jazzColo[u]rs -- email-zine di music jazz

editoriale
Con questo numero dicembrino si chiude un’annata di jazzColours davvero emozionante: hanno impreziosito le nostre pagine le
interviste a Craig Taborn, Matana Roberts, Ellery Eskelin, Javier
Girotto, Omar Sosa, Mats Gustafsson, Andrew D’Angelo, solo per riferirci ad alcune delle copertine di questi mesi.
È stato un anno impegnativo, caratterizzato anche da vari avvicendamenti redazionali: ringraziamo per l’impegno mostrato chi
alla fine è andato via, e diamo un caloroso benvenuto a chi si è
unito a questa nostra avventura.
Ci aspettano undici mesi ricchi di jazz e di novità. Vorremmo
fare di più, ma i nostri mezzi al momento sono limitati e già così
diamo fondo a tutte le nostre risorse umane e di tempo. E nonostante ciò, siamo convinti di essere riusciti a ritagliarci un piccolo
spazio rivolto ad un tipo di musica improvvisata che altrove, sia su
carta che sul web, viene trattata solo incidentalmente.
Questo mese jazzColours si sofferma su uno dei pianisti più interessanti della sua generazione, Stefano Battaglia: intenso e poetico, a tratti “avant” ma sempre attento e connesso all’universo
culturale, filosofico-letterario e musicale, che ci circonda.
Quindi il batterista Dan Weiss,
provetto suonatore di tabla che ha
trasferito le scansioni tipiche di
questo strumento al fraseggio del
proprio drumset. Ed infine il gioHighlights
vane sassofonista norvegese Marius
cover
Neset, una vera esplosione di suoni
Stefano Battaglia le vie dei canti
e colori. Molto interessante anche
Enzo Boddi
la pittura a volte visionaria di PaSpotlight/1
scal Martos per il Jazz&Arts.
Dan Weiss i molteplici ritmi del mondo
Sul versante delle recensioni,
Antonio Terzo
molti avventurosi musicisti: da
Dave
Douglas a Wadada Leo Smith,
Spotlight/2
da
nuove
leve come Koptor o Led a
Mairus neset aurea esplosione di jazz
senatori come Enrico Intra, fino ai
Marco Maimeri
Five Elements di Steve Coleman e
jazz & arts
al Resonance di Ken Vandermark,
Pascal Martos il realismo visionario del jazz
quest’ultimo
oggetto
del
Marco Maimeri
Black&White.
recensioni CD
E dal momento che torneremo a
Focus on Dave Douglas So Percussion BaD Mango
trovarci il prossimo anno, fino ad
i 5 dischi imprescindibili di glauco Venier
allora buona lettura, buone vacanze
e buon 2012 a tutti voi.
Black & White
sommario dicembre ’11
4
8
14
19
23
26
33 The Resonance Ensemble KafKa in flighT
Enzo Boddi e Antonio Terzo
Antonio Terzo
34 Eventuali
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
3
highlights
united states
canada japan
britain
europe
Detroit, non solo Motown
di Alain Drouot
Ci sono nuove ricerche continuano a
gettare ombre sul vero luogo di nascita
del jazz. Almeno, ci sono adesso abbondanti prove che l’attività musicale testimoniata fra la fine del XIX e il XX
secolo per tutto il paese ebbe un qualche collegamento con il jazz.
Detroit non fa eccezione, sebbene
l’attuale situazione della città finisca
spesso per oscurare il fatto che essa ha
conosciuto una lunga storia musicale
che non può essere ridotta semplicemente alla musica R&B/Soul dell’etichetta Motown. Si tende infatti a
dimenticare che alcuni grandi del jazz
come Yusef Lateef, Curtis Fuller, Charles McPherson, Ron Carter o Barry Harris
sono “prodotti” della Motor City, come
Detroit è spesso soprannominata.
Come molte altre città americane,
Detroit ha avuto difficoltà a trattenere i
suoi musicisti jazz. Dalla sua creazione
nel 1960, al suo trasferimento a Los Angeles nel 1972, la Motown è stata capace di garantire costantemente e
pagare bene il lavoro dei jazzisti, i quali
potevano fare sessions di registrazione
ed anche tours con i più grandi nomi in
circolazione. Ma quei giorni sono adesso
belli che andati.
Un’eccezione di rilievo a quell’esodo
è rappresentata dal trombettista Marcus
Belgrave, il quale ha trascorso ben quattro anni in tournée con Ray Charles.
Come educatore, è stato mentore di una
dotata generazione di musicisti jazz, inclusi la pianista Geri Allen, la violinista
Regina Carter, i sassofonisti James Carter e Kenny Garret ed i bassisti Bob
Hurst e Rodney Whitaker. Belgrave è
anche un attivista e ha fondato la Detroit Jazz Musicians Co-Op, un’organizzazione creata per promuovere il lavoro
dei musicisti locali.
La scena di Detroit non ha mai lavorato in modo isolato ed è rimasta in con-
4
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
Yusef Lateef
tatto con quello che andava accadendo
nel resto del paese, specialmente con
Chicago, distante soltanto quattro ore.
L’Association for the Advancement of
Creative Musicians, per esempio, ha
avuto non poco impatto sul batterista
Toni Tabbal, che da Chicago si è trasferito alla Motor City, il bassista Jaribu
Shahid, che adesso suona con il pluriancista Roscoe Mitchell, il batterista Dushun Mosley o il chitarrista Spencer
Barefield e il sassofonista Faruq Z. Bey,
che vivono e lavorano ancora a Detroit.
A dispetto della vocazione economica
della città, la comunità jazzistica di Detroit ha mostrato una certa capacità di
recupero che si è materializzata nei recenti sforzi fatti per prevenire la chiusura di quello che potrebbe essere il più
antico jazz club del mondo, il Baker’s
Keyboard Lounge. Ed oltre agli sforzi
portati avanti da musicisti come Belgrave e Barefield per mantenere viva la
musica, continuano ad emergere giovani
musicisti creativi come il trombettista
James Cornish o il sassofonista Cassius
Richmond.
Detroit beneficia pure della vicinanza
a Ann Arbor. La città, sede dell’Università del Michigan, dista soltanto 45 minuti e ha una florida comunità artistica.
Il bassista Tim Flood, il sassofonista Andrew Bishop, il pianista Stephen Rush, il
quale non esita a attraversare i generi,
costituiscono un pool di musicisti emozionanti. La University of Michigan Creative Arts Orchestra può essere vista
anche come riserva di compositori e musicisti creativi, ed alcuni suoi membri
hanno infatti preso nelle proprie mani le
redini della situazione fondando l’A2
Composers Collective, che consente loro
di presentare il proprio lavoro.
Mentre il futuro della città è incerto,
c’è speranza che il jazz qui possa sopravvivere. Infatti, le aree depresse
sono spesso fucine di creatività artistica. Affitti e immobili a buon mercato
potrebbero infatti rivelarsi appetibili
per musicisti e intrattenitori. Con la
scena musicale esistente che può costituire una solida e potente base potremmo venire sorpresi da quello che
può venir fuori da Detroit nel futuro.
highlightsss
NYJO, l’investimento del jazz britannico
di Patrizia Arcadi
La National Youth Jazz Orchestra nasce
nel 1965 da un’idea di Bill Ashton, sassofonista e compositore, nonché attuale direttore musicale della band. In origine
chiamata London Schools’ Jazz Orchestra, quest’organico giovanile con base a
Westmister è divenuto in breve tempo
orchestra nazionale, schierando le migliori e più talentuose promesse del British jazz. La NYJO rappresenta infatti
un’importante opportunità per i giovani
musicisti provenienti da tutto il Regno
Unito, una vera e propria vetrina che dà
risalto ai suoi componenti consentendo
loro di misurarsi in contesti professionali,
anche di livello internazionale.
Alla NYJO è affidato inoltre il compito
di favorire la promozione della musica
nel Regno Unito, indirizzandosi in particolare agli studenti più giovani. I concerti
presso le scuole, infatti, costituiscono
una parte rilevante del programma seguito dall’orchestra.
La band, che gode di un riconoscimento su scala mondiale, rappresenta un
vero trampolino di lancio per i suoi membri: molti degli attuali big del jazz britannico hanno maturato la loro
esperienza suonando nella NYJO, in diversi casi affermando il loro talento proprio durante il periodo vissuto con la
formazione.
Dotata di uno stile e di un sound inconfondibili, l’orchestra vanta un ampio
repertorio che spazia tra diversi generi e
stili proprio con l’obiettivo di rivolgersi
ad un pubblico allargato, non necessariamente appassionato o esperto solo di
jazz. Committenti della NYJO sono
spesso grandi compositori e arrangiatori
di origini inglesi, che a loro volta hanno
militato nelle sue fila.
La composizione dell’orchestra avviene
su base selettiva — dai primi di novembre si sono aperte le audizioni per la
scelta dei membri che comporranno la
band da gennaio 2012 —, valutando non
solo le capacità tecniche e stilistiche, ma
anche l’attitudine al gioco di squadra e
la propensione all’improvvisazione, così
da individuare un gruppo di 30-35 componenti dai background più diversi, con
un’età non superiore ai 25 anni.
La National Youth Jazz Orchestra si
La National Youth Jazz Orchestra al Ronnie Scott
struttura in due livelli: per potersi unire
alla NYJO 1 è necessario possedere eccellenti competenze in termini di conoscenza e di lettura della musica. Titolo
preferenziale sarà poi aver maturato
esperienze live in formazioni jazz.
Nella maggior parte dei casi, tuttavia,
i musicisti avviano la loro esperienza
unendosi alla NYJO 2, per un propedeutico periodo di training volto a fornire le
capacità necessarie al passaggio al livello
1. In entrambi i casi, comunque, gli aspiranti membri dell’orchestra possono partecipare a dei workshop preparatori
aperti a tutti, così come è possibile accedere ad un programma di sostegno
economico grazie ai fondi messi a disposizione dal “Musicians Benevolent Fund”.
Proprio il 2011 ha visto infine la creazione della NYJO London, un’orchestra di
carattere formativo che punta a coinvolgere e stimolare gli studenti — di massimo 19 anni di età — provenienti
dall’intera area della “Greater London”.
Che si faccia parte di una o dell’altra
formazione, è comunque assicurata la
possibilità di esibirsi frequentemente accedendo a locali di grande rilevanza culturale o ad importanti programmi
radiofonici e televisivi — grande è infatti
il seguito mediatico ottenuto dall’orchestra che assicura il “tutto esaurito” ad
ogni sua esibizione.
La NYJO 2 tiene molti concerti di beneficenza durante l’anno. La NYJO 1, invece, si esibisce regolarmente in tutto il
paese: fra le principali location che
hanno ospitato la band figurano “Ronnie
Scott’s”, “The Barbican”, “Symphony
Hall Birmingham”, “Usher Hall Edinburgh”, “The Royal Albert Hall” e “Royal
Festival Hall”. Inoltre, ogni sabato è possibile assistere ad un live al “Cockpit
Theatre” di Londra.
Sono numerosi i successi inanellati
dalla NYJO nel corso della sua storica attività: una quarantina gli album registrati fino ad ora, performance nei
principali paesi europei, negli Stati
Uniti, in Australia ed in Nuova Zelanda. Il
tutto coronato da riconoscimenti ufficiali: l’orchestra è stata nominata migliore Big Band ai British Jazz Award nel
2002, mentre il suo direttore Bill Ashton
ha ricevuto il “BBC Radio 2 Jazz Award”
nel 1995 e l’“All Party Parliamentary
Jazz Appreciation Group’s Special
Award” nel 2007.
E questi risultati non stupiscono se si
pensa che nella National Youth Jazz Orchestra si sono formati alcuni dei principali artisti britannici degli ultimi
decenni, tra i quali Amy Winehouse, Guy
Barker, Nigel Hitchcock, Brian Priestley,
Simon Phillips, Steve Hill, Frank Ricotti,
Gerard Presencer e Chris White.
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
5
highlights
Chiude l’SJU, viva l’U-Jazz
di Andrew Rigmore
Chi ha avuto la fortuna di andare almeno una volta ad assistere ad un concerto di musica improvvisata allo
Stichting Jazz Utrecht (SJU) Jazzpodium
della cittadina olandese farà bene a tenersi caro quel ricordo.
La scorsa estate, infatti, dopo diciotto
anni di concerti, il glorioso jazz club
olandese si è visto costretto a chiudere
i battenti. Le cause, come quasi sempre
avviene in questi casi, sono da ricercare
in ragioni di carattere prevalentemente
economico e finanziario: l’aumento
degli affitti, la prospettiva di una forte
riduzione nei finanziamenti pubblici e le
immancabili pressioni di vario genere sui
responsabili del palinsesto, così come
l’intenzione degli amministratori cittadini di trovare un diverso e più efficiente modello d’investimento per
promuovere il jazz di Utrecht.
Gestito dalla Stichting Jazz en Geïmproviseerde Muziek Utrecht, Fondazione
per il jazz e la musica improvvisata istituita nel 1977, da cui ha preso il nome,
per cinque giorni alla settimana l’SJU
Jazzpodium ha offerto presso il civico 2
di Varkenmarkt tanta musica improvvisata, jazz, funk e soul di gran livello,
ospitando musicisti come Michiel Braam,
Ernst Glerum, James Carter, Ken Vandermark, Michael Zerang, Gebhard Ullmann, Steve Swell, Michiel Borstlap e
tantissimi altri autorevoli esponenti del
jazz internazionale.
Già da allora, comunque, l’irrinunciabile prospettiva, preannunciata dal presidente Paul Adriaanse dopo la difficile
decisione, era stata indicata nell’intenzione di procedere ad una riconversione
verso un nuovo modello di programmazione concertistica, anche per cercare
di mantenere il personale lavorativo
fino a quel momento impiegato nella
struttura. E, anche per questo motivo,
si sarebbe voluto poter continuare ad
organizzare dei concerti almeno nel periodo autunnale, da tenersi eventualmente in altre location della città.
Fra le soluzioni prospettate prese in
considerazione, anche la fusione con
altre realtà cittadine a vocazione musicale, come per esempio il Leeuwenbergh, che avrebbe reso possibile lo
6
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
Il palco dell’SJU - foto Herbert Boland
svolgimento di un programma ampio ed
articolato, nel rispetto di una gestione
finanziaria responsabile.
È su questi presupposti che, in collaborazione con la Music House di Utrecht,
in questi giorni la U-Jazz, una locale associazione che conta poco più di un centinaio di membri, ha annunciato
l’intenzione di voler realizzare una
nuova programmazione jazzistica, rivolta ad un pubblico più ampio possibile, che auspicabilmente dovrebbe
potere chiamare in causa anche il piccolo locale dell’SJU in Varkenmarkt.
I primi frutti di questi sforzi congiunti
si vedranno domenica 18 dicembre, con
il festival “Jazz sotto il Rode Brug”, che
si terrà presso l’House Music della città
e riunirà in varie formazioni e combinazioni tantissime personalità del jazz di
Utrecht e non solo, per testimoniare
quanto il jazz locale sia vivo e vegeto.
Una quarantina di musicisti hanno già
aderito alla manifestazione, fra i quali
Mark Alban Lotz, Wolter Wierbos Coen
Kaldeway, Akos Laki, Tjitze Vogel, Ad
Colen, Corrie van Binsbergen, Michael
Baird, Tetzepi, January Schellink, Dion
Nijland, Haytam Safia, Albert van Veenendaal e tanti altri.
Il rilancio dello storico SJU Jazzpodium è stato dunque possibile grazie
all’U-Jazz, anche se non è ancora chiaro
in che modo questa nuova realtà sarà in
grado di coinvolgere la vecchia struttura
dell’SJU. Così come resta incerto se ed
in che misura l’amministrazione locale
vorrà contribuire con le proprie risorse
finanziarie ad una programmazione magari anche più ridotta ma che possa mostrare prerogative di permanenza e
continuatività.
Ciò che invece è indubbio è che, sulla
base dei riscontri che questo “Jazz sotto
il Rode Brug” otterrà, l’U-Jazz è pronta
ad avanzare ulteriori iniziative, compresi alcuni workshop che potrebbero
cominciare già il prossimo febbraio.
Come in una recente intervista ha dichiarato Dion Nijland, vice presidente
della intraprendente associazione, la
cosa importante è rilanciare la locale
scena musicale del jazz. Solo in questo
modo, infatti, è possibile mantenere
viva l’importante eredità del jazz cittadino, dando nuovi stimoli ed impulsi ai
jazzisti residenti, rimasti ovviamente
spiazzati dopo la chiusura dell’SJU, da
sempre per loro un punto di riferimento,
e riguadagnando così la loro fiducia.
Se nell’arco dei prossimi due anni
tutte le proposte messe in campo riusciranno a decollare anche in virtù di una
conseguente programmazione jazz,
l’importante retaggio del jazz di
Utrecht non verrà perduto. E questa potrebbe essere considerata già una
grande vittoria.
highlightsss
JazzyColors, il festival più trasnazionale è in Francia
di Marc Jessiteil
Raffigurati spesso come sciovinisti, è
pure vero che i Francesi hanno sempre
saputo far tesoro delle proprie vicende
storiche, anche quando hanno dovuto
confrontarsi con la cultura di altri popoli. E come insegnano i Romani, non c'è
civiltà degna di questo nome che, venendo allo scontro con altri popoli e territori, sia riuscita poi a rimanere
impermeabile agli stimoli culturali via
via ricevuti.
Nazionalisti sì, ma — e sembra una contraddizione — anche abbastanza aperti.
Sono infatti tantissimi i musicisti che finiscono per scegliere la Francia come
propria residenza. E la tutela riconosciuta in questo paese agli artisti, verosimilmente maggiore che altrove, è solo
una delle ragioni.
Non si tratta soltanto dei tanti magrebini provenienti dalle ex colonie e — giocoforza — ben integratisi nella società
francese, ma anche di zingari, rumeni,
turchi, armeni, che hanno dato lustro
alla cultura francese apportandovi parte
della propria.
Chiunque abbia ascoltato un disco di
Django Reinhardt, d’origine tzigana, e in
tempi più recenti di Bojan Z, serbo-bosniaco (vero nome Zulfikarpašić) o del
pianista d’origine armena Tigran Hamasyan non può che convenirne.
Non c'è dunque da meravigliarsi se è
nella capitale francese che si svolge il
JazzyColors, un festival molto particolare, organizzato da ben 16 degli istituti
culturali stranieri che hanno sede a Parigi, e che si basa su un concetto semplice: ognuno dei tanti paesi che vi
prendono parte ha per missione quella di
far scoprire ai Francesi i migliori gruppi
jazz di casa propria.
Istituito nel 2002 da Michaël WellnerPospisil ed inizialmente patrocinato da
Daniel Humair, dal 2008 è presieduto da
Andras Ecsedi-Derdak dell’Istituto ungherese ed è proprio Bojan Z a sovraintendervi. L’ultima edizione, la nona,
tenutasi lo scorso novembre, ha visto
svolgersi 17 concerti spalmati in tre set-
Bojan Zulfikarpašić - foto Juan Carlos Hernández
timane, con artisti provenienti da sedici
diversi paesi ed una gamma di tipi di
jazz quanto mai variegata, dal folk jazz
al jazz classico attraverso il jazz psichedelico e perfino con venature rock.
A pensarci bene, non poteva che essere
il jazz la musica capace di riunire insieme tante culture e generi e realizzare
quella che può essere considerata la propria quintessenza, essere cioè una musica vocata al superamento delle
barriere e simbolo di integrazione.
Elvis Costello boicotta sé stesso
di Red
Se talune riviste di jazz in passato non
hanno disdegnato di occuparsi di Elvis
Costello, riservandogli perfino le copertine, quasi si trattasse di un grande jazzista anziché di un musicista certamente
di livello, interessante e versatile ma
pure ben lontano dal mondo del jazz (a
parte il rapporto matrimoniale con Diana
Krall), al contrario su queste pagine probabilmente non ci saremmo mai preoccupati di lui se non fosse stato per un
annuncio eclatante che lo stesso ha fatto
dalle pagine del suo sito ufficiale, e che
sicuramente va oltre qualunque definizione di genere, inducendo riflessioni che
riguardano in generale la musica tutta.
Nel post, dal titolo “Steal this record”
[Rubate questo disco], rincarato dal successivo “Let’s make things sparkling
clear” [“Mettiamo le cose in chiaro”], si
afferma che il prezzo della compilation
CD/DVD “The Return of the Spectacular
Spinning Songbook”, di Elvis Costello &
the Imposters, in uscita in questi giorni,
deve essere un errore di stampa o uno
scherzo. E c’è da crederci visto che si riferisce alla cifra di 200$, indubbiamente
esagerata anche per un cofanetto contenente video, foto e note a volontà.
Prendendo le distanze dai responsabili
— chi se non l’etichetta discografica? —
viene precisato che tutti i tentativi fatti
per ottenere una revisione di questa cifra
sono stati vani. E, astenendosi da argomenti di morale, eleganza e contabilità,
nel caso in cui per le festività si volesse
regalare qualcosa di speciale, si raccomanda con tutto il cuore “Ambassador of
Jazz”, un cofanetto la cui veste imita una
piccola valigia con il nome “Satchmo” in
bassorilievo contenente dieci album rimasterizzati di uno dei più grandi ed
amabili rivoluzionari che sia mai esistito,
ossia Louis Armstrong. Il prezzo in questo
caso è di circa 150$, ma la musica — si
sottolinea — è di gran lunga superiore.
Ma la conclusione è ancor più sbalorditiva: chi volesse proprio ascoltare e vedere i contenuti del box incriminato
viene avvertito che l’anno prossimo tutti
i dischi di cui si compone saranno disponibili separatamente e ad un prezzo più
abborabile, “presumendo che non li abbiate già recuperati con altri mezzi molto
meno convenzionali”. Incredibile, no?
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
7
foto Dario VIlla
Stefano Battaglia
foto Davide Susa
le vie dei canti
di Enzo Boddi
foto di Davide Susa e Dario Villa
Tipico esempio di compositore-improvvisatore europeo ugualmente attento
al retroterra del Vecchio Continente ed alla tradizione jazzistica intesa in senso lato,
il pianista milanese ha individuato nel trio e nel duo piano-percussioni il terreno ideale
per esprimere al meglio una complessa cifra poetica. Una complessità riflessa nell’intensa attività
didattica tesa a valorizzare l’identità degli allievi e nel rapporto con la ECM, per la quale esce adesso
un nuovo album in trio, la cui musica diviene tramite fra culture e cilvità così lontane eppure così vicine.
Il titolo di “The River of Anyder” questo si trovano così tante evoca- una specie di ideale luogo possiè tratto da “Utopia” di Thomas zioni extra-musicali nei miei lavori. bile, territorio di potenziale fraMore. Come in altri tuoi lavori si
tellanza
oltreché
testimone
avverte un nesso potente tra mu- I brani Ararat Dance, Sham-bah- eterno di scontri di civiltà. La mia
sica, filosofia e letteratura. Come lah e Ararat Prayer si ispirano musica, nel suo piccolo, vorrebbe
affronti questo legame?
descrivere il cammino, la
La filosofia ha a che fare
salita, attraverso melodie
Da un punto di vista tecnico e
con il significato e la vee danze di estrazione via
rità. Come fa un artista a
via sottilmente diverse;
compositivo, ormai mi sono
non tenerne conto? Ci
l’incipit del brano è ispisbatti contro. Se non si
rato ad una nenia tradiconvinto che esistono
conquista e poi si protegge
zionale
dell’antica
il significato, è impossibile
Renania
ashkenazita.
due qualità di improvvisatori,
sentirsi credibili espressiSham-bha-lah
invece,
vamente. Per me le di- indipendentemente da stili e generi: ispirato al “Re del Mondo”
verse forme d’arte sono
di Guenon, è la capitale di
quelli che riempiono uno spazio Agartha, luogo del mito sitanti affluenti di un’unica
grande fonte, che è
tuato tra India e Tibet. Il
e
quelli
che
lo
creano.
l’espressione del sé, la
brano è in forma di suite,
poesia e la bellezza della
una specie di diario di un
vita nel suo senso più ampio e pro- in qualche misura alla tradi- viaggio ideale che dall’Europa
fondo. È una verità che inseguo e zione armena?
rappresentata dal “Columba aspedella quale ho bisogno io per Il simbolismo dell’Ararat è assai xit” di Hildegard von Bingen, arprimo. Tendo quindi a cercare con- affascinante: antico custode di ci- riva sino alle sorgenti del
tinuamente questa verità e bel- viltà diverse come l’armena, la Brahmaputra, attraverso canti e
lezza in altre forme espressive. Per turca, la curda e la persiana. È danze polimetriche.
“
”
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
9
Il consolidato rapporto con Maiore e Dani produce un’interazione ancor più libera e paritaria.
Come valuti il ruolo del piano trio
nel jazz contemporaneo?
Il trio come organico è magico in
sé: da Beethoven a Brahms, da Bill
Evans a Jimi Hendrix, per via della
sua triangolare polifunzionalità ed
interscambiabilità dei ruoli strumentali. Da un punto di vista tecnico e compositivo, ormai mi sono
convinto che esistono due qualità
di improvvisatori, indipendentemente da stili e generi: quelli che
riempiono uno spazio e quelli che
lo creano. Come compositore ed
improvvisatore mi sento sempre
più affine alla tecnica di narrazione
e sviluppo, e logicamente scelgo
dei partner con volontà e caratteristiche uguali. Salvatore e Roberto
sono due musicisti in grado di determinare equilibri rari in questo
senso. Non so nemmeno se il nostro
è un trio di jazz. Posso dire che —
a prescindere dal materiale musicale di partenza, siano composizioni originali o di Alec Wilder — il
trio ha raggiunto da tre-quattro
anni un’identità precisa ed unica.
Nel duo con Michele Rabbia sembra essersi instaurata una sintonia che va al di là dell’aspetto
puramente musicale.
Quello con Michele è un vero e proprio sodalizio. Abbiamo in comune
una concezione poetica dell’evento sonoro e delle sue sfumature timbriche come voce di tutte
le cose. Per me sono indimenticabili i concerti al Monastero di Bose,
dinanzi al priore Enzo Bianchi:
un’esperienza commovente e
piena di significato, che va ben
oltre la dimensione professionale.
Amo la sua sensibilità musicale.
Abbiamo condiviso tre album in
duo, il quintetto con Pifarely, Courtois e Godard, Triosonic, Re:Pasolini, le collaborazioni con la danza
e il teatro, e il recente affascinante progetto innescatosi con il
chitarrista norvegese Eivind Aarset.
10
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
In quest’ottica, che ruolo hanno
avuto le tue passate collaborazioni
con Pierre Favre e Tony Oxley?
Sono due maestri, molto diversi tra
loro, verso i quali provo un sentimento di riconoscenza. In comune
hanno solo la metamorfosi che li
ha portati nel corso della vita a
trasformare, trasfigurare e personalizzare il set al punto da ampliare la funzione dello strumento
e caratterizzare la musica attra-
“L’arte è plurale per
costituzione,
essendo l’espressione
del sé profondo
di individui diversi.
Sarebbe sacrosanto
per strategia culturale,
oltreché per l’espansione della persona,
ascoltare tre
o quattro volte
cinquanta proposte,
anziché cinquanta volte
le stesse quattro.
”
verso una grande espansione dei
parametri melodici e timbrici. Non
è un caso che entrambi i batteristi
con cui ho creato un sodalizio,
Rabbia e Dani, abbiano la stessa
propensione alla trasfigurazione,
alla personalizzazione del set. È un
percorso doloroso ma inevitabile.
Favre cerca sempre la forma, improvvisa come se componesse, in
modo molto concentrato, e ha un
approccio all’improvvisazione che
sento molto vicino. Oxley ha un set
unico, molto affascinante timbri-
camente, che usa essenzialmente
da batterista. Quando rinuncia a
certe dinamiche legate al free jazz
storico e dialoga, anche con il silenzio, è il mio batterista preferito. Spesso suona con un concetto
orchestrale, verticale, sovrapposto
ad un’incrollabile articolazione
melodica. Suonerò sempre con
strumenti a percussione: ciò che
mi attrae è la loro straordinaria
capacità osmotica di fondere passato, presente e futuro.
Come ebbe origine il progetto
“Re: Pasolini”?
Pasolini è una figura che mi manca
molto, così come manca all’Italia
degli ultimi quarant’anni: alla società civile, alla politica, al confronto religioso, a chi analizza i
mutamenti antropologici. E naturalmente manca la sua poesia. Il
mio omaggio è stato un piccolo ma
appassionato gesto offerto all’altare di un intellettuale unico nella
storia, alla sua peculiarità di
poeta capace di esprimere poesia
e sprigionare bellezza attraverso
tante discipline diverse, raggiungendo sempre e comunque un intenso senso della verità e di
percezione del sacro.
Quanto al tuo proficuo rapporto
con la ECM, cosa significa lavorare con Manfred Eicher?
Significa sentirsi parte di una filosofia, di una precisa cultura (coltivare, nel suo significato originale).
L’enorme influenza culturale di
ECM si spiega più facilmente, dopo
aver parlato di Pasolini. Anche
Manfred ha determinato con coraggio un contributo trasversale all’arte: a-ideologico e a-settoriale,
documentando la scena creativa a
prescindere dai suoi stili e linguaggi, e proteggendo il senso
della verità di molte diverse tradizioni. Non solo, anche determinando in certi casi sodalizi che
hanno spinto alcuni artisti a creare
dal nulla espressioni musicali oggi
divenute modelli di riferimento.
foto Davide Susa
Sono molto orgoglioso che il mio contributo artistico
faccia parte del suo progetto, lo considero un privilegio di inestimabile valore e di grande responsabilità.
Quanto la tua solida formazione classica ha contribuito a modellare la tua visione di compositore
e di improvvisatore?
Immagino molto, espressivamente, esteticamente e
tecnicamente. Credo che sia facilmente percepibile
la traccia indelebile che alcuni compositori hanno
determinato sul mio universo espressivo.
In certi tuoi lavori sembra di cogliere anche tracce
di Messiaen e Ligeti.
È più che probabile, perché sono due compositori
verso i quali ho sprigionato un bel po’ di energie.
Penso che Ligeti abbia scritto gli studi per pianoforte
più efficaci, musicali e vibranti dello scorso secolo.
Di Messiaen amo l’atemporalità: vi è in lui un uso del
ritmo sofisticato e primitivo allo stesso tempo, e l’armonia contiene sintesi sublimi di tradizioni in movimento, di antico e moderno, di classico e futuribile.
In “Bartokosmos” col gruppo 3Quietmen avete lavorato su alcuni estratti dai “Mikrokosmos” di Bartók con risultati sorprendenti.
Quello su “Mikrokosmos” fu un laboratorio entusiasmante. Sorprendente quanto il nucleo profondo
della musica di Bartók — spogliato dalla forma dello
studio pianistico — si riveli in tutta la sua forza, a
seconda dell’organico strumentale, dell’arrangiamento e della capacità immaginativa degli improvvisatori, e restituisca la sua natura popolare e
atemporale, come una radice primitiva e millenaria.
Con 3Quietmen abbiamo ultimato un nuovo album
per la Auand che suona come un deciso passo in
avanti del percorso iniziato con “Bartokosmos”.
Bill Evans a parte, che influenza hanno avuto su di
te Paul Bley e Keith Jarrett?
Iniziatica! Non avevo ancora quattordici anni quando
comprai a scatola chiusa “Open to Love” e “Facing
You”. Bley ha un mondo poetico che non spiega mai:
allude, crea uno spazio senza riempirlo, e racconta
sempre qualcosa che mi cattura e sorprende. Con la
sua straordinaria capacità espressiva Jarrett incarna
pienamente in musica la filosofia dell’unitas multiplex (Pasolini ne fu esempio in letteratura): l’improvvisazione è uno straordinario veicolo di verità
capace di rendere possibile l’osmosi tra linguaggi
musicali anche estremamente distanti tra loro per
epifania geografica e temporale. E questo spiega
anche la trasversale popolarità di Jarrett.
Su quali presupposti erano fondati i progetti “The
Book of Jazz” e “The Book of Songs”?
Sul desiderio di collegarmi profondamente con le due
tradizioni che hanno da sempre abitato il jazz, quella
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
11
foto Davide Susa
popolare e quella specifica relativa ai tanti universi
poetici di quei grandi improvvisatori-compositori che
ne hanno accompagnato la storia, senza usare filtri
ideologici di stile. Una sfida che mettesse alla prova
l’identità del trio il quale, passando da una composizione di Parker ad una di Gismonti, poteva subire le
varie poetiche schizofrenicamente; oppure dimostrarci
che non è cosa si suona ma come, a determinare bellezza oggettiva e consapevolezza improvvisativa. Il popolo del jazz considera e denomina “standard” tutta
quella tradizione che proviene dalla cultura americana
del Novecento, mettendo insieme Porter e Parker,
Gershwin e Shorter. Questo crea confusione, perché
la tradizione specifica degli improvvisatori, dei musicisti di jazz, è sostanzialmente diversa da quella della
canzone popolare, che ha radici folkloriche e secolari.
Non si può dire che Dolphy e Bacharach siano la stessa
fonte tradizionale. Suonare Easy to Love e Lonely
Woman è la stessa cosa? Lo è potenzialmente, ma per
un europeo o un asiatico suonare una canzone americana non è per niente standard. Per conquistare credibilità interpretativa, di quella canzone bisogna
amare il canto originale e condividere il significato del
testo. Altrimenti si finisce per fare le “cover delle
cover”. Il mio amore per la melodia nel suo valore testuale mi ha spinto verso “Book of Songs”; anche
quando improvviso penso al canto come ad un testo.
12
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
Dai Trovatori alle villanelle del Cinquecento, dal teatro shakespeariano ai lieder, dalle castillane del Rinascimento alla canzone napoletana: un inesauribile,
irrinunciabile serbatoio. Mi piace ricordare la collaborazione tra Pasolini e Modugno, un esempio di tradizione italiana in movimento, autonoma rispetto
all’imperialismo culturale americano.
“The Wrong Blues” era invece basato su un autore
mai abbastanza considerato come Alec Wilder.
Un lavoro ciclopico per il mio songwriter americano
preferito: più di cinquanta trascrizioni, tra lieder,
art songs e popular songs. Cinque anni di lavoro, concerti monografici, una decina di laboratori di ricerca.
Non vedo l’ora di incontrare qualcuno che mi dica
“Registriamo insieme l’integrale delle songs di Wilder?”. Importante, a proposito del rapporto virtuoso
tra poesia e canzone, il suo lavoro con molti poeti
americani del Novecento, come Tennessee Williams
o Christina Rossetti, ed europei — Yeats su tutti.
Da molti anni insegni a Siena Jazz, dove hai creato
il Laboratorio Permanente di Ricerca Musicale da
cui nascono i gruppi Theatrum. Puoi trarre un bilancio della tua esperienza didattica?
La parola chiave è responsabilità. Sono orgoglioso di
dare il mio contributo ad una struttura che conosce
il significato di questa parola ed ha recentemente
raggiunto il riconoscimento di Libera Università. Insegnando all’Accademia senese dal 1988, ho avuto
l’esatta misura di quanto talento ma anche confusa
mediocrità stesse producendo l’accademia nel jazz,
e ho deciso di lottare dall’interno per proteggere il
significato della musica e le sue risorse creative dal
flusso esagerato e indiscriminato di informazioni che
rischia di produrre svilimento e complicare il percorso di identificazione, determinando un generale
appiattimento. Come molta accademia classica,
quella jazzistica ha innescato negli ultimi vent’anni
un grave corto circuito attraverso la cristallizzazione
di stili e linguaggi, provocando la progressiva scomparsa di una reale prassi improvvisativa. Nel 1996 ho
dunque creato, insieme alla Fondazione Siena Jazz,
uno spazio che in quindici anni è diventato un riferimento per la ricerca musicale, determinando identità attraverso una politica culturale autonoma che
le ha permesso di investire anche nella dimensione
artistico-espressiva, oltreché in quella artigianalprofessionale. Si tratta di scegliere attraverso audizioni musicisti adatti per creare dieci gruppi all’anno
con cui condividere il lavoro. Questo spazio vuole restituire ai musicisti l’esperienza della musica, che
non è semplicemente il frutto di una somma di informazioni teoriche, ma soprattutto una crescita individuale attraverso la pratica musicale, dall’interno
della musica. Lì sono nati i miei progetti degli ultimi
dieci anni, lì imparo dalla musica tutto il giorno.
STEfano BaTTaglia TRio
ThE RiVER
of anyDER
(ECM - 2011)
Stefano Battaglia (pn), Salvatore Maiore
(cb), Roberto Dani (bt)
Minas Tirith
The River of anyder
ararat Dance
Return to Bensalem
nowhere Song
Sham-bah-lah
Bensalem
anagoor
ararat Prayer
anywhere Song
Out-Vestigation comprende tre giovani valenti musicisti che hanno frequentato i seminari senesi. Si
può parlare di una nuova generazione di musicisti
italiani i quali, oltre a possedere talento e tecnica,
stanno producendo idee innovative?
Out-vestigation è una delle espressioni più alte del
Laboratorio Permanente di Ricerca Musicale. Attraverso molti anni di lavoro condiviso ed esperienze di
repertorio originale e tradizionale, Francesco Bigoni,
Giulio Corini ed Emanuele Maniscalco sono divenuti
a loro volta band leaders maturi ed autonomi. Potenzialmente la scena italiana sarebbe tra le più vivaci al mondo da un punto di vista creativo. Ma se è
vero che esiste un vivo fermento, la scena ufficiale
appare né più né meno il prodotto delle strategie
culturali del nostro paese: il circuito è schiacciato su
logiche di mercato e popolarità, e soffre dell’equivoco irrisolto tra cultura e spettacolo, mandando ai
giovani un messaggio avvilente e complicando non
poco la vita a quegli artisti che provano a tenere le
distanze da quelle logiche. L’arte è plurale per costituzione, essendo l’espressione del sé profondo di
individui diversi. Sarebbe sacrosanto per strategia
culturale, oltreché per l’espansione della persona,
ascoltare tre o quattro volte cinquanta proposte, anziché cinquanta volte le stesse quattro. Per questo
dobbiamo tutti insieme lottare per dare alle nuove
generazioni la garanzia che il mondo dell’arte e
quello della cultura esistono, e vanno protetti e
scissi dallo spettacolo e dall’intrattenimento.
Come nei precedenti lavori del pianista
milanese, l’impianto concettuale del
disco è denso di riferimenti culturali fortemente connessi al contenuto musicale.
Il titolo del Cd e del brano eponimo è
tratto da “Utopia” di Thomas More; Bensalem è la città dell’isola ideale concepita dal filosofo Francis Bacon; Anagoor è
una località altrettanto utopica creata da
Dino Buzzati nel racconto “Le Mura di
Anagoor”. Basterebbero queste citazioni
e l’ascolto dei relativi brani ad indicare le
coordinate su cui Battaglia sta indirizzando la sua ricerca: nessuna utopia in
musica, ovviamente, quanto, piuttosto, lo
sforzo — coronato da successo — di definire una poetica svincolata dai canoni del
piano trio. Dal prototipo moderno di questa formazione (lo storico trio Evans-La
Faro-Motian) Battaglia, Maiore e Dani
hanno certamente desunto il concetto di
interplay come abbattimento dei ruoli ed
interscambio paritario per proiettarlo in
un’ottica europea contrassegnata anche
dall’impronta di compositori del secondo
Novecento quali Messiaen e Ligeti. Ne derivano una costante circolazione di impulsi ed idee, un’attenzione rigorosa a
dinamiche e timbriche, l’inclinazione a
sottrarre piuttosto che ad aggiungere,
esplorando minuziosamente ogni singola
cellula. Ne scaturisce una dimensione
atemporale, in cui il tempo inteso come
categoria musicale può risultare a tratti
sospeso od espresso liberamente nella varietà metrica degli episodi. Gli accenti
scarni ma pregnanti di Maiore, in qualche
misura debitore di Peacock, fungono da
collante nella dialettica tra Battaglia e
Dani: l’approccio coloristico, quasi “scultoreo”, del batterista si propone come efficace e personale sintesi tra Motian,
Oxley e Lytton, contribuendo fattivamente allo sviluppo degli eventi sonori.
Per parte sua, Battaglia esplora con
acume certosino i nuclei delle esecuzioni,
specie laddove si addentra nel terreno
modale: tanto in Ararat Dance e Ararat
Prayer, originate da una melodia ebraica,
quanto in Sham-bah-lah, che — partendo
da un frammento di Columba Aspexit di
Hildegard von Bingen — approda a modalità di matrice indiana. I due intermezzi
pianistici Nowhere Song e Anywhere Song
indagano il rapporto col silenzio. Nel complesso, prevale un lirismo che evoca la
purezza primigenia del canto come
espressione dell’interiorità._En.Bo.
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
13
Dan Weiss
i molteplici ritmi del mondo
di Antonio Terzo
foto di Juan Carlos Hernández
Partito dal rock ed approdato al jazz, oggi il batterista Dan Weiss è anche un cultore delle tabla.
La musica indiana lo ha portato ad applicare le strutture di quello strumento anche alla batteria,
rendendolo un drummer particolarmente intuitivo, fantasioso e sempre originale.
Un’originalità con la quale non solo ha contagiato il chitarrista Miles Okazaki, suo amico da sempre,
ma anche il suo stesso trio, Timshel, immettendo nuova verve nel duo con il collega Ari Hoenig.
Qual è stata la tua prima esperienza di batterista?
La mia primissima esperienza come batterista è
stata quando avevo circa 5 anni. Ricordo perfettamente che mi misi a battere su dei container per il
pranzo. Ebbi la mia prima vera batteria più o meno
un anno più tardi.
E la tua prima esperienza professionale con il jazz?
Suonare insieme ad alcuni compagni di scuola in un
hotel della nostra città, il “Clinton Inn”.
Adesso stai diventando sempre più rinomato anche
come suonatore di tabla. Come hai scoperto la musica indiana?
All’inizio vidi un video di Ravi Shankar e Ustad Allah
Rakha al Monterey Pop Festival, e rimasi esterrefatto
soprattutto dall’assolo di tabla. Sapevo che la musica aveva un grande impatto su di me. Quello che
non sapevo era che un giorno avrei effettivamente
suonato le tabla. Dopo quel concerto, ho voluto praticamente ogni possibile disco del mio musicista di
classica indiana preferito: Nikhil Banerjee. Poi mi
feci prendere e fui preso da altri grandi artisti, come
Amir Khan, Bhimsen Joshi, Ali Akbar Khan, Pannal
Ghosh, Ahmedjan Thirakwa. La lista potrebbe continuare, proprio come per il jazz.
Riguardo al tuo interesse per tabla e musica indiana, quale delle due cose ti ha portato all’altra?
Prima c’è stato un interesse per la musica rock. Poi
la passione per il jazz e la musica classica occidentale, partita quando avevo pressappoco 14 anni. Un
anno più tardi o giù di lì ho cominciato ad interessarmi alla musica classica indiana e, mutualmente,
alle tabla. Ho sempre amato anche il ritmo della musica dell’India meridionale. Avevo sempre cercato di
incorporare i ritmi del nord e del sud dell’India nel
mio drumset. Poi finalmente decisi di studiare le
tabla. Sono stato con il mio guru Pandit Samir Chatterjee fin dal primo giorno, e questo è stato 14 anni
fa. Continuo a vederlo abbastanza regolarmente e
lui ha trasmesso tanta della sua saggezza su di me.
Cosa ti ha catturato di questa musica e delle tabla?
Dello strumento mi hanno preso il suono e le possibilità ritmiche.
C’è dietro pure qualche meta-implicazione di tipo
filosofico o spirituale?
Tutto il mio approccio alla musica ed alla pratica musicale è spirituale. È diventato il mio percorso e
tutta la mia prospettiva è basata su questo spiritualismo musicale.
Cosa intendi per “spiritualismo musicale”? Qualcosa legato alla religione, alla filosofia o all’uomo?
Non si tratta di nessuna religione. Per me la musica
è la mia religione. Uso il tempo per esercitarmi per
cercare di migliorare me stesso come musicista e
come essere umano. Cerco di trasformare me stesso
in una persona più illuminata attraverso l’esercizio e
la musica. Di conseguenza, mi piacerebbe in questo
modo cercare di fare qualunque piccola cosa per
l’umanità. Lavoro su me stesso perché voglio avere
un impatto positivo sul mondo.
Questo tuo interesse ti ha portato a pubblicare un
album di solo tabla, “3D CD” (2007), che suoni con
il guru Dibyarka Chatterjee, e due lavori di sola
batteria, “Tintal” (2005) ed il recente “Jhaptal”
(2011). Entrambi sono basati sul tala: puoi spiegare ai neofiti di cosa si tratta?
Tala significa ciclo ritmico. Il tala è una struttura,
un programma.
Un’altra importante parte di questa musica è il
theka: in cosa consiste?
Consiste in bols, ossia sillabe, vibhag, che sono le
misure, e thali/khali, cioè il sistema delle ondate di
colpi con le mani.
L’idea di quegli album di solo batteria è di trasferire la tua esperienza con le tabla sul tuo originario strumento e sul drumming: com’è maturata?
Inizialmente ho cominciato semplicemente con il mischiarle in mezzo alle composizioni ed alle frasi che
Dan WEiSS
avevo imparato sulle tabla, adattandole al set di
batteria. Man mano che proseguivo, ho pensato fra
me e me che desideravo riuscire a suonare tutto il
Al contrario di quanto si potrebbe pensare,
questo
Jhaptal in solitaria scorre fluente e
(Chhandayan Prod. - 2011)
piacevole, arricchendo e rilassando non poco
l’ascoltatore. Corresponsabili, i mantra chitarristici di Okazaki, capaci di indurre trance
silenti e psichedeliche che mettono a nudo il
subconscio per la penetrante voce di Weiss,
impegnato nel theka, una sorta di scat della
musica indiana. Come nel precedente “Tintal”, anche qua Weiss prima computa vocalmente una frase ritmica — e a volte anche
una serie di frasi di non facile memorizzazione per l’ascoltatore — per poi riprodurle
Dan Weiss (bt), Miles okazaki (ch)
non soltanto nell’esatta cadenza d’accenti
ma pure in altezza ed intenzione, sfruttando
alap, lehera, Theka, uthan, Peshkar,
i timbri della batteria, la cordiera o la pelle
Kayeda, Kayeda, Kayeda, Madya lay
asciutta del rullante, i piatti aperti o il charTheka, gat, anaghat gat, anaghat
gat, anaghat gat, gat, gat, gat, Theka leston serrato. Il nesso di questa musica con
Superimposition, laykaari improvisail jazz, come Weiss spiega, sta nel fatto che
tion, Rela, Rela, Drut Theka, Tukra,
esiste una struttura e, all’interno della
Kathak Tukra, Tukra, Tukra, Jora
stessa, la possibilità di muoversi con spontaTukra, Chakradar, Dippali Chakradar,
neità e libertà: e la libertà nel rispetto della
Trippali Chakradar, Chakradar, Chastruttura è qualcosa che ha strettamente a
kradar, Chakradar, laggi, Chakradar
che fare con la coscienza, affinché lo spirito
si senta libero all’interno di quella struttura,
la avverta come parte della propria realtà e
JhaPTal DRuMSET Solo
non come qualcosa da combattere ed eliminare. Nulla è lasciato al caso e che tutto provenga da una precisa intenzione e, come nel
jazz, da uno studio a monte, lo dimostrano i
frangenti in cui voce e batteria procedono all’unisono. Ben inteso: nulla di matrice new
age, rassicuratevi. La batteria di Weiss, infatti, resta ben radicata al concetto di figurazione ritmica ed allo stesso tempo ben
lontana da assordanti assolo di stampo rockettaro — sebbene Weiss militi anche su questo fronte. Non c’è neppure alcuna saccente
velleità di virtuosismo, perché l’intento è
ben diverso, lo si può ascoltare ad ogni
brano, ad ogni cadenza, ad ogni figurazione,
ad ogni singolo colpo: il confronto con sé
stessi, non per semplice abbattimento di un
record personale, ma per scoprirsi nello strumento. E, indifferentemente, lo strumento
potrebbe essere la batteria o le tabla oppure, per ipotesi, la chitarra, giacché il risultato non cambierebbe, in virtù di quella
connessione che, a dire di Weiss, esiste fra
la musica e lo spirito. E dopo l’ascolto attento e senza pregiudizi di questo suo lavoro,
come non convenire con lui?_An.Te.
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
15
mio repertorio tabla sulla batteria, in modo metodico. Volevo farlo perché desideravo darmi un nuovo
linguaggio a cui attingere per colmare il gap esistente fra i due strumenti.
Questi due lavori di solo batteria sarebbero presumibilmente degli album solitari, mentre in entrambi suoni in duo con il tuo compagno artistico
di più lunga data, il chitarrista Miles Okazaki. Vi
conoscete dai tempi della scuola e suonate insieme
da sempre: il tuo approccio alla batteria attraverso
le tabla, come ha influenzato il suo modo di suonare e la vostra collaborazione, rispetto a prima?
Più io approfondivo le tabla e la musica classica indiana e più anche Miles vi si interessava. Per qualche anno lui ha studiato il kanjira [un tamburo a
cornice dell’India meridionale, ndr] e buona parte
di tutta questa musica è influenzata da certe idee
ritmiche provenienti dalla musica indiana classica
del sud e del nord.
Anche il tuo lavoro con il Trio sembra fortemente
influenzato da quel concept musicale. Non soltanto ritmicamente, giacché il trio mostra una
sorta di simbiosi fra il tuo “fraseggio” e — soprattutto — il piano di Jacob Sacks. Puoi spiegare come
16
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
hai applicato l’esperienza con le tabla pure al trio?
Alcune di quelle composizioni sono esattamente basate sul repertorio delle tabla. Inoltre, ci sono dei
brani suonati in trio che traggono spunto da melodie
a base raga o che presentano un mood che abbiamo
cercato di mantenere proprio come quello di un raga.
Uno dei tuoi film preferiti è “Glengarry Glen Ross”
[“Americani” nel titolo italiano, ndr]. In “Timshel”, il brano Always Be Closing contiene un dialogo di Jack Lemmon che tu riproduci
ritmicamente alla batteria. Quindi qualsiasi cosa
può essere ricondotta alle figurazioni tabla?
Quel brano non lo riconduco necessariamente alle
tabla. Mi sono sempre interessato al dialogo e al
modo in cui un discorso può essere messo in relazione al ritmo. Adoro anche quella pellicola e ritengo
che sia un film molto musicale.
Credi sia stato per questa tua vicinanza alla musica del Sud dell’Asia che musicisti di quella regione quali Vijay Iyer, Rudresh Mahanthappa e Rez
Abbasi ti abbiano voluto come loro drummer?
Sono sicuro che ci sia una qualche connessione. Ma il
mio approccio è in generale molto aperto, spontaneo ed intuitivo. Credo che sia abbinato all’avere
una certa sensibilità artistica il fatto che questi musicisti mi rispettino e probabilmente sono stati attratti verso di me per queste ragioni.
Suonando con ognuno di loro, cosa hai potuto approfondire di più di quella musica?
Imparo tantissime cose da tutti. C’è un suonatore di
sarod [una sorta di liuto usato nella musica indiana,
ndr] con il quale suono, Anupam Shobhankar, che mi
ha sempre spinto. Un vocalist che si chiama Samarth
Nagakar, che ogni tanto mi insegna canto, il quale al
momento mi dà degli ottimi suggerimenti sull’accompagnamento. C’è così tanto da imparare e così
tanto su cui improvvisare!
Secondo te, che nesso si può trovare tra il jazz e
questo tipo di musica?
C’è [in entrambi] un senso di leggerezza e di giocosa
spontaneità. C’è una struttura e c’è una certa libertà all’interno della struttura. C’è il più elevato
grado di coscienza che io abbia mai trovato, quando
suono questi generi.
Hai suonato con tanti grandi jazzisti. Fra questi, il
veterano altosassofonista Lee Konitz. Com’è stata
la tua esperienza nel suo New Nonet?
Quell’esperienza è stata grande! È stata una grande
lezione di moderazione e una lezione sul modo in cui
cercare di far suonare Lee al meglio delle sue possibilità. Solo condividere il palco con lui è stato emozionante e un vero onore.
Cosa ne è stato del progetto Sax Pistols di Francesco Bearzatti dopo l’uscita dell’album?
Abbiamo fatto qualche tour e non molto altro, dopo.
Recentemente ci siamo ritrovati insieme per due serate a New York.
Oltre al duo con Miles Okazaki, un altro progetto in
duo è quello con il collega batterista Ari Hoenig:
come è iniziata questa originale collaborazione?
Credo che Ari ed io abbiamo sempre nutrito un reciproco rispetto l’uno verso l’altro. Ci piacciono le
stesse cose riguardo alla batteria e al ritmo e così
abbiamo pensato di suonare insieme. Credo che la
prima volta sia stata forse 15 anni fa. Poi ci siamo
ripresi 5 anni fa circa e abbiamo deciso di fare delle
serate insieme, con della musica scritta e delle cose
anche in forma libera. È sempre una festa suonare
con lui, ci trasmettiamo l’un l’altro il meglio.
E quando uscirà il tanto annunciato Cd insieme?
Il Cd è terminato e pure masterizzato. Dobbiamo
completare la veste grafica e la stampa. Dovrebbe
uscire al più tardi in primavera.
foto Tim Dickeson
MARIUS NESET
aurea esplosione di jazz
di Marco Maimeri
Energie fresche e istanze giovanili sono la linfa vitale di qualsiasi musica,
soprattutto se ha nel Dna l’eclettismo e la rapidità che contraddistingue il jazz.
Questo 25enne sassofonista norvegese si ispira a Michael Brecker, Coltrane e al conterraneo Garbarek,
ma il suo eloquio e la sua scrittura fanno intravedere aspetti della creatività complessa e instabile
di Wayne Shorter o Joe Henderson, come testimoniato dall’ultimo Cd “Golden Xplosion”.
Fra i tuoi ispiratori vengono spesso citati John Coltrane, Ornette Coleman, Michael Brecker, Jan Garbarek, Wayne Shorter e Joe Henderson: che cosa
puoi raccontarci dell’influenza di questi grandi
maestri del sax tenore e soprano sul tuo stile?
Hanno tutti avuto un’enorme influenza su me, specialmente Michael Brecker, Wayne Shorter e Jan
Garbarek. Brecker è stato il mio primo grande eroe
del sassofono e la sua energia combinata ad un
complesso linguaggio armonico mi ha sempre affascinato moltissimo. Dato che poi sono norvegese,
naturalmente anche Garbarek ha avuto una grande
influenza su me: il suo sound, il più limpido che
abbia mai ascoltato, mi è sempre piaciuto tantissimo. Shorter invece mi ispira più come compositore che come sassofonista: il suo modo di
comporre è molto articolato, ha spesso forme
estese ed è parecchio dettagliato, ma contemporaneamente c’è spazio anche per tanta libertà ed improvvisazione nelle sue composizioni. Questo
aspetto mi intriga moltissimo e così cerco di comporre cose dello stesso tipo.
Imparare a suonare il sassofono non è certo una
cosa semplice. Durante l’apprendimento, come
sei riuscito a cogliere il meglio dai musicisti con i
quali venivi in contatto?
Ho iniziato a fare pratica seriamente con il sassofono
quando avevo circa dodici anni. Prima suonavo il pianoforte jazz, così conoscevo già bene le strutture armoniche, i ritmi e l’improvvisazione quando
intrapresi lo studio del sax, e questo ha voluto dire
molto. Mi ha reso estremamente più semplice comprendere i cambi degli accordi e le diverse misurazioni temporali. Inoltre, quando ero ancora
adolescente, ho fatto parecchia pratica di scale ed
arpeggi e ho sempre avuto uno spiccato interesse nei
confronti dei ritmi difficili e di come utilizzare un
complesso universo armonico in modo da creare musica affascinante. Ho poi trascritto John Coltrane,
Joe Henderson, Charlie Parker, Michael Brecker e
molti altri, cercando di trasporre ciò che maggiormente mi piaceva di questi strumentisti nel mio
modo di suonare. Infine, sono sempre stato attratto
dal portare avanti nuove idee personali, così invece
di imparare modelli di scale scritti da altri, di frequente ho inventato patterns e frasi mie, e questo
mi ha consentito di sviluppare la creatività e un mio
specifico linguaggio musicale.
Ricevi spesso eccellenti recensioni per il tuo talento di performer e di compositore. Quale di queJazzColo[u]rs | dicembre ’11
19
foto Sigvor Mala
sti due aspetti ritieni più importante e in che
modo hai approfondito il tuo linguaggio musicale e
compositivo in questi ultimi anni?
Entrambi questi aspetti significano molto per me,
improvvisare e comporre sono facce della stessa
medaglia, molti brani nascono mentre improvviso
qualcosa al pianoforte o al sassofono o su un pattern ritmico. Nel momento in cui trovo l’idea
“principale” per le composizioni, le altre vengono
rapidamente, quasi di conseguenza. Tutto sta nel
trovare la giusta forma e in questo il bilanciamento fra composizione e improvvisazione è qualcosa di davvero importante. Cerco sempre di
utilizzare l’improvvisazione come parte della composizione stessa, un modo di andare dalla A alla B:
l’improvvisazione deve scaturire da ragioni compositive e quando ciò accade, allora si raggiunge il
massimo del risultato.
Come è nato il tuo quartetto con il pianista e tastierista Django Bates e con la sezione ritmica dei
Phronesis — Jasper Høiby al basso e Anton Eger
alla batteria — e che tipo di esperienza è lavorare
con musicisti così talentuosi?
Lavoro con Anton Eger da otto anni ormai ed è probabilmente il musicista con cui ho suonato di più. È
20
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
sempre un’esperienza grandiosa: ci conosciamo
molto bene e a volte, quando ci esibiamo, sembra
quasi che i nostri cervelli avviino automaticamente
una sorta di connessione telepatica. Jasper Høiby,
invece, l’ho incontrato alcuni anni fa, eppure finora
non avevamo mai avuto occasione di suonare insieme in una band. È un musicista emozionante,
inoltre ha un groove molto intenso e un fantastico
suono al basso.
In particolare, quale tipo di rapporto hai con
Django Bates e come riesci ad interagire con lui in
situazioni differenti come la big band Stormchaser
o il combo Human Chain?
Ho conosciuto Django Bates sei anni fa. È un musicista e un compositore straordinario e il suo modo
di suonare dona alle mie composizioni una nuova
dimensione. È stato semplicemente fantastico
averlo accanto mentre interpretava da par suo la
mia musica. Ho fatto parte della sua band, Stormchaser, per cinque anni ed è stata una sfida davvero avvincente affrontare i suoi brani: penso di
aver imparato tanto sulla composizione solamente
suonando i suoi pezzi. Ho anche realizzato alcuni
concerti con gli Human Chain e anche quelli sono
stati interessanti. Il modo con cui Django accom-
pagna i miei assoli, inoltre, mi porta a suonare in
maniera più creativa.
Come è nato il tuo ultimo progetto discografico,
“Golden Xplosion”, e che cosa hai provato a presentarlo dal vivo durante il tuo tour in Gran Bretagna e in Europa?
Avevo scritto composizioni per due anni, prima di registrare “Golden Xplosion”, all’inizio del 2010. A
parte Anton, non sapevo chi avrebbe partecipato. In
realtà, avevo composto avendo in mente un pianoforte acustico, così quando Django l’ha suonato alle
tastiere, mi si è come aperto un mondo nuovo, fatto
di grande freschezza e sonorità avvincenti, e sono
stato molto felice del risultato. Suonare la musica
dal vivo, poi, è sempre meglio, è una di quelle cose
che maggiormente preferisco fare.
In quei concerti, la sostituzione di Django Bates
con Nick Ramm quanto ha inciso sul tuo modo di
suonare, di interagire con la band e di sviluppare
le tue idee musicali?
Ho utilizzato vari tastieristi nel corso di questi concerti live e abbiamo sempre fatto le cose in modo
differente, il che mi piace. Django è un musicista
davvero straordinario, ma, quando ho a disposizione altri strumentisti con i quali suonare la mia
musica, voglio che siano se stessi e non che provino ad essere come Django. Anche questa cosa è
interessante: vedere che la musica può essere suonata in modi differenti. Mi piace suonare con musicisti diversi, mi ispira, e probabilmente anch’io
suono in maniera differente quando mi trovo a col-
MaRiuS nESET
laborare con musicisti diversi. Ma Anton e Jasper
rimangono sempre stabili: sono strumentisti che
conosco molto bene ed è per questo motivo che
stiamo sempre insieme.
Che cosa rappresenta per te la scena jazzistica britannica? Quale posto le assegni nel contesto europeo e quali differenze o analogie ci sono con la
scena americana?
Non ho suonato con moltissimi musicisti britannici,
eccetto Django Bates, Ivo Neame, Nick Ramm e
pochi altri. È una scena differente e per qualche ragione trovo che parecchi di questi artisti suonino
bene la mia musica: è come se nei suoi confronti
avessimo un approccio comune. Ho ascoltato un
sacco di strumentisti inglesi, fra cui Iain Ballamy,
John Taylor, Bill Bruford, Phronesis e altri. Non sono
sicuro di quale sia la differenza con la scena americana ma generalmente penso che ci siano davvero
tanti musicisti interessanti in Gran Bretagna, con un
approccio molto aperto alla musica.
Operi anche nell’ambito delle scene jazz norvegese e danese: che cosa ne pensi e qual è secondo te il loro posto rispetto all’ambiente
europeo ed americano?
Considero la scena norvegese davvero interessante:
tanti penseranno a strumentisti come Jan Garbarek, il quale ha in un certo senso creato da solo il
cosiddetto “Norwegian sound” e inoltre utilizza
spesso molto silenzio nella sua musica. Indubbiamente è un artista straordinario che ha sviluppato
uno stile personale estremamente riconoscibile. Ri-
Per la composizione di due degli undici
brani
in scaletta si è fatto aiutare. Sullo
(Edition Rec. - 2011)
scoppiettante e ritmato Shame Us (suonato
in trio senza piano), dal suo batterista di
lungo corso Anton Eger, mentre su Saxophone
Intermezzo II, dal chitarrista dei JazzKamikaze Daniel Heloy Davidsen. Per il resto, il
sassofonista norvegese Marius Neset se la
cava da solo, mostrando una penna capace
di coniugare l’imprevedibilità di Wayne Shorter e il senso del ritmo di Joe Henderson. Ne
sono un esempio l’eponimo Golden Xplosion
(comprensivo di Introducing), City on Fire e
Marius neset (sx), Django Bates (pn,
The Real Ysj. Il modo di suonare del leader è
tast), Jasper høiby (cb), anton Eger (bt)
sempre sfaccettato ed intrigante. Specie nel
solitario Old Poison (XL) come nei due Saxointroducing: golden Xplosion
golden Xplosion
phone Intermezzo e nell’Epilogue, basati su
City on fire
stillanti sovraincisioni. Il trio che lo sostiene
Sane
e lo incalza però si mostra altrettanto arold Poison (Xl)
rembante e propositivo. La decisione di
Shame us
Django Bates di utilizzare le tastiere invece
Saxophone intermezzo
del pianoforte acustico reca con sé l’intenThe Real ysj
zione di portare le composizioni davvero su
Saxophone intermezzo ii
un’altra dimensione, sonora ed espressiva.
angel of the north
Epilogue
Ed è una scelta vincente nonché condivisa da
golDEn XPloSion
una batteria roboante e reattiva e da un contrabbasso turgido ed elastico. L’uso dell’elettronica è ben dosato e arricchisce lo
spettro sonoro del quartetto con gusto ed incisività. In un’ottica più britannica che scandinava, a dire il vero, ma questo è il bello
della commistione, della globalizzazione sonora: che valica i confini e le scene nazionali. Solo così è possibile concepire un
conterraneo di Jan Garbarek che suona e
pensa allo stesso modo di un corrispettivo
americano di Steve Coleman, ascoltando fra
l’altro gli inglesi Iain Ballamy, John Taylor e
Bill Bruford. Ciò è figlio dei nostri tempi ma
anche un modo di portare avanti e dispiegare
il vessillo da sempre ibrido del jazz. Più tradizionale invece la ballad Sane, intensa e romantica, dove il gruppo si tramuta in un
combo acustico, grazie ad un sax suadente,
una batteria vaporosa, un basso ben tornito
e un pianoforte iridescente. Pari formazione
e risultato per l’esotico ed orientaleggiante
Angel of the North, tributo nordico alla fusion mediterranea di Chick Corea e alle sue
atmosfere aperte e raffinate._Ma.Ma.
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
21
foto Tim Dickeson
tengo però che oggi vi siano un sacco di musicisti differenti in Norvegia, strumentisti davvero bravi e molto
sperimentali nel combinare fra loro diversi generi musicali. Ci sono poi parecchi buoni conservatori lì in Norvegia e molti musicisti capaci provengono da là. Lo
stesso si può dire per quanto riguarda la Danimarca.
Tuttavia, penso che per tradizione gli artisti danesi
siano un po’ più legati alla scena americana e per questo motivo abbiano forse un approccio un po’ più conservatore nei confronti del jazz. Ma anche questo credo
che sia cambiato: oggigiorno i giovani musicisti danesi
sono molto sperimentali.
Nel progetto JazzKamikaze mescoli fra loro vari generi
musicali come jazz, rock, elettronica e classica. Che
tipo di esperienza è interagire con tutti questi stili differenti e che cosa contraddistingue questa dall’altra
tua band regolare, i People Are Machines?
Ho imparato un sacco di cose suonando con i JazzKamikaze: i cinque musicisti che ne fanno parte sono molti
diversi fra loro e hanno backgrounds provenienti da ogni
tipologia di musica, dal pop-rock alla classica, dal jazz
all’hip-hop, fino al funk e anche oltre. Ciò rende la band
capace di fare molte cose insieme e questo è davvero
avvincente. Ci sono stati periodi in cui ci soffermavamo
davvero tanto sui dettagli della composizione, dell’arrangiamento corale e su ogni singola nota che suonavamo. Questa è stata una cosa che mi sono portato
appresso anche nei miei progetti personali: entrare nei
dettagli di ogni singola nota che compongo e cercar di
trovare sempre ciò che suona meglio.
Che tipo di rapporto hai con il sassofono e per quale ragione hai scelto di realizzare un progetto discografico
come “Suite for the Seven Mountains” per il tuo debutto da solista?
Il mio rapporto con il sassofono è molto intenso. È una
parte di me e davvero debbo suonarlo. Se per alcuni
giorni non riesco a farlo, non trovo pace e non sto bene
con me stesso. Amo suonare musica e ho bisogno di essere creativo. “Suite for the Seven Mountains” era un
progetto che avevo realizzato per un quartetto jazz e
un quartetto d’archi. Era perciò un qualcosa che già esisteva, da sperimentare con musicisti classici e strumentisti jazz. Sono stato molto felice quando l’ho
terminato, dopo quasi due anni di alterna composizione, e ho deciso di pubblicarlo. Si trattava di un ensemble davvero esteso ed era difficile ottenere ingaggi
in quel momento, anche perché non erano in tanti a conoscermi. Ma era lo stesso un gran progetto da portare
avanti e sono molto contento che alla fine siamo riusciti a registrarlo. Di recente abbiamo realizzato alcuni
concerti e ne faremo altri l’anno venturo.
ss
jazz & arts
Pascal Martos
il realismo visionario del jazz
di Marco Maimeri
I suoi ritratti sono figli dell’iperrealismo di Vallejo e Siudmak
come della passione per groove, fusion e contaminazioni varie.
Pone la sua esperienza d’artista al servizio del jazz, mostrandone
i protagonisti e le sensazioni che ne accompagnano l’ascolto.
Le sue opere più intriganti contrappongono musicisti e strumenti,
evocando spesso riferimenti a storie ed oggetti di vita vissuta.
Partiamo dalla mostra “Mars En Jazz” prevista a
marzo nella tua città, Maisons-Alfort. Quali differenze ci saranno rispetto alle precedenti e quali
nuove opere esporrai?
Sarà simile alle altre. Dominique Edmond, direttrice
della sezione musicale della mediateca di MaisonsAlfort, mi ha chiesto di portare tutti i quadri, non
solo quelli jazz. Ci saranno ritratti di Miles Davis
come di Marvin Gaye o Prince, per un totale di 40
tele e 10 istantanee di miei dipinti, realizzate dall’amico, attore e fotografo Jean-Claude Bourbault e
scattate in vari posti di Parigi legati ai quadri e ai loro
soggetti. Dato poi che continuo a dipingere, conterrà
sicuramente opere nuove. Il pezzo forte sarà il tributo a “Bitches Brew” di Miles Davis fatto di recente.
“Miles Davis 2” celebra sia la svolta fusion-jazz del
protagonista sia l’arte di Mati Klarwein, illustratore dell’Lp di “Bitches Brew”. Che rapporto hai
con la musica e la cover di quell’album?
La copertina di “Bitches Brew” mi ha sempre stupito.
È perfetta. Ne amo colori, stile e composizione. Mati
Klarwein ne ha fatte altre ma questa è la mia preferita. E poi che musica! La prima volta che l’ascoltai,
negli anni ’80, quando iniziai a sentire jazz, fu uno
choc. Non ci capii nulla. Provai ancora e ogni volta
che mettevo quel disco la musica mi penetrava sempre più e alla fine mi ha catturato! Iniziai a comprare
Lp fusion-jazz di altri musicisti. Miles mi aveva aperto
un mondo. Di recente ho letto la sua biografia scritta
da George Cole e focalizzata sul periodo elettrico,
“The Last Miles”, e ho capito cosa lo spinse a cambiare. Ho pensato che fosse tempo di dare indietro la
mia arte a “Bitches Brew” per pagare tributo a Miles
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
23
e Mati, evidenziando alcuni momenti importanti
della vita di Miles. Ho usato la simmetria e gli sfondi
del dipinto di Mati: una tempesta sull’oceano e il
cielo stellato di notte. Ho ritratto Miles metà giovane
e metà vecchio, disegnato dalla sua stessa mano,
perché era lui a decidere la direzione. Ho dipinto Juliette Greco nascosta da un papavero perché lui era
così triste quando la lasciò per tornare in America
che ricadde nell’uso di droghe pesanti. Da allora la
tempesta invase la sua vita. Dall’altra parte, nascosta da una chitarra/tromba, c’è Betty Mabry (Davis),
la seconda moglie, che lo influenzò molto nella svolta
elettrica. Ho disegnato poi alcune luci, per l’amore
verso il palco e la boxe, e la sigaretta, perché era
sempre presente nella sua vita. Ho lavorato al quadro ascoltando “Bitches Brew” e questo mi ha aiutato ad infondervi l’amore per Miles e la sua musica.
Come nascono di solito i tuoi dipinti e quali sono
le principali fonti cui ti ispiri?
L’idea per un quadro mi viene spesso dopo aver
ascoltato musica. Un pezzo nuovo o uno dimenticato. A volte è innescata da un concerto che mi sta
emozionando o mi ha profondamente commosso.
“Trombone Shorty” è nato proprio dopo averlo visto
suonare sul palco per la prima volta. Aveva tanta
energia e talento. È stato fantastico: avevo bisogno
di dipingere ciò che avevo provato.
Dai ritratti che realizzi si capisce che sei un vero
appassionato di musica. Com’è nato l’amore?
Vengo da una famiglia spagnola e i miei primi ricordi
sono la musica cubana suonata da Antonio Machin
che mio nonno Manolo soleva ascoltare, così come il
Golden Gate Quartet e Sidney Bechet. È stato lui ad
introdurmi al “groove”. Poi, intorno ai 10 anni, mi
sono spostato verso rock e soul: amavo Carlos Santana e la sua combinazione di rock e ritmi sudamericani. Poi vennero il funk e le sezioni fiati: Earth
Wind & Fire, James Brown, Commodores, Kool & The
Gang. Ho scoperto grandi musicisti e ho iniziato a
leggere i crediti sugli Lp e quando un artista che conoscevo suonava da solo su un album, lo ascoltavo.
Il jazz venne negli anni ’80: andavo all’università e
nei negozi c’erano Miles Davis, Herbie Hancock,
Wayne Shorter e George Benson.
Chi erano i tuoi maestri ed ispiratori quando iniziasti a fare ritratti, nudi e altre figure e in che
modo questo background ti ha aiutato a sviluppare un tuo stile anche su temi musicali?
A scuola apprezzavo i grandi maestri come Michelangelo, Caravaggio o David. C’erano foto di loro
opere sul mio libro di storia ed io le ammiravo. Volevo disegnare come loro un giorno — e ancora ci
24
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
provo. Da ragazzo ho scoperto gli artisti iperrealisti
come Boris Vallejo o Wojtek Siudmak. Ho lavorato
da autodidatta per rendere sempre più veritieri e
realistici i miei ritratti, migliorando la tecnica di lavoro con gli acrilici a partire dalle immagini che trovavo sulle riviste. Ora che faccio mostre, uso tutte
le tecniche acquisite per ritrarre musicisti.
I jazzisti che ritrai sono rari da trovare nelle gallerie di altri artisti. Come scegli i soggetti da dipingere? È solo questione di gusti o anche di
incontri e concerti cui assisti come spettatore?
Di fatto il soggetto è scelto seguendo entrambe le
motivazioni. Quando non lavoro su commissione, dipingo solamente i musicisti che amo ascoltare e, in
effetti, alcuni di loro non sono ritratti tanto spesso.
All’inizio cerco di trovare una fotografia esente da
diritti d’autore da utilizzare come modello. Poi
penso a qualcosa circa il musicista da raccontare
sulla tela o cerco di esprimere qualcosa che ho provato vedendolo esibirsi sul palco. Dopodiché metto
la sua musica e attacco facendo uno schizzo su carta
per avere un’idea delle dimensioni che più o meno
avrà l’opera. Poi passo a fare un bozzetto su tela più
preciso in bianco e nero. Infine, metto su quel disegno uno strato di gesso che mi permetta comunque
di vederlo e comincio ad utilizzare i colori acrilici: è
il modo più semplice che ho a disposizione.
Vivi nei pressi di Parigi, città splendida quanto a
cultura, musica e performance live, frequenti
spesso concerti di artisti europei ed americani,
eppure non ritrai mai musicisti francesi: perché?
Non è una domanda facile. Naturalmente conosco
alcuni musicisti francesi eppure questa cosa è difficile da spiegare: forse è dovuta al fatto che ho
sempre ascoltato artisti americani e inglesi e su
questi ho costruito le fondamenta della mia cultura
musicale. Forse è anche un modo di viaggiare nella
loro terra — non sono mai stato negli Stati Uniti —
ed evadere dalla mia. Ad essere onesti, infatti, ho
un amico che è un grande bassista francese, Chyco
Simeon e ho anche un suo ritratto nella mia galleria, ma c’è da dire che anche lui ha radici nelle
Indie occidentali!
In conclusione, cosa puoi raccontare dei ritratti
che realizzi contrapponendo un artista e il suo
strumento, come in “Candy Dulfer”, “Esperanza
Spalding” e “Hiromi Uehara”, o due musicisti diversi, per esempio in “John Lennon & Herbie Hancock”, “Lalah & Donny Hathaway” e “M3”?
Il primo ritratto “metà e metà” che ho fatto in assoluto è stato “M3” con Miles Davis/Marcus Miller.
L’ho dipinto appena ho saputo che Miller stava per
andare in tour con “Tutu Revisited”. Ho amato
quell’album e adoro entrambi questi artisti. Volevo
rappresentare un’unica anima in una sola faccia,
combinando i due personaggi. Terminato il disegno
preparatorio, però, avevo paura del risultato, eppure alla fine, a quadro concluso, è venuto fuori
qualcosa che alla gente è piaciuto moltissimo. Ora
quel ritratto lo possiede proprio Marcus Miller. Ho
trovato innovativo dividere una tela in due parti
presentando l’artista e il suo strumento, così ho
realizzato il quadro di Esperanza Spalding e ci ho
lavorato ancora. Fino a farne altri. Forse troppi.
Penso di aver raggiunto il limite per questo concetto. Ora, infatti, sto tornando a composizioni decisamente più classiche.
Illustrazioni
Nella prima pagina, in alto:
l’artista; in basso: “Trombone
Shorty” (2011), resina acrilica
su tela.
Nella pagina precedente: “Al
Jarreau” (2009), resina acrilica
su tessuto.
In questa pagina, in alto:
“Esperanza Spalding” (2010),
resina acrilica su tessuto; qui a
fianco: “Manu Katche” (2011),
resina acrilica su tessuto.
Per ulteriori informazioni:
http://pascalmartos.com
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
25
CD
DAVE DOUGLAS SO PERCUSSION
BAD MANGO
(Greenleaf - 2011)
Il 2011 è sicuramente un anno
molto intenso e importante per
Dave Douglas. Sono infatti usciti ben quattro album a suo nome
e per la sua etichetta, la Greenleaf: il primo, “United Front”,
pubblicato in aprile, documenta un’esibizione dello splendido
Brass Ecstasy dal vivo al Festival di Newport, mentre gli altri
tre, ora in un unico cofanetto, fanno parte di una serie denominata GPS, Greenleaf Portable Series. Nel giro di soli tre mesi,
da giugno ad ottobre, Douglas ha immesso sul mercato tre lavori
completamente differenti per spirito, formazione e direzione
artistica. Si tratta infatti di albums di durata differente, dai 35
ai 50 minuti circa, scaricabili ad un prezzo contenuto direttamente dal portale della label. Il primo vede ancora protagonista la Brass Ecstasy in una registrazione negli studi di Brooklyn
con nuove composizioni scritte appositamente, più una trascinante versione di Lush Life. Nel secondo, “Orange Afternoons”,
uscito in agosto, è all’opera un quintetto di tutte stelle composto da Ravi Coltrane al sax tenore, Vijay Iyer al pianoforte,
Linda Oh al contrabbasso e Marcus Gilmore alla batteria. Sei le
composizioni e tutte nuove. Infine l’ultimo disco, sicuramente
più sperimentale e intrigante, è questo Bad Mango in esame,
uscito in ottobre. La tromba acidula e asprigna del leader si misura in vecchi e nuovi brani con So Percussion, un gruppo formato da quattro percussionisti, Erich Beach, Adam Sliwinski,
Jason Treuting e Josh Quillen. L’amore per Lester Bowie e l’Art
Ensemble of Chicago continuano ad ispirare Douglas, pur se in
modi e direzioni del tutto personali. Se la Brass Ecstasy è una
derivazione piuttosto evidente della Brass Fantasy, pur diversificandosi alquanto nell’approccio e nello sviluppo delle trame,
Bad Mango non può non richiamare gli episodi più africaneggianti dell’AEoC. Ma mentre Bowie e compagni sviluppavano i
ritmi in maniera tribale, quasi arcaica, il So Percussion utilizza
un numero sterminato di oggetti e strumenti in chiave paesaggistica e stratificata. Marimbe, crotali, gong, drumset, campane, glockenspiel, perfino una sega percossa con martelletti,
foto Giorgio Alto
recensioni
Musicisti
richiamano più il M’Boom Re
Dave Douglas (tr), Eric Beach
Percussion di Max Roach che non
(estey org, progrmm, sega musiDon Moye e Roscoe Mitchell.
L’enorme energia dispiegata ra- cale, ogg, metronomi, shruti box,
crotales), Adam Sliwinski (marmb,
ramente viene utilizzata per
ogg, grancassa, glockspl), Jason
marcare un beat, piuttosto diseTreuting (bt, melod, campane),
gna autonomamente una serie di Josh Quillen (sint Korg, vocoder, prc)
ritratti di matrice contemporanea e colta sui quali si innesta la
Brani
tromba ora splendidamente liOne More News
rica e struggente ora nervosa e
Bad Mango
zigzagante. Due brani dei sette
Nome
Witness
che compongono questo disco
Spider
sono remakes di vecchie inciOne Shot
sioni: la morbida e seducente
Time Leveler
One Shot, proveniente dal Tiny
Bell Trio, e Witness, dai colori
medio-orientali. Time Leveler, il
brano che chiude il Cd, è la
summa della grazia ispirativa di
Douglas._Ro.De.
L’album che ha segnato la svolta musicale nella tua vita?
Lisa dagli Occhi Blu, di Mario Tessuto, regalatomi da mia zia di Novara quando
avevo 5 anni.
Quello che consideri cruciale per la musica jazz?
Ogni album di Charlie Parker.
Il disco che ami più di tutti fra quelli di sassofonisti?
The New Tristano, Lennie Tristano.
Quello che ascolteresti durante un viaggio in auto?
Vado a periodi, ma spesso ascolto musica medioevale e varie canzoni pop.
Un album non di jazz ascoltato di recente che ti è piaciuto?
Un Dvd del gruppo Musica Antiqua di Colonia che esegue L’Arte della Fuga di Bach.
26
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
foto Davide Susa
I 5 dischi imprescindibili di Glauco Venier
STEVE ColEMan
Steve Coleman (sc), Tim albright (tbn), Jonathan finlayson (tr), Marcus gilmore (bt),
Tyshawn Sorey (bt), Thomas
Morgan (bs), Ramón garcía
Pérez (prc, vc),
Jen Shyu (vc)
Jan 18
formation 1
odú ifá Suite
fire-ogbe
Earth-idi
air-iwori
Water-oyeku
formation 2
noctiluca (Jan 11)
anD
fiVE ElEMEnTS
ThE ManCy of SounD
La musica come qualcosa di strettamente collegato alla vita e alla natura, intese non come mero
dato immanente, bensì come influenze costanti
con i loro elementi, i cicli, i colori, le fasi astrali.
È questa la prospettiva ormai assunta da Steve Coleman e dal suo Five Elements. Da sempre al centro della sua opera, le suggestioni filosofico-naturali sfiorano con gli Elements la sublimazione. Non
a caso questo The Mancy of Sound è da considerare prosieguo del precedente “Harvesting Semblances and Affinities”, rispetto al quale raggiunge
una luminosa ed illuminante compiutezza. Anche
la scaletta è pensata con naturale perfezione:
apertura e chiusura affidate a Jan 18 e Noctiluca
(Jan 11), brani connessi al ciclo lunare, mentre,
con simmetria, secondo e penultimo, Formation
1 e 2, sono tratti da una partitura per sassofono ed
orchestra, commissionata al nostro dall’American
Composers Orchestra, con un gusto jazzistico per
il contrappunto tra fiati e voce evidenziato dalla
complessità delle cubature melo-armoniche. Al
centro, la Odú Ifá Suite, ispirata al sistema divinatorio-filosofico degli abitanti di lingua yoruba
dell’Africa occidentale e in origine scritta per Cassandra Wilson, che a Coleman aveva suggerito
aRaT Kilo
MaRCo TaMBuRini
lower Three Colours: Marco
Tamburini (tr, elettr), Stefano
l’idea di comporre sul sistema. I suoi quattro episodi si richiamano agli elementi naturali, cardini
dell’Odú Ifá: Fuoco, Terra, Aria, Acqua. Scoppiettante Fire-Ogbe su una moltitudine di ritmi, uno
diverso per ogni strumento e tutti riconducibili e
ricondotti al pedale d’avvio sax-contrabbasso,
sorta di leit motif di tutta la suite. Ipnotico il
canto dei due vocalist in Earth-Idi, più rallentato
del precedente. Danzante e quasi latin il tema di
Air-Iwori, con maggiore esposizione degli strumenti, il contralto a delineare ripetutamente la
cellula tematica e spazi liberi per i solisti. Penetranti le scansioni poliritmiche che animano
Water-Oyeku, sormontate dagli intrecci di fiati e
cadenze vocali. E nonostante le implicazioni di
partenza, la musica è immediata e — appunto —
naturale. Così la combinazione delle due batterie,
Marcus Gilmore e Tyshawn Sorey, a convivere in
simbiosi non solo fra loro ma pure con le percussioni del mancengo Ramón García Pérez: un’abbondanza che mai è ridondanza. Nulla da dire
sulla suadente voce di Jen Shyu, e sciocco sarebbe
ogni confronto con la scura vocalità della Wilson,
musa dell’M-Base. Ultima notazione, la copertina
riproduce lo schema del sistema Odú Ifá._An.Te.
a nighT in aBySSinia
Un misto di funk, world, ethno e fusion jazz. Su
tale linea si dipana il disco d’esordio realizzato
da un gruppo di giovani musicisti francesi con il
pallino per la musica etiope. Desideroso di trascorrere “una notte in Abissinia”, il quintetto si
fa accompagnare in questo esotico ed avvincente
viaggio da tre amici, Socalled, Rokia Traoré e il
mitico Mulatu Astatke, padre dell’ethio-jazz,
presenti rispettivamente in Babur (Part 1), Get a
fabien girard (ch, balafon),
Michael havard (sx, fl), Camille Chew e Dewel. Il groove della band d’oltralpe è
floriot (tr, flc, ney), Samuel
euforico e poroso. Fabien Girad punta su figure
hirsch (bs, kalmb), arnold Tur- ritmiche elaborate ed insistenti e su un sound acpin (bt, melod)
quoso ed ispirante. Il suono elettrificato della
ospiti: Socalled (vc), Rokia
chitarra
nei soli è ben calibrato ed intrigante.
Traoré (vc), Mulatu astatke (vb)
L’elastico duo basso/batteria, costituito da Samuel Hirsch ed Arnold Turpin, procede all’uniaykèdashem lebé,
sono in maniera compatta e possente, mentre i
Babur (Part 1), Babur (Part 2),
lelit, get a Chew, fit le fit,
fiati di Michael Havard e Camille Floriot si punDewel, addis Polis,
golano vicendevolmente intrecciando linee gruEnie Konjo (intro),
mose e stranianti in un call and response
Enie Konjo, Ewnètègna feqer
suadente e brioso. C’è un grande affiatamento e
Wanz, Minew Jal (intro),
un laborioso interplay fra i componenti di queMinew Jal
sto speziato quintetto: l’ingresso di ospiti selezionati
e
compenetrati
perfettamente
(onlyMusic/Milan/universal – 2011)
nell’estetica del progetto non può che portare
con sé un ulteriore arricchimento sonoro. E così
è. Il contributo del rapper canadese di origini
ebraico-ucraine Socalled, ad esempio, dà un
tocco decisamente più hip-hop klezmer alla musica già afro-orientaleggiante del gruppo, mentre
la partecipazione dell’artista maliana Rokia
Traoré, che canta nella lingua del suo popolo, i
Bambara, apre nuove strade etniche e nuovi influssi narrativi a possibili ed evocative contaminazioni. L’inserimento del vibrafonista etiope
Mulatu Astatke, infine, riporta tutto su direttive
più conformi ad un leggiadro e suadente ethnofree. Alla scelta di collaborare con quei musicisti si affianca poi l’uso altresì arricchente, in
sovraincisione o in presenza, di strumenti alternativi come balafon, flauto, ney, kalimba e melodica, da parte dei membri del quintetto. Un
segno di grande eclettismo personale ma anche
di un polistrumentismo corale al servizio delle
idee portate avanti dalla band e mai fine a se
stesso. Insomma, gli Arat Kilo sono davvero una
bella scoperta, una di quelle che vale la pena
fare prima o poi._Ma.Ma.
ConTEMPoRanEo iMMaginaRio
Dopo aver tenuto per anni una condotta prevalentemente orientata verso una dialettica hardboppistica, il trombettista Marco Tamburini ha
trovato in Onorati e Paolini i partner ideali per
imprimere una decisa virata elettro-acustica al
suo percorso musicale. Denominato Three Lower
Colours, il trio è nato in occasione della sonorizzazione di “Sangue e Arena”, vecchio film muto
del 1922, per un progetto editoriale pubblicato lo
scorso anno. Seguendo un processo inverso, que-
(Pi Rec. – 2011)
(note Sonanti - 2011)
sta volta il trombettista romagnolo lascia che sia
la sua musica ad evocare le immagini del film immaginario creato dalla fantasia dell’ascoltatore,
esibendo composizioni che, seppur nella loro dimensione moderna, presentano un forte valore
narrativo. Ad arricchire ulteriormente le qualità
suggestive di questo lavoro interviene il quartetto
d’archi Vertere String Quartet, ensemble non
nuovo a collaborazioni in campo jazzistico, intento a disegnare ampie ed elegiache volute che
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
27
onorati (pn, tast, elettr), Stefano Paolini (bt, elettr)
Vertere String Quartet: giuseppe amatulli (vl), Rita Paglionico (vl), Domenico Mastro (vla)
il Mercato delle Spezie
nebbie
arabesque
Contemporaneo immaginario
oltre l’orizzonte
Blu Elettrico
il Suono del Vento
albe
Medina
Knives out
avvolgono i brani in una rassicurante ed elegante
coltre sonora. Filtrato dall’ausilio elettronico il
suono di Tamburini propone una sfaccettata
gamma di colori e timbri che si amalgamano, lasciandosi trasportare dalle correnti liriche generate dagli archi, come accade in Nebbie. Una
pungente zaffata di spezie orientali accoglie, invece, nel solenne harem di Arabesque, per poi ritornare, arricchita dalle percussioni nordafricane
di Paolini, in Medina. Non era facile gestire e calibrare i vari elementi in gioco, ma Tamburini ci
riesce bene, calandosi nel ruolo di attore principale con sicurezza e maturità, grazie anche al sagioVanni MazzaRino QuaRTET
in SiCilia una SuiTE
Quella di Giovanni Mazzarino è una scrittura che
muove dall’anima, pervasa da un lirismo molto
evansiano, perfettamente calato nel contesto dei
chiaro-scuri della sua Sicilia. In questo lavoro il
pianista peloritano ricorre ad un’articolata suite
per fotografare in musica scorci ed atmosfere di
alcune incantevoli località siciliane, chiamando a
sé l’oriundo corregionale Rosario Bonaccorso al
contrabbasso, Nicola Angelucci alla batteria e
giovanni Mazzarino (pn), Max
ionata (sx), Rosario Bonaccorso Max Ionata ai sax. Le riflessive esposizioni del
(cb), nicola angelucci (bt)
piano, spesso solitarie, mettono a nudo il jazzista
siciliano, la sua musica, il suo intimo rapporto con
Muorica, ibla, Milo, Stromboli,
lo strumento. Ma i temi si accavallano e fondono
Marzamemi, Rosa di ionia,
l’uno nell’altro, mescolandosi allo scenario
i Ceri e i Devoti, Piazza,
aperto e cangiante dell’Isola e passando dai comganzirri, noto, Scicli,
positi tempi dispari di Muorica e Milo (una danza
Morgantina, ortigia,
di raffinata leggerezza vestita da 5/4), alla maTaormina, Scoglitti
linconia di Marzamemi, sulle spazzole di Angelucci, e Scicli, una progressione discendente con
felice copertura ritmica della coppia AngelucciBonaccorso ed uno splendido gioco di bassi di
piano sotto l’intervento solistico di Ionata. Stromboli erompe dai tamburi di Angelucci e un rovente
pedale di Banoccorso, su cui il tenore si erge
Phil WooDS
Phil Woods (sa, pn, vc)
Requiem 1
hank Jones
you Stepped out of a Dream
Pensive
Stay as Sweet as you are
i’ll never Be the Same
yesterdays
last night When We Were
young
2 4 Me 2
i’ll Keep loving you
gary
yesterday’s gardenias
Sweet and lovely
Blue Room
Requiem 2
28
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
piente supporto in sala regia dello stesso Onorati,
con il quale divide l’onere dell’arrangiamento.
Attraverso le loro concertazioni, moderno e classico convivono in Oltre l’Orizzonte, e si danno
battaglia a colpi di frenetiche ritmiche drum’n’bass in Blu Elettrico, portando alla mente
certi esperimenti provenienti dalle nordiche latitudini di trombettisti come Nils Petter Molvær.
Anche il rock dei Radiohead, da tempo sdoganato
jazzisticamente e assurto a moderno standard per
via delle sue ambigue valenze armoniche e ricercate soluzioni ritmiche, rivive nell’adamantino
adattamento di Knives Out._Ni.Co.
prima fiero per l’arabeggiante tema e poi interlocutorio sul contrabbasso: un furore selvaggio
che per contrasto si sopisce sulle note del piano,
in un rasserenante swing, lento moto ondoso dell’imperturbabile mare. Il brano più sfrecciante, I
Ceri e i Devoti, rievoca la festa della patrona di
Catania, Sant’Agata, venerata fra i ceri votivi
delle corporazioni, quasi in concorrenza tra loro,
ed il credo popolare dei devoti. Se il tenore caratterizza la drammaticità — a parte in Noto — il
soprano invece si libra sui temi più amabili, come
Ganzirri, con persuasivo monologo del contrabbasso, o la già citata Milo, con l’unica eccezione
di Piazza, pura poesia in musica che Mazzarino
dedica alla cittadina che lo praticamente adottato, Piazza Armerina: eseguita prima in piano
solo, poi in trio ed infine con l’inserimento molto
sentito del soprano, penetra la sensibilità dell’ascoltatore. Particolare è pure Morgantina, un
capolavoro di armonia, mentre Scoglitti chiude in
solo piano l’album, sugli echi di alcuni canti popolari. Il libretto è un prezioso albumino fotografico di Pino Ninfa, con immagini dei luoghi per cui
passa “In Sicilia una Suite”._An.Te.
DialoguES WiTh ChRiSToPhER
L’ennesimo documento registrato da Woods per
l’etichetta di Paolo Piangiarelli (della quale rappresenta il musicista-simbolo) si sarebbe dovuto
originariamente intitolare “Dialogues with Myself”, in considerazione della scelta di sovraincidere tutti gli strumenti. Il sassofonista ha poi
deciso di dedicare il disco al nipotino Christopher, nato nel gennaio scorso. Com’è noto, da
tempo Woods (classe 1931) è affetto da enfisema
polmonare. Tuttavia, le precarie condizioni di salute non ne pregiudicano più di tanto l’emissione
e il timbro, né tantomeno le felici intuizioni nel
fraseggio, caratterizzato da ampie curve melodiche, pregnante senso del blues e sagace inventiva. Non ci sono trucchi del mestiere in questo
disco: la decisione di incidere in solitudine sembra essere scaturita da una necessità di mettersi
in gioco — anzi, quasi a nudo — a dispetto del
prestigio acquisito, dell’età e dei limiti che comporta. Inoltre la sovraincisione, adottata in quasi
tutti i brani, crea soluzioni stilisticamente e timbricamente tanto varie quanto interessanti. Si
prendano ad esempio i due Requiem: nel primo,
sull’accompagnamento pianistico cadenzato,
(Jazzy Rec. – 2011)
(Philology - 2011)
l’alto assume tinte quasi alla Hodges; nel secondo, Woods ha composto un quartetto di sassofoni che sembra unire idealmente i Four
Brothers dello herd di Woody Herman al World
Saxophone. Questa benefica “moltiplicazione”
permea in forma diversa parecchi brani, a cominciare dalla dolente dedica a Hank Jones. L’altro originale, 2 4 Me 2, prende le mosse da un
duo di contralti, poi esteso a quartetto. Woods
procede in maniera analoga anche nell’interpretazione di I’ll Never Be the Same, col progressivo allargarsi del dialogo a più voci. Anche tutti
gli altri standard presi in esame sono affrontati
con felici intuizioni: in particolare Last Night
When We Were Young, Yesterday’s Gardenias e,
ancor più, Blue Room di Rodgers-Hart e I’ll Keep
Loving You di Bud Powell vedono Woods cimentarsi esclusivamente al piano con approccio
scarno, acume armonico e sapienti pause. Stay
As Sweet As You Are e Gary (omaggio a McFarland) includono anche interventi vocali che rivelano i segni prodotti dalla malattia sull’uomo:
indice di onestà intellettuale ed arte autentica
che contempla l’imperfezione._En.Bo.
EnRiCo inTRa
Enrico intra (pn, cond), giulia
Molteni (pn), Dino Rubino (tr),
andrea andreoli (tbn), Mattia
Cigalini (sa), francesco Diodati
(ch), alessandro lanzoni (pn),
gabriele Evangelista (cb), Paolo
orlandi (bt)
Preludio da anbahnen
Scherzo
Suite op. 14-iV movimento
Suite op. 14-ii movimento
improvvisazione n. 2
Sostenuto
Suite op. 14-i movimento
allegretto
andante
Suite op. 14-iii movimento
improvvisazione n. 1
adagio da anbahnen
442 secondi
Raquel
ninna nanna
Con questo lavoro Intra approfondisce una ricerca tesa ad individuare e rinsaldare i legami
tra il retroterra europeo del Novecento e il linguaggio jazzistico. Un itinerario intrapreso con
“Nuova civiltà” ed approdato in anni recenti a
“Le case di Berio”. Qui Intra affianca quattro
movimenti della Suite op. 14 di Bartók a ben
sette composizioni tratte dalla sua Anbahnen
op. 10. Efficace e significativa si rivela la scelta
di affidare le pagine bartokiane a Giulia Molteni, sua allieva presso i Civici Corsi di Jazz di
Milano e al tempo stesso studentessa di conservatorio. I quattro movimenti, in ordine rivoluzionato, si incastonano in un percorso omogeneo
che comprende sei estratti da Anbahnen (fra
cui, il settimo, Ninna nanna). La finalità evidente è quella di dimostrare la vicinanza — superiore rispetto alle apparenze — del mondo
espressivo del compositore ungherese a certi
aspetti ritmici ed armonici dell’universo jazzistico. Un’esplorazione del resto già avviata in
alcune aree del jazz contemporaneo: basti pensare a Chick Corea e alle sue Children’s Songs;
o, tanto per rimanere nei confini nazionali, all’interessantissimo lavoro condotto sui Mikrokosmos da Stefano Battaglia con il gruppo 3
Quietmen in “Bartokosmos”. La giovane pianista interpreta egregiamente, con grande varietà
dinamica e timbrica, la lenta aggregazione di
nuclei del quarto movimento; i marcati accenti
WaDaDa lEo SMiTh’S oRganiC
Wadada leo Smith (tr, tr.el), Michael gregory, Brandon Ross,
Josh gerowitz, lamar Smith
(ch.el), Pheroan aklaff (bt), John
lindberg (cb, bs.el.ac), Skúli
Sverrisson (bs.el, bs6), angelica
Sanchez (pn, Wurlitzer), Stephanie Smith (vl), Cassey Butler
(st), Cassey anderson (sa), Mark
Trayle e Charlie Burgin (laptop)
Don Cherry’s Electric Sonic garden
heart’s Reflections Splendors of
light and Purification:
The Dhikr of Radiant hearts Pt. i
& Pt. ii, The Majestic Way, The
Shaykh, as far as humaythira,
Spiritual Wayfarers, Certainty,
Ritual Purity and love Pt. i & Pt. ii
heart’s Reflections (cont.):
Silsila, The Well: from Bitter to
fresh Sweet Water Pt. i & Pt. ii
The Black hole (Sagittarius a)/
Conscience and Epic Memory
leroy Jenkins’s air Steps
Piani DiVERSi
ritmici del secondo; i sentori di danza popolare
del primo; infine, lo sferzante andamento ritmico del terzo. Per parte sua, Intra infonde uno
spirito analogo, di derivazione in parte anche
stravinskijana, nella segmentata struttura ritmica dello Scherzo. Altri passaggi rivelano alcune componenti della sua sfaccettata identità.
Il Preludio emana da una parte echi di Satie,
dall’altra un afflato espressionista che ci si potrebbe arrischiare a definire “post-mahleriano”.
L’Allegretto contempera elementi weberniani
ed affinità con la poetica di Paul Bley, segnatamente per il lavoro sul registro grave. L’Andante
si segnala per l’indagine sulle cellule scaturite
da un nucleo melodico, mentre l’Adagio mette
in mostra una successione di frammenti certosinamente distillati con l’uso del pedale. Nei loro
tre minuti e mezzo complessivi le due improvvisazioni congiungono idealmente eredità europea
ed afroamericana: in particolare Improvvisazione n. 1 sembra riassumere in poco più di un
minuto il rigore del succitato Bley, le ribollenti
tensioni di Cecil Taylor, le sperimentazioni timbriche di Henry Cowell e l’interesse per il blues
di Conlon Nancarrow. Dal vivo al Piccolo Teatro
di Milano e dedicata ad Andrew Hill, 442 secondi
è una conduction sviluppata per successione di
quadri ed assoli, privilegiando cambi metrici e
polifonie free. Dunque, un’ennesima prova della
lungimiranza di Intra._En.Bo.
hEaRT’S REflECTionS
Dopo le uscite in quartetto e l’album in duo con
l’indimenticato Ed Blackwell, Wadada Leo Smith
torna a colpire, dall’alto dei suoi giovanili settant’anni appena compiuti, per celebrare la musica dell’innovativo Don Cherry e di Leroy
Jenkins, proseguendo così sulla scia del progetto
“Yo Miles!”, tributo alla fase rock di Miles Davis.
Ne viene fuori un doppio album articolato tanto
quanto la composita band Organic, già protagonista nel precedente “Spiritual Dimensions”
(Rune/Cuneiform, 2009), qui in formazione allargata. Vibrante d’effetti la sua tromba in Don
Cherry’s Electric Sonic Garden, doviziosa la dotazione di chitarre — più lineare Michael Gregory,
più refrattario e muggente invece Brandon Ross
— ed il piano di Angelica Sanchez è l’elettrico
Wurlitzer, per un brano dinamico e graffiante. La
suite dedicata al maestro sufi Shaykh Abu al-Shadhili si estende su entrambi i Cd. Splendido il binomio Smith-akLaff nella prima parte di The
Dhikr of Radiant Hearts, nella seconda ancora la
Sanchez e John Lindberg in un profondo intermezzo solistico. In The Majestic Way si confrontano le chitarre di Gerowitz e Gregory, linee
pulsanti e scorrevoli sul possente disegno basso
di Lindberg e le rutilanti batterie di akLaff, che
chiudono con adamantini piatti. Il riff melodico
di The Shaykh è corale, una gioiosa preghiera su
cui spicca la sordina del leader, per trasformarsi
poi, in Spiritual Wayfarers, in un raccolto momento cameristico. La musica torna battente con
(alfamusic - 2011)
(Cuneiform/Rune - 2011)
Certainty, mentre se la prima parte di Ritual Purity and Love è incentrata sui laptop di Trayle e
Burgin ed il violino di Stephanie Smith, la seconda è smossa da un trio particolarmente spingente: akLaff, Sverrisson e Lindberg. Il secondo
Cd prosegue la suite con il luminoso assolo di
akLaff in Silsila, coloristicamente sostenuto dai
compagni, e The Well: from Bitter to Fresh
Sweet Water, con Smith artefice di uno sferzante
fraseggio sulle energiche propulsioni dell’accoppiata akLaff-Sverrisson (parte I) e di un periodare
disteso ed assorto su sporadici inserti di piano,
chitarra e laptop (parte II). Sulla stessa falsariga
il primo episodio di The Black Hole (Sagittarius
A)/Conscience and Epic Memory dedicato a Toni
Morris (autrice di una trilogia sulla storia afroamericana), con intrusioni elettroniche dei due
consollisti, seguite da un meditativo e ricercato
intervento acustico della Sanchez, sospeso fra i
piatti di akLaff ed il basso di Sverrisson. Chiude
l’intero lavoro Leroy Jenkins’s Air Steps, dedica
al grande violinista scomparso nel 2007: la
tromba di Smith si mostra nuda, molto sofferta
ed intensa, attorniata alternativamente da quasi
tutto l’Organic, nel finale con impeti rockeggianti attenuati dal prevalente taglio jazz impresso dal titolare. Wadada Leo Smith si mostra
dunque ancora capace di dire la sua con concept
moderno ed una voce strumentale fortemente
radicata nella tradizione ma di fatto destinata a
sviluppare i germi di un glorioso passato._An.Te.
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
29
KoPToR
fiRE SinK
Solo il trasferimento a Copenhagen del leader, il
batterista canadese Kevin Brow, spiega perché a
tre anni dall’omonimo Cd d’esordio il quartetto
Koptor si presenta rifondato e per tre parti danese. Grazie alla sua pertinacia e capacità d’indirizzo, questa seconda uscita risulta anche più
intensa della prima, e probabilmente parte del
merito va a Lotte Anker, sassofonista d’avanguardia da sempre più che originale. Completano l’orKevin Brow (bt, vb, comp),
ganico il 36enne Anderskov, pianista molto
lotte anker (sx), Jacob anderskov (pn), Jeppe Skovbakke (bs) promettente, e il giovane Skovbakke, bassista
poco noto ma di gran solidità. Le composizioni di
Brow rispondono a slanci emotivi diversi, in tutte
3 gears
è rintracciabile un primigenio disegno ritmico,
21 Maaneder
Riverspeaks
ma non per forza ne è artefice la batteria, anzi
Planks Below
più spesso tutto procede dal piano: ora insieme al
intellectual Sex
basso, come nella breve 3 Gears — corrosivo l’asfire Sink
solo della Anker —, ora con il sax, come avviene
Penny Crushing
in Riverspeaks, cui solo dopo si aggiungono la
invisible Rikke
frizzante batteria ed un basso martellato. In 21
Bronx Park WPg MB
Maaneder la misura è disegnata dai rullati e da
Wheael
lunghe note del soprano, mentre il piano distende
cadenzati arpeggi che ne riquadrano tutto il percorso. Planks Below assume nel trio un contegno
DaViD W EiSS & PoinT
David Weiss (tr), J.D. allen (st),
nir felder (ch), Matt Clohesy
(cb), Jamire Williams (bt)
Revillot
gravity Point
Paraphernalia
hidden Meanings
Snuck in
of
DEPaRTuRE
lED
meditativo che l’insistente basso fa inevitabilmente accostare all’Esbjörn Svensson Trio. Misurati giochi di spazzole in Intellectual Sex, prima
voce il sax della Anker, cui si uniscono al raddoppio il piano o il basso, scarni e contrappuntistici:
un clima rarefatto che Brow scompagina con
scosse di piatti e tamburi, scortando il gruppo
verso una concitata danza. Stile del quartetto è
una raffinata sintesi fra il citato E.S.T. e certe sonorità diafane e riflessive di Garbarek: si ascolti
la prima parte dell’eponima Fire Sink, aperta in
seguito ad un assolo del soprano dalle modulazioni surmaniane, complice il sostenuto pedale
ritmico. Timbricamente stuzzicante la combinazione vibrafono-sax in Penny Crushing, mentre,
avviata da un vibrante e rassicurante piano, Invisible Rikke perviene con il sax ad una asimmetrica spazialità, squarciata da decise esplosioni
collettive, per poi spegnersi dolcemente. Dopo la
nervosa Bronx Park WPG MB, poco più di 2 minuti
di piano-basso-batteria, gli incalzanti ottavi sincopati di Wheael mostrano che ci sarebbe ancora
altro da dire in termini di potenzialità espressiva,
rinviando forse ad un prossimo Cd._An.Te.
SnuCK ouT
Ci sono incisioni che, per alcuni musicisti, diventano stendardi da issare a dimostrazione di importanti traguardi espressivi o cruciali passaggi
nella loro evoluzione musicale. È quello che capita di pensare nel caso dell’ultimo lavoro del
trombettista e compositore David Weiss. Snuck
Out comprende, infatti, il secondo set di un concerto — il primo era apparso sul precedente
“Snuck In” — tenuto da Weiss e i suoi Point of Departure nel marzo 2008 allo Jazz Standard di New
York, e ne conclude la documentazione sonora.
Data l’estrema soluzione di completezza scelta,
Snuck Out rappresenta, evidentemente, un’importante fase evolutiva per Weiss che, dopo diversi lavori in testa al New Jazz Composers
Octet, in cui aveva messo in luce le sue qualità
di arrangiatore, ha battezzato il vigoroso quintetto protagonista di queste session scomodando
il titolo di un celebre disco di Andrew Hill. Tra gli
intenti del trombettista c’è quello di esplorare
le linee tangenti tra innovazione e mainstream
utilizzando la grana grossa dell’esecuzione live:
energia, groove e serrato interplay magnetizzano
l’attenzione dell’ascoltatore trasportandolo in
(Sunnyside - 2011)
un rutilante vortice di improvvisazioni torrenziali
e multiformi masse sonore. Il suono di Weiss
spicca su tutti per vigore, limpidezza ed impeccabile fraseggio in perenne equilibrio sui diversi
modi di intendere l’improvvisazione. In una scaletta scritta esclusivamente da trombettisti
come Moore, con Gravity Point e Snuck In, Tolliver, con Revillot, e lo stesso leader con Hidden
Meanings, fa eccezione Paraphernalia, firmata
dall’ancia di Shorter. Per dovizia di cronaca,
nelle note di copertina Weiss fa un appunto circa
l’ultimo brano in scaletta, Snuck In: ascoltandone la registrazione e ritenendo l’esecuzione
non all’altezza degli altri pezzi che compongono
il set, sceglie di rimpiazzarne la versione dal vivo
con una registrata in studio qualche tempo
prima. Una decisione, questa, che potrebbe far
storcere il naso a qualcuno, offrendo l’occasione
per una riflessione: un musicista che decide di
suonare una musica, avventurosa per vocazione,
come il jazz, non dovrebbe accettare tutti i rischi insiti in essa, preferendo, ad un’effimera
estetica formale, un’imperfetta, ma più onesta,
estemporaneità espressiva?_Ni.Co.
ThE oCEan
Trasfigurare celebri brani di musica rock è ormai
pratica consolidata nell’ambito del jazz. Creare
una band che faccia esclusivamente questo è
cosa differente. Led del batterista Peter Danemo
è un sestetto tutto svedese votato alla musica dei
Led Zeppelin. E quel che colpisce anche di più è
che non c’è nessuna chitarra, né piano o tastiera
di sorta: solo strumenti acustici, ance e fiati,
nils Janson (tr), Thomas Backoltre ovviamente alla batteria. Non ci sarebbe
man (sa, cl), Mats Äleklint (tbn), neppure un basso, mirabilmente coperto dalla
alberto Pinton (s.br, fl), Pertuba di Per-Åke Holmlander, se non fosse per il
(fSnT - 2011)
(Kopasetic - 2011)
cameo di Dan Berglund. Del resto, Danemo è batterista di lungo corso — classe ’61 — e vanta una
conoscenza del rock dell’epoca niente affatto
trascurabile. Con la linea principale affidata al
trombone, Dazed and Confused spiazza subito
proprio per l’ambientazione radicalmente diversa
rispetto al metallo dell’originale. Misty Mountain
Hop fornisce un buon esempio dell’interplay fra
gli elementi, richiamando in taluni passaggi perfino la Arkestra di Sun Ra. Serpeggiante e quasi
orientale il clarinetto in The Rain Song s’insinua
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
31
Åke holmlander (tb), Peter Danemo (bt), Dan Berglund (bs)
Dazed and Confused, four
Sticks, Ten years gone,
Misty Mountain hop, That’s
the Way, Black Mountain Side,
The Crunge, no Quarter,
The ocean, The Rain Song,
Kashmir
fra la batteria e gli altri fiati. Spettacolare la trascrizione di Four Slicks per le varie sezioni dell’organico, con un abrasivo assolo del baritono. Si
giunge perfino in clima avanguardistico con l’inizio di That’s the Way, che poi passa ad un lineare
e pacifico sussurro del sax contralto, fino al
nuovo ruggente assolo del baritono, il cui contributo al sound della band è davvero fondamentale, come pure quello di tuba e trombone.
Sicuramente particolare anche la performance di
Dan Berglund in No Quarter. Tutti i pezzi dei miERiC hofBauER & ThE infRaRED BanD
Eric hofbauer (ch), Kelly Roberge (st), Sean farias (cb),
Miki Matsuki (bt)
These Two Things
la ligne de Chance
Castor and Pollux
The faction
Murder for a Jar of Red Rum
Surely Some Revelation
Spy vs Spy
ghosts and giants
Pocket Chops
Julian Wasserfuhr (tr, flc),
Roman Wasserfuhr (pn, celst,
sint), lars Danielsson (bs, vlo,
ch), Wolfgang haffner (bt)
Twinkle Eyes
Englishman in new york
interlude
l.o.V.E.
Ramos us
fool’s Paradise
Branca
gravity
Midnight Walk
if the Rain Comes
Blue Desert
Some other Time
Theo
32
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
lEVEl
Già dal titolo palindromo si capisce che “Level”
è un disco che affronta il tema della dualità o
meglio del bilanciamento fra opposti, quello
che si basa sulla dicotomia universale fra bene
e male, fato e occasione, conflitto e risoluzione. Questo è il canovaccio narrativo su cui il
chitarrista e compositore di stanza a Boston,
Eric Hofbauer, articola il suo secondo album in
compagnia del proprio gruppo stabile The Infrared Band. Dal punto di vista musicale poi è
tutto un intrecciarsi e uno spalleggiarsi di blues,
bebop, free jazz e dodecafonia, con riferimenti
sparsi e sottili allusioni ad Albert Ayler, e non
solo per il contributo del sassofonista Kelly Roberge, come a Jelly Roll Morton, per il modo
bizzoso e pianistico con cui il leader concepisce
e fa cantare il proprio strumento. Si tratta di
un disco swingante ed intenso che, dalla traccia
d’apertura These Two Things fino alla conclusiva Pocket Chops, passando per The Faction e
Surely Some Revelation, mette in mostra un
quartetto dalle sonorità grumose e pervasive,
cui piace davvero tanto articolare, tornire e sviluppare atmosfere destabilizzanti e scoscese.
Da una parte c’è il fraseggio di Hofbauer, spezJulian & RoMan WaSSERfuhR
tici Jimmy Page, John Bonham, John Paul Jones
e ovviamente Robert Plant sono insomma traslitterati nel codice della jazz band, un vero divertimento. Tanto più che non è necessario
conoscere gli originali. Così The Ocean si rivolge
tanto agli amanti del jazz curiosi di avvicinarsi al
rock, quanto ai cultori del gruppo rock inglese
che vogliano cimentarsi nel riconoscimento dei
brani celebri dei loro beniamini. Con la sola promessa che sappiano stare al gioco e non si aspettino di poter cantare sui motivi originali!_Ma.Je.
zettato e labirintico, grinzoso e rorido di scanalature. Dall’altra il tenore di Roberge, che
dialoga spesso con la chitarra del collega per
poi librarsi nell’aria accompagnato da una ritmica corposa e sempre presente. Il suo eloquio
è squillante e propositivo, affilato e guizzante.
Il contrabbasso di Sean Farias, sia quando pizzicato come in Spy vs Spy o Ghosts and Giants,
sia quando archettato come in La Ligne de
Chance, Castor and Pollux e Murder for a Jar
of Red Rum, funge invece da possente barometro della situazione, adattando perfettamente i
propri interventi, di sostegno o incitamento ai
solisti, a quelli della frastagliata ed originale
“macchina sonora” che è la batteria di Miki
Matsuki. Un dualismo travolgente e ben compenetrato che non solo funge da tematica alla registrazione ma accomuna e coinvolge anche i
soggetti che la realizzano. E non importa se
siano in front-line o in sezione ritmica, sax e
chitarra e basso e batteria si confrontano comunque, scambiandosi le idee, bilanciando gli
apporti e facendo nascere così la propulsiva
musica di questa estrosa e corale “band ad infrarossi”._Ma.Ma.
gRaViTy
Diciamo subito che questo Cd si discosta dal target a cui siamo abituati. Non si tratta di avanguardia, di improvvisazione radicale o di jazz
creativo. Ma del giovane Julian Wasserfuhr non si
può non apprezzare il suono limpido, tanto alla
tromba e tanto più al flicorno, un timbro che lo
avvicina a certi veterani nordici dello stesso strumento. Si era già attirato l'attenzione di molti
con il precedente album, “Remember Chet”, dedicato a Baker e ad alcune delle song che lo
hanno reso quel trombettista delicato e misurato
che era. Ed è infatti a Baker che bisogna guardare fra i riferimenti di Julian Wasserfuhr, per
quel suo fraseggio pensato eppure spontaneo,
fluido e misurato. Ad accompagnare Julian, il fratello Roman, altrettanto giovane, il cui piano
resta leggermente indietro ma sa essere elemento irrinunciabile del pacato suono che caratterizza il gruppo. Il navigato Wolfgang Haffner
asseconda con spazzole e bacchette le placide
atmosfere create dai due fratelli di Hückeswagen, mentre ciliegina sulla torta è il violoncellista Lars Danielsson, qui anche al contrabbasso e
alla chitarra. Basti prendere la notissima
L.O.V.E., successo di Nat King Cole, di solito swin-
(Creative nation Music - 2011)
(aCT – 2011)
gante e sbarazzina, che nella versione dei due
Wasserfuhr diventa rilassata e malinconica. La
tromba è protagonista in Ramos us, e, per quanto
ammiccante, molto ben riuscita è anche la rilettura della celebre Englishman in New York. Danielsson si ascolta in Fool’s Paradise ed è ancora
più presente in Branca, suo il disegno di partenza, arricchito dalle spazzolate di Haffner. Midnight Walk mostra l'intenzione dichiarata di far
convergere tutto nella centralità di Julian, ma
sono puntuali anche gli assolo del piano e quello
del contrabbasso: il pezzo è breve ma riesce a
raccontare tutto in appena 3 minuti e mezzo.
Quasi una romanza è If the Rain Comes, con un
fugace intervento di Danielsson, autore del
brano. Più che l’eponima Gravity, culmine dell'album sono piuttosto Blue Desert, sebbene Julian vi si produca alla tromba anziché al flicorno,
e Some Other Time, che si deve a Haffner. I Wasserfuhr non nascondono dunque la propria propensione verso un jazz melodico, ma elegante e
mai melenso, strumentalmente valido e concettualmente ben pensato ed efficace. E considerato che i due hanno appena varcato la soglia
della ventina, tutto ancora è da venire._An.Rig.
Black
L’ascolto del Resonance Ensemble fornisce ampie opportunità di
riflessione sullo stato delle avanguardie di estrazione jazzistica.
Da un lato, permette di fare alcune puntualizzazioni sull’attualità. Dall’altro, mette in condizione di individuare riferimenti storici precisi. Da anni Vandermark, nell’ambito di un’attività
Terza uscita discografica per il Resonance
febbrile e variegata, frequenta la scena
THE RESONANCE ENSEMBLE
Ensemble, l’organico modulare che ha readella musica improvvisata europea. Basti
KAFKA I N FLIGHT
lizzato le ambizioni del sassofonista Ken
pensare alla sua intensa collaborazione col
(NotTwo — 2011)
Vandermark di poter comporre per un
batterista norvegese Paal Nilssen-Love e
gruppo esteso. Registrato dal vivo a
col sassofonista svedese Mats Gustafsson;
Gdańsk, in Polonia, documenta il culmine
o alla sua militanza nel Chicago Tentet di
di una tournée europea che ha toccato
Peter Brötzmann, formazione della quale
anche Ungheria, Ucraina ed Italia e della
ritroviamo qui alcuni membri, sia attuali
quale questa è l’ultima tappa. Molto inteche precedenti. Il Resonance Ensemble
ressante leggere nelle note di copertina
costituisce dunque un significativo punto
dello stesso Vandermark come, di necesd’incontro tra i fermenti della Chicago atsità virtù, l’impossibilità di riuscire a riutuale (e del recente passato) e le tennire l’intero gruppo per delle prove
denze europee, oltre a rappresentare per
d’insieme lo abbia indotto ad ingegnarsi e
Vandermark un approdo per una scrittura
inventare un “sistema di composizione per
orchestrale maturata anche attraverso gli
moduli, con specifico materiale tematico
ascolti giovanili delle orchestre di Ellinche potesse venire imparato rapidamente
gton, Basie e Gil Evans, e dei Thundering
ed essere ricombinato e intercalato con diHerds di Woody Herman. Non è poi un caso
verse ambientazioni soniche e strategie
che ne facciano parte musicisti proveimprovvisative predeterminate prima di
nienti da paesi che vantano una tradizione
ogni esibizione”. Altrettanto intrigante è
jazzistica di lunga data, in alcuni casi
la composizione della transnazionale band,
anche a dispetto delle vicende politiche:
che mette insieme, oltre al titolare, alcuni
gli svedesi Broo e Holmlander, i polacchi
luminari dei rispettivi strumenti, come il Musicisti: Ken Vandermark (st, cl.Bb),
Trzaska e Zimpel, l’ucraino Tokar. Le tre
trombonista Steve Swell, l’ancista Mikolaj Mikolaj Trzaska (sc, cl.bs), Mark Tokar
lunghe composizioni in programma preTrzaska, l’ormai più che promettente Dave (cb), Dave Rempis (sc, st), Steve Swell
sentano una struttura prevalentemente
Rempis ai sax ed il giovane ancista polacco (tbn), Per-Åke Holmlander (tb), Magnus
modulare ed offrono quindi una densa sucWaclaw Zimpel, senza dimenticare Per-Åke Broo (tr), Michael Zerang (bt), Tim Daisy
cessione di episodi. The Pier si apre metHolmlander alla tuba e Magnus Broo alla (bt), Waclaw Zimpel (cl.Bb, cl.bs, tarog)
tendo in evidenza un trombone collocabile
tromba, e la sezione ritmica che ha coinidealmente sulla linea Fuller-Priestervolto Mark Tokar al contrabbasso nonché Brani: The Pier (for Yutaka Takanashi)
Rudd e punteggiato dalle interiezioni degli
Rope (for Don Ellis)
Tim Daisy e Michael Zerang alla batteria.
altri fiati, secondo una prassi che ricorda
Coal Marker (for Chris Marker)
Soltanto tre i brani, di durata consideresia la Sun Ra Arkestra che la scrittura di
vole — quasi 18 minuti il meno esteso —
Muhal Richard Abrams. Il successivo intercosì da spaziare fra climi pimpanti, come l’avvio di The Pier, de- vento di un clarinetto basso abrasivo dà luogo ad una dialettica indicata al fotografo nipponico Yutaka Takanashi, e Coal Marker (for terna sfociante nell’interazione di tutti e tre i clarinetti, memori
Chris Marker), capaci di variare da una grana spessa e condensata della poetica di Braxton. Seguono un duo tuba-basso con arco, un
nelle sezioni di una classica big band, alle tensioni tipiche del- tenore in solitudine che evoca Shepp, Ayler (ma anche Frank Lowe
l’avanguardia dove gli strumenti si scrutano e si ascoltano, fino e Frank Wright), le due batterie su tempo libero ed una sezione
ad intermezzi solistici di avvolgente bellezza, come il tenore ru- free non dissimile dalla prassi della Globe Unity. Il collettivo scopvido in assoluta solitudine in The Pier, che si trasforma in un piettante di Rope prende le mosse da una figurazione dinamica
duetto con i tamburi, o il trombone soffiato di Swell in Coal Mar- della tuba, che riporta alla mente il Bob Stewart della Brass Fanker. E ancora il pedale degli ottoni bassi in Rope (for Don Ellis), tasy. Ne scaturisce un assolo di tenore dalle robuste tinte r&b (e
quasi un tema da poliziesco anni ’70, su cui il sax si abbandona ad anche qui riaffiora il parallelo con Ayler). Si segnalano poi un inevoluzioni dagli accenti blues rievocando la Brass Fantasy di Lester termezzo per soli ottoni ed un dialogo percussivo da cui si svilupBowie, più in là seguito dal trombone che finisce per chiacchierare pano altri ribollenti scambi tra ance ed ottoni. Benché
con la tuba, e quindi il risonante contrabbasso che lascia il campo stilisticamente distante da Don Ellis, destinatario della dedica, il
alla batteria. Incroci di clarinetti rendono misterioso e suggestivo pezzo ne rende lo spirito avventuroso. Coal Marker è contraddiun brulicante segmento centrale di The Pier in cui tuba, trombone stinta da vigorosi collettivi, dal moto perpetuo della ritmica, da
e contrabbasso archettato smorzano i toni ma non le emozioni. fitte polifonie ma anche da momenti in cui gioca un ruolo il rapCome pure le intersezioni con i sax ed il cugino turco tarogato in porto suono-silenzio. Spiccano i contorcimenti del tenore, lo spesCoal Marker, dove si mette in evidenza anche la tromba, su un sore della tuba (solista), la dialettica tra due contralti indemoniati
walking bass spolverato da press-rolls di batteria a rendere fluido ed un assolo di tromba — su ritmica colemaniana — che riconduce
e discorsivo l’entusiasmante frangente. Senso d’insieme, avven- al Cherry dei giorni migliori. Tanto da sollevare l’interrogativo: e
ture collettive ed exploits individuali sono gli elementi che ca- se “quella” avanguardia fosse la tradizione di oggi?_En.Bo.
ratterizzano il Resonance Ensemble di Vandermark: un’evoluzione
delle big band di Duke Ellington, Woody Hermann e Charles Mingus, un ponte transoceanico fra il jazz chicagoano d’improvvisazione radicale e l’avanguardia europea nel senso più lato._An.Te.
White
eventuali
RADIO
Albania
Boom Boom Radio 101.2 FM (Tirana)
Austria
Neno Point Field (Salisburgo)
Belgio
Crooze FM (Antwerp)
Bulgaria
Jazz FM Radio (Sofia)
Danimarca
DR Jazz (Copenhagen)
Radio Jazz (Copenhagen)
Francia
Kanaljazz on live365.com
Radio RVB
Radio-G 101.5 FM (Angers)
Radio Grenouille (Grenouille)
Radio Albatros (Le Havre)
Swing FM (Limoges)
Frequence Jazz (Lione)
Radio France (Parigi)
TSF 89.9 (Parigi)
Germania
Radio 42 (Amburgo)
Jazz Radio.net (Berlino)
Hot Club Radio (Duisburg)
Italia
Radio SNJ
Radio Capital
“Suite Jazz” e “Battiti” su Radio 3
“AnimaJazz” su PuntoRadioCascina
(Toscana)
Radiopellenera (Milano/Bari)
Radiovinilemania (Parma)
Radio Alt (S. Teresa di Riva - ME)
Radio Web Italia (Sabaudia - LT)
Sorrento Radio (Sorrento - NA)
Lituania
Jazz FM (Vilnius)
Macedonia
Jazz FM 100.8 (Skopje)
Malta
Jazz Diaspora
Norvegia
Jazzonen (Bergen)
Olanda
Alphen Stad FM
Kabelradio
De Concertzender (Hilversum)
Afterdinnerjazz, Radio Hoogeveen
(Hoogeveen)
Arrow Jazz (The Hague)
Jazz Radio2 (The Hague)
34
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
Polonia
Jazz Radio (Cracovia e Varsavia)
Principato di Monaco
Radio Monte Carlo
Regno Unito
Totally Radio
The Hillz Radio (Coventry)
Jazz FM.com (Londra)
Solar Radio (Londra)
The Jazz (Londra)
BBC Radio3 (Londra)
Jazz Syndicate Radio (Londra)
Soft Jazz Expresso (Londra)
Jazz Syndicate Radio (Scozia)
BBC Radio Scotland (Scozia)
Russia
Radio Jazz (Mosca)
Relax FM (Mosca)
Slovenia
Radio Tartini (Piran)
Spagna
Barcelona Jazz Radio (Barcellona)
All That Jazz (Malaga)
Svizzera
ESpace 102.5 FM
Swiss Jazz (Berna)
Radio Jazz International (Crissier)
RTSI - Radiotelevisione svizzera di
lingua italiana
Ucraina
Radio Renaissance (Kiev)
Ungheria
Jazz Radio (Budapest)
jazzColo[u]rs
email-zine di musica jazz
Periodico Mensile
(reg. al Tribunale di Palermo n.46 del 18/12/2007)
Anno IV - numero 12 (dicembre 2011)
direttore responsabile
Antonio Terzo
coordinamento redazionale
Piero Rapisardi
progetto grafico
Antonio Terzo e Stephen Bocioaca
CREDITI
foto di copertina
Dario Villa
quarta di copertina
“Libertango”
di Brunella Marinelli
hanno collaborato ai testi
Alain Drouot
Andrew Rigmore
Marc Jessiteil
Enzo Boddi
Roberto Dell’Ava
Marco Maimeri
Patrizia Arcadi
Nico Conversano
hanno collaborato per le foto
Davide Susa
Giorgio Alto
Sergio Cimmino
Juan-Carlos Hernández
Davide Pizzardi
Paolo Acquati
Dario Villa
Heiko Purnhagen
USA
WNUR.FM (Chicago)
Pacifica Radio WPFW (Washington D.C.)
SmoothJazz.com (California)
Tucson Jazz Radio (Tucson)
WBGO.org (New York)
WWOZ (New Orleans)
Yellow Dog Records (Memphis, TN)
Jazz 88FM (Minneapolis)
Jazz 90.1 (Rochester, NY)
Jazz 91.1 – KCSM (San Francisco, CA)
KNTU 88.1 FM (Dallas/Frt. Worth, TX)
KPLU 88.5 (Tacoma, WA)
Jazz Excursion Radio (Ohio)
la redazione non si ritiene responsabile per i
contenuti ed i pareri espressi personalmente
dai redattori nei rispettivi articoli
CANADA
Fuse this jazz
Jazz FM91 (Toronto, Ontario)
Sky Jazz (Ontario)
è severamente vietato riprodurre in tutto o in
parte e con qualsiasi mezzo il contenuto della
presente rivista senza previa autorizzazione
da parte della redazione
Tutti i diritti riservati
AUSTRALIA
Dig Jazz Radio
numero chiuso il 3 dicembre 2011
distribuzione via email in abbonamento
sottoscrizione annuale (11 numeri) 15 €
sito web
www.jazzcolours.it
si prega far pervenire eventuali segnalazioni
entro il giorno 15 del mese precedente
per l’invio di materiale informativo
e discografico contattare l’indirizzo email
[email protected]
ABBONAMENTI
è il primo mensile di musica jazz in PDF, inviato via email direttamente sulla casella di posta elettronica
offre uno spaccato sulla musica jazz internazionale
occupandosi in particolare dei nuovi protagonisti, grandi sidemen e
artisti non ancora inflazionati dalle riviste di settore più celebrate
e puntando i riflettori sulle realtà atistiche più giovani, non ancora
note e tutte da scoprire, che scriveranno le nuove pagine di questa
grande musica
inoltre reportages da altri paesi, recensioni, servizi...
11 numeri al costo di soli 15€ annui
!! abbonati adesso !!
per abbonarsi è sufficiente compilare l’apposito modulo
sul sito www.jazzcolours.it
JazzColo[u]rs | dicembre ’11
35