1 #23/24 ANTROPOLOGIA MUSEALE ETNOGRAFIA PATRIMONI CULTURE VISIVE [LÉVI-STRAUSS PER ME: DENSI RICORDI, TESTIMONIANZE E ANALISI] [INTERVISTA A REMOTTI E FABIETTI] [FIELDWORK A PANDORA] [GALLERIA: museografia NATIVA ALLA BIENNALE] [IL PROFILO DEL DEMOETNOANTROPOLOGO] [INSTALLAZIONE ETNOGRAFICA] [ANTROPOLOGIA DELLE COSE CHE CAPITANO] [RICORDI: ANTONINO UCCELLO] [L’ANNO DEI MEZZADRI] [IL CORPO POSTORGANICO] Angioni, Bargna, Cannada Bartoli, Broccolini, Canevacci, Carosso, Cirese, Clemente, De Palma, de Sanctis Ricciardone, Dei, Fabietti, Faeta, Ferracuti, Frasca, Guido, Herzfeld, Ikejezie, Jones, Kezich, Lai, Lattanzi, Lutzu, Mantoani, Marazzi, Mariotti, Meloni, Mithlo, Niola, Njami, Padiglione, Palumbo, Pennino, Pizza, Putti, Ragazzi, Remotti, Sobrero, Teti, Tiragallo, Truglia, Tucci, Vereni quadrimestrale|anno 8|numero 23/24|autunno-inverno 2009|e 12,00|ISSN 1971-4815 Spedizione in A.P.D.L. 353/2003 (convertito in L. 27/02/04 n. 46) art. 1 comma 1-DCB-BO In caso di mancato recapito inviare a Imola UDR per la restituzione al mittente previo pagamento “resi” sommario soglia pag. 3 La mia odissea Kaius Ikejezie editoriale ospite sulla scena pag. 6 Gli antropologi delle lettere pag. 7Fieldwork a Pandora. Riflessioni sulle audience globali e la perdita del punto di vista del nativo Piero Vereni pag. 19 Lévi-Strauss per me: densi ricordi, testimonianze e analisi pag. 20 Vincenzo Padiglione e Ugo Fabietti / Francesco Remotti pag. 32 Incontri, attraversamenti Vito Teti, Giulio Angioni, Rossella Ragazzi, Felice Tiragallo, Antonio Marazzi, Marinella Carosso, Roberta intervista Lévi Strauss per me Tucci, Franco Lai, Gianluca Mantoani, Fabio Dei, Giovanni Pizza pag. 38 Commenti e istruzioni per l’uso Lévi Strauss per me pag. 38 Centouno, ottantotto, cinquantotto Alberto M. Cirese pag. 40 Il Mazziere Paola de Sanctis Ricciardone pag. 42 Lo sguardo Francesco Faeta pag. 44 Cosa ricordare Alberto Sobrero pag. 45 L’operatore patrimoniale Berardino Palumbo pag. 47 Fra cognitivismo e pratica sociale Vincenzo Cannada Bartoli pag. 49 Della musica Marco Lutzu pag. 49 Amava il Quai Branly... Giovanni Kezich pag. 51 Art Premier Ivan Bargna pag. 53 Saudade Massimo Canevacci pag. 54 Sono ancora Bororo? Maria Camilla De Palma pag. 55 Il profeta dell’antropologia Marino Niola pag. 59 E la società “moderna” Michael Herzfeld pag. 60 Un autunno e un’estate trent’anni dopo Pietro Clemente pag. 61 Blogging Piero Vereni pag. 63 Spigolando tra i coccodrilli: della ricordanza e della dimenticanza Alessandra Broccolini pag. 66 Opera aperta Vincenzo Padiglione galleria pag. 70 Arte nativa americana contemporanea alla biennale di Venezia Elisabetta Frasca pag. 72 Elisabetta Frasca intervista Nancy Marie Mithlo Elisabetta Frasca pag. 77Inclusione ed esclusione: la presenza nativa americana alla biennale di Venezia,1999-2009 Nancy Marie Mithlo pag. 79 “Rendezvoused”. Incontri di culture Tom Jones pag. 82 Identità mobili Pietro Clemente cose che capitano pag. 86 Appiglio e zavorra: per un’antropologia di quel che succede Nadia Truglia e Piero Vereni arte e antropologia pag. 88Il sapere della terza mano di Stelarc. La cultura materiale di un corpo post-organico Pietro Meloni pag. 92 “Reversed Ethnology”: Simon Njami commenta il sistema arte/cultura Sandra Ferracuti dal mibac pag. 96 Questioni di “profilo professionale” Vito Lattanzi e Luciana Mariotti (con un’intervista a Manuel Guido) lessico pag. 99 Installazione etnografica: un genere di comunicazione visiva Vincenzo Padiglione ricordi pag.102 Vivere poeticamente Gaetano Pennino bacheca pag.111 In evidenza a cura di Rosa Anna Di Lella recensione pag.115 “Monti Moments” di Michael Herzfeld Riccardo Putti sparatrap pag.116 L’anno dei mezzadri Pietro Clemente 99 Vincenzo Padiglione (Sapienza Università di Roma) lessico installazione etnografica: un genere di comunicazione visiva Sottratta al gergo militare, emancipata da un uso puramente tecnico, la nozione di installazione ha conquistato nell’ultimo mezzo secolo un crescente successo, tanto da divenire una parola chiave del presente culturale. Individua un genere artistico che a noi antropologi dovrebbe interessare, in quanto ha veicolato e promosso una concezione alternativa, contestuale e interattiva, delle forme espressive, specificamente delle arti plastiche. Opera totale, lavoro tridimensionale che incorpora oggetti disparati (materiali scultorii, ready-made, video) e caratteristiche del luogo in una rappresentazione di un loro imprevisto, temporaneo legame; artefatto con la missione di evocare pensieri, ricordi e sensazioni, progettato per alterare la percezione dello spazio e ristrutturare l’esperienza sensoriale del visitatore, che è stimolato e considerato parte integrante dell’opera. Questi elementi di definizione rendono improprio, sicuramente parziale, ricondurre all’interno del campo artistico le complesse suggestioni e le potenzialità applicative dell’installazione. Che, del resto, ormai da tempo costituisce un dispositivo cardine della museografia contemporanea, ovvero di quell’ibrido tra scienza ed arte che per definizione “fa in grande” ciò che l’installazione “fa in piccolo”: ricontestualizza ciò che ha decontestualizzato, arrangia oggetti collezionati, inscrive testimonianze in luoghi sociali specifici. E questa analogia rende più trasparente l’inedito scenario di un avvicinamento del fare artistico a quello curatoriale. Proprio nell’enfasi sul fare, questa nozione dimostra un ulteriore potente tratto innovativo. Che la cultura e l’arte vengano designate da una pratica, da un’azione di per sé non sublime, non riconducibile ad una musa, ma semmai più connessa all’agire quotidiano, è a mio avviso un indizio rivelatore: il segno non tanto di una distanza rispetto all’idealismo da sempre in agguato in questo genere di discorsi, quanto soprattutto di una più stretta connessione dell’opera con la vita. Nel duplice verso sia di forzare lo statuto dell’arte, di oltrepassarne i confini, sia di estetizzare l’esistenza anche nelle sue scene più ordinarie e banali; entrambi fenomeni ravvisabili da tempo nella cultura contemporanea e per noi antropologi di grande interesse (si pensi alle installazioni nelle vetrine e nei grandi magazzini). Se cerchiamo di rintracciare la storia dell’installazione come genere espressivo ci accorgiamo che la fase aurorale viene collocata agli inizi del secolo passato, segnatamente nel surrealismo di Duchamp (1887-1968), mentre la stagione del definitivo debutto e dell’affermazione del nome è stabilmente individuata negli anni ’60, nelle opere di autori come Ed Kienholz (1927-1994) e Joseph Beuys (1921-1986). Accomuna questi artisti la messa in scena di composizioni perturbanti, più che suggestive, in grado di sovvertire l’attesa convenzionale del bello, di alterare in senso riflessivo il contratto impli- dall’alto e da sinistra: Museo della Mezzadria Buonconvento (SI) Museo Tetrapotos - Monticchiello (SI). QUI SOTTO: Museo del Brigantaggio - Itri (LT). 100 qui sotto: Ludus, Museo Etnografico del Giocattolo - Sezze (LT). Museo Ettore Guatelli - Ozzano Taro (PR). Museo delle Scritture - Bassiano (LT). EtnoMuseo Monti Lepini (LT). M/useo/* *etnografico - /Seravella/ (Bl). citamente stipulato dal visitatore. Questi, con la sua azione – interpretazione, è atteso e magnificato dall’opera, che lo ricerca per completarsi. Il suo corpo mobile diviene protagonista all’interno di un ambiente sensibile e controllato di oggetti, luci, suoni e immagini. Il suo coinvolgimento emozionale e cognitivo, con le implicate aspettative culturali, inscrive ancor di più vita e contemporaneità in un’opera ormai fuoriuscita dal suo in sé formale. Come dire che gli effetti provocati sullo spettatore concorrono a formare il giudizio di rilevanza in modo non certo minore rispetto ai tratti compositivi dell’opera. L’installazione attesta così una svolta nel segno del postmoderno, dei suoi “generi confusi”, delle sue compiaciute retoriche (sovvertire autorità culturali e consolidate gerarchie rimuovendo bacheche, pannelli e piedistalli). Testimonia un alleggerimento delle convenzionali polarità forma/contenuto, arte/documentazione. Rende esplicita l’avvenuta frammentazione di totalità (cultura, storia, comunità…) – ma anche la tentazione di proporre a livello micro unità compatte, contesti a loro modo suggestivi e armonici. Soprattutto l’installazione testimonia l’interiorizzazione di storia, antropologia e semio­ tica nell’azione espressiva tanto da degradare ad artefatto banale tutto ciò che suscita un piacere estetico pacificato, non in grado di incorporare valenze conoscitive e commento critico (Eco 1962). Che spesso nelle installazioni di arte contemporanea (Sophie Calle, Boltanski, Studio Azzurro…) sia facile avvertire per un antropologo una certa aria di famiglia, percepire quello sguardo intimo e defamiliarizzante, simpatetico e ironico verso identità e culture, che l’etnografia ha introdotto nel Novecento, quel gusto intrusivo di penetrare nelle vite altrui mettendo in gioco riflessivamente la propria, quel radicale dar voce, rappresentazione, traduzione a mondi vessati e marginali che dialogano in modo irrelato con il nostro, è esperienza ricorrente che dovrebbe spingerci a capire come la nostra prospettiva si sia in modo vitale disseminata, ovvero si sia felicemente intrecciata con saperi strategici, ibridata in pratiche del presente. Del resto, i linguaggi di alcuni movimenti artistici hanno tratto ispirazioni – come è noto per il cubismo, il surrealismo, il cinema verità – dalle opere testuali, museali, fotografiche e filmiche degli antropologi, esplorando i mondi del quotidiano, la tensione del familiare che si fa straniero (e viceversa), le vite degli esclusi, il flusso della storia inscritto nei gesti, nelle parole, nelle cose e nei materiali più anonimi, le narrazioni implicate negli “oggetti trovati” e d’affezione (Clemente e Rossi 1999). Ne sono emerse nuove potenti risorse dell’immaginario (presenti nella cultura di massa e nella pubblicità) che offrono oggi agli antropologi un repertorio di estetiche, anche grazie al quale comporre installazioni, scenografie, proporre poetiche idonee ad interrogare il contemporaneo. Rivendicare una presenza dell’etnografia nella storia dell’arte e in installazioni artistiche non è operazione di archeologia delle idee ma di individuazione di un terreno comune contemporaneo (spesso un’area di confine irta di conflitti e giustapposizioni) in grado di stimolare e accogliere sperimentazioni audaci nel campo etnografico di mostre e musei. È quanto hanno creduto e praticato negli ultimi anni alcuni antropologi museali all’interno di grandi e piccoli istituzioni, all’estero come in Italia. Loro è stato il tentativo di torcere le installazioni – la loro interna contraddittoria vocazione a mettere in scena la situazione e il frammento, il coordinamento e la dissonanza – alla sensibilità antropologica ricorrendo a contestualizzazioni stilizzate e ironiche ma non meno dense e polifoniche, a concrezioni visive e auditive di compiuti resoconti di ricerca, a sfondi globali dai quali far risaltare figure locali della resistenza e delle creatività. Sarà opportuno in altra sede dar conto in dettaglio dei tipi e caratteri della sperimentazione praticata dalla museografia etnografica, di realizzazioni ed esperienze maturate, di arti e saperi messi in campo, dei modi locali in cui si usa e si reinventa l’installazione. Qui sembra necessario affermare che la differenza tra installazione artistica ed etnografica appare questione di grado e di intenzionalità nel posizionamento all’interno del campo dinamico e conflittuale della cultura. Un’installazione, per riconoscersi etnografica, potrebbe seguire e comunicare molteplici strategie: produrre visioni dall’interno con una sensibilità simpatetica e straniante; tradurre temi ed estetiche locali in forme espressive (es. narrazioni) pertinenti e sperimentali, mantenendo aperta la possibilità di sempre possibili comparazioni; donare enfasi visiva alle interpretazioni altrui, estendendo così il campo della conoscenza ad esperienze sociali sinora escluse; stimolare dialogo e cooperazione in ogni fase (ricerca, progetto, allestimento, frui- 101 zione), offrire una seconda vita ai linguaggi della documentazione ricercando per loro un’inedita ribalta… Credo che le installazioni etnografiche possono trarre vantaggio dai concetti di Risonanza e Meraviglia. Stephen Greenblatt (1990) ha evidenziato la ricorrenza nell’ambito artistico e letterario di due atteggiamenti verso gli artefatti culturali. La risonanza individua “il potere che ha un oggetto messo in mostra di estendersi oltre i suoi confini formali verso un mondo più vasto, di evocare in chi guarda le complesse e dinamiche forze culturali da cui è emerso e da cui può essere assunto come metafora o almeno come metonimia”. La meraviglia (wonder) segnala “la capacità di un oggetto di imporre a chi guarda di fermarsi, di trasmettere un senso ineludibile di unicità, di evocare un’attenzione accentuata all’estremo” (Greenblatt 1995: 27-45). Si tratta di due distinte strategie espositive. La meraviglia concentra la focalizzazione, costruisce enfasi sull’oggetto così da provocare l’attenzione puntuale del visitatore. La risonanza slarga la prospettiva, convoca collegamenti espliciti ed impliciti con diversi tipi di documentazione dilatando il campo di riferimento che l’osservatore è invitato ad assumere come necessario e pertinente. Segnala giustamente Ivan Karp “Quasi tutte le esposizioni usano l’uno e l’altro tipo di strategia […] L’efficacia, il buon esito dell’esposizione nel comunicare esperienze o trasmettere conoscenze dipende dal modo in cui entrambi gli atti della rappresentazione e della mediazione raggiungono il loro obiettivo” (Karp 2005: 87). Meraviglia più Risonanza costituirebbero quel dispositivo generatore del ritmo, del movimento intermittente, proprio della modalità di fruizione da parte del visitatore di museo. L’installazione etnografica sembra prodursi al meglio nel rifiuto di collocarsi solo a livello della Meraviglia o della Risonanza. Le esposizioni contemporanee tendono a mio avviso a sporcare la purezza di entrambi i tipi ideali, a forzare le loro identità, ad intrecciare le strategie, ad ibridare le installazioni anche in virtù di una convergenza tra linguaggi espositivi e linguaggi della documentazione, tra indagine scientifica e ricerca estetica. Stanno così originandosi tipi misti, modelli impuri che potremmo denominare di Risoniglia (pannelli, diagrammi, ed altri dispositivi di contestualizzazione che ambiscono ad assumere, in virtù di interventi materici, grafici, ecc. una valenza espressiva, quasi un valore in sé) e di Meravanza (opere singole che si fanno attraenti e riflessive evocando contesti di produzione e portando incorporato il commento). Concluso il periodo degli allestimenti scarni e poveristici, delle scenografie dall’evidente effetto presepe, come anche delle esposizioni caratterizzate da lenzuolate di pannelli informativi, la nostra museografia etnografica, divenuta nel frattempo più interpretativa e meno condiscendente verso l’International style (Padiglione 2008), scopre nell’installazione un dispositivo duttile che può – se impiegato con rigore – riconnetterci alle storie e pratiche del contemporaneo. È da scommetterci che darà evidenza a nostre specifiche attitudini relativistiche in tema di etica, di conoscenza e di risorse espressive. È da sperare che morda di più il sociale agendo ad un tempo come zona di contatto e di frizione (Karp, Kratz, Szwaja 2006), linguaggio del riconoscimento e della critica culturale. Riferimenti bibliografici Clemente, P. - Rossi, E., a cura (1999), Il terzo principio della museografia. Antropologia, contadini, musei, Roma, Carocci. Eco, U. (1962), Opera aperta, Milano, Bompiani. Greenblatt, S. (1995), “Risonanza e meraviglia”, in I. Karp e S. Lavine, a cura, Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, Bologna, Clueb: 27-45. Karp, I. (2005), “Oggetti reali, esperienze simulate e differenze culturali”, in C. Ribaldi, a cura, Il Nuovo Museo, trad. A. Serra, Milano, Il Saggiatore. Karp, I. - Kratz, C.A. - Szwaja, L., a cura (2006), Museum Frictions: Public Cultures/ Global Transformations, Duke University Press. Padiglione, V. (2008), Poetiche dal museo etnografico. Spezie morali e kit di sopravvivenza, Imola, Editrice La Mandragora. QUI SOPRA: Museo del Brigantaggio del Lazio settentrionale - Cellere (VT). Museo del Carbone - /Miniera/ di Serbariu - /Carbonia (CA). Museo del Carbone - /Miniera/ di Serbariu - /Carbonia (CA). Museo del Sale - Cervia (RN). Museo del Brigantaggio del Lazio settentrionale - Cellere (VT).