Spazio e povertà: prospettive di analisi Giampaolo Nuvolati Il tema del rapporto tra la povertà e lo spazio può essere declinato attraverso varie prospettive analitiche. Ognuna di queste prospettive tratta lo spazio in modo diverso ed ha alle spalle tradizioni di studi e di ricerche altrettanto differenziate e piuttosto consolidate. In linea di massima è possibile distinguere i seguenti ambiti di approfondimento. Il primo riguarda la caratterizzazione dello spazio in termini fisici e più espressamente in termini di qualità e quantità delle infrastrutture. Volendo declinare questo approccio in altrettante domande che un ricercatore può porsi ci troveremmo di fronte ai seguenti quesiti: Quale è il livello di densità territoriale della popolazione dell’area oggetto di studio? Quale è la metratura media delle abitazioni dell’area stessa? Quale è il livello di inquinamento? Quale è la dotazione di servizi di base o secondari? Nella possibilità di individuare soglie standard ottimali cui far riferimento potremmo potenzialmente dividere la città in quartieri diversamente dotati, appunto sotto il profilo spaziale-infrastrutturale e da lì stimare le condizioni di benessere e disagio. Va da sé che non necessariamente troveremo una corrispondenza esplicita tra le caratteristiche del contesto spaziale e le condizioni di vita delle popolazioni che lo abitano, né tantomeno, laddove questa corrispondenza esiste, sarà facile stimare la direzione del nesso di causalità tra benessere e qualità dello spazio. Se cioè sia il benessere a determinare la forma della città o viceversa. Su questi temi si sono spesso confrontati architetti, urbanisti, geografi, sociologi che nonostante i buoni propositi di interdisciplinarietà hanno spesso fatto ricorso a vocabolari e codici analitici inconciliabili. Possono peraltro essere collocati in questo alveo anche gli studi di sociologia urbana che si sono occupati di analizzare, in chiave comparativa, la qualità della vita delle città. La letteratura in materia è pressoché sterminata, in continua evoluzione, e può forse essere dominata affidandosi al sito dell’ISQOLS (International Society for Quality of Life Studies: http://www.isqols.org/) o più in particolare consultando la rivista storica del cosiddetto Movimento degli indicatori sociali, mi riferisco a Social Indicators Research (Nuvolati 2003) Un secondo approccio parte dal presupposto che lo spazio incide sulla povertà in termini di ambiente sociale, economico e culturale nel quale vengono a definirsi le traiettorie di marginalità. Lo spazio diviene ambiente nel senso più lato del termine, luogo dove di volta in volta il tessuto sociale si indebolisce o si rinforza, dove la cultura della criminalità si infiltra o viene debellata, dove più in generale le patologie sociali trovano diversa espressione. Questa tradizione di studi ha preso le mosse prima dalla teoria della morfologia sociale di Durkheim come sostrato su cui riposa la vita sociale, e, successivamente, dalla scuola di Chicago (anni ’20) che tendeva a valutare le componenti biotiche e culturali di adattamento della popolazione alla 1 vita riscontrabile nei vari quartieri, a stimarne i processi di invasione, conflitto e successione da parte dei vari gruppi sociali. Tale approccio denominato ecologia umana ha contribuito, tra l’altro, allo sviluppo della ricerca sulla povertà e l’esclusione sociale utilizzando come dispositivo teorico ed empirico interpretativo quello delle aree naturali. L’attenzione è stata in particolare rivolta alla distribuzione e concentrazione urbana del disagio, al processo di stigmatizzazione dei quartieri, agli stili di vita che si configurano nelle varie parti della città, alle dinamiche di ingresso e fuoriuscita delle famiglie da un quartiere all’altro. Le evoluzioni più recenti dell’ecologia umana hanno però assunto un carattere diverso. Hawley (1944) in particolare tenterà di ricollocare l’ecologia umana nel filone principale del pensiero ecologico teorizzando la scarsa rilevanza dello spazio. Come osserva Saunders (1981: 113): «Ciò che era specifico della ecologia umana non era, perciò, il suo interesse per la comunità fisica umana, quanto piuttosto l’interesse per un particolare processo: quello dell’adattamento delle popolazioni umane all’ambiente, attraverso la differenziazione funzionale» In base a questo presupposto l’ambiente fisico fungerebbe da semplice contenitore passivo di dinamiche biologiche e sociali che lo trascendono e tendono ad un sostanziale equilibrio. Peraltro, la crescente valenza accordata al principio della omeostasi e alla natura evoluzionistica del cambiamento nel sistema tenderà a determinare una convergenza tra ecologia e funzionalismo parsonsiano in una chiave da diversi autori, tra cui Castells (1974), giudicata come ideologica. Sta di fatto che, da specifico approccio sociologico legato alla territorialità di fenomeni sociali, la scuola di Chicago e, più in generale, l’ecologia umana sono diventate nel tempo patrimonio della intera disciplina sociologica ma hanno in tal modo rinnegato proprio una loro specificità venendo, di fatto, a convergere tout court con la sociologia generale. Più recentemente, nel ribadire la distintività di parti della città in base a caratteristiche culturali, sociali se non storiche, la sociologia urbana ha alimentato la riflessione sul welfare locale, sulle politiche adottabili in vari contesti urbani, sulle strategie di sopravvivenza tipiche di alcune comunità. Il riconoscimento del territorio come valore aggiunto tanto nella spiegazione dei fenomeni sociali quanto nell’avvio di politiche mirate ha indubbiamente contribuito a rivitalizzare la disciplina (Guidicini 2000). Non è peraltro sufficiente realizzare case study riguardanti alcuni quartieri di città per poter affermare che si sta operando nel campo esclusivo della sociologia urbana. Il problema di fondo resta piuttosto quello di individuare, anche in chiave comparativa, le peculiarità dei contesti, così come occorre considerare spazio e tempo categorie sociologiche vere e proprie, individuandone e valutandone il peso nella spiegazione dei 2 fenomeni sociali, congiuntamente con altre dimensioni che interessano il territorio oggetto di analisi. Il dibattito sulla spazialità, non spazialità e a-spazialità della sociologia urbana ha trovato un punto alto di discussione intorno al libro di Saunders, Social Theory and Urban Question del 1981 e ha avuto alcuni echi anche nel nostro paese come si desume dall’ultimo capitolo del manuale di Mela Sociologia della città (2006), capitolo dedicato appunto alla sociologia urbana spazialista. Pensiamo che uno degli esiti di tale dibattito sia stato in Italia il fiorire di un campo di analisi che si è proposto di recuperare il più possibile la componente spaziale nella spiegazione dei fenomeni sociali. Questi studi hanno in particolare cercato di fare dello spazio una variabile indipendente, non solo dunque la conseguenza delle dinamiche sociali, ma anche la loro fonte. I concetti che subentrano prepotentemente in gioco sono quelli di mobilità, di accessibilità spazio-temporale dei servizi, di tempi d’uso della città e reclamano la costruzione di nuovi indicatori e misure per stimare il benessere e l’organizzazione delle comunità, oltre ad una crescente necessità di georeferenziazione e mappatura dei fenomeni. Capitale economico-infrastrutturale e capitale sociale non sono più sufficienti a garantire la qualità della vita se le modalità di uso e consumo della città obbligano le persone a percorrenze e attese stressanti, a situazioni di isolamento o eccessiva densità abitativa. Per usare i concetti di Sen (1987, 1993), una comunità ricca di beni, risorse e servizi ma con un basso tasso di utilizzo e dunque di conversione degli stessi in funzionamenti concreti (functionings), non garantisce benessere, al di là della possibilità di scelta (capabilities). Sono proprio lo spazio e il tempo a costituire spesso i motivi di alterazione e frizione. Queste difficoltà di conversione peraltro caratterizzano non solo le grandi città, ma anche quelle medie (Nuvolati 2007a). L’estensione quasi illimitata della maglia urbana, la formazione di edge city, l’affermarsi di stili di vita fondati sugli spostamenti quotidiani per motivazioni varie e, non ultima, la diffusione della tecnologia, reclamano in sintesi una analisi capace di integrare le variabili sociologiche tradizionali con quelle maggiormente afferenti il territorio nelle sue componenti più fisiche. Su queste lunghezze d’onda, e più in particolare sulla possibilità di accreditare di indipendenza la variabile spaziale nella spiegazione dei fenomeni sociali di povertà si colloca anche l’elenco di dimensioni individuate da Moroni (2001) e riguardanti la localizzazione e concentrazione della povertà stessa. Nel tentativo di legittimazione dello spazio fino ad ora condotto ci sembra, peraltro, che vengano ad incrociarsi due livelli analitici: il primo, quello sul quale abbiamo maggiormente insistito, sposta l’attenzione sulla fisicità dei fenomeni sociali alla ricerca di regole generali, il secondo, che seppur meno comunque non scompare, privilegia invece la specificità territoriale, anche in termini culturali e storici, sempre come spiegazione dei fenomeni sociali. A mò di esemplificazione: a Napoli la povertà, nelle sue molteplici sfaccettature, assume probabilmente 3 connotati diversi nei Quartieri Spagnoli e a Scampia perché i due quartieri presentano profili morfologici e hanno alle spalle avvenimenti fortemente differenziati, a parità di certe condizioni economiche. Quello che occorrerebbe favorire è una lettura simultanea delle due traiettorie, e cioè stimare come le regole generali che legano lo spazio e il tempo alla povertà vengono a modificarsi a seconda del contesto in cui sono ambientate. Ciò indurrebbe, peraltro, il ricercatore ad altalenare tra due piani metodologici cui faremmo cenno anche più avanti: uno di natura quantitativo-descrittivo (gli indicatori sociali) ed uno di carattere qualitativo-interpretativo (la storia e la cultura dei luoghi). Resta un ulteriore filone di ricerca che merita considerazione proprio perché rappresenta una sintesi delle valenze fisiche e culturali del territorio. In questo filone, lo spazio, come somma di segni, di mappe mentali costruite individualmente, vi prende rilievo ma prevalentemente nei suoi caratteri simbolici, nei landmark che lo rendono riconoscibile e rassicurante, nei segni che determinano le identità e le forme di attaccamento più o meno deboli. Lo spazio, qui inteso come luogo, non parla allora da solo ma grazie al filtro della percezione e alla cultura di chi lo legge. Resta dunque un fatto sociale o psicologico, ma ancorato fortemente alla materialità dei manufatti. Come osserva Gasparini (2000) la fisicità dei luoghi (la pietra, il muro) anche nella loro palpabilità restituiscono certezza di essere, in una sorta di sicurezza che è prima biologica e poi sociale. E’ attraverso la simbolizzazione che il significato supera la natura fisica che, a sua volta, lo sostanzia. Ma questa fisicità non scompare. Il colore delle case, l’altezza degli edifici, la presenza e dimensione di monumenti, di targhe commemorative, l’intimità delle piazze, etc. sono innervate di significati, contribuiscono ad alimentare il patrimonio mnemonico della comunità proprio in quanto forme specifiche legate ad oggetti altrettanto precisi. Non è, come ovvio, una questione di estetica, non è la città bella e moderna, funzionale a costituire motivo di interesse; è piuttosto la città unica, capace di fortificare il senso di appartenenza e di identità dei suoi cittadini a rappresentare il tema di analisi. Numerosi sono gli autori che hanno lavorato sul concetto di identità di luogo e di cui Walmsley (1988) offre una rassegna. Come in particolare affermano Proshansky, Fabian e Kaminoff (1983: 73): «L’identità di luogo rappresenta l’insieme di cognizioni sull’ambiente fisico nel quale l’individuo vive che servono a definire, mantenere e proteggere l’identità di una persona e comprende un forte attaccamento emotivo a particolari luoghi». E Norberg-Shultz (1979: 21) riporta al riguardo un esempio interessante: «Gerhard Kallmann, un architetto americano nato in Germania, raccontò una volta una storia che illustra bene cosa questo significhi. Visitando alla fine della seconda guerra mondiale la nativa Berlino, dopo molti anni di assenza, desiderava vedere la casa dove era cresciuto; come poteva aspettarsi, a Berlino la casa era scomparsa, e il signor Kallmann si sentì smarrito. Poi all’improvviso 4 riconobbe la tipica pavimentazione del marciapiede, le pietre su cui aveva giocato da bambino, e provò una forte emozione, come se fosse tornato a casa». Entrambi gli esempi sono raccolti anche da Migliorini e Venini (2002) che propongono una interessante panoramica sul rapporto tra individuo e ambiente fisico-sociale. In questo quadro, il recupero e l’attualizzazione del pensiero di Lynch in Immagini di città (2006) diventa imprescindibile, e accanto a questo testo classico della urbanistica tutta la tradizione degli studi di psicologia dell’ambiente che hanno trovato crescente sviluppo anche nel nostro paese (Bonnes, Bonaiuto e Lee 2004) sebbene le matrici disciplinari di riferimento siano rintracciabili in altri contesti. In particolare, sul piano più didattico e filosofico, si può distinguere tra una scuola francese di géographie psychologique (più legata ad una psicologia fenomenologica dei sistemi di significazione ed alla tradizione antropologica psicoanalitica) ed una scuola anglosassone di behavioral geography (più vicina ad una psicologia comportamentistica a base di leggi dell’apprendimento e parametri stimolo-risposta) (Bianchi e Perussia 1982). Se nel primo filone menzionato in questo articolo, quello che riguarda il territorio come insieme infrastrutturato, è la mancata dotazione (fredda) di beni e servizi a determinare la povertà, se nel secondo è l’ambiente socio-culturale e la rete dei legami a generare marginalità, in questo ultimo approccio la povertà diviene tipica di quei luoghi omologati e omologanti, spogli di simboli e segni (caldi) di riconoscimento. In questa prospettiva i pieni e i vuoti che determinano le condizioni di povertà assumono connotati diversi dando vita a tipologie altrettanto diverse di quartieri Caratteri dello spazio fisico Dimensione Lo spazio fisico come infrastrutturale organizzazione funzionale e dotazione di servizi Dimensione sociale ed economica Dimensione simbolica Lo spazio fisico come contenitore del disagio e della marginalità sociale Lo spazio fisico come base per la rappresentazione simbolica Situazioni di povertà Carenza di spazi privati e pubblici, scarsa qualità/manutenzione degli edifici, mancata dotazione o scarsa accessibilità dei servizi, isolamento spazio-temporale del quartiere rispetto alla città, qualità ambientale Legami sociali deboli, patologie sociali diffuse (tossicodipendenza, criminalità, prostituzione) Carenza di segni di riferimento, anonimato degli spazi, turn-over frequenti di attività 5 Combinazioni degli elementi nella determinazione della povertà 1 2 3 4 Dimensione Positiva Positiva Positiva Positiva infrastrutturale Dimensione Positiva Positiva Negativa Negativa sociale ed economica Dimensione Positiva Negativa Negativa Positiva simbolica Dimensione infrastrutturale Dimensione sociale ed economica Dimensione simbolica 5 Negativa 6 Negativa 7 Negativa 8 Negativa Negativa Negativa Positiva Positiva Positiva Negativa Negativa Positiva Tipologia di quartieri in base alle combinazioni 1 Quartiere a ridotta povertà sotto tutti i punti di vista (quartieri riqualificati) 2 Quartiere funzionale, dove sono state eliminate le forme di patologia sociale ma dove sono stati anche cancellati i segni della memoria (quartiere gentrificato a vantaggio della piccola borghesia in ingresso) 3 Quartiere funzionale, dove però non sono state debellate le forme di patologia sociale e sono stati anche cancellati i segni della memoria (quartiere riqualificato ma problematico per la presenza di figure devianti) 4 Quartiere funzionale e che ha mantenuto i segni della memoria ma che è attraversato da nuove problematiche sociali (quartiere del centro con presenza di popolazione deviante in alcuni momenti della giornata) 5 Quartiere scarsamente funzionale con forme di patologia sociale ma dove non sono stati cancellati i segni della memoria o punti di riferimento (quartiere popolare problematico) 6 Quartiere con condizioni negative sotto tutti i punti di vista (quartiere periferico di estremo degrado) 7 Quartiere dove sono state debellate le forme di patologia sociale ma che ancora risulta scarsamente funzionale e dove sono stati cancellati i segni della memoria o punti di riferimento (quartiere oggetto di politiche sociali e di pubblica sicurezza ma non riqualificato nel complesso) 8 Quartiere che nonostante la ridotta funzionalità non presenta segnali di degrado sociale e di perdita di riferimenti identitari (quartiere popolare non problematico) I filoni sopra illustrati lasciano intravedere sullo sfondo metodologie di indagine molteplici. Per quanto riguarda il primo approccio ci sembra che il ricorso agli indicatori sociali (sia di natura oggettiva che soggettiva), cioè all’insieme di statistiche e dati che a vari livelli di elaborazione contribuiscono ad una descrizione quantitativa del territorio e dei fenomeni che vi trovano configurazione, rappresenti lo strumento privilegiato (Zajczyk 2003) La statistica è stata 6 anche l’esito cui è approdata la scuola di Chicago, però in una fase successiva alle prime ricerche viceversa caratterizzate da un taglio fortemente qualitativo, di indagine sul campo attraverso interviste in profondità, raccolta di diari, documentazione storica e storie di vita, osservazione partecipante (Rauty 1995). Questo taglio va sicuramente conservato e semmai maggiormente tarato prendendo come oggetto di analisi non solo ed esclusivamente gli individui che popolano una comunità, ma anche le caratteristiche del territorio sul quale la comunità stessa insiste. Infine, la psicologia dell’ambiente per la stima dei livelli di identità e attaccamento alla comunità da parte dei suoi abitanti ha fatto prevalentemente ricorso ad interviste con questionari strutturati su campioni ristretti di popolazione spesso in una ottica sperimentale. C’è per concludere un metodo di perlustrazione della città che è particolarmente caro a chi scrive e che riguarda la figura del flâneur di baudelariana e benjaminiana memoria: lo scrittore, l’artista, il poeta che perdendosi nella città riesce a catturare e rappresentare il genius loci di alcuni quartieri, così come la vivibilità degli stessi (Nuvolati 2006). Davvero considerevole è stato il ritorno di questa figura in una società urbana tardomoderna sempre più caratterizzata da confuse trasformazioni quotidiane, da una segmentazione crescente dei comportamenti, dal prevalere delle micro-storie sulle cosiddette grandi narrazioni; fenomeni tali da lasciarsi bene interpretare dal passo della letteratura congiuntamente con le tecniche delle scienze sociali. Peraltro il nesso tra i due ambiti è fortissimo, proprio a partire dalla scuola di Chicago che risulterà fortemente influenzata nelle sue ricerche da una certa letteratura naturalistica di cui scrittori come Dreiser e Sinclair furono espressione. Pare che lo stesso Marx consigliasse a Engels di leggersi Balzac (sì, proprio il monarchico e conservatore Honoré de Balzac!) per capire la società del tempo. Ma come applicare questo approccio all’analisi del rapporto tra spazio e povertà? Immaginando, ad esempio, perlustrazioni libere del territorio che siano mirate a leggere in presa diretta le modalità di uso e consumo dello spazio da parte delle popolazioni che vivono nelle aree marginali. Da Pasolini a Biondillo - per citare solo due scrittori flâneur, uno molto noto, l’altro in ascesa, ma entrambi accomunati dal desiderio di farsi cantori della città nelle sue contraddizioni anche la nostra letteratura ha conosciuto narrazioni di borgate, di periferie, di interstizi metropolitani, narrazioni capaci di fornirci uno spaccato circa la dimensione spaziale della povertà nelle sue tre facce: funzionale, sociale e simbolica. Sotto il profilo operativo, le riflessioni finora condotte spingono in direzione di una cartografia tematica multistrato intesa come possibilità di legare in chiave geo-referenziata la povertà alle caratteristiche dello spazio fisico-infrastrutturale, alla questione sociale e al contesto 7 simbolico. In tale direzioni vanno già alcune delle esperienze più avanzate1. Accanto a tale approccio sembra svilupparsi anche la necessità di allargare il campo delle rilevazioni non solo alla popolazione residente, ma anche a quella di passaggio nelle città. Sfortunatamente grande è ancora il divario tra la teorizzazione su questi temi e la disponibilità di informazioni statistiche (Nuvolati 2007b). Alla consapevolezza che le nostre città, cambiano dal giorno alla notte, non corrisponde ancora di fatto un sistema di indagine capace di cogliere la composizione sociale dei quartieri nei diversi momenti della giornata e dunque i bisogni variegati che in essi trovano forma. Le ricerche di Lynch (1976) e Goodchild e Janelle (1984) volte a ricostruire la caratterizzazione oraria dei quartieri costituiscono riferimenti importanti che non sembrano comunque aver ottenuto grande seguito nel nostro paese2. Lynch, in particolare, studiando la città di Boston, distingue i quartieri in base alla ciclicità giornaliera della presenza umana sul territorio urbano di riferimento individuando: - aree contraddistinte da un uso continuo e omogeneo da parte delle popolazioni che insistono su di esse e vengono pertanto definite incessant areas, - aree che vedono processi di evacuazione nelle ore notturne, empty at night, - aree che, al contrario, registrano un'invasione a partire dalle ore serali, active especially at night; - aree, infine, che vedono un uso continuo ma di natura eterogenea, shifting from day to night. Se coniughiamo la tipologia di Lynch ed in particolare le tematiche della evacuazione e della invasione rispetto ad una serie di problemi sociali che interessano le città: problemi di sicurezza pubblica, di inquinamento, di dotazione di servizi, di impoverimento delle relazioni sociali dovute al quotidiano turn over delle popolazioni residenti e non, ci rendiamo conto della valenza del tempo, oltre che dello spazio, nel segnare i livelli di patologia e disagio dei quartieri. Questa tipologia può essere applicata a molte realtà urbane contemporanee che tendono a strutturarsi e a trasformarsi rispetto ad una pluralità di funzioni e al conseguente modificarsi giornaliero della struttura sociodemografica, come nel caso di Halifax in Canada studiato da Goodchild e Janelle facendo ricorso a diari spazio-temporali. In sintesi, il rapporto stesso tra 1 Si rimanda qui al paper di Mauri di illustrazione di due recenti progetti che hanno operato in direzione di una mappatura più articolata della qualità della vita. 2 Più precisamente si potrebbe affermare che la dimensione temporale rappresenta un tema di crescente interesse per la sociologia contemporanea, ma che non ha determinato una territorializzazione sistematica delle analisi temporali; in questa direzione ha lavorato maggiormente la disciplina dell’urbanistica che a sua volta però ha privilegiato la ricerca sull’organizzazione urbana e i suoi attori istituzionali, trascurando o delegando nuovamente la sociologia allo studio delle cause e delle conseguenze sociali dei mutamenti orari. La fusione tra i due approcci ha trovato peraltro realizzazione nella creazione di un Centro Interateneo sui Tempi che ha principalmente coinvolto la Facoltà di Sociologia dell’Università degli studi di Milano Bicocca e la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. 8 spazio, servizi e fruitori è una componente ad alta variazione quotidiana e che richiede metodi di analisi temporale della realtà urbana. Leggere la povertà nei quartieri riconoscendone la morfologia/specificità territoriale e le trasformazioni temporali di breve, medio e lungo periodo, recuperando in tal modo anche la tradizione di studio dell’ecologia umana inerente i processi di invasione, adattamento e successione, costituisce una prospettiva di riflessione e di ricerca tanto interessante quanto difficile da condurre, ma a cui è sempre più difficile rinunciare nel tentativo di interpretare e governare la complessità urbana. Bibliografia Bianchi E. e Perussia F., 1982, Il centro di Milano: percezione e realtà. Una ricerca geografica e psicologica, Edizioni Unicopli, Milano. Bonnes M., Bonaiuto M. e Lee T., 2004, Teorie in pratica per la psicologia ambientale, Raffaello Cortina, Milano. Castells M, 1974, La questione urbana, Marsilio, Venezia, Gasperini A., 2000, Sociologia degli spazi. Luoghi, città, società, Carocci, Roma. Goodchild M. F. e Janelle D. G., 1984, “The city around the clock: space time patterns of urban ecological structure”, Environment and Planning, A, 16, pp. 807-820. Hawley A., 1944, “Ecology and human ecology”, Social Forces, 22, 144-151. Lynch K., 1976, Managing the Sense of a Region, MIT Press, Cambridge (Mass.). Lynch K., 2006, L’immagine della città (1960), Marsilio, Venezia. Migliorini L. e Venini L., 2002, Città e legami sociali. Introduzione alla psicologia degli ambienti urbani, Carocci, Roma. Moroni S., 2001, “Aree di povertà”, Aa.Vv., Tecnologia e società. Sviluppo e trasformazione della società, Accademia dei lincei, Roma, pp. 277-287. 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