi permetto di dire, è troppo vecchia: è
necessario che i protagonisti siano i giovani, c’è necessità di un cambio generazionale.
Lavoro e welfare sono strettamente correlati: se manca l’uno non c’è l’altro. Come vede il futuro
della professione del perito e quali le misure che metterete in campo per il sostegno al lavoro?
La nostra categoria ha fatto una scelta importante e carica di responsabilità per il suo futuro: dal
2021 all’albo professionale si potranno iscrivere solo coloro che avranno conseguito una laurea
triennale. È una scelta che potrebbe rilanciare la professione di perito industriale o portarla
all’estinzione. Nei prossimi anni, tuttavia, ci sarà sempre più necessità di tecnici specialisti nei vari
settori tecnologici, nell’innovazione industriale ed energetica. Il nostro sistema produttivo ha un
bisogno enorme di tecnici intermedi per cui siamo molto fiduciosi per il nostro futuro.
L’Eppi, in particolare, rappresenta coloro che svolgono la libera professione: sarà importante nei
prossimi anni sostenere i giovani che decidono di avviare un’attività, nella fase sia di attivazione
che di consolidamento. Dovremo indagare la possibilità di sostenere la formazione continua,
incentivare le forme societarie per l’esercizio della professione, sostenere i nostri colleghi con più
esperienza e mettere in campo quei tirocini che i nuovi corsi delle lauree professionalizzanti
richiedono; creare una rete di servizi sempre più immediati e qualificati necessari allo svolgimento
dell’attività professionale.
La sfida previdenziale è forse quella che più preoccupa i professionisti. Oltre al grosso impegno
profuso su questo fronte, giungendo anche a soluzioni innovative, quali mosse ulteriori pensate
di intraprendere e attraverso quali interlocuzioni?
Le soluzioni innovative consistono essenzialmente nell’efficientare e adeguare quello che già
facciamo. In particolare, nel settore assistenziale creare strumenti che premino chi ha veramente
bisogno e penalizzino i “professionisti delle rendite”, che anche nella nostra categoria esistono. Non
solo Eppi, ma pure l’intero sistema, deve essere molto accorto a non trasformare l’assistenza
nell’assistenzialismo.
Sul fronte previdenziale dovremo mettere in campo una forte azione di formazione per far capire ai
giovani che alla previdenza è necessario pensarci a trent’anni, e non a cinquanta, quando non c’è
più nulla da fare. Tutti constatano la profonda “ignoranza” che esiste nel nostro Paese in materia
previdenziale e finanziaria, ma purtroppo ai proclami non seguono le azioni, non esiste un percorso
formativo obbligatorio, dove queste materie vengano insegnate. Per quel che riguarda il
funzionamento del sistema, mi preme invece sottolineare che il sistema contributivo è forse
“avaro”, ma fondamentalmente “onesto e giusto”, perché permette di percepire in funzione di ciò
che si è effettivamente accantonato.
Diverse azioni permetterebbero però di migliorare il sistema: rendere la governance degli enti
sempre più efficiente, efficace e professionale, anche qualificando sempre di più gli organi di
governo; ridurre le spese per il mantenimento delle strutture e per il funzionamento degli organi
direttivi; aggregare sempre più funzioni e servizi fra le varie Casse per ridurre i costi e aumentare
l’efficienza; combattere con determinazione l’evasione professionale e previdenziale. A questo
proposito, è un atto di responsabilità riconoscere che il nostro sistema su questo punto è stato
troppo tollerante e permissivo.
A proposito di politica e istituzioni, l’atteggiamento nei confronti delle Casse è cambiato in
questi anni? E su quali presupposti si guarda al futuro, quali le prossime sfide che vi vedranno
impegnati?
Troppo spesso, l’atteggiamento generale della politica nei confronti del sistema previdenziale
privato sembra quello del “terreno di conquista”. Non si accetta che il sistema privato dimostri
efficienza e che assolva meglio dello Stato alle funzioni previdenziali, senza un euro di contributo
pubblico. Anche gli inviti continui agli investimenti nell’economia reale sono strumentali a esigenze
particolari che, a volte, non hanno nulla a che vedere con l’economia reale, una sorta di alibi per
indirizzare i nostri investimenti in particolari settori d’interesse.
La nostra prossima sfida? Difendere la nostra autonomia e rivendicare i legittimi diritti, se
necessario non con il solo rapporto dialettico, ma pure con l’azione giudiziaria. È triste doverlo
ricordare, ma i provvedimenti più significativi per le Casse sono sempre stati conseguenti a ricorsi
alla magistratura ai vari livelli e, ad esempio, anche per l’iniqua doppia tassazione che ci riguarda,
sarà inevitabile ricorrere alla Corte di Giustizia Europea. Non è pensabile e soprattutto non è degno
di uno Stato di diritto leggere nella relazione illustrativa alla proposta del Testo Unico, che sì la
doppia tassazione dovrà essere superata, perché ingiusta, ma che le attuali condizioni della finanza
pubblica non permettono l’eliminazione. È un concetto aberrante, che ha insito in sé un sapore
autoritario (ed è un termine credo elegante).
Quale dunque il giudizio complessivo sulla bozza di Testo Unico di riordino della normativa sugli
enti previdenziali privati e sullo schema di decreto sugli investimenti?
Sul Testo Unico esprimo un giudizio profondamente negativo. Dopo due anni di ascolto, la
Commissione Bicamerale ha prodotto un testo contrario a tutte le istanze del mondo previdenziale:
si chiedeva la semplificazione, ma l’unico passaggio positivo è stata l’introduzione del silenzioassenso per l’approvazione dei vari provvedimenti da parte dei ministeri vigilanti; per il resto si
danno nuovi poteri ad organi che già oggi intervengono nel controllo e nella vigilanza.
Ancora, si rivendica l’autonomia e invece nulla è stato introdotto per quanto riguarda la definizione
del nostro essere “privati”, addirittura si impone la fusione degli enti con un numero inferiore di
60.000 iscritti. Si ridimensionano gli organi direttivi limitando la partecipazione democratica
all’autogestione degli enti, mai s’introducono proposte che potrebbero portare alla legittimazione
degli interventi a sostegno del lavoro professionale. Si fa poi una grande confusione, anche tecnica,
tra professioni ordinistiche e professioni raggruppate in associazioni professionali.
Il nuovo 166 credo, invece, che abbia due grossi limiti: da un lato, la definizione di percentuali
quantitative rigide sui vari settori d’investimento e, dall’altro, l’obbligo di adeguamento alle
percentuali indicate degli investimenti in essere e passati entro tempi molto ristretti. Per
un’economia così mutevole e condizionata da fattori esogeni a volte anche molto umorali e
contingenti, come si fa a introdurre una rigidità così forte? C’è bisogno casomai di maggiore
flessibilità e possibilità di intervenire con immediatezza per correggere azioni non più aderenti alle
esigenze dei vari investimenti. Regole arcaiche per un mondo che si trasforma alla velocità della
luce.
Sia chiaro che queste affermazioni non devono essere confuse con la negazione di regole e
controlli. Noi chiediamo meno controlli ma più sostanziali, chiediamo semplificazione nei
provvedimenti e nelle regole ma, nello stesso tempo, interventi di vigilanza efficaci e incisivi anche
introducendo sanzioni per i responsabili inadempienti. Dovremmo confrontarci sulla qualità
complessiva, non su rigide e inattuali percentuali. A volte mi viene il dubbio che sia più facile
controllare uno schema rigido di paletti, che entrare in valutazioni qualitative. Il mondo esterno
cambia, la politica no e la divergenza è sempre più grande: credo si debba non più parlare di
“economia reale”, ma di “mondo reale”.
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