editoriale Con questo numero dicembrino si chiude un’annata di jazzColours davvero emozionante: hanno impreziosito le nostre pagine le interviste a Craig Taborn, Matana Roberts, Ellery Eskelin, Javier Girotto, Omar Sosa, Mats Gustafsson, Andrew D’Angelo, solo per riferirci ad alcune delle copertine di questi mesi. È stato un anno impegnativo, caratterizzato anche da vari avvicendamenti redazionali: ringraziamo per l’impegno mostrato chi alla fine è andato via, e diamo un caloroso benvenuto a chi si è unito a questa nostra avventura. Ci aspettano undici mesi ricchi di jazz e di novità. Vorremmo fare di più, ma i nostri mezzi al momento sono limitati e già così diamo fondo a tutte le nostre risorse umane e di tempo. E nonostante ciò, siamo convinti di essere riusciti a ritagliarci un piccolo spazio rivolto ad un tipo di musica improvvisata che altrove, sia su carta che sul web, viene trattata solo incidentalmente. Questo mese jazzColours si sofferma su uno dei pianisti più interessanti della sua generazione, Stefano Battaglia: intenso e poetico, a tratti “avant” ma sempre attento e connesso all’universo culturale, filosofico-letterario e musicale, che ci circonda. Quindi il batterista Dan Weiss, provetto suonatore di tabla che ha trasferito le scansioni tipiche di questo strumento al fraseggio del proprio drumset. Ed infine il gioHighlights vane sassofonista norvegese Marius cover Neset, una vera esplosione di suoni Stefano Battaglia le vie dei canti e colori. Molto interessante anche Enzo Boddi la pittura a volte visionaria di PaSpotlight/1 scal Martos per il Jazz&Arts. Dan Weiss i molteplici ritmi del mondo Sul versante delle recensioni, Antonio Terzo molti avventurosi musicisti: da Dave Douglas a Wadada Leo Smith, Spotlight/2 da nuove leve come Koptor o Led a Mairus neset aurea esplosione di jazz senatori come Enrico Intra, fino ai Marco Maimeri Five Elements di Steve Coleman e jazz & arts al Resonance di Ken Vandermark, Pascal Martos il realismo visionario del jazz quest’ultimo oggetto del Marco Maimeri Black&White. recensioni CD E dal momento che torneremo a Focus on Dave Douglas So Percussion BaD Mango trovarci il prossimo anno, fino ad i 5 dischi imprescindibili di glauco Venier allora buona lettura, buone vacanze e buon 2012 a tutti voi. Black & White sommario dicembre ’11 4 8 14 19 23 26 33 The Resonance Ensemble KafKa in flighT Enzo Boddi e Antonio Terzo Antonio Terzo 34 Eventuali JazzColo[u]rs | dicembre ’11 3 highlights united states canada japan britain europe Detroit, non solo Motown di Alain Drouot Ci sono nuove ricerche continuano a gettare ombre sul vero luogo di nascita del jazz. Almeno, ci sono adesso abbondanti prove che l’attività musicale testimoniata fra la fine del XIX e il XX secolo per tutto il paese ebbe un qualche collegamento con il jazz. Detroit non fa eccezione, sebbene l’attuale situazione della città finisca spesso per oscurare il fatto che essa ha conosciuto una lunga storia musicale che non può essere ridotta semplicemente alla musica R&B/Soul dell’etichetta Motown. Si tende infatti a dimenticare che alcuni grandi del jazz come Yusef Lateef, Curtis Fuller, Charles McPherson, Ron Carter o Barry Harris sono “prodotti” della Motor City, come Detroit è spesso soprannominata. Come molte altre città americane, Detroit ha avuto difficoltà a trattenere i suoi musicisti jazz. Dalla sua creazione nel 1960, al suo trasferimento a Los Angeles nel 1972, la Motown è stata capace di garantire costantemente e pagare bene il lavoro dei jazzisti, i quali potevano fare sessions di registrazione ed anche tours con i più grandi nomi in circolazione. Ma quei giorni sono adesso belli che andati. Un’eccezione di rilievo a quell’esodo è rappresentata dal trombettista Marcus Belgrave, il quale ha trascorso ben quattro anni in tournée con Ray Charles. Come educatore, è stato mentore di una dotata generazione di musicisti jazz, inclusi la pianista Geri Allen, la violinista Regina Carter, i sassofonisti James Carter e Kenny Garret ed i bassisti Bob Hurst e Rodney Whitaker. Belgrave è anche un attivista e ha fondato la Detroit Jazz Musicians Co-Op, un’organizzazione creata per promuovere il lavoro dei musicisti locali. La scena di Detroit non ha mai lavorato in modo isolato ed è rimasta in con- 4 JazzColo[u]rs | dicembre ’11 Yusef Lateef tatto con quello che andava accadendo nel resto del paese, specialmente con Chicago, distante soltanto quattro ore. L’Association for the Advancement of Creative Musicians, per esempio, ha avuto non poco impatto sul batterista Toni Tabbal, che da Chicago si è trasferito alla Motor City, il bassista Jaribu Shahid, che adesso suona con il pluriancista Roscoe Mitchell, il batterista Dushun Mosley o il chitarrista Spencer Barefield e il sassofonista Faruq Z. Bey, che vivono e lavorano ancora a Detroit. A dispetto della vocazione economica della città, la comunità jazzistica di Detroit ha mostrato una certa capacità di recupero che si è materializzata nei recenti sforzi fatti per prevenire la chiusura di quello che potrebbe essere il più antico jazz club del mondo, il Baker’s Keyboard Lounge. Ed oltre agli sforzi portati avanti da musicisti come Belgrave e Barefield per mantenere viva la musica, continuano ad emergere giovani musicisti creativi come il trombettista James Cornish o il sassofonista Cassius Richmond. Detroit beneficia pure della vicinanza a Ann Arbor. La città, sede dell’Università del Michigan, dista soltanto 45 minuti e ha una florida comunità artistica. Il bassista Tim Flood, il sassofonista Andrew Bishop, il pianista Stephen Rush, il quale non esita a attraversare i generi, costituiscono un pool di musicisti emozionanti. La University of Michigan Creative Arts Orchestra può essere vista anche come riserva di compositori e musicisti creativi, ed alcuni suoi membri hanno infatti preso nelle proprie mani le redini della situazione fondando l’A2 Composers Collective, che consente loro di presentare il proprio lavoro. Mentre il futuro della città è incerto, c’è speranza che il jazz qui possa sopravvivere. Infatti, le aree depresse sono spesso fucine di creatività artistica. Affitti e immobili a buon mercato potrebbero infatti rivelarsi appetibili per musicisti e intrattenitori. Con la scena musicale esistente che può costituire una solida e potente base potremmo venire sorpresi da quello che può venir fuori da Detroit nel futuro. highlightsss NYJO, l’investimento del jazz britannico di Patrizia Arcadi La National Youth Jazz Orchestra nasce nel 1965 da un’idea di Bill Ashton, sassofonista e compositore, nonché attuale direttore musicale della band. In origine chiamata London Schools’ Jazz Orchestra, quest’organico giovanile con base a Westmister è divenuto in breve tempo orchestra nazionale, schierando le migliori e più talentuose promesse del British jazz. La NYJO rappresenta infatti un’importante opportunità per i giovani musicisti provenienti da tutto il Regno Unito, una vera e propria vetrina che dà risalto ai suoi componenti consentendo loro di misurarsi in contesti professionali, anche di livello internazionale. Alla NYJO è affidato inoltre il compito di favorire la promozione della musica nel Regno Unito, indirizzandosi in particolare agli studenti più giovani. I concerti presso le scuole, infatti, costituiscono una parte rilevante del programma seguito dall’orchestra. La band, che gode di un riconoscimento su scala mondiale, rappresenta un vero trampolino di lancio per i suoi membri: molti degli attuali big del jazz britannico hanno maturato la loro esperienza suonando nella NYJO, in diversi casi affermando il loro talento proprio durante il periodo vissuto con la formazione. Dotata di uno stile e di un sound inconfondibili, l’orchestra vanta un ampio repertorio che spazia tra diversi generi e stili proprio con l’obiettivo di rivolgersi ad un pubblico allargato, non necessariamente appassionato o esperto solo di jazz. Committenti della NYJO sono spesso grandi compositori e arrangiatori di origini inglesi, che a loro volta hanno militato nelle sue fila. La composizione dell’orchestra avviene su base selettiva — dai primi di novembre si sono aperte le audizioni per la scelta dei membri che comporranno la band da gennaio 2012 —, valutando non solo le capacità tecniche e stilistiche, ma anche l’attitudine al gioco di squadra e la propensione all’improvvisazione, così da individuare un gruppo di 30-35 componenti dai background più diversi, con un’età non superiore ai 25 anni. La National Youth Jazz Orchestra si La National Youth Jazz Orchestra al Ronnie Scott struttura in due livelli: per potersi unire alla NYJO 1 è necessario possedere eccellenti competenze in termini di conoscenza e di lettura della musica. Titolo preferenziale sarà poi aver maturato esperienze live in formazioni jazz. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, i musicisti avviano la loro esperienza unendosi alla NYJO 2, per un propedeutico periodo di training volto a fornire le capacità necessarie al passaggio al livello 1. In entrambi i casi, comunque, gli aspiranti membri dell’orchestra possono partecipare a dei workshop preparatori aperti a tutti, così come è possibile accedere ad un programma di sostegno economico grazie ai fondi messi a disposizione dal “Musicians Benevolent Fund”. Proprio il 2011 ha visto infine la creazione della NYJO London, un’orchestra di carattere formativo che punta a coinvolgere e stimolare gli studenti — di massimo 19 anni di età — provenienti dall’intera area della “Greater London”. Che si faccia parte di una o dell’altra formazione, è comunque assicurata la possibilità di esibirsi frequentemente accedendo a locali di grande rilevanza culturale o ad importanti programmi radiofonici e televisivi — grande è infatti il seguito mediatico ottenuto dall’orchestra che assicura il “tutto esaurito” ad ogni sua esibizione. La NYJO 2 tiene molti concerti di beneficenza durante l’anno. La NYJO 1, invece, si esibisce regolarmente in tutto il paese: fra le principali location che hanno ospitato la band figurano “Ronnie Scott’s”, “The Barbican”, “Symphony Hall Birmingham”, “Usher Hall Edinburgh”, “The Royal Albert Hall” e “Royal Festival Hall”. Inoltre, ogni sabato è possibile assistere ad un live al “Cockpit Theatre” di Londra. Sono numerosi i successi inanellati dalla NYJO nel corso della sua storica attività: una quarantina gli album registrati fino ad ora, performance nei principali paesi europei, negli Stati Uniti, in Australia ed in Nuova Zelanda. Il tutto coronato da riconoscimenti ufficiali: l’orchestra è stata nominata migliore Big Band ai British Jazz Award nel 2002, mentre il suo direttore Bill Ashton ha ricevuto il “BBC Radio 2 Jazz Award” nel 1995 e l’“All Party Parliamentary Jazz Appreciation Group’s Special Award” nel 2007. E questi risultati non stupiscono se si pensa che nella National Youth Jazz Orchestra si sono formati alcuni dei principali artisti britannici degli ultimi decenni, tra i quali Amy Winehouse, Guy Barker, Nigel Hitchcock, Brian Priestley, Simon Phillips, Steve Hill, Frank Ricotti, Gerard Presencer e Chris White. JazzColo[u]rs | dicembre ’11 5 highlights Chiude l’SJU, viva l’U-Jazz di Andrew Rigmore Chi ha avuto la fortuna di andare almeno una volta ad assistere ad un concerto di musica improvvisata allo Stichting Jazz Utrecht (SJU) Jazzpodium della cittadina olandese farà bene a tenersi caro quel ricordo. La scorsa estate, infatti, dopo diciotto anni di concerti, il glorioso jazz club olandese si è visto costretto a chiudere i battenti. Le cause, come quasi sempre avviene in questi casi, sono da ricercare in ragioni di carattere prevalentemente economico e finanziario: l’aumento degli affitti, la prospettiva di una forte riduzione nei finanziamenti pubblici e le immancabili pressioni di vario genere sui responsabili del palinsesto, così come l’intenzione degli amministratori cittadini di trovare un diverso e più efficiente modello d’investimento per promuovere il jazz di Utrecht. Gestito dalla Stichting Jazz en Geïmproviseerde Muziek Utrecht, Fondazione per il jazz e la musica improvvisata istituita nel 1977, da cui ha preso il nome, per cinque giorni alla settimana l’SJU Jazzpodium ha offerto presso il civico 2 di Varkenmarkt tanta musica improvvisata, jazz, funk e soul di gran livello, ospitando musicisti come Michiel Braam, Ernst Glerum, James Carter, Ken Vandermark, Michael Zerang, Gebhard Ullmann, Steve Swell, Michiel Borstlap e tantissimi altri autorevoli esponenti del jazz internazionale. Già da allora, comunque, l’irrinunciabile prospettiva, preannunciata dal presidente Paul Adriaanse dopo la difficile decisione, era stata indicata nell’intenzione di procedere ad una riconversione verso un nuovo modello di programmazione concertistica, anche per cercare di mantenere il personale lavorativo fino a quel momento impiegato nella struttura. E, anche per questo motivo, si sarebbe voluto poter continuare ad organizzare dei concerti almeno nel periodo autunnale, da tenersi eventualmente in altre location della città. Fra le soluzioni prospettate prese in considerazione, anche la fusione con altre realtà cittadine a vocazione musicale, come per esempio il Leeuwenbergh, che avrebbe reso possibile lo 6 JazzColo[u]rs | dicembre ’11 Il palco dell’SJU - foto Herbert Boland svolgimento di un programma ampio ed articolato, nel rispetto di una gestione finanziaria responsabile. È su questi presupposti che, in collaborazione con la Music House di Utrecht, in questi giorni la U-Jazz, una locale associazione che conta poco più di un centinaio di membri, ha annunciato l’intenzione di voler realizzare una nuova programmazione jazzistica, rivolta ad un pubblico più ampio possibile, che auspicabilmente dovrebbe potere chiamare in causa anche il piccolo locale dell’SJU in Varkenmarkt. I primi frutti di questi sforzi congiunti si vedranno domenica 18 dicembre, con il festival “Jazz sotto il Rode Brug”, che si terrà presso l’House Music della città e riunirà in varie formazioni e combinazioni tantissime personalità del jazz di Utrecht e non solo, per testimoniare quanto il jazz locale sia vivo e vegeto. Una quarantina di musicisti hanno già aderito alla manifestazione, fra i quali Mark Alban Lotz, Wolter Wierbos Coen Kaldeway, Akos Laki, Tjitze Vogel, Ad Colen, Corrie van Binsbergen, Michael Baird, Tetzepi, January Schellink, Dion Nijland, Haytam Safia, Albert van Veenendaal e tanti altri. Il rilancio dello storico SJU Jazzpodium è stato dunque possibile grazie all’U-Jazz, anche se non è ancora chiaro in che modo questa nuova realtà sarà in grado di coinvolgere la vecchia struttura dell’SJU. Così come resta incerto se ed in che misura l’amministrazione locale vorrà contribuire con le proprie risorse finanziarie ad una programmazione magari anche più ridotta ma che possa mostrare prerogative di permanenza e continuatività. Ciò che invece è indubbio è che, sulla base dei riscontri che questo “Jazz sotto il Rode Brug” otterrà, l’U-Jazz è pronta ad avanzare ulteriori iniziative, compresi alcuni workshop che potrebbero cominciare già il prossimo febbraio. Come in una recente intervista ha dichiarato Dion Nijland, vice presidente della intraprendente associazione, la cosa importante è rilanciare la locale scena musicale del jazz. Solo in questo modo, infatti, è possibile mantenere viva l’importante eredità del jazz cittadino, dando nuovi stimoli ed impulsi ai jazzisti residenti, rimasti ovviamente spiazzati dopo la chiusura dell’SJU, da sempre per loro un punto di riferimento, e riguadagnando così la loro fiducia. Se nell’arco dei prossimi due anni tutte le proposte messe in campo riusciranno a decollare anche in virtù di una conseguente programmazione jazz, l’importante retaggio del jazz di Utrecht non verrà perduto. E questa potrebbe essere considerata già una grande vittoria. highlightsss JazzyColors, il festival più trasnazionale è in Francia di Marc Jessiteil Raffigurati spesso come sciovinisti, è pure vero che i Francesi hanno sempre saputo far tesoro delle proprie vicende storiche, anche quando hanno dovuto confrontarsi con la cultura di altri popoli. E come insegnano i Romani, non c'è civiltà degna di questo nome che, venendo allo scontro con altri popoli e territori, sia riuscita poi a rimanere impermeabile agli stimoli culturali via via ricevuti. Nazionalisti sì, ma — e sembra una contraddizione — anche abbastanza aperti. Sono infatti tantissimi i musicisti che finiscono per scegliere la Francia come propria residenza. E la tutela riconosciuta in questo paese agli artisti, verosimilmente maggiore che altrove, è solo una delle ragioni. Non si tratta soltanto dei tanti magrebini provenienti dalle ex colonie e — giocoforza — ben integratisi nella società francese, ma anche di zingari, rumeni, turchi, armeni, che hanno dato lustro alla cultura francese apportandovi parte della propria. Chiunque abbia ascoltato un disco di Django Reinhardt, d’origine tzigana, e in tempi più recenti di Bojan Z, serbo-bosniaco (vero nome Zulfikarpašić) o del pianista d’origine armena Tigran Hamasyan non può che convenirne. Non c'è dunque da meravigliarsi se è nella capitale francese che si svolge il JazzyColors, un festival molto particolare, organizzato da ben 16 degli istituti culturali stranieri che hanno sede a Parigi, e che si basa su un concetto semplice: ognuno dei tanti paesi che vi prendono parte ha per missione quella di far scoprire ai Francesi i migliori gruppi jazz di casa propria. Istituito nel 2002 da Michaël WellnerPospisil ed inizialmente patrocinato da Daniel Humair, dal 2008 è presieduto da Andras Ecsedi-Derdak dell’Istituto ungherese ed è proprio Bojan Z a sovraintendervi. L’ultima edizione, la nona, tenutasi lo scorso novembre, ha visto svolgersi 17 concerti spalmati in tre set- Bojan Zulfikarpašić - foto Juan Carlos Hernández timane, con artisti provenienti da sedici diversi paesi ed una gamma di tipi di jazz quanto mai variegata, dal folk jazz al jazz classico attraverso il jazz psichedelico e perfino con venature rock. A pensarci bene, non poteva che essere il jazz la musica capace di riunire insieme tante culture e generi e realizzare quella che può essere considerata la propria quintessenza, essere cioè una musica vocata al superamento delle barriere e simbolo di integrazione. Elvis Costello boicotta sé stesso di Red Se talune riviste di jazz in passato non hanno disdegnato di occuparsi di Elvis Costello, riservandogli perfino le copertine, quasi si trattasse di un grande jazzista anziché di un musicista certamente di livello, interessante e versatile ma pure ben lontano dal mondo del jazz (a parte il rapporto matrimoniale con Diana Krall), al contrario su queste pagine probabilmente non ci saremmo mai preoccupati di lui se non fosse stato per un annuncio eclatante che lo stesso ha fatto dalle pagine del suo sito ufficiale, e che sicuramente va oltre qualunque definizione di genere, inducendo riflessioni che riguardano in generale la musica tutta. Nel post, dal titolo “Steal this record” [Rubate questo disco], rincarato dal successivo “Let’s make things sparkling clear” [“Mettiamo le cose in chiaro”], si afferma che il prezzo della compilation CD/DVD “The Return of the Spectacular Spinning Songbook”, di Elvis Costello & the Imposters, in uscita in questi giorni, deve essere un errore di stampa o uno scherzo. E c’è da crederci visto che si riferisce alla cifra di 200$, indubbiamente esagerata anche per un cofanetto contenente video, foto e note a volontà. Prendendo le distanze dai responsabili — chi se non l’etichetta discografica? — viene precisato che tutti i tentativi fatti per ottenere una revisione di questa cifra sono stati vani. E, astenendosi da argomenti di morale, eleganza e contabilità, nel caso in cui per le festività si volesse regalare qualcosa di speciale, si raccomanda con tutto il cuore “Ambassador of Jazz”, un cofanetto la cui veste imita una piccola valigia con il nome “Satchmo” in bassorilievo contenente dieci album rimasterizzati di uno dei più grandi ed amabili rivoluzionari che sia mai esistito, ossia Louis Armstrong. Il prezzo in questo caso è di circa 150$, ma la musica — si sottolinea — è di gran lunga superiore. Ma la conclusione è ancor più sbalorditiva: chi volesse proprio ascoltare e vedere i contenuti del box incriminato viene avvertito che l’anno prossimo tutti i dischi di cui si compone saranno disponibili separatamente e ad un prezzo più abborabile, “presumendo che non li abbiate già recuperati con altri mezzi molto meno convenzionali”. Incredibile, no? JazzColo[u]rs | dicembre ’11 7 foto Dario VIlla Stefano Battaglia foto Davide Susa le vie dei canti di Enzo Boddi foto di Davide Susa e Dario Villa Tipico esempio di compositore-improvvisatore europeo ugualmente attento al retroterra del Vecchio Continente ed alla tradizione jazzistica intesa in senso lato, il pianista milanese ha individuato nel trio e nel duo piano-percussioni il terreno ideale per esprimere al meglio una complessa cifra poetica. Una complessità riflessa nell’intensa attività didattica tesa a valorizzare l’identità degli allievi e nel rapporto con la ECM, per la quale esce adesso un nuovo album in trio, la cui musica diviene tramite fra culture e cilvità così lontane eppure così vicine. Il titolo di “The River of Anyder” questo si trovano così tante evoca- una specie di ideale luogo possiè tratto da “Utopia” di Thomas zioni extra-musicali nei miei lavori. bile, territorio di potenziale fraMore. Come in altri tuoi lavori si tellanza oltreché testimone avverte un nesso potente tra mu- I brani Ararat Dance, Sham-bah- eterno di scontri di civiltà. La mia sica, filosofia e letteratura. Come lah e Ararat Prayer si ispirano musica, nel suo piccolo, vorrebbe affronti questo legame? descrivere il cammino, la La filosofia ha a che fare salita, attraverso melodie Da un punto di vista tecnico e con il significato e la vee danze di estrazione via rità. Come fa un artista a via sottilmente diverse; compositivo, ormai mi sono non tenerne conto? Ci l’incipit del brano è ispisbatti contro. Se non si rato ad una nenia tradiconvinto che esistono conquista e poi si protegge zionale dell’antica il significato, è impossibile Renania ashkenazita. due qualità di improvvisatori, sentirsi credibili espressiSham-bha-lah invece, vamente. Per me le di- indipendentemente da stili e generi: ispirato al “Re del Mondo” verse forme d’arte sono di Guenon, è la capitale di quelli che riempiono uno spazio Agartha, luogo del mito sitanti affluenti di un’unica grande fonte, che è tuato tra India e Tibet. Il e quelli che lo creano. l’espressione del sé, la brano è in forma di suite, poesia e la bellezza della una specie di diario di un vita nel suo senso più ampio e pro- in qualche misura alla tradi- viaggio ideale che dall’Europa fondo. È una verità che inseguo e zione armena? rappresentata dal “Columba aspedella quale ho bisogno io per Il simbolismo dell’Ararat è assai xit” di Hildegard von Bingen, arprimo. Tendo quindi a cercare con- affascinante: antico custode di ci- riva sino alle sorgenti del tinuamente questa verità e bel- viltà diverse come l’armena, la Brahmaputra, attraverso canti e lezza in altre forme espressive. Per turca, la curda e la persiana. È danze polimetriche. “ ” JazzColo[u]rs | dicembre ’11 9 Il consolidato rapporto con Maiore e Dani produce un’interazione ancor più libera e paritaria. Come valuti il ruolo del piano trio nel jazz contemporaneo? Il trio come organico è magico in sé: da Beethoven a Brahms, da Bill Evans a Jimi Hendrix, per via della sua triangolare polifunzionalità ed interscambiabilità dei ruoli strumentali. Da un punto di vista tecnico e compositivo, ormai mi sono convinto che esistono due qualità di improvvisatori, indipendentemente da stili e generi: quelli che riempiono uno spazio e quelli che lo creano. Come compositore ed improvvisatore mi sento sempre più affine alla tecnica di narrazione e sviluppo, e logicamente scelgo dei partner con volontà e caratteristiche uguali. Salvatore e Roberto sono due musicisti in grado di determinare equilibri rari in questo senso. Non so nemmeno se il nostro è un trio di jazz. Posso dire che — a prescindere dal materiale musicale di partenza, siano composizioni originali o di Alec Wilder — il trio ha raggiunto da tre-quattro anni un’identità precisa ed unica. Nel duo con Michele Rabbia sembra essersi instaurata una sintonia che va al di là dell’aspetto puramente musicale. Quello con Michele è un vero e proprio sodalizio. Abbiamo in comune una concezione poetica dell’evento sonoro e delle sue sfumature timbriche come voce di tutte le cose. Per me sono indimenticabili i concerti al Monastero di Bose, dinanzi al priore Enzo Bianchi: un’esperienza commovente e piena di significato, che va ben oltre la dimensione professionale. Amo la sua sensibilità musicale. Abbiamo condiviso tre album in duo, il quintetto con Pifarely, Courtois e Godard, Triosonic, Re:Pasolini, le collaborazioni con la danza e il teatro, e il recente affascinante progetto innescatosi con il chitarrista norvegese Eivind Aarset. 10 JazzColo[u]rs | dicembre ’11 In quest’ottica, che ruolo hanno avuto le tue passate collaborazioni con Pierre Favre e Tony Oxley? Sono due maestri, molto diversi tra loro, verso i quali provo un sentimento di riconoscenza. In comune hanno solo la metamorfosi che li ha portati nel corso della vita a trasformare, trasfigurare e personalizzare il set al punto da ampliare la funzione dello strumento e caratterizzare la musica attra- “L’arte è plurale per costituzione, essendo l’espressione del sé profondo di individui diversi. Sarebbe sacrosanto per strategia culturale, oltreché per l’espansione della persona, ascoltare tre o quattro volte cinquanta proposte, anziché cinquanta volte le stesse quattro. ” verso una grande espansione dei parametri melodici e timbrici. Non è un caso che entrambi i batteristi con cui ho creato un sodalizio, Rabbia e Dani, abbiano la stessa propensione alla trasfigurazione, alla personalizzazione del set. È un percorso doloroso ma inevitabile. Favre cerca sempre la forma, improvvisa come se componesse, in modo molto concentrato, e ha un approccio all’improvvisazione che sento molto vicino. Oxley ha un set unico, molto affascinante timbri- camente, che usa essenzialmente da batterista. Quando rinuncia a certe dinamiche legate al free jazz storico e dialoga, anche con il silenzio, è il mio batterista preferito. Spesso suona con un concetto orchestrale, verticale, sovrapposto ad un’incrollabile articolazione melodica. Suonerò sempre con strumenti a percussione: ciò che mi attrae è la loro straordinaria capacità osmotica di fondere passato, presente e futuro. Come ebbe origine il progetto “Re: Pasolini”? Pasolini è una figura che mi manca molto, così come manca all’Italia degli ultimi quarant’anni: alla società civile, alla politica, al confronto religioso, a chi analizza i mutamenti antropologici. E naturalmente manca la sua poesia. Il mio omaggio è stato un piccolo ma appassionato gesto offerto all’altare di un intellettuale unico nella storia, alla sua peculiarità di poeta capace di esprimere poesia e sprigionare bellezza attraverso tante discipline diverse, raggiungendo sempre e comunque un intenso senso della verità e di percezione del sacro. Quanto al tuo proficuo rapporto con la ECM, cosa significa lavorare con Manfred Eicher? Significa sentirsi parte di una filosofia, di una precisa cultura (coltivare, nel suo significato originale). L’enorme influenza culturale di ECM si spiega più facilmente, dopo aver parlato di Pasolini. Anche Manfred ha determinato con coraggio un contributo trasversale all’arte: a-ideologico e a-settoriale, documentando la scena creativa a prescindere dai suoi stili e linguaggi, e proteggendo il senso della verità di molte diverse tradizioni. Non solo, anche determinando in certi casi sodalizi che hanno spinto alcuni artisti a creare dal nulla espressioni musicali oggi divenute modelli di riferimento. foto Davide Susa Sono molto orgoglioso che il mio contributo artistico faccia parte del suo progetto, lo considero un privilegio di inestimabile valore e di grande responsabilità. Quanto la tua solida formazione classica ha contribuito a modellare la tua visione di compositore e di improvvisatore? Immagino molto, espressivamente, esteticamente e tecnicamente. Credo che sia facilmente percepibile la traccia indelebile che alcuni compositori hanno determinato sul mio universo espressivo. In certi tuoi lavori sembra di cogliere anche tracce di Messiaen e Ligeti. È più che probabile, perché sono due compositori verso i quali ho sprigionato un bel po’ di energie. Penso che Ligeti abbia scritto gli studi per pianoforte più efficaci, musicali e vibranti dello scorso secolo. Di Messiaen amo l’atemporalità: vi è in lui un uso del ritmo sofisticato e primitivo allo stesso tempo, e l’armonia contiene sintesi sublimi di tradizioni in movimento, di antico e moderno, di classico e futuribile. In “Bartokosmos” col gruppo 3Quietmen avete lavorato su alcuni estratti dai “Mikrokosmos” di Bartók con risultati sorprendenti. Quello su “Mikrokosmos” fu un laboratorio entusiasmante. Sorprendente quanto il nucleo profondo della musica di Bartók — spogliato dalla forma dello studio pianistico — si riveli in tutta la sua forza, a seconda dell’organico strumentale, dell’arrangiamento e della capacità immaginativa degli improvvisatori, e restituisca la sua natura popolare e atemporale, come una radice primitiva e millenaria. Con 3Quietmen abbiamo ultimato un nuovo album per la Auand che suona come un deciso passo in avanti del percorso iniziato con “Bartokosmos”. Bill Evans a parte, che influenza hanno avuto su di te Paul Bley e Keith Jarrett? Iniziatica! Non avevo ancora quattordici anni quando comprai a scatola chiusa “Open to Love” e “Facing You”. Bley ha un mondo poetico che non spiega mai: allude, crea uno spazio senza riempirlo, e racconta sempre qualcosa che mi cattura e sorprende. Con la sua straordinaria capacità espressiva Jarrett incarna pienamente in musica la filosofia dell’unitas multiplex (Pasolini ne fu esempio in letteratura): l’improvvisazione è uno straordinario veicolo di verità capace di rendere possibile l’osmosi tra linguaggi musicali anche estremamente distanti tra loro per epifania geografica e temporale. E questo spiega anche la trasversale popolarità di Jarrett. Su quali presupposti erano fondati i progetti “The Book of Jazz” e “The Book of Songs”? Sul desiderio di collegarmi profondamente con le due tradizioni che hanno da sempre abitato il jazz, quella JazzColo[u]rs | dicembre ’11 11 foto Davide Susa popolare e quella specifica relativa ai tanti universi poetici di quei grandi improvvisatori-compositori che ne hanno accompagnato la storia, senza usare filtri ideologici di stile. Una sfida che mettesse alla prova l’identità del trio il quale, passando da una composizione di Parker ad una di Gismonti, poteva subire le varie poetiche schizofrenicamente; oppure dimostrarci che non è cosa si suona ma come, a determinare bellezza oggettiva e consapevolezza improvvisativa. Il popolo del jazz considera e denomina “standard” tutta quella tradizione che proviene dalla cultura americana del Novecento, mettendo insieme Porter e Parker, Gershwin e Shorter. Questo crea confusione, perché la tradizione specifica degli improvvisatori, dei musicisti di jazz, è sostanzialmente diversa da quella della canzone popolare, che ha radici folkloriche e secolari. Non si può dire che Dolphy e Bacharach siano la stessa fonte tradizionale. Suonare Easy to Love e Lonely Woman è la stessa cosa? Lo è potenzialmente, ma per un europeo o un asiatico suonare una canzone americana non è per niente standard. Per conquistare credibilità interpretativa, di quella canzone bisogna amare il canto originale e condividere il significato del testo. Altrimenti si finisce per fare le “cover delle cover”. Il mio amore per la melodia nel suo valore testuale mi ha spinto verso “Book of Songs”; anche quando improvviso penso al canto come ad un testo. 12 JazzColo[u]rs | dicembre ’11 Dai Trovatori alle villanelle del Cinquecento, dal teatro shakespeariano ai lieder, dalle castillane del Rinascimento alla canzone napoletana: un inesauribile, irrinunciabile serbatoio. Mi piace ricordare la collaborazione tra Pasolini e Modugno, un esempio di tradizione italiana in movimento, autonoma rispetto all’imperialismo culturale americano. “The Wrong Blues” era invece basato su un autore mai abbastanza considerato come Alec Wilder. Un lavoro ciclopico per il mio songwriter americano preferito: più di cinquanta trascrizioni, tra lieder, art songs e popular songs. Cinque anni di lavoro, concerti monografici, una decina di laboratori di ricerca. Non vedo l’ora di incontrare qualcuno che mi dica “Registriamo insieme l’integrale delle songs di Wilder?”. Importante, a proposito del rapporto virtuoso tra poesia e canzone, il suo lavoro con molti poeti americani del Novecento, come Tennessee Williams o Christina Rossetti, ed europei — Yeats su tutti. Da molti anni insegni a Siena Jazz, dove hai creato il Laboratorio Permanente di Ricerca Musicale da cui nascono i gruppi Theatrum. Puoi trarre un bilancio della tua esperienza didattica? La parola chiave è responsabilità. Sono orgoglioso di dare il mio contributo ad una struttura che conosce il significato di questa parola ed ha recentemente raggiunto il riconoscimento di Libera Università. Insegnando all’Accademia senese dal 1988, ho avuto l’esatta misura di quanto talento ma anche confusa mediocrità stesse producendo l’accademia nel jazz, e ho deciso di lottare dall’interno per proteggere il significato della musica e le sue risorse creative dal flusso esagerato e indiscriminato di informazioni che rischia di produrre svilimento e complicare il percorso di identificazione, determinando un generale appiattimento. Come molta accademia classica, quella jazzistica ha innescato negli ultimi vent’anni un grave corto circuito attraverso la cristallizzazione di stili e linguaggi, provocando la progressiva scomparsa di una reale prassi improvvisativa. Nel 1996 ho dunque creato, insieme alla Fondazione Siena Jazz, uno spazio che in quindici anni è diventato un riferimento per la ricerca musicale, determinando identità attraverso una politica culturale autonoma che le ha permesso di investire anche nella dimensione artistico-espressiva, oltreché in quella artigianalprofessionale. Si tratta di scegliere attraverso audizioni musicisti adatti per creare dieci gruppi all’anno con cui condividere il lavoro. Questo spazio vuole restituire ai musicisti l’esperienza della musica, che non è semplicemente il frutto di una somma di informazioni teoriche, ma soprattutto una crescita individuale attraverso la pratica musicale, dall’interno della musica. Lì sono nati i miei progetti degli ultimi dieci anni, lì imparo dalla musica tutto il giorno. STEfano BaTTaglia TRio ThE RiVER of anyDER (ECM - 2011) Stefano Battaglia (pn), Salvatore Maiore (cb), Roberto Dani (bt) Minas Tirith The River of anyder ararat Dance Return to Bensalem nowhere Song Sham-bah-lah Bensalem anagoor ararat Prayer anywhere Song Out-Vestigation comprende tre giovani valenti musicisti che hanno frequentato i seminari senesi. Si può parlare di una nuova generazione di musicisti italiani i quali, oltre a possedere talento e tecnica, stanno producendo idee innovative? Out-vestigation è una delle espressioni più alte del Laboratorio Permanente di Ricerca Musicale. Attraverso molti anni di lavoro condiviso ed esperienze di repertorio originale e tradizionale, Francesco Bigoni, Giulio Corini ed Emanuele Maniscalco sono divenuti a loro volta band leaders maturi ed autonomi. Potenzialmente la scena italiana sarebbe tra le più vivaci al mondo da un punto di vista creativo. Ma se è vero che esiste un vivo fermento, la scena ufficiale appare né più né meno il prodotto delle strategie culturali del nostro paese: il circuito è schiacciato su logiche di mercato e popolarità, e soffre dell’equivoco irrisolto tra cultura e spettacolo, mandando ai giovani un messaggio avvilente e complicando non poco la vita a quegli artisti che provano a tenere le distanze da quelle logiche. L’arte è plurale per costituzione, essendo l’espressione del sé profondo di individui diversi. Sarebbe sacrosanto per strategia culturale, oltreché per l’espansione della persona, ascoltare tre o quattro volte cinquanta proposte, anziché cinquanta volte le stesse quattro. Per questo dobbiamo tutti insieme lottare per dare alle nuove generazioni la garanzia che il mondo dell’arte e quello della cultura esistono, e vanno protetti e scissi dallo spettacolo e dall’intrattenimento. Come nei precedenti lavori del pianista milanese, l’impianto concettuale del disco è denso di riferimenti culturali fortemente connessi al contenuto musicale. Il titolo del Cd e del brano eponimo è tratto da “Utopia” di Thomas More; Bensalem è la città dell’isola ideale concepita dal filosofo Francis Bacon; Anagoor è una località altrettanto utopica creata da Dino Buzzati nel racconto “Le Mura di Anagoor”. Basterebbero queste citazioni e l’ascolto dei relativi brani ad indicare le coordinate su cui Battaglia sta indirizzando la sua ricerca: nessuna utopia in musica, ovviamente, quanto, piuttosto, lo sforzo — coronato da successo — di definire una poetica svincolata dai canoni del piano trio. Dal prototipo moderno di questa formazione (lo storico trio Evans-La Faro-Motian) Battaglia, Maiore e Dani hanno certamente desunto il concetto di interplay come abbattimento dei ruoli ed interscambio paritario per proiettarlo in un’ottica europea contrassegnata anche dall’impronta di compositori del secondo Novecento quali Messiaen e Ligeti. Ne derivano una costante circolazione di impulsi ed idee, un’attenzione rigorosa a dinamiche e timbriche, l’inclinazione a sottrarre piuttosto che ad aggiungere, esplorando minuziosamente ogni singola cellula. Ne scaturisce una dimensione atemporale, in cui il tempo inteso come categoria musicale può risultare a tratti sospeso od espresso liberamente nella varietà metrica degli episodi. Gli accenti scarni ma pregnanti di Maiore, in qualche misura debitore di Peacock, fungono da collante nella dialettica tra Battaglia e Dani: l’approccio coloristico, quasi “scultoreo”, del batterista si propone come efficace e personale sintesi tra Motian, Oxley e Lytton, contribuendo fattivamente allo sviluppo degli eventi sonori. Per parte sua, Battaglia esplora con acume certosino i nuclei delle esecuzioni, specie laddove si addentra nel terreno modale: tanto in Ararat Dance e Ararat Prayer, originate da una melodia ebraica, quanto in Sham-bah-lah, che — partendo da un frammento di Columba Aspexit di Hildegard von Bingen — approda a modalità di matrice indiana. I due intermezzi pianistici Nowhere Song e Anywhere Song indagano il rapporto col silenzio. Nel complesso, prevale un lirismo che evoca la purezza primigenia del canto come espressione dell’interiorità._En.Bo. JazzColo[u]rs | dicembre ’11 13 Dan Weiss i molteplici ritmi del mondo di Antonio Terzo foto di Juan Carlos Hernández Partito dal rock ed approdato al jazz, oggi il batterista Dan Weiss è anche un cultore delle tabla. La musica indiana lo ha portato ad applicare le strutture di quello strumento anche alla batteria, rendendolo un drummer particolarmente intuitivo, fantasioso e sempre originale. Un’originalità con la quale non solo ha contagiato il chitarrista Miles Okazaki, suo amico da sempre, ma anche il suo stesso trio, Timshel, immettendo nuova verve nel duo con il collega Ari Hoenig. Qual è stata la tua prima esperienza di batterista? La mia primissima esperienza come batterista è stata quando avevo circa 5 anni. Ricordo perfettamente che mi misi a battere su dei container per il pranzo. Ebbi la mia prima vera batteria più o meno un anno più tardi. E la tua prima esperienza professionale con il jazz? Suonare insieme ad alcuni compagni di scuola in un hotel della nostra città, il “Clinton Inn”. Adesso stai diventando sempre più rinomato anche come suonatore di tabla. Come hai scoperto la musica indiana? All’inizio vidi un video di Ravi Shankar e Ustad Allah Rakha al Monterey Pop Festival, e rimasi esterrefatto soprattutto dall’assolo di tabla. Sapevo che la musica aveva un grande impatto su di me. Quello che non sapevo era che un giorno avrei effettivamente suonato le tabla. Dopo quel concerto, ho voluto praticamente ogni possibile disco del mio musicista di classica indiana preferito: Nikhil Banerjee. Poi mi feci prendere e fui preso da altri grandi artisti, come Amir Khan, Bhimsen Joshi, Ali Akbar Khan, Pannal Ghosh, Ahmedjan Thirakwa. La lista potrebbe continuare, proprio come per il jazz. Riguardo al tuo interesse per tabla e musica indiana, quale delle due cose ti ha portato all’altra? Prima c’è stato un interesse per la musica rock. Poi la passione per il jazz e la musica classica occidentale, partita quando avevo pressappoco 14 anni. Un anno più tardi o giù di lì ho cominciato ad interessarmi alla musica classica indiana e, mutualmente, alle tabla. Ho sempre amato anche il ritmo della musica dell’India meridionale. Avevo sempre cercato di incorporare i ritmi del nord e del sud dell’India nel mio drumset. Poi finalmente decisi di studiare le tabla. Sono stato con il mio guru Pandit Samir Chatterjee fin dal primo giorno, e questo è stato 14 anni fa. Continuo a vederlo abbastanza regolarmente e lui ha trasmesso tanta della sua saggezza su di me. Cosa ti ha catturato di questa musica e delle tabla? Dello strumento mi hanno preso il suono e le possibilità ritmiche. C’è dietro pure qualche meta-implicazione di tipo filosofico o spirituale? Tutto il mio approccio alla musica ed alla pratica musicale è spirituale. È diventato il mio percorso e tutta la mia prospettiva è basata su questo spiritualismo musicale. Cosa intendi per “spiritualismo musicale”? Qualcosa legato alla religione, alla filosofia o all’uomo? Non si tratta di nessuna religione. Per me la musica è la mia religione. Uso il tempo per esercitarmi per cercare di migliorare me stesso come musicista e come essere umano. Cerco di trasformare me stesso in una persona più illuminata attraverso l’esercizio e la musica. Di conseguenza, mi piacerebbe in questo modo cercare di fare qualunque piccola cosa per l’umanità. Lavoro su me stesso perché voglio avere un impatto positivo sul mondo. Questo tuo interesse ti ha portato a pubblicare un album di solo tabla, “3D CD” (2007), che suoni con il guru Dibyarka Chatterjee, e due lavori di sola batteria, “Tintal” (2005) ed il recente “Jhaptal” (2011). Entrambi sono basati sul tala: puoi spiegare ai neofiti di cosa si tratta? Tala significa ciclo ritmico. Il tala è una struttura, un programma. Un’altra importante parte di questa musica è il theka: in cosa consiste? Consiste in bols, ossia sillabe, vibhag, che sono le misure, e thali/khali, cioè il sistema delle ondate di colpi con le mani. L’idea di quegli album di solo batteria è di trasferire la tua esperienza con le tabla sul tuo originario strumento e sul drumming: com’è maturata? Inizialmente ho cominciato semplicemente con il mischiarle in mezzo alle composizioni ed alle frasi che Dan WEiSS avevo imparato sulle tabla, adattandole al set di batteria. Man mano che proseguivo, ho pensato fra me e me che desideravo riuscire a suonare tutto il Al contrario di quanto si potrebbe pensare, questo Jhaptal in solitaria scorre fluente e (Chhandayan Prod. - 2011) piacevole, arricchendo e rilassando non poco l’ascoltatore. Corresponsabili, i mantra chitarristici di Okazaki, capaci di indurre trance silenti e psichedeliche che mettono a nudo il subconscio per la penetrante voce di Weiss, impegnato nel theka, una sorta di scat della musica indiana. Come nel precedente “Tintal”, anche qua Weiss prima computa vocalmente una frase ritmica — e a volte anche una serie di frasi di non facile memorizzazione per l’ascoltatore — per poi riprodurle Dan Weiss (bt), Miles okazaki (ch) non soltanto nell’esatta cadenza d’accenti ma pure in altezza ed intenzione, sfruttando alap, lehera, Theka, uthan, Peshkar, i timbri della batteria, la cordiera o la pelle Kayeda, Kayeda, Kayeda, Madya lay asciutta del rullante, i piatti aperti o il charTheka, gat, anaghat gat, anaghat gat, anaghat gat, gat, gat, gat, Theka leston serrato. Il nesso di questa musica con Superimposition, laykaari improvisail jazz, come Weiss spiega, sta nel fatto che tion, Rela, Rela, Drut Theka, Tukra, esiste una struttura e, all’interno della Kathak Tukra, Tukra, Tukra, Jora stessa, la possibilità di muoversi con spontaTukra, Chakradar, Dippali Chakradar, neità e libertà: e la libertà nel rispetto della Trippali Chakradar, Chakradar, Chastruttura è qualcosa che ha strettamente a kradar, Chakradar, laggi, Chakradar che fare con la coscienza, affinché lo spirito si senta libero all’interno di quella struttura, la avverta come parte della propria realtà e JhaPTal DRuMSET Solo non come qualcosa da combattere ed eliminare. Nulla è lasciato al caso e che tutto provenga da una precisa intenzione e, come nel jazz, da uno studio a monte, lo dimostrano i frangenti in cui voce e batteria procedono all’unisono. Ben inteso: nulla di matrice new age, rassicuratevi. La batteria di Weiss, infatti, resta ben radicata al concetto di figurazione ritmica ed allo stesso tempo ben lontana da assordanti assolo di stampo rockettaro — sebbene Weiss militi anche su questo fronte. Non c’è neppure alcuna saccente velleità di virtuosismo, perché l’intento è ben diverso, lo si può ascoltare ad ogni brano, ad ogni cadenza, ad ogni figurazione, ad ogni singolo colpo: il confronto con sé stessi, non per semplice abbattimento di un record personale, ma per scoprirsi nello strumento. E, indifferentemente, lo strumento potrebbe essere la batteria o le tabla oppure, per ipotesi, la chitarra, giacché il risultato non cambierebbe, in virtù di quella connessione che, a dire di Weiss, esiste fra la musica e lo spirito. E dopo l’ascolto attento e senza pregiudizi di questo suo lavoro, come non convenire con lui?_An.Te. JazzColo[u]rs | dicembre ’11 15 mio repertorio tabla sulla batteria, in modo metodico. Volevo farlo perché desideravo darmi un nuovo linguaggio a cui attingere per colmare il gap esistente fra i due strumenti. Questi due lavori di solo batteria sarebbero presumibilmente degli album solitari, mentre in entrambi suoni in duo con il tuo compagno artistico di più lunga data, il chitarrista Miles Okazaki. Vi conoscete dai tempi della scuola e suonate insieme da sempre: il tuo approccio alla batteria attraverso le tabla, come ha influenzato il suo modo di suonare e la vostra collaborazione, rispetto a prima? Più io approfondivo le tabla e la musica classica indiana e più anche Miles vi si interessava. Per qualche anno lui ha studiato il kanjira [un tamburo a cornice dell’India meridionale, ndr] e buona parte di tutta questa musica è influenzata da certe idee ritmiche provenienti dalla musica indiana classica del sud e del nord. Anche il tuo lavoro con il Trio sembra fortemente influenzato da quel concept musicale. Non soltanto ritmicamente, giacché il trio mostra una sorta di simbiosi fra il tuo “fraseggio” e — soprattutto — il piano di Jacob Sacks. Puoi spiegare come 16 JazzColo[u]rs | dicembre ’11 hai applicato l’esperienza con le tabla pure al trio? Alcune di quelle composizioni sono esattamente basate sul repertorio delle tabla. Inoltre, ci sono dei brani suonati in trio che traggono spunto da melodie a base raga o che presentano un mood che abbiamo cercato di mantenere proprio come quello di un raga. Uno dei tuoi film preferiti è “Glengarry Glen Ross” [“Americani” nel titolo italiano, ndr]. In “Timshel”, il brano Always Be Closing contiene un dialogo di Jack Lemmon che tu riproduci ritmicamente alla batteria. Quindi qualsiasi cosa può essere ricondotta alle figurazioni tabla? Quel brano non lo riconduco necessariamente alle tabla. Mi sono sempre interessato al dialogo e al modo in cui un discorso può essere messo in relazione al ritmo. Adoro anche quella pellicola e ritengo che sia un film molto musicale. Credi sia stato per questa tua vicinanza alla musica del Sud dell’Asia che musicisti di quella regione quali Vijay Iyer, Rudresh Mahanthappa e Rez Abbasi ti abbiano voluto come loro drummer? Sono sicuro che ci sia una qualche connessione. Ma il mio approccio è in generale molto aperto, spontaneo ed intuitivo. Credo che sia abbinato all’avere una certa sensibilità artistica il fatto che questi musicisti mi rispettino e probabilmente sono stati attratti verso di me per queste ragioni. Suonando con ognuno di loro, cosa hai potuto approfondire di più di quella musica? Imparo tantissime cose da tutti. C’è un suonatore di sarod [una sorta di liuto usato nella musica indiana, ndr] con il quale suono, Anupam Shobhankar, che mi ha sempre spinto. Un vocalist che si chiama Samarth Nagakar, che ogni tanto mi insegna canto, il quale al momento mi dà degli ottimi suggerimenti sull’accompagnamento. C’è così tanto da imparare e così tanto su cui improvvisare! Secondo te, che nesso si può trovare tra il jazz e questo tipo di musica? C’è [in entrambi] un senso di leggerezza e di giocosa spontaneità. C’è una struttura e c’è una certa libertà all’interno della struttura. C’è il più elevato grado di coscienza che io abbia mai trovato, quando suono questi generi. Hai suonato con tanti grandi jazzisti. Fra questi, il veterano altosassofonista Lee Konitz. Com’è stata la tua esperienza nel suo New Nonet? Quell’esperienza è stata grande! È stata una grande lezione di moderazione e una lezione sul modo in cui cercare di far suonare Lee al meglio delle sue possibilità. Solo condividere il palco con lui è stato emozionante e un vero onore. Cosa ne è stato del progetto Sax Pistols di Francesco Bearzatti dopo l’uscita dell’album? Abbiamo fatto qualche tour e non molto altro, dopo. Recentemente ci siamo ritrovati insieme per due serate a New York. Oltre al duo con Miles Okazaki, un altro progetto in duo è quello con il collega batterista Ari Hoenig: come è iniziata questa originale collaborazione? Credo che Ari ed io abbiamo sempre nutrito un reciproco rispetto l’uno verso l’altro. Ci piacciono le stesse cose riguardo alla batteria e al ritmo e così abbiamo pensato di suonare insieme. Credo che la prima volta sia stata forse 15 anni fa. Poi ci siamo ripresi 5 anni fa circa e abbiamo deciso di fare delle serate insieme, con della musica scritta e delle cose anche in forma libera. È sempre una festa suonare con lui, ci trasmettiamo l’un l’altro il meglio. E quando uscirà il tanto annunciato Cd insieme? Il Cd è terminato e pure masterizzato. Dobbiamo completare la veste grafica e la stampa. Dovrebbe uscire al più tardi in primavera. foto Tim Dickeson MARIUS NESET aurea esplosione di jazz di Marco Maimeri Energie fresche e istanze giovanili sono la linfa vitale di qualsiasi musica, soprattutto se ha nel Dna l’eclettismo e la rapidità che contraddistingue il jazz. Questo 25enne sassofonista norvegese si ispira a Michael Brecker, Coltrane e al conterraneo Garbarek, ma il suo eloquio e la sua scrittura fanno intravedere aspetti della creatività complessa e instabile di Wayne Shorter o Joe Henderson, come testimoniato dall’ultimo Cd “Golden Xplosion”. Fra i tuoi ispiratori vengono spesso citati John Coltrane, Ornette Coleman, Michael Brecker, Jan Garbarek, Wayne Shorter e Joe Henderson: che cosa puoi raccontarci dell’influenza di questi grandi maestri del sax tenore e soprano sul tuo stile? Hanno tutti avuto un’enorme influenza su me, specialmente Michael Brecker, Wayne Shorter e Jan Garbarek. Brecker è stato il mio primo grande eroe del sassofono e la sua energia combinata ad un complesso linguaggio armonico mi ha sempre affascinato moltissimo. Dato che poi sono norvegese, naturalmente anche Garbarek ha avuto una grande influenza su me: il suo sound, il più limpido che abbia mai ascoltato, mi è sempre piaciuto tantissimo. Shorter invece mi ispira più come compositore che come sassofonista: il suo modo di comporre è molto articolato, ha spesso forme estese ed è parecchio dettagliato, ma contemporaneamente c’è spazio anche per tanta libertà ed improvvisazione nelle sue composizioni. Questo aspetto mi intriga moltissimo e così cerco di comporre cose dello stesso tipo. Imparare a suonare il sassofono non è certo una cosa semplice. Durante l’apprendimento, come sei riuscito a cogliere il meglio dai musicisti con i quali venivi in contatto? Ho iniziato a fare pratica seriamente con il sassofono quando avevo circa dodici anni. Prima suonavo il pianoforte jazz, così conoscevo già bene le strutture armoniche, i ritmi e l’improvvisazione quando intrapresi lo studio del sax, e questo ha voluto dire molto. Mi ha reso estremamente più semplice comprendere i cambi degli accordi e le diverse misurazioni temporali. Inoltre, quando ero ancora adolescente, ho fatto parecchia pratica di scale ed arpeggi e ho sempre avuto uno spiccato interesse nei confronti dei ritmi difficili e di come utilizzare un complesso universo armonico in modo da creare musica affascinante. Ho poi trascritto John Coltrane, Joe Henderson, Charlie Parker, Michael Brecker e molti altri, cercando di trasporre ciò che maggiormente mi piaceva di questi strumentisti nel mio modo di suonare. Infine, sono sempre stato attratto dal portare avanti nuove idee personali, così invece di imparare modelli di scale scritti da altri, di frequente ho inventato patterns e frasi mie, e questo mi ha consentito di sviluppare la creatività e un mio specifico linguaggio musicale. Ricevi spesso eccellenti recensioni per il tuo talento di performer e di compositore. Quale di queJazzColo[u]rs | dicembre ’11 19 foto Sigvor Mala sti due aspetti ritieni più importante e in che modo hai approfondito il tuo linguaggio musicale e compositivo in questi ultimi anni? Entrambi questi aspetti significano molto per me, improvvisare e comporre sono facce della stessa medaglia, molti brani nascono mentre improvviso qualcosa al pianoforte o al sassofono o su un pattern ritmico. Nel momento in cui trovo l’idea “principale” per le composizioni, le altre vengono rapidamente, quasi di conseguenza. Tutto sta nel trovare la giusta forma e in questo il bilanciamento fra composizione e improvvisazione è qualcosa di davvero importante. Cerco sempre di utilizzare l’improvvisazione come parte della composizione stessa, un modo di andare dalla A alla B: l’improvvisazione deve scaturire da ragioni compositive e quando ciò accade, allora si raggiunge il massimo del risultato. Come è nato il tuo quartetto con il pianista e tastierista Django Bates e con la sezione ritmica dei Phronesis — Jasper Høiby al basso e Anton Eger alla batteria — e che tipo di esperienza è lavorare con musicisti così talentuosi? Lavoro con Anton Eger da otto anni ormai ed è probabilmente il musicista con cui ho suonato di più. È 20 JazzColo[u]rs | dicembre ’11 sempre un’esperienza grandiosa: ci conosciamo molto bene e a volte, quando ci esibiamo, sembra quasi che i nostri cervelli avviino automaticamente una sorta di connessione telepatica. Jasper Høiby, invece, l’ho incontrato alcuni anni fa, eppure finora non avevamo mai avuto occasione di suonare insieme in una band. È un musicista emozionante, inoltre ha un groove molto intenso e un fantastico suono al basso. In particolare, quale tipo di rapporto hai con Django Bates e come riesci ad interagire con lui in situazioni differenti come la big band Stormchaser o il combo Human Chain? Ho conosciuto Django Bates sei anni fa. È un musicista e un compositore straordinario e il suo modo di suonare dona alle mie composizioni una nuova dimensione. È stato semplicemente fantastico averlo accanto mentre interpretava da par suo la mia musica. Ho fatto parte della sua band, Stormchaser, per cinque anni ed è stata una sfida davvero avvincente affrontare i suoi brani: penso di aver imparato tanto sulla composizione solamente suonando i suoi pezzi. Ho anche realizzato alcuni concerti con gli Human Chain e anche quelli sono stati interessanti. Il modo con cui Django accom- pagna i miei assoli, inoltre, mi porta a suonare in maniera più creativa. Come è nato il tuo ultimo progetto discografico, “Golden Xplosion”, e che cosa hai provato a presentarlo dal vivo durante il tuo tour in Gran Bretagna e in Europa? Avevo scritto composizioni per due anni, prima di registrare “Golden Xplosion”, all’inizio del 2010. A parte Anton, non sapevo chi avrebbe partecipato. In realtà, avevo composto avendo in mente un pianoforte acustico, così quando Django l’ha suonato alle tastiere, mi si è come aperto un mondo nuovo, fatto di grande freschezza e sonorità avvincenti, e sono stato molto felice del risultato. Suonare la musica dal vivo, poi, è sempre meglio, è una di quelle cose che maggiormente preferisco fare. In quei concerti, la sostituzione di Django Bates con Nick Ramm quanto ha inciso sul tuo modo di suonare, di interagire con la band e di sviluppare le tue idee musicali? Ho utilizzato vari tastieristi nel corso di questi concerti live e abbiamo sempre fatto le cose in modo differente, il che mi piace. Django è un musicista davvero straordinario, ma, quando ho a disposizione altri strumentisti con i quali suonare la mia musica, voglio che siano se stessi e non che provino ad essere come Django. Anche questa cosa è interessante: vedere che la musica può essere suonata in modi differenti. Mi piace suonare con musicisti diversi, mi ispira, e probabilmente anch’io suono in maniera differente quando mi trovo a col- MaRiuS nESET laborare con musicisti diversi. Ma Anton e Jasper rimangono sempre stabili: sono strumentisti che conosco molto bene ed è per questo motivo che stiamo sempre insieme. Che cosa rappresenta per te la scena jazzistica britannica? Quale posto le assegni nel contesto europeo e quali differenze o analogie ci sono con la scena americana? Non ho suonato con moltissimi musicisti britannici, eccetto Django Bates, Ivo Neame, Nick Ramm e pochi altri. È una scena differente e per qualche ragione trovo che parecchi di questi artisti suonino bene la mia musica: è come se nei suoi confronti avessimo un approccio comune. Ho ascoltato un sacco di strumentisti inglesi, fra cui Iain Ballamy, John Taylor, Bill Bruford, Phronesis e altri. Non sono sicuro di quale sia la differenza con la scena americana ma generalmente penso che ci siano davvero tanti musicisti interessanti in Gran Bretagna, con un approccio molto aperto alla musica. Operi anche nell’ambito delle scene jazz norvegese e danese: che cosa ne pensi e qual è secondo te il loro posto rispetto all’ambiente europeo ed americano? Considero la scena norvegese davvero interessante: tanti penseranno a strumentisti come Jan Garbarek, il quale ha in un certo senso creato da solo il cosiddetto “Norwegian sound” e inoltre utilizza spesso molto silenzio nella sua musica. Indubbiamente è un artista straordinario che ha sviluppato uno stile personale estremamente riconoscibile. Ri- Per la composizione di due degli undici brani in scaletta si è fatto aiutare. Sullo (Edition Rec. - 2011) scoppiettante e ritmato Shame Us (suonato in trio senza piano), dal suo batterista di lungo corso Anton Eger, mentre su Saxophone Intermezzo II, dal chitarrista dei JazzKamikaze Daniel Heloy Davidsen. Per il resto, il sassofonista norvegese Marius Neset se la cava da solo, mostrando una penna capace di coniugare l’imprevedibilità di Wayne Shorter e il senso del ritmo di Joe Henderson. Ne sono un esempio l’eponimo Golden Xplosion (comprensivo di Introducing), City on Fire e Marius neset (sx), Django Bates (pn, The Real Ysj. Il modo di suonare del leader è tast), Jasper høiby (cb), anton Eger (bt) sempre sfaccettato ed intrigante. Specie nel solitario Old Poison (XL) come nei due Saxointroducing: golden Xplosion golden Xplosion phone Intermezzo e nell’Epilogue, basati su City on fire stillanti sovraincisioni. Il trio che lo sostiene Sane e lo incalza però si mostra altrettanto arold Poison (Xl) rembante e propositivo. La decisione di Shame us Django Bates di utilizzare le tastiere invece Saxophone intermezzo del pianoforte acustico reca con sé l’intenThe Real ysj zione di portare le composizioni davvero su Saxophone intermezzo ii un’altra dimensione, sonora ed espressiva. angel of the north Epilogue Ed è una scelta vincente nonché condivisa da golDEn XPloSion una batteria roboante e reattiva e da un contrabbasso turgido ed elastico. L’uso dell’elettronica è ben dosato e arricchisce lo spettro sonoro del quartetto con gusto ed incisività. In un’ottica più britannica che scandinava, a dire il vero, ma questo è il bello della commistione, della globalizzazione sonora: che valica i confini e le scene nazionali. Solo così è possibile concepire un conterraneo di Jan Garbarek che suona e pensa allo stesso modo di un corrispettivo americano di Steve Coleman, ascoltando fra l’altro gli inglesi Iain Ballamy, John Taylor e Bill Bruford. Ciò è figlio dei nostri tempi ma anche un modo di portare avanti e dispiegare il vessillo da sempre ibrido del jazz. Più tradizionale invece la ballad Sane, intensa e romantica, dove il gruppo si tramuta in un combo acustico, grazie ad un sax suadente, una batteria vaporosa, un basso ben tornito e un pianoforte iridescente. Pari formazione e risultato per l’esotico ed orientaleggiante Angel of the North, tributo nordico alla fusion mediterranea di Chick Corea e alle sue atmosfere aperte e raffinate._Ma.Ma. JazzColo[u]rs | dicembre ’11 21 foto Tim Dickeson tengo però che oggi vi siano un sacco di musicisti differenti in Norvegia, strumentisti davvero bravi e molto sperimentali nel combinare fra loro diversi generi musicali. Ci sono poi parecchi buoni conservatori lì in Norvegia e molti musicisti capaci provengono da là. Lo stesso si può dire per quanto riguarda la Danimarca. Tuttavia, penso che per tradizione gli artisti danesi siano un po’ più legati alla scena americana e per questo motivo abbiano forse un approccio un po’ più conservatore nei confronti del jazz. Ma anche questo credo che sia cambiato: oggigiorno i giovani musicisti danesi sono molto sperimentali. Nel progetto JazzKamikaze mescoli fra loro vari generi musicali come jazz, rock, elettronica e classica. Che tipo di esperienza è interagire con tutti questi stili differenti e che cosa contraddistingue questa dall’altra tua band regolare, i People Are Machines? Ho imparato un sacco di cose suonando con i JazzKamikaze: i cinque musicisti che ne fanno parte sono molti diversi fra loro e hanno backgrounds provenienti da ogni tipologia di musica, dal pop-rock alla classica, dal jazz all’hip-hop, fino al funk e anche oltre. Ciò rende la band capace di fare molte cose insieme e questo è davvero avvincente. Ci sono stati periodi in cui ci soffermavamo davvero tanto sui dettagli della composizione, dell’arrangiamento corale e su ogni singola nota che suonavamo. Questa è stata una cosa che mi sono portato appresso anche nei miei progetti personali: entrare nei dettagli di ogni singola nota che compongo e cercar di trovare sempre ciò che suona meglio. Che tipo di rapporto hai con il sassofono e per quale ragione hai scelto di realizzare un progetto discografico come “Suite for the Seven Mountains” per il tuo debutto da solista? Il mio rapporto con il sassofono è molto intenso. È una parte di me e davvero debbo suonarlo. Se per alcuni giorni non riesco a farlo, non trovo pace e non sto bene con me stesso. Amo suonare musica e ho bisogno di essere creativo. “Suite for the Seven Mountains” era un progetto che avevo realizzato per un quartetto jazz e un quartetto d’archi. Era perciò un qualcosa che già esisteva, da sperimentare con musicisti classici e strumentisti jazz. Sono stato molto felice quando l’ho terminato, dopo quasi due anni di alterna composizione, e ho deciso di pubblicarlo. Si trattava di un ensemble davvero esteso ed era difficile ottenere ingaggi in quel momento, anche perché non erano in tanti a conoscermi. Ma era lo stesso un gran progetto da portare avanti e sono molto contento che alla fine siamo riusciti a registrarlo. Di recente abbiamo realizzato alcuni concerti e ne faremo altri l’anno venturo. ss jazz & arts Pascal Martos il realismo visionario del jazz di Marco Maimeri I suoi ritratti sono figli dell’iperrealismo di Vallejo e Siudmak come della passione per groove, fusion e contaminazioni varie. Pone la sua esperienza d’artista al servizio del jazz, mostrandone i protagonisti e le sensazioni che ne accompagnano l’ascolto. Le sue opere più intriganti contrappongono musicisti e strumenti, evocando spesso riferimenti a storie ed oggetti di vita vissuta. Partiamo dalla mostra “Mars En Jazz” prevista a marzo nella tua città, Maisons-Alfort. Quali differenze ci saranno rispetto alle precedenti e quali nuove opere esporrai? Sarà simile alle altre. Dominique Edmond, direttrice della sezione musicale della mediateca di MaisonsAlfort, mi ha chiesto di portare tutti i quadri, non solo quelli jazz. Ci saranno ritratti di Miles Davis come di Marvin Gaye o Prince, per un totale di 40 tele e 10 istantanee di miei dipinti, realizzate dall’amico, attore e fotografo Jean-Claude Bourbault e scattate in vari posti di Parigi legati ai quadri e ai loro soggetti. Dato poi che continuo a dipingere, conterrà sicuramente opere nuove. Il pezzo forte sarà il tributo a “Bitches Brew” di Miles Davis fatto di recente. “Miles Davis 2” celebra sia la svolta fusion-jazz del protagonista sia l’arte di Mati Klarwein, illustratore dell’Lp di “Bitches Brew”. Che rapporto hai con la musica e la cover di quell’album? La copertina di “Bitches Brew” mi ha sempre stupito. È perfetta. Ne amo colori, stile e composizione. Mati Klarwein ne ha fatte altre ma questa è la mia preferita. E poi che musica! La prima volta che l’ascoltai, negli anni ’80, quando iniziai a sentire jazz, fu uno choc. Non ci capii nulla. Provai ancora e ogni volta che mettevo quel disco la musica mi penetrava sempre più e alla fine mi ha catturato! Iniziai a comprare Lp fusion-jazz di altri musicisti. Miles mi aveva aperto un mondo. Di recente ho letto la sua biografia scritta da George Cole e focalizzata sul periodo elettrico, “The Last Miles”, e ho capito cosa lo spinse a cambiare. Ho pensato che fosse tempo di dare indietro la mia arte a “Bitches Brew” per pagare tributo a Miles JazzColo[u]rs | dicembre ’11 23 e Mati, evidenziando alcuni momenti importanti della vita di Miles. Ho usato la simmetria e gli sfondi del dipinto di Mati: una tempesta sull’oceano e il cielo stellato di notte. Ho ritratto Miles metà giovane e metà vecchio, disegnato dalla sua stessa mano, perché era lui a decidere la direzione. Ho dipinto Juliette Greco nascosta da un papavero perché lui era così triste quando la lasciò per tornare in America che ricadde nell’uso di droghe pesanti. Da allora la tempesta invase la sua vita. Dall’altra parte, nascosta da una chitarra/tromba, c’è Betty Mabry (Davis), la seconda moglie, che lo influenzò molto nella svolta elettrica. Ho disegnato poi alcune luci, per l’amore verso il palco e la boxe, e la sigaretta, perché era sempre presente nella sua vita. Ho lavorato al quadro ascoltando “Bitches Brew” e questo mi ha aiutato ad infondervi l’amore per Miles e la sua musica. Come nascono di solito i tuoi dipinti e quali sono le principali fonti cui ti ispiri? L’idea per un quadro mi viene spesso dopo aver ascoltato musica. Un pezzo nuovo o uno dimenticato. A volte è innescata da un concerto che mi sta emozionando o mi ha profondamente commosso. “Trombone Shorty” è nato proprio dopo averlo visto suonare sul palco per la prima volta. Aveva tanta energia e talento. È stato fantastico: avevo bisogno di dipingere ciò che avevo provato. Dai ritratti che realizzi si capisce che sei un vero appassionato di musica. Com’è nato l’amore? Vengo da una famiglia spagnola e i miei primi ricordi sono la musica cubana suonata da Antonio Machin che mio nonno Manolo soleva ascoltare, così come il Golden Gate Quartet e Sidney Bechet. È stato lui ad introdurmi al “groove”. Poi, intorno ai 10 anni, mi sono spostato verso rock e soul: amavo Carlos Santana e la sua combinazione di rock e ritmi sudamericani. Poi vennero il funk e le sezioni fiati: Earth Wind & Fire, James Brown, Commodores, Kool & The Gang. Ho scoperto grandi musicisti e ho iniziato a leggere i crediti sugli Lp e quando un artista che conoscevo suonava da solo su un album, lo ascoltavo. Il jazz venne negli anni ’80: andavo all’università e nei negozi c’erano Miles Davis, Herbie Hancock, Wayne Shorter e George Benson. Chi erano i tuoi maestri ed ispiratori quando iniziasti a fare ritratti, nudi e altre figure e in che modo questo background ti ha aiutato a sviluppare un tuo stile anche su temi musicali? A scuola apprezzavo i grandi maestri come Michelangelo, Caravaggio o David. C’erano foto di loro opere sul mio libro di storia ed io le ammiravo. Volevo disegnare come loro un giorno — e ancora ci 24 JazzColo[u]rs | dicembre ’11 provo. Da ragazzo ho scoperto gli artisti iperrealisti come Boris Vallejo o Wojtek Siudmak. Ho lavorato da autodidatta per rendere sempre più veritieri e realistici i miei ritratti, migliorando la tecnica di lavoro con gli acrilici a partire dalle immagini che trovavo sulle riviste. Ora che faccio mostre, uso tutte le tecniche acquisite per ritrarre musicisti. I jazzisti che ritrai sono rari da trovare nelle gallerie di altri artisti. Come scegli i soggetti da dipingere? È solo questione di gusti o anche di incontri e concerti cui assisti come spettatore? Di fatto il soggetto è scelto seguendo entrambe le motivazioni. Quando non lavoro su commissione, dipingo solamente i musicisti che amo ascoltare e, in effetti, alcuni di loro non sono ritratti tanto spesso. All’inizio cerco di trovare una fotografia esente da diritti d’autore da utilizzare come modello. Poi penso a qualcosa circa il musicista da raccontare sulla tela o cerco di esprimere qualcosa che ho provato vedendolo esibirsi sul palco. Dopodiché metto la sua musica e attacco facendo uno schizzo su carta per avere un’idea delle dimensioni che più o meno avrà l’opera. Poi passo a fare un bozzetto su tela più preciso in bianco e nero. Infine, metto su quel disegno uno strato di gesso che mi permetta comunque di vederlo e comincio ad utilizzare i colori acrilici: è il modo più semplice che ho a disposizione. Vivi nei pressi di Parigi, città splendida quanto a cultura, musica e performance live, frequenti spesso concerti di artisti europei ed americani, eppure non ritrai mai musicisti francesi: perché? Non è una domanda facile. Naturalmente conosco alcuni musicisti francesi eppure questa cosa è difficile da spiegare: forse è dovuta al fatto che ho sempre ascoltato artisti americani e inglesi e su questi ho costruito le fondamenta della mia cultura musicale. Forse è anche un modo di viaggiare nella loro terra — non sono mai stato negli Stati Uniti — ed evadere dalla mia. Ad essere onesti, infatti, ho un amico che è un grande bassista francese, Chyco Simeon e ho anche un suo ritratto nella mia galleria, ma c’è da dire che anche lui ha radici nelle Indie occidentali! In conclusione, cosa puoi raccontare dei ritratti che realizzi contrapponendo un artista e il suo strumento, come in “Candy Dulfer”, “Esperanza Spalding” e “Hiromi Uehara”, o due musicisti diversi, per esempio in “John Lennon & Herbie Hancock”, “Lalah & Donny Hathaway” e “M3”? Il primo ritratto “metà e metà” che ho fatto in assoluto è stato “M3” con Miles Davis/Marcus Miller. L’ho dipinto appena ho saputo che Miller stava per andare in tour con “Tutu Revisited”. Ho amato quell’album e adoro entrambi questi artisti. Volevo rappresentare un’unica anima in una sola faccia, combinando i due personaggi. Terminato il disegno preparatorio, però, avevo paura del risultato, eppure alla fine, a quadro concluso, è venuto fuori qualcosa che alla gente è piaciuto moltissimo. Ora quel ritratto lo possiede proprio Marcus Miller. Ho trovato innovativo dividere una tela in due parti presentando l’artista e il suo strumento, così ho realizzato il quadro di Esperanza Spalding e ci ho lavorato ancora. Fino a farne altri. Forse troppi. Penso di aver raggiunto il limite per questo concetto. Ora, infatti, sto tornando a composizioni decisamente più classiche. Illustrazioni Nella prima pagina, in alto: l’artista; in basso: “Trombone Shorty” (2011), resina acrilica su tela. Nella pagina precedente: “Al Jarreau” (2009), resina acrilica su tessuto. In questa pagina, in alto: “Esperanza Spalding” (2010), resina acrilica su tessuto; qui a fianco: “Manu Katche” (2011), resina acrilica su tessuto. Per ulteriori informazioni: http://pascalmartos.com JazzColo[u]rs | dicembre ’11 25 CD DAVE DOUGLAS SO PERCUSSION BAD MANGO (Greenleaf - 2011) Il 2011 è sicuramente un anno molto intenso e importante per Dave Douglas. Sono infatti usciti ben quattro album a suo nome e per la sua etichetta, la Greenleaf: il primo, “United Front”, pubblicato in aprile, documenta un’esibizione dello splendido Brass Ecstasy dal vivo al Festival di Newport, mentre gli altri tre, ora in un unico cofanetto, fanno parte di una serie denominata GPS, Greenleaf Portable Series. Nel giro di soli tre mesi, da giugno ad ottobre, Douglas ha immesso sul mercato tre lavori completamente differenti per spirito, formazione e direzione artistica. Si tratta infatti di albums di durata differente, dai 35 ai 50 minuti circa, scaricabili ad un prezzo contenuto direttamente dal portale della label. Il primo vede ancora protagonista la Brass Ecstasy in una registrazione negli studi di Brooklyn con nuove composizioni scritte appositamente, più una trascinante versione di Lush Life. Nel secondo, “Orange Afternoons”, uscito in agosto, è all’opera un quintetto di tutte stelle composto da Ravi Coltrane al sax tenore, Vijay Iyer al pianoforte, Linda Oh al contrabbasso e Marcus Gilmore alla batteria. Sei le composizioni e tutte nuove. Infine l’ultimo disco, sicuramente più sperimentale e intrigante, è questo Bad Mango in esame, uscito in ottobre. La tromba acidula e asprigna del leader si misura in vecchi e nuovi brani con So Percussion, un gruppo formato da quattro percussionisti, Erich Beach, Adam Sliwinski, Jason Treuting e Josh Quillen. L’amore per Lester Bowie e l’Art Ensemble of Chicago continuano ad ispirare Douglas, pur se in modi e direzioni del tutto personali. Se la Brass Ecstasy è una derivazione piuttosto evidente della Brass Fantasy, pur diversificandosi alquanto nell’approccio e nello sviluppo delle trame, Bad Mango non può non richiamare gli episodi più africaneggianti dell’AEoC. Ma mentre Bowie e compagni sviluppavano i ritmi in maniera tribale, quasi arcaica, il So Percussion utilizza un numero sterminato di oggetti e strumenti in chiave paesaggistica e stratificata. Marimbe, crotali, gong, drumset, campane, glockenspiel, perfino una sega percossa con martelletti, foto Giorgio Alto recensioni Musicisti richiamano più il M’Boom Re Dave Douglas (tr), Eric Beach Percussion di Max Roach che non (estey org, progrmm, sega musiDon Moye e Roscoe Mitchell. L’enorme energia dispiegata ra- cale, ogg, metronomi, shruti box, crotales), Adam Sliwinski (marmb, ramente viene utilizzata per ogg, grancassa, glockspl), Jason marcare un beat, piuttosto diseTreuting (bt, melod, campane), gna autonomamente una serie di Josh Quillen (sint Korg, vocoder, prc) ritratti di matrice contemporanea e colta sui quali si innesta la Brani tromba ora splendidamente liOne More News rica e struggente ora nervosa e Bad Mango zigzagante. Due brani dei sette Nome Witness che compongono questo disco Spider sono remakes di vecchie inciOne Shot sioni: la morbida e seducente Time Leveler One Shot, proveniente dal Tiny Bell Trio, e Witness, dai colori medio-orientali. Time Leveler, il brano che chiude il Cd, è la summa della grazia ispirativa di Douglas._Ro.De. L’album che ha segnato la svolta musicale nella tua vita? Lisa dagli Occhi Blu, di Mario Tessuto, regalatomi da mia zia di Novara quando avevo 5 anni. Quello che consideri cruciale per la musica jazz? Ogni album di Charlie Parker. Il disco che ami più di tutti fra quelli di sassofonisti? The New Tristano, Lennie Tristano. Quello che ascolteresti durante un viaggio in auto? Vado a periodi, ma spesso ascolto musica medioevale e varie canzoni pop. Un album non di jazz ascoltato di recente che ti è piaciuto? Un Dvd del gruppo Musica Antiqua di Colonia che esegue L’Arte della Fuga di Bach. 26 JazzColo[u]rs | dicembre ’11 foto Davide Susa I 5 dischi imprescindibili di Glauco Venier STEVE ColEMan Steve Coleman (sc), Tim albright (tbn), Jonathan finlayson (tr), Marcus gilmore (bt), Tyshawn Sorey (bt), Thomas Morgan (bs), Ramón garcía Pérez (prc, vc), Jen Shyu (vc) Jan 18 formation 1 odú ifá Suite fire-ogbe Earth-idi air-iwori Water-oyeku formation 2 noctiluca (Jan 11) anD fiVE ElEMEnTS ThE ManCy of SounD La musica come qualcosa di strettamente collegato alla vita e alla natura, intese non come mero dato immanente, bensì come influenze costanti con i loro elementi, i cicli, i colori, le fasi astrali. È questa la prospettiva ormai assunta da Steve Coleman e dal suo Five Elements. Da sempre al centro della sua opera, le suggestioni filosofico-naturali sfiorano con gli Elements la sublimazione. Non a caso questo The Mancy of Sound è da considerare prosieguo del precedente “Harvesting Semblances and Affinities”, rispetto al quale raggiunge una luminosa ed illuminante compiutezza. Anche la scaletta è pensata con naturale perfezione: apertura e chiusura affidate a Jan 18 e Noctiluca (Jan 11), brani connessi al ciclo lunare, mentre, con simmetria, secondo e penultimo, Formation 1 e 2, sono tratti da una partitura per sassofono ed orchestra, commissionata al nostro dall’American Composers Orchestra, con un gusto jazzistico per il contrappunto tra fiati e voce evidenziato dalla complessità delle cubature melo-armoniche. Al centro, la Odú Ifá Suite, ispirata al sistema divinatorio-filosofico degli abitanti di lingua yoruba dell’Africa occidentale e in origine scritta per Cassandra Wilson, che a Coleman aveva suggerito aRaT Kilo MaRCo TaMBuRini lower Three Colours: Marco Tamburini (tr, elettr), Stefano l’idea di comporre sul sistema. I suoi quattro episodi si richiamano agli elementi naturali, cardini dell’Odú Ifá: Fuoco, Terra, Aria, Acqua. Scoppiettante Fire-Ogbe su una moltitudine di ritmi, uno diverso per ogni strumento e tutti riconducibili e ricondotti al pedale d’avvio sax-contrabbasso, sorta di leit motif di tutta la suite. Ipnotico il canto dei due vocalist in Earth-Idi, più rallentato del precedente. Danzante e quasi latin il tema di Air-Iwori, con maggiore esposizione degli strumenti, il contralto a delineare ripetutamente la cellula tematica e spazi liberi per i solisti. Penetranti le scansioni poliritmiche che animano Water-Oyeku, sormontate dagli intrecci di fiati e cadenze vocali. E nonostante le implicazioni di partenza, la musica è immediata e — appunto — naturale. Così la combinazione delle due batterie, Marcus Gilmore e Tyshawn Sorey, a convivere in simbiosi non solo fra loro ma pure con le percussioni del mancengo Ramón García Pérez: un’abbondanza che mai è ridondanza. Nulla da dire sulla suadente voce di Jen Shyu, e sciocco sarebbe ogni confronto con la scura vocalità della Wilson, musa dell’M-Base. Ultima notazione, la copertina riproduce lo schema del sistema Odú Ifá._An.Te. a nighT in aBySSinia Un misto di funk, world, ethno e fusion jazz. Su tale linea si dipana il disco d’esordio realizzato da un gruppo di giovani musicisti francesi con il pallino per la musica etiope. Desideroso di trascorrere “una notte in Abissinia”, il quintetto si fa accompagnare in questo esotico ed avvincente viaggio da tre amici, Socalled, Rokia Traoré e il mitico Mulatu Astatke, padre dell’ethio-jazz, presenti rispettivamente in Babur (Part 1), Get a fabien girard (ch, balafon), Michael havard (sx, fl), Camille Chew e Dewel. Il groove della band d’oltralpe è floriot (tr, flc, ney), Samuel euforico e poroso. Fabien Girad punta su figure hirsch (bs, kalmb), arnold Tur- ritmiche elaborate ed insistenti e su un sound acpin (bt, melod) quoso ed ispirante. Il suono elettrificato della ospiti: Socalled (vc), Rokia chitarra nei soli è ben calibrato ed intrigante. Traoré (vc), Mulatu astatke (vb) L’elastico duo basso/batteria, costituito da Samuel Hirsch ed Arnold Turpin, procede all’uniaykèdashem lebé, sono in maniera compatta e possente, mentre i Babur (Part 1), Babur (Part 2), lelit, get a Chew, fit le fit, fiati di Michael Havard e Camille Floriot si punDewel, addis Polis, golano vicendevolmente intrecciando linee gruEnie Konjo (intro), mose e stranianti in un call and response Enie Konjo, Ewnètègna feqer suadente e brioso. C’è un grande affiatamento e Wanz, Minew Jal (intro), un laborioso interplay fra i componenti di queMinew Jal sto speziato quintetto: l’ingresso di ospiti selezionati e compenetrati perfettamente (onlyMusic/Milan/universal – 2011) nell’estetica del progetto non può che portare con sé un ulteriore arricchimento sonoro. E così è. Il contributo del rapper canadese di origini ebraico-ucraine Socalled, ad esempio, dà un tocco decisamente più hip-hop klezmer alla musica già afro-orientaleggiante del gruppo, mentre la partecipazione dell’artista maliana Rokia Traoré, che canta nella lingua del suo popolo, i Bambara, apre nuove strade etniche e nuovi influssi narrativi a possibili ed evocative contaminazioni. L’inserimento del vibrafonista etiope Mulatu Astatke, infine, riporta tutto su direttive più conformi ad un leggiadro e suadente ethnofree. Alla scelta di collaborare con quei musicisti si affianca poi l’uso altresì arricchente, in sovraincisione o in presenza, di strumenti alternativi come balafon, flauto, ney, kalimba e melodica, da parte dei membri del quintetto. Un segno di grande eclettismo personale ma anche di un polistrumentismo corale al servizio delle idee portate avanti dalla band e mai fine a se stesso. Insomma, gli Arat Kilo sono davvero una bella scoperta, una di quelle che vale la pena fare prima o poi._Ma.Ma. ConTEMPoRanEo iMMaginaRio Dopo aver tenuto per anni una condotta prevalentemente orientata verso una dialettica hardboppistica, il trombettista Marco Tamburini ha trovato in Onorati e Paolini i partner ideali per imprimere una decisa virata elettro-acustica al suo percorso musicale. Denominato Three Lower Colours, il trio è nato in occasione della sonorizzazione di “Sangue e Arena”, vecchio film muto del 1922, per un progetto editoriale pubblicato lo scorso anno. Seguendo un processo inverso, que- (Pi Rec. – 2011) (note Sonanti - 2011) sta volta il trombettista romagnolo lascia che sia la sua musica ad evocare le immagini del film immaginario creato dalla fantasia dell’ascoltatore, esibendo composizioni che, seppur nella loro dimensione moderna, presentano un forte valore narrativo. Ad arricchire ulteriormente le qualità suggestive di questo lavoro interviene il quartetto d’archi Vertere String Quartet, ensemble non nuovo a collaborazioni in campo jazzistico, intento a disegnare ampie ed elegiache volute che JazzColo[u]rs | dicembre ’11 27 onorati (pn, tast, elettr), Stefano Paolini (bt, elettr) Vertere String Quartet: giuseppe amatulli (vl), Rita Paglionico (vl), Domenico Mastro (vla) il Mercato delle Spezie nebbie arabesque Contemporaneo immaginario oltre l’orizzonte Blu Elettrico il Suono del Vento albe Medina Knives out avvolgono i brani in una rassicurante ed elegante coltre sonora. Filtrato dall’ausilio elettronico il suono di Tamburini propone una sfaccettata gamma di colori e timbri che si amalgamano, lasciandosi trasportare dalle correnti liriche generate dagli archi, come accade in Nebbie. Una pungente zaffata di spezie orientali accoglie, invece, nel solenne harem di Arabesque, per poi ritornare, arricchita dalle percussioni nordafricane di Paolini, in Medina. Non era facile gestire e calibrare i vari elementi in gioco, ma Tamburini ci riesce bene, calandosi nel ruolo di attore principale con sicurezza e maturità, grazie anche al sagioVanni MazzaRino QuaRTET in SiCilia una SuiTE Quella di Giovanni Mazzarino è una scrittura che muove dall’anima, pervasa da un lirismo molto evansiano, perfettamente calato nel contesto dei chiaro-scuri della sua Sicilia. In questo lavoro il pianista peloritano ricorre ad un’articolata suite per fotografare in musica scorci ed atmosfere di alcune incantevoli località siciliane, chiamando a sé l’oriundo corregionale Rosario Bonaccorso al contrabbasso, Nicola Angelucci alla batteria e giovanni Mazzarino (pn), Max ionata (sx), Rosario Bonaccorso Max Ionata ai sax. Le riflessive esposizioni del (cb), nicola angelucci (bt) piano, spesso solitarie, mettono a nudo il jazzista siciliano, la sua musica, il suo intimo rapporto con Muorica, ibla, Milo, Stromboli, lo strumento. Ma i temi si accavallano e fondono Marzamemi, Rosa di ionia, l’uno nell’altro, mescolandosi allo scenario i Ceri e i Devoti, Piazza, aperto e cangiante dell’Isola e passando dai comganzirri, noto, Scicli, positi tempi dispari di Muorica e Milo (una danza Morgantina, ortigia, di raffinata leggerezza vestita da 5/4), alla maTaormina, Scoglitti linconia di Marzamemi, sulle spazzole di Angelucci, e Scicli, una progressione discendente con felice copertura ritmica della coppia AngelucciBonaccorso ed uno splendido gioco di bassi di piano sotto l’intervento solistico di Ionata. Stromboli erompe dai tamburi di Angelucci e un rovente pedale di Banoccorso, su cui il tenore si erge Phil WooDS Phil Woods (sa, pn, vc) Requiem 1 hank Jones you Stepped out of a Dream Pensive Stay as Sweet as you are i’ll never Be the Same yesterdays last night When We Were young 2 4 Me 2 i’ll Keep loving you gary yesterday’s gardenias Sweet and lovely Blue Room Requiem 2 28 JazzColo[u]rs | dicembre ’11 piente supporto in sala regia dello stesso Onorati, con il quale divide l’onere dell’arrangiamento. Attraverso le loro concertazioni, moderno e classico convivono in Oltre l’Orizzonte, e si danno battaglia a colpi di frenetiche ritmiche drum’n’bass in Blu Elettrico, portando alla mente certi esperimenti provenienti dalle nordiche latitudini di trombettisti come Nils Petter Molvær. Anche il rock dei Radiohead, da tempo sdoganato jazzisticamente e assurto a moderno standard per via delle sue ambigue valenze armoniche e ricercate soluzioni ritmiche, rivive nell’adamantino adattamento di Knives Out._Ni.Co. prima fiero per l’arabeggiante tema e poi interlocutorio sul contrabbasso: un furore selvaggio che per contrasto si sopisce sulle note del piano, in un rasserenante swing, lento moto ondoso dell’imperturbabile mare. Il brano più sfrecciante, I Ceri e i Devoti, rievoca la festa della patrona di Catania, Sant’Agata, venerata fra i ceri votivi delle corporazioni, quasi in concorrenza tra loro, ed il credo popolare dei devoti. Se il tenore caratterizza la drammaticità — a parte in Noto — il soprano invece si libra sui temi più amabili, come Ganzirri, con persuasivo monologo del contrabbasso, o la già citata Milo, con l’unica eccezione di Piazza, pura poesia in musica che Mazzarino dedica alla cittadina che lo praticamente adottato, Piazza Armerina: eseguita prima in piano solo, poi in trio ed infine con l’inserimento molto sentito del soprano, penetra la sensibilità dell’ascoltatore. Particolare è pure Morgantina, un capolavoro di armonia, mentre Scoglitti chiude in solo piano l’album, sugli echi di alcuni canti popolari. Il libretto è un prezioso albumino fotografico di Pino Ninfa, con immagini dei luoghi per cui passa “In Sicilia una Suite”._An.Te. DialoguES WiTh ChRiSToPhER L’ennesimo documento registrato da Woods per l’etichetta di Paolo Piangiarelli (della quale rappresenta il musicista-simbolo) si sarebbe dovuto originariamente intitolare “Dialogues with Myself”, in considerazione della scelta di sovraincidere tutti gli strumenti. Il sassofonista ha poi deciso di dedicare il disco al nipotino Christopher, nato nel gennaio scorso. Com’è noto, da tempo Woods (classe 1931) è affetto da enfisema polmonare. Tuttavia, le precarie condizioni di salute non ne pregiudicano più di tanto l’emissione e il timbro, né tantomeno le felici intuizioni nel fraseggio, caratterizzato da ampie curve melodiche, pregnante senso del blues e sagace inventiva. Non ci sono trucchi del mestiere in questo disco: la decisione di incidere in solitudine sembra essere scaturita da una necessità di mettersi in gioco — anzi, quasi a nudo — a dispetto del prestigio acquisito, dell’età e dei limiti che comporta. Inoltre la sovraincisione, adottata in quasi tutti i brani, crea soluzioni stilisticamente e timbricamente tanto varie quanto interessanti. Si prendano ad esempio i due Requiem: nel primo, sull’accompagnamento pianistico cadenzato, (Jazzy Rec. – 2011) (Philology - 2011) l’alto assume tinte quasi alla Hodges; nel secondo, Woods ha composto un quartetto di sassofoni che sembra unire idealmente i Four Brothers dello herd di Woody Herman al World Saxophone. Questa benefica “moltiplicazione” permea in forma diversa parecchi brani, a cominciare dalla dolente dedica a Hank Jones. L’altro originale, 2 4 Me 2, prende le mosse da un duo di contralti, poi esteso a quartetto. Woods procede in maniera analoga anche nell’interpretazione di I’ll Never Be the Same, col progressivo allargarsi del dialogo a più voci. Anche tutti gli altri standard presi in esame sono affrontati con felici intuizioni: in particolare Last Night When We Were Young, Yesterday’s Gardenias e, ancor più, Blue Room di Rodgers-Hart e I’ll Keep Loving You di Bud Powell vedono Woods cimentarsi esclusivamente al piano con approccio scarno, acume armonico e sapienti pause. Stay As Sweet As You Are e Gary (omaggio a McFarland) includono anche interventi vocali che rivelano i segni prodotti dalla malattia sull’uomo: indice di onestà intellettuale ed arte autentica che contempla l’imperfezione._En.Bo. EnRiCo inTRa Enrico intra (pn, cond), giulia Molteni (pn), Dino Rubino (tr), andrea andreoli (tbn), Mattia Cigalini (sa), francesco Diodati (ch), alessandro lanzoni (pn), gabriele Evangelista (cb), Paolo orlandi (bt) Preludio da anbahnen Scherzo Suite op. 14-iV movimento Suite op. 14-ii movimento improvvisazione n. 2 Sostenuto Suite op. 14-i movimento allegretto andante Suite op. 14-iii movimento improvvisazione n. 1 adagio da anbahnen 442 secondi Raquel ninna nanna Con questo lavoro Intra approfondisce una ricerca tesa ad individuare e rinsaldare i legami tra il retroterra europeo del Novecento e il linguaggio jazzistico. Un itinerario intrapreso con “Nuova civiltà” ed approdato in anni recenti a “Le case di Berio”. Qui Intra affianca quattro movimenti della Suite op. 14 di Bartók a ben sette composizioni tratte dalla sua Anbahnen op. 10. Efficace e significativa si rivela la scelta di affidare le pagine bartokiane a Giulia Molteni, sua allieva presso i Civici Corsi di Jazz di Milano e al tempo stesso studentessa di conservatorio. I quattro movimenti, in ordine rivoluzionato, si incastonano in un percorso omogeneo che comprende sei estratti da Anbahnen (fra cui, il settimo, Ninna nanna). La finalità evidente è quella di dimostrare la vicinanza — superiore rispetto alle apparenze — del mondo espressivo del compositore ungherese a certi aspetti ritmici ed armonici dell’universo jazzistico. Un’esplorazione del resto già avviata in alcune aree del jazz contemporaneo: basti pensare a Chick Corea e alle sue Children’s Songs; o, tanto per rimanere nei confini nazionali, all’interessantissimo lavoro condotto sui Mikrokosmos da Stefano Battaglia con il gruppo 3 Quietmen in “Bartokosmos”. La giovane pianista interpreta egregiamente, con grande varietà dinamica e timbrica, la lenta aggregazione di nuclei del quarto movimento; i marcati accenti WaDaDa lEo SMiTh’S oRganiC Wadada leo Smith (tr, tr.el), Michael gregory, Brandon Ross, Josh gerowitz, lamar Smith (ch.el), Pheroan aklaff (bt), John lindberg (cb, bs.el.ac), Skúli Sverrisson (bs.el, bs6), angelica Sanchez (pn, Wurlitzer), Stephanie Smith (vl), Cassey Butler (st), Cassey anderson (sa), Mark Trayle e Charlie Burgin (laptop) Don Cherry’s Electric Sonic garden heart’s Reflections Splendors of light and Purification: The Dhikr of Radiant hearts Pt. i & Pt. ii, The Majestic Way, The Shaykh, as far as humaythira, Spiritual Wayfarers, Certainty, Ritual Purity and love Pt. i & Pt. ii heart’s Reflections (cont.): Silsila, The Well: from Bitter to fresh Sweet Water Pt. i & Pt. ii The Black hole (Sagittarius a)/ Conscience and Epic Memory leroy Jenkins’s air Steps Piani DiVERSi ritmici del secondo; i sentori di danza popolare del primo; infine, lo sferzante andamento ritmico del terzo. Per parte sua, Intra infonde uno spirito analogo, di derivazione in parte anche stravinskijana, nella segmentata struttura ritmica dello Scherzo. Altri passaggi rivelano alcune componenti della sua sfaccettata identità. Il Preludio emana da una parte echi di Satie, dall’altra un afflato espressionista che ci si potrebbe arrischiare a definire “post-mahleriano”. L’Allegretto contempera elementi weberniani ed affinità con la poetica di Paul Bley, segnatamente per il lavoro sul registro grave. L’Andante si segnala per l’indagine sulle cellule scaturite da un nucleo melodico, mentre l’Adagio mette in mostra una successione di frammenti certosinamente distillati con l’uso del pedale. Nei loro tre minuti e mezzo complessivi le due improvvisazioni congiungono idealmente eredità europea ed afroamericana: in particolare Improvvisazione n. 1 sembra riassumere in poco più di un minuto il rigore del succitato Bley, le ribollenti tensioni di Cecil Taylor, le sperimentazioni timbriche di Henry Cowell e l’interesse per il blues di Conlon Nancarrow. Dal vivo al Piccolo Teatro di Milano e dedicata ad Andrew Hill, 442 secondi è una conduction sviluppata per successione di quadri ed assoli, privilegiando cambi metrici e polifonie free. Dunque, un’ennesima prova della lungimiranza di Intra._En.Bo. hEaRT’S REflECTionS Dopo le uscite in quartetto e l’album in duo con l’indimenticato Ed Blackwell, Wadada Leo Smith torna a colpire, dall’alto dei suoi giovanili settant’anni appena compiuti, per celebrare la musica dell’innovativo Don Cherry e di Leroy Jenkins, proseguendo così sulla scia del progetto “Yo Miles!”, tributo alla fase rock di Miles Davis. Ne viene fuori un doppio album articolato tanto quanto la composita band Organic, già protagonista nel precedente “Spiritual Dimensions” (Rune/Cuneiform, 2009), qui in formazione allargata. Vibrante d’effetti la sua tromba in Don Cherry’s Electric Sonic Garden, doviziosa la dotazione di chitarre — più lineare Michael Gregory, più refrattario e muggente invece Brandon Ross — ed il piano di Angelica Sanchez è l’elettrico Wurlitzer, per un brano dinamico e graffiante. La suite dedicata al maestro sufi Shaykh Abu al-Shadhili si estende su entrambi i Cd. Splendido il binomio Smith-akLaff nella prima parte di The Dhikr of Radiant Hearts, nella seconda ancora la Sanchez e John Lindberg in un profondo intermezzo solistico. In The Majestic Way si confrontano le chitarre di Gerowitz e Gregory, linee pulsanti e scorrevoli sul possente disegno basso di Lindberg e le rutilanti batterie di akLaff, che chiudono con adamantini piatti. Il riff melodico di The Shaykh è corale, una gioiosa preghiera su cui spicca la sordina del leader, per trasformarsi poi, in Spiritual Wayfarers, in un raccolto momento cameristico. La musica torna battente con (alfamusic - 2011) (Cuneiform/Rune - 2011) Certainty, mentre se la prima parte di Ritual Purity and Love è incentrata sui laptop di Trayle e Burgin ed il violino di Stephanie Smith, la seconda è smossa da un trio particolarmente spingente: akLaff, Sverrisson e Lindberg. Il secondo Cd prosegue la suite con il luminoso assolo di akLaff in Silsila, coloristicamente sostenuto dai compagni, e The Well: from Bitter to Fresh Sweet Water, con Smith artefice di uno sferzante fraseggio sulle energiche propulsioni dell’accoppiata akLaff-Sverrisson (parte I) e di un periodare disteso ed assorto su sporadici inserti di piano, chitarra e laptop (parte II). Sulla stessa falsariga il primo episodio di The Black Hole (Sagittarius A)/Conscience and Epic Memory dedicato a Toni Morris (autrice di una trilogia sulla storia afroamericana), con intrusioni elettroniche dei due consollisti, seguite da un meditativo e ricercato intervento acustico della Sanchez, sospeso fra i piatti di akLaff ed il basso di Sverrisson. Chiude l’intero lavoro Leroy Jenkins’s Air Steps, dedica al grande violinista scomparso nel 2007: la tromba di Smith si mostra nuda, molto sofferta ed intensa, attorniata alternativamente da quasi tutto l’Organic, nel finale con impeti rockeggianti attenuati dal prevalente taglio jazz impresso dal titolare. Wadada Leo Smith si mostra dunque ancora capace di dire la sua con concept moderno ed una voce strumentale fortemente radicata nella tradizione ma di fatto destinata a sviluppare i germi di un glorioso passato._An.Te. JazzColo[u]rs | dicembre ’11 29 KoPToR fiRE SinK Solo il trasferimento a Copenhagen del leader, il batterista canadese Kevin Brow, spiega perché a tre anni dall’omonimo Cd d’esordio il quartetto Koptor si presenta rifondato e per tre parti danese. Grazie alla sua pertinacia e capacità d’indirizzo, questa seconda uscita risulta anche più intensa della prima, e probabilmente parte del merito va a Lotte Anker, sassofonista d’avanguardia da sempre più che originale. Completano l’orKevin Brow (bt, vb, comp), ganico il 36enne Anderskov, pianista molto lotte anker (sx), Jacob anderskov (pn), Jeppe Skovbakke (bs) promettente, e il giovane Skovbakke, bassista poco noto ma di gran solidità. Le composizioni di Brow rispondono a slanci emotivi diversi, in tutte 3 gears è rintracciabile un primigenio disegno ritmico, 21 Maaneder Riverspeaks ma non per forza ne è artefice la batteria, anzi Planks Below più spesso tutto procede dal piano: ora insieme al intellectual Sex basso, come nella breve 3 Gears — corrosivo l’asfire Sink solo della Anker —, ora con il sax, come avviene Penny Crushing in Riverspeaks, cui solo dopo si aggiungono la invisible Rikke frizzante batteria ed un basso martellato. In 21 Bronx Park WPg MB Maaneder la misura è disegnata dai rullati e da Wheael lunghe note del soprano, mentre il piano distende cadenzati arpeggi che ne riquadrano tutto il percorso. Planks Below assume nel trio un contegno DaViD W EiSS & PoinT David Weiss (tr), J.D. allen (st), nir felder (ch), Matt Clohesy (cb), Jamire Williams (bt) Revillot gravity Point Paraphernalia hidden Meanings Snuck in of DEPaRTuRE lED meditativo che l’insistente basso fa inevitabilmente accostare all’Esbjörn Svensson Trio. Misurati giochi di spazzole in Intellectual Sex, prima voce il sax della Anker, cui si uniscono al raddoppio il piano o il basso, scarni e contrappuntistici: un clima rarefatto che Brow scompagina con scosse di piatti e tamburi, scortando il gruppo verso una concitata danza. Stile del quartetto è una raffinata sintesi fra il citato E.S.T. e certe sonorità diafane e riflessive di Garbarek: si ascolti la prima parte dell’eponima Fire Sink, aperta in seguito ad un assolo del soprano dalle modulazioni surmaniane, complice il sostenuto pedale ritmico. Timbricamente stuzzicante la combinazione vibrafono-sax in Penny Crushing, mentre, avviata da un vibrante e rassicurante piano, Invisible Rikke perviene con il sax ad una asimmetrica spazialità, squarciata da decise esplosioni collettive, per poi spegnersi dolcemente. Dopo la nervosa Bronx Park WPG MB, poco più di 2 minuti di piano-basso-batteria, gli incalzanti ottavi sincopati di Wheael mostrano che ci sarebbe ancora altro da dire in termini di potenzialità espressiva, rinviando forse ad un prossimo Cd._An.Te. SnuCK ouT Ci sono incisioni che, per alcuni musicisti, diventano stendardi da issare a dimostrazione di importanti traguardi espressivi o cruciali passaggi nella loro evoluzione musicale. È quello che capita di pensare nel caso dell’ultimo lavoro del trombettista e compositore David Weiss. Snuck Out comprende, infatti, il secondo set di un concerto — il primo era apparso sul precedente “Snuck In” — tenuto da Weiss e i suoi Point of Departure nel marzo 2008 allo Jazz Standard di New York, e ne conclude la documentazione sonora. Data l’estrema soluzione di completezza scelta, Snuck Out rappresenta, evidentemente, un’importante fase evolutiva per Weiss che, dopo diversi lavori in testa al New Jazz Composers Octet, in cui aveva messo in luce le sue qualità di arrangiatore, ha battezzato il vigoroso quintetto protagonista di queste session scomodando il titolo di un celebre disco di Andrew Hill. Tra gli intenti del trombettista c’è quello di esplorare le linee tangenti tra innovazione e mainstream utilizzando la grana grossa dell’esecuzione live: energia, groove e serrato interplay magnetizzano l’attenzione dell’ascoltatore trasportandolo in (Sunnyside - 2011) un rutilante vortice di improvvisazioni torrenziali e multiformi masse sonore. Il suono di Weiss spicca su tutti per vigore, limpidezza ed impeccabile fraseggio in perenne equilibrio sui diversi modi di intendere l’improvvisazione. In una scaletta scritta esclusivamente da trombettisti come Moore, con Gravity Point e Snuck In, Tolliver, con Revillot, e lo stesso leader con Hidden Meanings, fa eccezione Paraphernalia, firmata dall’ancia di Shorter. Per dovizia di cronaca, nelle note di copertina Weiss fa un appunto circa l’ultimo brano in scaletta, Snuck In: ascoltandone la registrazione e ritenendo l’esecuzione non all’altezza degli altri pezzi che compongono il set, sceglie di rimpiazzarne la versione dal vivo con una registrata in studio qualche tempo prima. Una decisione, questa, che potrebbe far storcere il naso a qualcuno, offrendo l’occasione per una riflessione: un musicista che decide di suonare una musica, avventurosa per vocazione, come il jazz, non dovrebbe accettare tutti i rischi insiti in essa, preferendo, ad un’effimera estetica formale, un’imperfetta, ma più onesta, estemporaneità espressiva?_Ni.Co. ThE oCEan Trasfigurare celebri brani di musica rock è ormai pratica consolidata nell’ambito del jazz. Creare una band che faccia esclusivamente questo è cosa differente. Led del batterista Peter Danemo è un sestetto tutto svedese votato alla musica dei Led Zeppelin. E quel che colpisce anche di più è che non c’è nessuna chitarra, né piano o tastiera di sorta: solo strumenti acustici, ance e fiati, nils Janson (tr), Thomas Backoltre ovviamente alla batteria. Non ci sarebbe man (sa, cl), Mats Äleklint (tbn), neppure un basso, mirabilmente coperto dalla alberto Pinton (s.br, fl), Pertuba di Per-Åke Holmlander, se non fosse per il (fSnT - 2011) (Kopasetic - 2011) cameo di Dan Berglund. Del resto, Danemo è batterista di lungo corso — classe ’61 — e vanta una conoscenza del rock dell’epoca niente affatto trascurabile. Con la linea principale affidata al trombone, Dazed and Confused spiazza subito proprio per l’ambientazione radicalmente diversa rispetto al metallo dell’originale. Misty Mountain Hop fornisce un buon esempio dell’interplay fra gli elementi, richiamando in taluni passaggi perfino la Arkestra di Sun Ra. Serpeggiante e quasi orientale il clarinetto in The Rain Song s’insinua JazzColo[u]rs | dicembre ’11 31 Åke holmlander (tb), Peter Danemo (bt), Dan Berglund (bs) Dazed and Confused, four Sticks, Ten years gone, Misty Mountain hop, That’s the Way, Black Mountain Side, The Crunge, no Quarter, The ocean, The Rain Song, Kashmir fra la batteria e gli altri fiati. Spettacolare la trascrizione di Four Slicks per le varie sezioni dell’organico, con un abrasivo assolo del baritono. Si giunge perfino in clima avanguardistico con l’inizio di That’s the Way, che poi passa ad un lineare e pacifico sussurro del sax contralto, fino al nuovo ruggente assolo del baritono, il cui contributo al sound della band è davvero fondamentale, come pure quello di tuba e trombone. Sicuramente particolare anche la performance di Dan Berglund in No Quarter. Tutti i pezzi dei miERiC hofBauER & ThE infRaRED BanD Eric hofbauer (ch), Kelly Roberge (st), Sean farias (cb), Miki Matsuki (bt) These Two Things la ligne de Chance Castor and Pollux The faction Murder for a Jar of Red Rum Surely Some Revelation Spy vs Spy ghosts and giants Pocket Chops Julian Wasserfuhr (tr, flc), Roman Wasserfuhr (pn, celst, sint), lars Danielsson (bs, vlo, ch), Wolfgang haffner (bt) Twinkle Eyes Englishman in new york interlude l.o.V.E. Ramos us fool’s Paradise Branca gravity Midnight Walk if the Rain Comes Blue Desert Some other Time Theo 32 JazzColo[u]rs | dicembre ’11 lEVEl Già dal titolo palindromo si capisce che “Level” è un disco che affronta il tema della dualità o meglio del bilanciamento fra opposti, quello che si basa sulla dicotomia universale fra bene e male, fato e occasione, conflitto e risoluzione. Questo è il canovaccio narrativo su cui il chitarrista e compositore di stanza a Boston, Eric Hofbauer, articola il suo secondo album in compagnia del proprio gruppo stabile The Infrared Band. Dal punto di vista musicale poi è tutto un intrecciarsi e uno spalleggiarsi di blues, bebop, free jazz e dodecafonia, con riferimenti sparsi e sottili allusioni ad Albert Ayler, e non solo per il contributo del sassofonista Kelly Roberge, come a Jelly Roll Morton, per il modo bizzoso e pianistico con cui il leader concepisce e fa cantare il proprio strumento. Si tratta di un disco swingante ed intenso che, dalla traccia d’apertura These Two Things fino alla conclusiva Pocket Chops, passando per The Faction e Surely Some Revelation, mette in mostra un quartetto dalle sonorità grumose e pervasive, cui piace davvero tanto articolare, tornire e sviluppare atmosfere destabilizzanti e scoscese. Da una parte c’è il fraseggio di Hofbauer, spezJulian & RoMan WaSSERfuhR tici Jimmy Page, John Bonham, John Paul Jones e ovviamente Robert Plant sono insomma traslitterati nel codice della jazz band, un vero divertimento. Tanto più che non è necessario conoscere gli originali. Così The Ocean si rivolge tanto agli amanti del jazz curiosi di avvicinarsi al rock, quanto ai cultori del gruppo rock inglese che vogliano cimentarsi nel riconoscimento dei brani celebri dei loro beniamini. Con la sola promessa che sappiano stare al gioco e non si aspettino di poter cantare sui motivi originali!_Ma.Je. zettato e labirintico, grinzoso e rorido di scanalature. Dall’altra il tenore di Roberge, che dialoga spesso con la chitarra del collega per poi librarsi nell’aria accompagnato da una ritmica corposa e sempre presente. Il suo eloquio è squillante e propositivo, affilato e guizzante. Il contrabbasso di Sean Farias, sia quando pizzicato come in Spy vs Spy o Ghosts and Giants, sia quando archettato come in La Ligne de Chance, Castor and Pollux e Murder for a Jar of Red Rum, funge invece da possente barometro della situazione, adattando perfettamente i propri interventi, di sostegno o incitamento ai solisti, a quelli della frastagliata ed originale “macchina sonora” che è la batteria di Miki Matsuki. Un dualismo travolgente e ben compenetrato che non solo funge da tematica alla registrazione ma accomuna e coinvolge anche i soggetti che la realizzano. E non importa se siano in front-line o in sezione ritmica, sax e chitarra e basso e batteria si confrontano comunque, scambiandosi le idee, bilanciando gli apporti e facendo nascere così la propulsiva musica di questa estrosa e corale “band ad infrarossi”._Ma.Ma. gRaViTy Diciamo subito che questo Cd si discosta dal target a cui siamo abituati. Non si tratta di avanguardia, di improvvisazione radicale o di jazz creativo. Ma del giovane Julian Wasserfuhr non si può non apprezzare il suono limpido, tanto alla tromba e tanto più al flicorno, un timbro che lo avvicina a certi veterani nordici dello stesso strumento. Si era già attirato l'attenzione di molti con il precedente album, “Remember Chet”, dedicato a Baker e ad alcune delle song che lo hanno reso quel trombettista delicato e misurato che era. Ed è infatti a Baker che bisogna guardare fra i riferimenti di Julian Wasserfuhr, per quel suo fraseggio pensato eppure spontaneo, fluido e misurato. Ad accompagnare Julian, il fratello Roman, altrettanto giovane, il cui piano resta leggermente indietro ma sa essere elemento irrinunciabile del pacato suono che caratterizza il gruppo. Il navigato Wolfgang Haffner asseconda con spazzole e bacchette le placide atmosfere create dai due fratelli di Hückeswagen, mentre ciliegina sulla torta è il violoncellista Lars Danielsson, qui anche al contrabbasso e alla chitarra. Basti prendere la notissima L.O.V.E., successo di Nat King Cole, di solito swin- (Creative nation Music - 2011) (aCT – 2011) gante e sbarazzina, che nella versione dei due Wasserfuhr diventa rilassata e malinconica. La tromba è protagonista in Ramos us, e, per quanto ammiccante, molto ben riuscita è anche la rilettura della celebre Englishman in New York. Danielsson si ascolta in Fool’s Paradise ed è ancora più presente in Branca, suo il disegno di partenza, arricchito dalle spazzolate di Haffner. Midnight Walk mostra l'intenzione dichiarata di far convergere tutto nella centralità di Julian, ma sono puntuali anche gli assolo del piano e quello del contrabbasso: il pezzo è breve ma riesce a raccontare tutto in appena 3 minuti e mezzo. Quasi una romanza è If the Rain Comes, con un fugace intervento di Danielsson, autore del brano. Più che l’eponima Gravity, culmine dell'album sono piuttosto Blue Desert, sebbene Julian vi si produca alla tromba anziché al flicorno, e Some Other Time, che si deve a Haffner. I Wasserfuhr non nascondono dunque la propria propensione verso un jazz melodico, ma elegante e mai melenso, strumentalmente valido e concettualmente ben pensato ed efficace. E considerato che i due hanno appena varcato la soglia della ventina, tutto ancora è da venire._An.Rig. Black L’ascolto del Resonance Ensemble fornisce ampie opportunità di riflessione sullo stato delle avanguardie di estrazione jazzistica. Da un lato, permette di fare alcune puntualizzazioni sull’attualità. Dall’altro, mette in condizione di individuare riferimenti storici precisi. Da anni Vandermark, nell’ambito di un’attività Terza uscita discografica per il Resonance febbrile e variegata, frequenta la scena THE RESONANCE ENSEMBLE Ensemble, l’organico modulare che ha readella musica improvvisata europea. Basti KAFKA I N FLIGHT lizzato le ambizioni del sassofonista Ken pensare alla sua intensa collaborazione col (NotTwo — 2011) Vandermark di poter comporre per un batterista norvegese Paal Nilssen-Love e gruppo esteso. Registrato dal vivo a col sassofonista svedese Mats Gustafsson; Gdańsk, in Polonia, documenta il culmine o alla sua militanza nel Chicago Tentet di di una tournée europea che ha toccato Peter Brötzmann, formazione della quale anche Ungheria, Ucraina ed Italia e della ritroviamo qui alcuni membri, sia attuali quale questa è l’ultima tappa. Molto inteche precedenti. Il Resonance Ensemble ressante leggere nelle note di copertina costituisce dunque un significativo punto dello stesso Vandermark come, di necesd’incontro tra i fermenti della Chicago atsità virtù, l’impossibilità di riuscire a riutuale (e del recente passato) e le tennire l’intero gruppo per delle prove denze europee, oltre a rappresentare per d’insieme lo abbia indotto ad ingegnarsi e Vandermark un approdo per una scrittura inventare un “sistema di composizione per orchestrale maturata anche attraverso gli moduli, con specifico materiale tematico ascolti giovanili delle orchestre di Ellinche potesse venire imparato rapidamente gton, Basie e Gil Evans, e dei Thundering ed essere ricombinato e intercalato con diHerds di Woody Herman. Non è poi un caso verse ambientazioni soniche e strategie che ne facciano parte musicisti proveimprovvisative predeterminate prima di nienti da paesi che vantano una tradizione ogni esibizione”. Altrettanto intrigante è jazzistica di lunga data, in alcuni casi la composizione della transnazionale band, anche a dispetto delle vicende politiche: che mette insieme, oltre al titolare, alcuni gli svedesi Broo e Holmlander, i polacchi luminari dei rispettivi strumenti, come il Musicisti: Ken Vandermark (st, cl.Bb), Trzaska e Zimpel, l’ucraino Tokar. Le tre trombonista Steve Swell, l’ancista Mikolaj Mikolaj Trzaska (sc, cl.bs), Mark Tokar lunghe composizioni in programma preTrzaska, l’ormai più che promettente Dave (cb), Dave Rempis (sc, st), Steve Swell sentano una struttura prevalentemente Rempis ai sax ed il giovane ancista polacco (tbn), Per-Åke Holmlander (tb), Magnus modulare ed offrono quindi una densa sucWaclaw Zimpel, senza dimenticare Per-Åke Broo (tr), Michael Zerang (bt), Tim Daisy cessione di episodi. The Pier si apre metHolmlander alla tuba e Magnus Broo alla (bt), Waclaw Zimpel (cl.Bb, cl.bs, tarog) tendo in evidenza un trombone collocabile tromba, e la sezione ritmica che ha coinidealmente sulla linea Fuller-Priestervolto Mark Tokar al contrabbasso nonché Brani: The Pier (for Yutaka Takanashi) Rudd e punteggiato dalle interiezioni degli Rope (for Don Ellis) Tim Daisy e Michael Zerang alla batteria. altri fiati, secondo una prassi che ricorda Coal Marker (for Chris Marker) Soltanto tre i brani, di durata consideresia la Sun Ra Arkestra che la scrittura di vole — quasi 18 minuti il meno esteso — Muhal Richard Abrams. Il successivo intercosì da spaziare fra climi pimpanti, come l’avvio di The Pier, de- vento di un clarinetto basso abrasivo dà luogo ad una dialettica indicata al fotografo nipponico Yutaka Takanashi, e Coal Marker (for terna sfociante nell’interazione di tutti e tre i clarinetti, memori Chris Marker), capaci di variare da una grana spessa e condensata della poetica di Braxton. Seguono un duo tuba-basso con arco, un nelle sezioni di una classica big band, alle tensioni tipiche del- tenore in solitudine che evoca Shepp, Ayler (ma anche Frank Lowe l’avanguardia dove gli strumenti si scrutano e si ascoltano, fino e Frank Wright), le due batterie su tempo libero ed una sezione ad intermezzi solistici di avvolgente bellezza, come il tenore ru- free non dissimile dalla prassi della Globe Unity. Il collettivo scopvido in assoluta solitudine in The Pier, che si trasforma in un piettante di Rope prende le mosse da una figurazione dinamica duetto con i tamburi, o il trombone soffiato di Swell in Coal Mar- della tuba, che riporta alla mente il Bob Stewart della Brass Fanker. E ancora il pedale degli ottoni bassi in Rope (for Don Ellis), tasy. Ne scaturisce un assolo di tenore dalle robuste tinte r&b (e quasi un tema da poliziesco anni ’70, su cui il sax si abbandona ad anche qui riaffiora il parallelo con Ayler). Si segnalano poi un inevoluzioni dagli accenti blues rievocando la Brass Fantasy di Lester termezzo per soli ottoni ed un dialogo percussivo da cui si svilupBowie, più in là seguito dal trombone che finisce per chiacchierare pano altri ribollenti scambi tra ance ed ottoni. Benché con la tuba, e quindi il risonante contrabbasso che lascia il campo stilisticamente distante da Don Ellis, destinatario della dedica, il alla batteria. Incroci di clarinetti rendono misterioso e suggestivo pezzo ne rende lo spirito avventuroso. Coal Marker è contraddiun brulicante segmento centrale di The Pier in cui tuba, trombone stinta da vigorosi collettivi, dal moto perpetuo della ritmica, da e contrabbasso archettato smorzano i toni ma non le emozioni. fitte polifonie ma anche da momenti in cui gioca un ruolo il rapCome pure le intersezioni con i sax ed il cugino turco tarogato in porto suono-silenzio. Spiccano i contorcimenti del tenore, lo spesCoal Marker, dove si mette in evidenza anche la tromba, su un sore della tuba (solista), la dialettica tra due contralti indemoniati walking bass spolverato da press-rolls di batteria a rendere fluido ed un assolo di tromba — su ritmica colemaniana — che riconduce e discorsivo l’entusiasmante frangente. Senso d’insieme, avven- al Cherry dei giorni migliori. Tanto da sollevare l’interrogativo: e ture collettive ed exploits individuali sono gli elementi che ca- se “quella” avanguardia fosse la tradizione di oggi?_En.Bo. ratterizzano il Resonance Ensemble di Vandermark: un’evoluzione delle big band di Duke Ellington, Woody Hermann e Charles Mingus, un ponte transoceanico fra il jazz chicagoano d’improvvisazione radicale e l’avanguardia europea nel senso più lato._An.Te. White eventuali RADIO Albania Boom Boom Radio 101.2 FM (Tirana) Austria Neno Point Field (Salisburgo) Belgio Crooze FM (Antwerp) Bulgaria Jazz FM Radio (Sofia) Danimarca DR Jazz (Copenhagen) Radio Jazz (Copenhagen) Francia Kanaljazz on live365.com Radio RVB Radio-G 101.5 FM (Angers) Radio Grenouille (Grenouille) Radio Albatros (Le Havre) Swing FM (Limoges) Frequence Jazz (Lione) Radio France (Parigi) TSF 89.9 (Parigi) Germania Radio 42 (Amburgo) Jazz Radio.net (Berlino) Hot Club Radio (Duisburg) Italia Radio SNJ Radio Capital “Suite Jazz” e “Battiti” su Radio 3 “AnimaJazz” su PuntoRadioCascina (Toscana) Radiopellenera (Milano/Bari) Radiovinilemania (Parma) Radio Alt (S. Teresa di Riva - ME) Radio Web Italia (Sabaudia - LT) Sorrento Radio (Sorrento - NA) Lituania Jazz FM (Vilnius) Macedonia Jazz FM 100.8 (Skopje) Malta Jazz Diaspora Norvegia Jazzonen (Bergen) Olanda Alphen Stad FM Kabelradio De Concertzender (Hilversum) Afterdinnerjazz, Radio Hoogeveen (Hoogeveen) Arrow Jazz (The Hague) Jazz Radio2 (The Hague) 34 JazzColo[u]rs | dicembre ’11 Polonia Jazz Radio (Cracovia e Varsavia) Principato di Monaco Radio Monte Carlo Regno Unito Totally Radio The Hillz Radio (Coventry) Jazz FM.com (Londra) Solar Radio (Londra) The Jazz (Londra) BBC Radio3 (Londra) Jazz Syndicate Radio (Londra) Soft Jazz Expresso (Londra) Jazz Syndicate Radio (Scozia) BBC Radio Scotland (Scozia) Russia Radio Jazz (Mosca) Relax FM (Mosca) Slovenia Radio Tartini (Piran) Spagna Barcelona Jazz Radio (Barcellona) All That Jazz (Malaga) Svizzera ESpace 102.5 FM Swiss Jazz (Berna) Radio Jazz International (Crissier) RTSI - Radiotelevisione svizzera di lingua italiana Ucraina Radio Renaissance (Kiev) Ungheria Jazz Radio (Budapest) jazzColo[u]rs email-zine di musica jazz Periodico Mensile (reg. al Tribunale di Palermo n.46 del 18/12/2007) Anno IV - numero 12 (dicembre 2011) direttore responsabile Antonio Terzo coordinamento redazionale Piero Rapisardi progetto grafico Antonio Terzo e Stephen Bocioaca CREDITI foto di copertina Dario Villa quarta di copertina “Libertango” di Brunella Marinelli hanno collaborato ai testi Alain Drouot Andrew Rigmore Marc Jessiteil Enzo Boddi Roberto Dell’Ava Marco Maimeri Patrizia Arcadi Nico Conversano hanno collaborato per le foto Davide Susa Giorgio Alto Sergio Cimmino Juan-Carlos Hernández Davide Pizzardi Paolo Acquati Dario Villa Heiko Purnhagen USA WNUR.FM (Chicago) Pacifica Radio WPFW (Washington D.C.) 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