Il Cinquecento - Centro Interuniversitario per la Storia di Venezia

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Marino Berengo
Il Cinquecento
estratto da : “La storiografia italiana negli ultimi venti anni”
I
Raccogliere le fila del lavoro e dei dibattiti che in questo dopoguerra la nostra storiografia
ha dedicato al Cinquecento suggerisce anzitutto di evitare una troppo rigida delimitazione
cronologica, risolvendola nei fenomeni e nei movimenti che hanno percorso quel secolo e
che ci sembrano caratterizzarlo. Il concentrarsi dei nostri studi cinquecenteschi sulle
vicende italiane offre del resto immediato lo spunto ad avviare il discorso col sorgere
dell’egemonia spagnola nella penisola e a condurlo poi, attraverso i grandi filoni della
Riforma cattolica e protestante, all’affermarsi della Controriforma e delle nuove norme di
vita che essa imponeva, e al simultaneo svolgersi ovunque di quei processi di
aristocratizzazione e di rifeudalizzazione che tanto interesse vengono ora incontrando nella
cultura storica europea.
Ma se il periodizzare è cosa, in sé, difficile, ancor più arduo è fissare con rigore i punti
di avvio e di traguardo di quelle vicende politico-sociali su cui – affiancato dall’opera degli
amici Cozzi e Firpo, che della storia religiosa e di quella del pensiero politico si verranno
occupando – soprattutto mi propongo di avviare il discorso. Le strutture sociali maturano
infatti con lentezza le loro trasformazioni; ed il Cinquecento appunto, con cui siamo soliti
aprire l’età moderna, vien visto come momento di rottura e di trapasso, di cui
spontaneamente sorge l’esigenza di ricercare più addietro le origini.
D’altronde il dibattuto problema della periodizzazione del Rinascimento ha avuto in
questi anni una importante ripresa nella discussione svoltasi tra Armando Sapori e Delio
Cantimori, che mi pare fornire una ulteriore conferma di quanto le categorie classificatorie
male si adeguino all’esigenza di abbracciare globalmente tutti gli aspetti della realtà
storica; e di questa consapevolezza è indice la proposta del Cantimori che – ben valutando
la consistenza degli argomenti esposti dal suo interlocutore “che quella che per le scienze,
le lettere, le arti, la filosofia è età di Rinascita, per la economia è di decadenza e
involuzione” – ha suggerito di riprendere la posizione illuministica che vedeva aprirsi
verso il Trecento l’età moderna; e “si potrà dire che quel movimento (con il suo sfondo
politico, nonché con la sua base economico-sociale) che si suol chiamare "Rinascimento",
può dare il suo nome, come seme e germe, al periodo del quale sta a principio, e che
giunge fino alla rivoluzione francese”1.
Di tutto questo giova dunque far conto, per disancorare il discorso sul Cinquecento, e su
quello italiano in particolare che qui più da vicino ci interessa, da quello sulle origini
dell’età moderna e per scorgere quali in concreto furono i fatti ed i problemi che
occuparono la storia di quel secolo.
Tracciando nel 1950 il quadro della tradizione storiografica italiana sull’età del
Rinascimento, Federico Chabod rilevava il “rinchiudersi in sfera propria e autonoma, a cui
nessuno o assai fioco raggio di luce perviene dalla vicina” dei due principali “tipi” di
storia: la politica e la culturale2.
Dopo di allora questa frattura non si è colmata, ed è stata piuttosto l’attenzione per i fatti
sociali, ideologici o religiosi a prendere il sopravvento, lasciando nello sfondo e quasi
ritenendo già sufficientemente conosciuto quel gioco di forze entro cui era destinata a
rimanere soffocata la “libertà” italiana.
Se non dovremo quindi soffermarci troppo a discutere il lavoro svolto in questi anni nel
settore più propriamente politico-diplomatico della storia d’Italia, è forse con lo sforzarci di
meglio definire quel concetto di libertà che conviene aprire il nostro discorso.
Molti uomini del Cinquecento italiano hanno spesso pianto la libertà del loro paese,
giudicando che fosse già morta o stesse vivendo le sue ultime ore. Ma quel che essi
vedevano dileguare era una cosa diversa da ciò che gli storici della nostra età hanno inteso.
Chi nel 1555 combatteva sulle mura senesi, non lo faceva semplicemente per impedire che
lo Stato di Firenze inghiottisse la sua città e non ne difendeva soltanto l’indipendenza, ma
1
D. CANTIMORI, Il problema rinascimentale proposto da Armando Sapori (1957), e La periodizzazione
dell'età del Rinascimento (1955), in Studi di storia, Torino, Einaudi, 1959, pp. 368 e 353. Il Sapori ha
efficacemente riepilogato le sue precedenti prese di posizione nel saggio Medioevo e Rinascimento; proposta
di una nuova periodizzazione (1964), in Studi di storia economica, Firenze, Sansoni, 1967, vol. III, pp. 423456. Una chiara esposizione è offerta da N. VALERI, La polemica sul Rinascimento nell'opera di Armando
Sapori, in «Nuova Rivista Storica», XLVII (1963), pp. 187-194.
2
F. CHABOD, Studi di storia del Rinascimento, in Scritti sul Rinascimento, Torino, Einaudi, 1967, p. 148.
anche un’altra cosa, e quella soprattutto – pur senza riuscire a vederla distinta dalla
precedente – chiamava libertà: il reggimento repubblicano; e i Senesi non ravvisavano
tanto il nemico nel popolo di Firenze (come centocinquanta e poi di nuovo sessanta e
cinquanta anni prima era stato per i Pisani), ma nel signore di quello, nel “tiranno”.
E quando Carlo V riteneva suo inderogabile compito assicurare ed imporre all’Italia
quiete, pace, sicurezza era soprattutto contro il “governo largo”, contro l’inquieto e mobile
stato repubblicano che volgeva la sua imperiale condanna. Mentre la Spagna poneva solido
piede nella penisola, non eran solo Napoli e Milano a perder la loro principesca “libertà”,
ossia la sopravvivenza statale, ma eran Firenze e Siena e Perugia a precederle o a seguirle;
e libertà perdevan giorno per giorno i piccoli e medi centri urbani delle Marche,
dell’Umbria e, ancor più, del Piemonte e del Veneto che vedevano i loro vecchi organi
municipali di governo svuotarsi di forza e di ragione sotto la spinta del potere centrale.
Crisi di “libertà” che si congiunse al declino di quella civiltà urbana in cui le forme
repubblicane di governo più avevan avuto presa e che investi le città italiane nei loro
aspetti politici, demografici ed economici modificandone nello spazio di pochi decenni una
fisionomia sociale che si era venuta costituendo attraverso un secolare processo.
Per intendere la storia dell’Italia cinquecentesca noi possiamo oggi giudicare prioritario
il problema dell’equilibrio politico internazionale, e non accettare una mera conversione
della ricerca dal campo politico a quello sociale.
Ma se vorremo veramente andar al fondo di questa “crisi della libertà”, o diciamo pure
decadenza che il paese attraversò allora, dovremo vincere quella falsa specializzazione che
lo Chabod denunciava, e cercare all’interno stesso della società italiana le linee della sua
trasformazione.
Il più vigoroso sforzo speso per ancorare la storia politica all’assetto della società è
venuto appunto dallo Chabod che, studiando l’inizio del dominio spagnolo in Lombardia,
ha visto ai nobili luogotenenti di Carlo V, legati al sovrano da un vincolo di fedeltà
cavalleresca e personale, affiancarsi una classe diversa e, per molti aspetti, nuova, quella
dei funzionari. Questi uomini sono apparsi allo Chabod come la vera classe dirigente che –
al di sopra delle continue sovversioni dei governi – ha impresso ad uno Stato il suo volto
reale, ne ha controllato o subito i rapporti di forza, ha finito col determinarne le tradizioni
politiche. Attraverso la “continuità dinastica” acquisita dalle famiglie dei funzionari, e
attraverso la lucida presa di coscienza della propria funzione, diversa ormai da quella del
cortigiano o del criado d’un principe, che si matura in questi uomini attorno alla metà del
secolo, per Chabod il problema dell’amministrazione ha riassorbito in gran parte quello del
potere politico, o ne ha scemato il concreto significato3.
Si tratta di una prospettiva che il costituirsi degli organi dell’assolutismo regio rende
assai valida per intendere la linea di sviluppo di un nuovo processo, e ravvisare le forze
sociali che lo sostengono. Ma anche a rimanere entro i confini dello Stato di Milano cui tale
impostazione tanto bene si adegua, sono le forze in contrasto con l’esigenza accentatrice del
Principe e dei suoi ministri che si trovano escluse dal vivo del quadro. In quale misura
l’antica feudalità lombarda e la più recente (come quella dei Borromeo il cui “stato” si
protende giù a cuneo dal Lago Maggiore verso la pianura) limitava i poteri dei funzionari
che operavano a Milano, e dei governatori spagnoli che in nome di Carlo V reggevano le
province del dominio? E nelle città, quei patrizi che sono riusciti a monopolizzare i
Consigli e le magistrature municipali, che ne hanno espulso borghesi e artigiani e che
presto rivendicheranno a sé l’esercizio esclusivo delle arti nobili, la medicina cioè e la
giurisprudenza, non han forse sottratto al Sovrano ed ai suoi rappresentanti una parte
concreta e viva del potere?
Certo, neppure a Milano ed a Firenze, ove la costituzione di una nuova burocrazia è più
brusca e decisa, lo studio dell’amministrazione centrale di governo può coincidere con
quello del potere, e sostituirsi ad esso. “All’atto pratico, l’armonia degli sforzi distinti e
uniti solo al vertice, nella persona del Sovrano, mancò; e s’ebbe, invece, il contrasto or più
or meno sensibile, ma continuo fra il luogotenente di Cesare, e vale a dire in Milano il
governatore, e la amministrazione, fra una persona e le istituzioni, i corpi”4. Così lo Chabod
nel concludere la sua ultima vasta fatica ha indicato una linea di ricerca nuova e da lui non
seguita: la capacità di resistenza che “corpi” e feudi, province e città, patriziato e clero
hanno di volta in volta saputo opporre all’assolutismo regio. La rete dei privilegi, l’orgoglio
o l’amore per quelle che Cattaneo chiamerà le “patrie singolari”, cardine e cuore della
3
Il problema dei funzionari, che anima l'opera su Lo Stato di Milano nell'impero di Carlo V, Roma,
Tumminelli, 1934, è ripreso nei due ampi saggi Stipendi annuali e busta paga effettiva dei funzionari
nell'amministrazione milanese alla fine del Cinquecento, in Miscellanea in onore di Roberto Cessi, Roma,
Edizioni di storia e letteratura, 1958, vol. II, pp. 187-302; e Usi e abusi nell'amministrazione dello Stato di
Milano a mezzo il '500 in Studi storici in onore di Gioacchino Volpe per il suo 80° compleanno, Firenze,
Sansoni, 1958, voi. I, pp. 93-194.
4
F. CHABOD, L'epoca di Carlo V, in Storia di Milano, Milano, Fondazione Treccani degli Alfieri, 1961, vol.
IX, p. 506.
storia d’Italia, han ritardato di due secoli la vittoria del Principe. Seguire l’opera sua e dei
suoi ministri è un punto di partenza da cui dobbiamo muovere, ma non l’unico fine della
ricerca; non possiamo infatti rinunziare a chiederci perché per un Beccaria e un Genovesi
il “despotismo dei corpi intermedi” abbia ancora continuato a costituire il vero nemico da
abbattere.
D’altronde, lo studio dei funzionari cinquecenteschi non si è esteso al di fuori di Milano,
e la carica innovatrice che lo Chabod ha immesso in queste ricerche attende di dare i suoi
frutti. Toscana, Piemonte e Regno di Napoli costituiscono splendidi e pressoché vergini
campi di studio; ed il nuovo mondo di uomini di legge, di diplomatici, di tesorieri e di
“camerari” che potrà essere ricostruito da queste ricerche, è tutto da conoscere per noi e
da scoprire5. Stabilire quali lucri e quali poteri, quali abusi e quali diritti riempissero la
vita di questi uomini è certo il primo contributo che ci attendiamo, ma non il solo; dai
cento e cento manualetti per il perfetto segretario (privato più spesso, ma talora anche
pubblico) che pullulano nell’età della Controriforma, dai trattati e dai consulti dei giuristi,
dai dialoghi politico-morali del tardo Cinquecento, si delinea la preoccupazione di dare a
questa nuova classe non solo una coscienza, ma anche una cultura professionale. Non
vogliamo ravvisare nulla di nuovo nella contesa (apparentemente non inconsueta) accesasi
tra principi e città italiane per assicurare al proprio Stato il glorioso Andrea Alciato?6. La
formazione del funzionario, le opere e le idee con cui era posto a contatto, il bagaglio di
conoscenze e di convinzioni di cui appariva necessario dotarlo, possono costituire la chiave
per intendere quegli Stati e quella società. E forse, lo stesso impetuoso recupero della
cultura economico-giuridica come patrimonio di tutti gli uomini ansiosi della “pubblica
felicità” e la negazione del suo carattere aristocratico o di mero corredo tecnico per i
ministri del principe, che sarà il grande fatto del Settecento, affonda in questa ancora
ignota cristallizzazione la sua lontana origine.
5
Un interessante esempio dell'esigenza sentita dai principi di organizzare una burocrazia docile, e fedele è
fornito dalla riforma della cancelleria mantovana, compiuta dal cardinale Ercole Gonzaga attorno al 1540
assumendo dei giovani al posto di quelli «che non sanno quasi niente, o poco, et quel poco ancho non
adoprano in servigio del signore». Su ciò, v. L. MAZZOLDI Mantova. La storia. vol. II. Da Ludovico Il
marchese a Francesco II duca, Mantova, Istituto D'Arco, 1961, pp. 398-399.
6
La interessante contesa è illustrata da R. ABBONDANZA, Tentativi medicei di chiamare l'Alciato allo
Studio di Pisa (1542-1547), in «Annali di storia del diritto», Il (1958), pp. 361-403.
Il filone appare dunque di una straordinaria ricchezza e rappresenta un continuo ponte
tra la quotidiana vita di un paese e la sua storia culturale. Lo studio della burocrazia non
interessa però in uguale misura tutta la penisola e, visto nel suo complesso, non assume per
la storia italiana la stessa decisiva importanza che ha per quella francese o spagnola. Dove
lo Stato territoriale non si è formato e dove la città ha saputo conservare ai consigli e alle
magistrature comunali l’esercizio del potere, lì un vero ceto di funzionari non ha avuto
modo e ragione di costituirsi.
La storia della burocrazia riveste infatti per una repubblica aristocratica tutt’altro, e ben
minore, significato che per uno stato monarchico. A Genova, a Lucca, a Venezia segretari e
cancellieri raccolgono le briciole di una torta che viene spartita sopra le loro teste: cariche
amministrative, giudiziarie, finanziarie e diplomatiche ricadono nella quasi assoluta totalità
sui membri della classe patrizia di governo; annona ed estimi, tribunali, controllo di terre e
comunità suddite, sono nelle mani degli stessi uomini che guidano la politica interna ed
estera dello Stato. L’equilibrio, ora instabile, ora saldo ed immobile, che si determina tra le
famiglie aristocratiche trova appunto in questa spartizione delle cariche la sua più solida
base. Le dinastie di funzionari sorte in questo ambiente assolvono compiti spesso lucrosi,
ma di rilevanza incomparabilmente minore di quelli spiegati dai loro colleghi al servizio di
un monarca. Venezia, con la sua rigidamente delimitata classe dei “cittadini originari”,
offre un tipico modello di questa organizzazione. E non diversamente – come ci ricorda lo
stimolante saggio del Carocci7 – si svolge la vita in molta parte della disordinata e
frazionata Italia pontificia, ove il potere centrale torna a farsi efficacemente sentire solo
quando la tiara si posa su di un capo più risoluto (come quello di un Paolo III o di un Sisto
V). Al di fuori del mare feudale che sommerge quasi tutto il Lazio e disegna qua e là alcuni
addensamenti nelle Marche ed in Romagna, pullula il ben conservato mosaico delle
autonomie cittadine, presto destinate a irrigidirsi in forme aristocratiche. E anche qui, pur
nell’amara perdita di ogni potere decisionale in politica estera, è l’elemento cittadino e
7
G. CAROCCI, Lo Stato della Chiesa nella seconda metà del sec. XVI. Note e contributi, Milano, Feltrinelli,
1961; e anche J. DELUMEAU, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVIe siècle,
Parigi, 1957-59, voll. 2. Da segnalare, la recensione di Carocci al primo vol. dell'opera di Delumeau in
«Rivista storica italiana», LXIX (1957), pp. 604-613. Sulle finanze pontificie si è avuto un lavoro di M.
MONACO, La situazione della Reverenda Camera Apostolica nell'anno 1525, Roma, Biblioteca d'Arte, 1960
(«Archivi. Archivi d'Italia e Rassegna Internazionale degli Archivi». Quaderno N. 6).
locale ad alternarsi con una. rotazione sempre più sorvegliata e ristretta nell’esercizio delle
cariche amministrative.
Seppure in misura nettamente diversa, sia nelle zone a struttura cittadina che in quelle
sottomesse al potere monarchico (e qui per la resistenza dei corpi e dei ceti privilegiati cui
prima si accennava) il gioco delle forze locali deve dunque esser posto in luce piena.
II
Molta parte di questa crisi di libertà è dunque declino delle vecchie forme della vita
politica italiana e di una in particolare, che di quel mondo era stata tipica: la cittadinarepubblicana. Ma sulle nostre città del Cinquecento sappiamo ben poco: indagini come
quelle di Bruno Casini che dall’analisi dei documenti finanziari pisani ha saputo trarre il
quadro di tutta una vita sociale urbana nei primi decenni del dominio fiorentino, non sono
state tentate per il XVI secolo; e nel bel libro di Enrico Fiumi l’arco dello sviluppo e del
declino di S. Gimignano si conchiude proprio allo spuntar del secolo8.
Si tratta di due città che han presto perduto ogni autonomia politica, e che già nel
Quattrocento sono in pieno regresso economico: ma tante altre danno ancora segni di vigore
per oltre cent’anni e non prendono a scadere da centri di decisione politica e di attrazione
economica che dal 1550 in avanti.
Alla definitiva dissoluzione del vecchio mondo politico cittadino sfuggono solo le due
grandi repubbliche aristocratiche di Genova e di Venezia; ed è in particolare la seconda,
da secoli assestatasi ormai nella propria forma di governo, a presentare una fisionomia che
ha pochi o punti tratti comuni con le altre città d’Italia.
L’immagine, tradizionalmente solenne e coralmente concorde, del patriziato veneziano
esce mutata e nuova dall’opera che Gaetano Cozzi ha dedicato al doge Nicolò Contarini9,
risolvendo l’assunto biografico in una più larga storia del ceto da cui quell’uomo di governo
8
Tra i numerosi lavori dei Casini occorre soprattutto ricordare l'elaborazione della grande fonte catastale Il
catasto di Pisa del 1428-29 Pisa, Giardini, 1964; e il saggio Aspetti della vita economica e sociale di Pisa dal
catasto del 1428-29, in «Bollettino storico pisano», XXXI-XXXII (1962-63), pp. 3-144. Su S. Gimignano, E.
FIUMI, Storia economica e sociale di San Gimignano, Firenze Olschki, 1961.
9
G. COZZI, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma,
Istituto per la collaborazione culturale, 1958.
era uscito, tra gli anni di Lepanto e il primo trentennio del Seicento. Tutte le scelte
politiche della Repubblica sono qui ricondotte al gioco dei gruppi che controllano le
magistrature ed i consigli veneziani, ed in particolare ai due partiti, i vecchi e i giovani,
che si contendono il potere. La politica curialista e filo-spagnola dei primi, l’inquieta difesa
dello Stato contro l’ingerenza ecclesiastica e la ricerca di una politica estera autonoma e
competitiva dei secondi, nascono per Cozzi dal fertile terreno delle diverse sensibilità
religiose e culturali. La lotta per il predominio nello Stato viene a saldarsi strettamente con
i dibattiti vivi nei circoli patrizi veneziani al tempo di Sarpi e Galileo. Storia delle idee e
delle vicende politiche si risolvono qui in esemplare armonia.
Certo, questa storia della mentalità patrizia dà per presupposta tutta una serie di nessi –
come, ad es., quello necessariamente solo sfiorato, del passaggio del capitale veneziano
dalla navigazione e dal traffico marittimo nell’investimento fondiario – che, all’attuale stato
degli studi, risulta poco delineata. Ma è l’addentrarsi in un Senato e in un Maggior
Consiglio che amano presentarsi all’osservatore esterno come compatte espressioni di una
volontà monocorde, e la capacità di ravvisare le ideologie e le passioni degli uomini e dei
gruppi che lo compongono e spesso lo dividono, che conferiscono a questo libro del Cozzi
un vero carattere di rottura. E son forse proprio gli interrogativi che esso apre senza
proporsi di soddisfarli sulla singolarità di questo Stato cittadino che tanto lontano rimane
da ogni avvio verso una omogenea unità statale, a dimostrare l’importanza di questa
prospettiva.
Si direbbe che mentre lo Chabod, postosi il problema del potere politico nello Stato di
Milano è giunto allo studio dei funzionari, il Cozzi, muovendo da interessi di storia
ecclesiastica e religiosa veneziana, ha finito col chiedersi quale fosse il senso dello Stato di
quella classe dirigente. La sua opera investe dunque i problemi dello Stato veneto solo in
quanto la loro trattazione serva ad illuminare l’atteggiamento e la linea di condotta del
patriziato veneziano ma non ne fa un oggetto specifico di ricerca.
Diversa è quindi la prospettiva che sta alla base dell’opera dedicata da Angelo Ventura
alle città “suddite” della terraferma veneta nel Quattrocento e Cinquecento, con l’intento
di seguire la lotta tra popolo e nobiltà, ovunque conclusasi con la vittoria di questa e con la
chiusura aristocratica dei Consigli. Più dell’amministrazione veneziana in terraferma è
dunque ricostruita la formazione dei gruppi dirigenti locali e poi il rassodarsi in essi, dalla
metà del Cinquecento in avanti, di una coscienza nobiliare.
L’ambito di questo processo è tutto urbano, e le campagne si affacciano quindi di rado
nel libro di Ventura, intervenendovi più ampiamente quando l’esposizione si sofferma sulla
grande prova che la repubblica attraversò durante le guerre combattute tra il 1509 e il
1517 sul suo territorio. Delle città, e in particolare della loro vita pubblica, emerge una
immagine ricca e varia. Il raffronto della distribuzione delle magistrature e dei seggi
consiliari con la concentrazione della ricchezza – compiuto per Padova e Verona – nella
prima metà del ‘400, dimostra la scalata dei più abbienti ai posti di comando, e mette
anche in luce l’organizzazione interna dei consortati che mobilitano tutti i loro membri per
assicurarsi una solida rappresentanza. Il modo in cui questa oligarchia, nata dalla fusione
dei vecchi ceti gentilizi con quelli mercantili, si è resa esclusiva espressione della vita
pubblica cittadina ed ha poi teorizzato ed espresso la propria coscienza aristocratica e
nobiliare, costituisce il perno del libro, che si chiude con l’analisi dei benefici e dei
privilegi che l’ormai incontrastato dominio delle città ha offerto ai nobili sudditi, ponendo
nelle loro mani l’amministrazione dell’annona, dei luoghi pii, dei monti di pietà, e
l’esercizio di alcune cariche giudiziarie.
La cessazione di ogni ricambio nella classe politica, la generalizzata condanna delle
attività economiche degradate ad “arti vili”, e il ristagnare delle energie produttrici nel
torpore dei privilegi, sembran comporre per Ventura il quadro di una società in fase di
piena decadenza. A tale risultato non ha aderito Alberto Tenenti che, dopo aver discusso
l’effettiva consistenza di quella democrazia comunale che costituisce il punto di richiamo e
di contrasto per la società aristocratica, critica l’adozione dello stesso concetto di
decadenza10. In effetti, il mito del “governo largo” comunale cui le forze di volta in volta
oppostesi al processo di aristocratizzazione si sono di continuo richiamate, dev’essere caso
per caso ricondotto alle sue dimensioni reali; e quanto più lungo nei secoli si riesce a
tracciare l’arco di formazione e sviluppo di una classe dirigente, tanto più ricchi e sicuri
saranno i risultati conseguiti. Ma questo pur giusto rilievo non può farci perder d’occhio
che la società italiana entrò verso la metà del XVI secolo in una fase di profondo declino:
ed è indubbio compito della ricerca storica individuare i fattori politici e sociali che la
determinarono, le forze che allora si spensero, il nuovo equilibrio politico che si stabilì e
gli ideali di vita che subentrarono agli antichi.
10
A. VENTURA, Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500 Bari, Laterza, 1964. La recensione di
Tenenti è in «Studi storici», VII (1966), pp. 401-408.
Questo senso di un netto trapasso ad un nuovo assetto sociale si percepisce ovunque; e
così per la piccola Gubbio, suddita dei duchi d’Urbino ed in procinto di venir riassorbita
anch’essa nello Stato della Chiesa, un recente lavoro di Renzo Paci ci rivela l’amalgama
saldatosi a fine Cinquecento tra grossa borghesia mercantile e vecchia nobiltà feudale con
lo accordo “che non si ragionasse di persone nove”, ossia che si escludessero i plebei dai
Consigli. E il privilegio di governo livella presto qui chi ne beneficia, assorbendolo entro
una più ampia e rafforzata classe nobiliare che le autorità centrali – il duca prima, la Corte
pontificia poi – riconoscono e appoggiano11.
Il passaggio da un tipo di equilibrio politico-sociale ad un altro deve essere colto in tutti
i suoi aspetti, come sta a dimostrare l’indagine che Edoardo Grendi ha dedicato alle
Confraternite genovesi, seguendo il rapporto tra gruppi politici e “storia della pietà”. A
Genova il governo, rafforzatosi con la riforma degli alberghi del 1528, tende a colpire le
“conventicula, vel coniurationes aut foedera quae vulgariter ligae dicuntur”, e ottiene la
sua principale vittoria sciogliendo le numerose confraternite che, intrecciatesi tra le mura
della cattedrale di S. Lorenzo, si combattevano accanitamente. La nuova struttura degli
alberghi, che rappresentava una garanzia contro le pericolose associazioni tra nobili ed
artigiani, doveva costituire l’unica lecita base di incontro tra casati di governo: le
confraternite più ricche e politicamente attive venivano indebolite, costringendole ad
investire i loro capitali in opere pie e in edifici religiosi. Nel Sei e Settecento la
partecipazione dei nobili alle confraternite va scomparendo, e queste vivono e si
moltiplicano nei quartieri popolari divenendo, assai più delle chiese, i veri centri della
devozione cittadina12.
Si tratta di una prospettiva e di un tipo di indagine che anche per città non
aristocratiche può dare buoni risultati. Rimane forse il desiderio di scomporre meglio entro
il gioco dei grandi casati arbitri della vita pubblica genovese, l’improvviso e durevole atto
d’energia del governo; dì non ridurre cioè questo, frutto com’è nella repubblica ligure del
compromesso tra interessi e ambizioni domestiche, a una forza omogenea ed unitaria.
11
R. PACI, Politica ed economia in un comune del ducato d'Urbino: Gubbio tra '500 e '600, Urbino, Argalia,
1966. La frase cit. è a p. 18.
12
E. GRENDI, Morfologia e dinamica della vita associativa urbana. Le confraternite a Genova fra i secoli
XVI e XVIII, in «Atti della Società ligure di storia patria», n. s., V (1965), pp. 239-311; e, più in particolare,
Un esempio di arcaismo politico: le conventicole nobiliari a Genova e la riforma del 1528, in «Rivista storica
italiana», LXXVIII (1966), pp. 948-968. La frase cit. si trova a p. 951.
La trasformazione aristocratica di una piccola ma ancor vivace repubblica cittadina,
quella di Lucca, è stata studiata da me13, seguendo il graduale costituirsi nello spazio dì
mezzo secolo di una coscienza nobiliare tra gli esponenti di quel ceto mercantile che del
“pacifico et populare stato”, sorto all’aprirsi del ‘300 e rinato nel 1430 dopo la breve
parentesi signorile, era stato il portatore. Certo, l’incombente minaccia fiorentina e la
tragica fine della libertà senese hanno accelerato a Lucca i tempi di questo processo, e
hanno smorzato gli echi del contrasto; ma pur nel suo voluto e accentuato estraniarsi dalle
vicende d’Italia, la Repubblica costituisce un esempio della cristallizzazione che dalla
metà del XV secolo ha bloccato l’afflusso di nuove forze alla vita politica italiana.
Quei mercanti lucchesi che si sentono divenuti nobili e che, via via allontanandosi dai
traffici, assumeranno consuetudini di vita analoghe a quelle dei gentiluomini espressi da
una civiltà signorile e feudale, han retto nell’età di Carlo V ad una difficile prova,
manifestando ottime capacità di governo e un tenace senso dello Stato cittadino e
repubblicano. Ma la forma di reggimento in cui essi han creduto e che, di stretta misura,
sono riusciti a preservare nel generale naufragio della libertà italiana, è diversa dall’antica,
è appunto aristocratica, basata cioè sul permanere nelle mani delle medesime famiglie. E
la famiglia appare così come la vera protagonista di tanta parte della storia dell’Italia
cittadina; e variamente reagisce e si atteggia in ogni centro urbano, adattandone le
tradizioni politiche a quel particolare tipo di predominio che è riuscita ad assicurarsi.
Ma sull’organizzazione domestica e sugli ideali della famiglia gentilizia del pieno e
tardo ‘500, la nostra conoscenza non ha mosso un passo dopo la memorabile opera di Nino
Tamassia, uscita nel lontano 1910. Di li occorre ripartire, con cura forse più attenta al
diverso peso politico assunto dalla famiglia nei singoli stati e nelle singole città, di quanto
il grande storico del diritto – interessato più al formarsi della norma statutaria che al
problema del potere nobiliare – non abbia dimostrato.
Interessanti elementi in proposito emergono dalla minuziosa indagine che Carlo Pasero
ha dedicato alla vita bresciana nella prima fase delle guerre d’Italia14. Muovendo da una
13
M. BERENGO, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1965. Le mie ricerche di
storia lucchese erano state precedute dall'ottimo lavoro di G. CAROCCI La rivolta degli Straccioni in Lucca,
in «Rivista storica italiana», LXIII (1951), pp. 28-59.
14
C. PASERO, Francia, Spagna, Impero a Brescia. 1509-,1516, Brescia, 1958 (Supplemento ai Commentari
dell'Ateneo di Brescia per il 1957). Il Pasero ha successivamente proseguito sino al 1575 con la consueta
prospettiva politico-militare egli ha saputo arricchirla col continuo riferimento ai grandi
consortati feudali, e in particolare a quelli dei Gambara e dei Martinengo che, colti
attraverso una ricca documentazione privata nelle loro aspirazioni egemoniche, giocano
nella città un ruolo di primo piano. Anche dentro le mura urbane, all’aprirsi del XVI
secolo, le grandi famiglie feudali si rivelano padrone del campo, e non perderan certo
terreno nei duecento anni futuri.
Brescia presenta così l’immagine di una città settentrionale ove i grandi feudatari,
assunta ormai da lungo tempo residenza e consuetudini di vita urbane, esercitano una
fortissima pressione nelle magistrature e nei consigli, impiegando la forza loro derivante
dalle giurisdizioni godute nel contado. Qui il feudo ha costantemente resistito
all’espansione territoriale del comune; e non sarà certo la Repubblica veneta, così
rispettosa degli equilibri localmente consolidati, a volerlo sovvertire. Ma altrove,
commende e nuovi feudi spuntano dove prima non erano, o da secoli avevan cessato di
esistere.
Ruggiero Romano ha parlato del processo di rifeudalizzazione avviatosi a fine ‘500 e
protrattosi nel corso del secolo seguente non come “restaurazione d’un sistema giuridico o
politico, ma soprattutto d’un sistema economico”. Non si tratta di una mera resurrezione
dei vecchi feudi con l’apparato dei loro poteri giurisdizionali, ma “anche se non si
rinnovano formalmente vecchi privilegi, de facto quei privilegi vengono ristabiliti: privilegi
che, inutile dirlo, non sono che abusi”15.
La formula è – con tutte le necessarie sfumature che lo stesso autore propone – da
accogliere, ponendo appunto al centro del fenomeno il deflusso dei capitali dai traffici
urbani e – in genere – dalla città alla campagna. Ma il fatto economico, opportunamente
sottolineato dal Romano, non si disgiunge da un fatto politico. E’ o la debolezza del potere
centrale (a Venezia, ad es. e a Parma) o l’alleanza accettata dal Principe (come nella
Toscana dei tardi anni di Cosimo I) che conferma e rafforza i poteri della nobiltà nel
contado; e, valga un esempio, l’alienazione delle entrate pubbliche che consente ai signori
di acquistare nuovi diritti di passo e nuovi introiti daziari, è un aspetto particolarmente
ampiezza d'informazione, il suo studio della vita bresciana: Il dominio veneto fino all'incendio della Loggia
(1429-1575) in Storia di Brescia, Brescia, 1963, vol. I, pp. 1-396.
15
R. ROMANO, Tra XVI e XVII secolo. Una crisi economica: 1619-1622, in «Rivista storica italiana», LXXIV
(1962), p. 512.
evidente di una delega di poteri che, non sempre e di necessità, assume forma di abuso.
Ove lo Stato cede qualche parte della sua autorità o dei suoi beni – imponendo, ad es., la
vendita delle terre comunali di spettanza demaniale – non gli subentrano più i
rappresentanti del Comune cittadino o le comunità rurali, ma si impone invece un nobile,
sia o no rivestito di poteri giurisdizionali.
Il fenomeno, annunziatosi nel Cinquecento, dà il tono alla storia d’Italia sino all’età
delle riforme e sino alla generale ripresa della civiltà cittadina. Questa in Italia non venne
però mai totalmente meno, come accadde in Germania, ove le città della Hansa dalla fine
del Cinquecento in avanti rimasero soffocate dalla morsa dei principati territoriali che
premevano dall’interno; e anche quando in esse sopravvissero statiche forme di autonomia
patrizia non riuscirono ad incidere nello sviluppo del paese16. Ed è forse istruttivo
ricondurre questo diverso andamento della storia tedesca e di quella italiana alle forme
della vita politica urbana: nelle città costiere della Hansa ascendono alla suprema
magistratura dello scabinato mercanti nati e cresciuti altrove, i cui figli si mostrano
indifferenti a conservare quella nuova patria o a mutarla, per seguire in un altro porto lo
sviluppo dei propri affari; nelle città italiane, ceti, corporazioni, famiglie si contendono
palmo a palmo l’accesso e il controllo della vita pubblica. In esse si ebbe meno concordia e
imperversarono più aspre le lotte civili; ma il gusto maturato nell’età comunale, di
esercitare un’attiva parte nelle vicende e nelle scelte della propria patria cittadina non si
sarebbe mai potuto interamente cancellare, ed era comunque l’eredità maggiore che
rimanesse di un mondo ormai in declino.
La brusca sconfitta di quella civiltà, che non ebbe per contropartita la formazione di
Stati solidi nelle loro strutture amministrative e giudiziarie, ma si espresse nel trionfante
particolarismo dei corpi, nella pigra custodia di privilegi nuovi e antichi, in un’egemonia
nobiliare condannata ad un precoce invecchiamento dal cessare d’ogni competizione e
d’ogni alternativa di ricambio, apre quella che fu la più certa e la più lunga età di
decadenza nella storia dell’Italia moderna.
16
Il confronto tra città hanseatiche ed italiane è proposto da R. S. LOPEZ La nascita dell'Europa. Secoli VXIV, Torino, Einaudi, 1966, pp. 328-329; e a me pare che la risposta al problema da lui così utilmente
formulato sia in gran parte da ricercare nella diversa formazione delle classi dirigenti.
III
Solo poche delle osservazioni compiute sin qui, e nessuna senza esser sostanzialmente
modificata, potrebbero esser estese al Mezzogiorno d’Italia. Sebbene per quasi due secoli il
Regno sia sospinto assieme al resto della penisola entro la medesima sfera egemonica
spagnola, la storia sociale delle due Italie permane divisa. Protagonista della società
padana, come di quella umbra, marchigiana e toscana sino alla metà del secolo era rimasta
la città. mentre i centri vitali del Meridione non erano mai stati urbani, e con il sistema
feudale del Regno, assai più che non con le amministrazioni civiche, il governo spagnolo si
trovò a fare i conti.
Nelle celebri pagine del Croce sul Viceregno il rapporto tra Corona e feudalità
costituisce la chiave interpretativa del Cinque e Seicento napoletano: e qualche tendenza
ad allargare questa prospettiva, rischiarandola alla luce di altri problemi, comincia solo ora
a farsi avvertire.
Il volume del Coniglio sul Regno di Napoli al tempo di Carlo V17 ha riproposto e
sviluppato sulla base di una larga esplorazione archivistica e con particolare riferimento
alle relazioni ed ai dispacci dei viceré, la prospettiva crociana, che risulta accolta nel libro
non solo e non tanto per la valutazione sostanzialmente positiva della politica economica e
sociale spagnola nel Mezzogiorno cui perviene, ma piuttosto per l’immagine compatta ed
unitaria che del Regno finisce coi tracciare. Quando infatti Corona e feudalità
rappresentano i due poli tra i quali si vede gravitare l’equilibrio del paese,
l’amministrazione centrale e i problemi finanziari divengono gli aghi della bilancia e i
termini decisivi di giudizio.
Si tratta di una prospettiva che quando sia, come è in questo libro, sostenuta da una
solida ricerca, ravvisa sì le linee fondamentali di una società ma tende anche a livellarne le
differenze e a schematizzarne i diversi ceti. Del resto, nel suo successivo volume sul
Seicento napoletano, l’autore si è venuto decisamente orientando verso la vita economica,
mentre si è allontanato da quel problema del governo e dell’amministrazione pubblica che
17
G. CONIGLIO, Il regno di Napoli al tempo di Carlo V. Amministrazione e vita economico-sociale, Napoli,
Edizioni scientifiche italiane, 1951.
aveva invece guidato la sua ricostruzione cinquecentesca18. Il che si osserva per
sottolineare come la stessa imponenza dei problemi trattati per un così vasto paese e per un
così ampio e tanto male esplorato spazio di tempo, ostacolasse uno studio non settoriale del
Mezzogiorno spagnolo, e proponesse di meglio articolare quei due blocchi, feudatari e
Regno da un lato, governo e Spagna dall’altro, che una prima analisi presentava
semplicemente come contrapposti.
Il problema è stato profondamente rinnovato dagli studi di Giuseppe Galasso e di
Rosario Villari che han preso anch’essi le mosse da una valutazione della politica feudale
spagnola, ma han poi visto molti fattori entrare a comporre ed arricchire il loro quadro.
La crisi finanziaria, che costituisce la più visibile premessa della rivoluzione napoletana
del 1647-48, ha richiamato l’attenzione del Villari sull’indebolimento del potere statale
spagnolo nei primi decenni del XVII secolo, cui fa riscontro una ripresa dell’offensiva
feudale che, oltre alle autorità pubbliche, investe le residue e mai totalmente estirpate
autonomie delle università contadine.
Il parziale ricambio della classe baronale e il largo assorbimento in essa di finanzieri ed
appaltatori che con privilegi ed acquisti divengono nuovi titolari di giurisdizioni, integra
per Villari il quadro di un processo di “rifeudalizzazione”19. Il termine è quindi accolto in
un’accezione sostanzialmente analoga a quella proposta dal Romano, e mira a fondere il
momento economico (investimento in titoli feudali) con quello politico (riscossa baronale),
ma non va esente da qualche possibile equivoco.
E appunto a un equivoco terminologico mi pare sostanzialmente riconducibile la
discussione con Giuseppe Galasso, che ha ritenuto illecito parlare di una rifeudalizzazione
seicentesca, non essendosi verificata una precedente defeudalizzazione cinquecentesca20. Il
dissenso risulta però più apparente che reale quando si guardi alla effettiva valutazione
della consistenza feudale nel XVI secolo, che nell’analisi dei due studiosi risulta
concordemente imponente; ed è forse il tacito riferirsi di Villari a situazioni seicentesche
18
G. CONIGLIO, Il viceregno di Napoli nel sec. XVII Notizie sulla vita commerciale e finanziaria secondo
nuove ricerche negli archivi italiani e spagnoli, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1955
19
Il concetto di rifeudalizzazione è in particolare usato dal Villari nel saggio Note sulla rifeudalizzazione del
Regno di Napoli alla vigilia della rivoluzione di Masaniello, in «Studi storici», IV (1963), pp. 639-668.
20
G. GALASSO, La feudalità napoletana nel secolo XVI, in «Clio», I (1965), pp. 551-552. Chiarificatrice è, a
mio avviso, la breve risposta di R. VILLARI, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1647), Bari,
Laterza, 1967, p. 238 n.
francesi, e di Galasso a quelle dell’Italia centro-settentrionale nell’età dei comuni, a creare
una certa difficoltà di dialogo.
Per valutare quanto di nuovo sia stato acquisito di recente alla nostra storiografia dalle
indagini di Villari e di Galasso convien dunque passare dal campo delle definizioni a
quello, più concreto, delle loro risultanze di lavoro.
Villari è, come si accennava, giunto allo studio dei problemi cinquecenteschi risalendo
alle radici di movimenti che si sono manifestati nel pieno del loro sviluppo sociale e
politico intorno alla metà del XVII secolo.
Il punto di partenza del suo saggio sul Regno alla fine del ‘500, Congiura aristocratica e
rivoluzione popolare21, rivela la continuità del metodo già proficuamente da lui adottato
nelle ricerche sulla feudalità e sullo sviluppo delle campagne meridionali tra Sette e
Ottocento; quello cioè di muovere dalla pressione popolare22 per intendere il rapporto ora
di equilibrio, ora di attrito o addirittura di conflitto, tra baroni e governo. Questa esigenza si
è articolata nello studio di due momenti: la rivolta napoletana del 1585, e l’acuirsi del
banditismo sino ad assumere le forme di una “rivolta agraria” sotto la guida di Marco
Sciarra, tra il 1584 e la disfatta delle sue bande avvenuta nel 1592. Con la concorde
reazione contro la minaccia che si levava simultaneamente dalle campagne e dalla città, “si
consolidavano i rapporti tra la Corona e la nobiltà, raggiungendo un equilibrio che gli
occasionali contrasti tra viceré e baroni, e le nostalgie indipendentistiche permanenti in
alcuni gruppi dell’aristocrazia, non avrebbero più intaccato”.
Nel descrivere il consolidamento di questo nuovo equilibrio, destinato a reggere con
incrinature di superficie sino al 1648 ed a ristabilirsi poi non molto più tardi, il Villari ha
arrecato dei contributi veramente suggestivi alla storia del ‘500 meridionale. Dietro la
rivolta napoletana del 1585 si intravvede infatti finalmente qualche elemento di quella vita
urbana del Mezzogiorno che la tradizionale e pressoché esclusiva attenzione per l’antitesi
feudalità-governo ci ha reso, sino ad oggi, poco familiare. L’indebolimento delle già tenui
istituzioni rappresentative tenacemente conseguito dai viceré e l’ormai definitivo controllo
di esse da parte “di gruppi di borghesia privilegiata”, assegna alla protesta lo sbocco
sterile ed obbligato dell’insurrezione; ma le destina, al contempo, un nuovo alleato, in quei
21
In «Studi storici», VIII (1967), pp. 37-112. Questo saggio è ora riassorbito in La rivolta cit.
Una ricognizione in questo campo era stata compiuta da C. DE FREDE, Rivolte antifeudali nel Mezzogiorno
d'Italia durante il Cinquecento, in Studi in onore di Amintore Fanfani, Milano, Giuffré, 1962, vol. V, pp. 1-42.
22
gruppi borghesi colti che dalla critica del “mal governo” (spesso condotta con l’adozione di
strumenti giuridici, come era accaduto a quei due “dottori” condannati l’uno al carcere e
l’altro a morte per aver criticato la venalità degli uffici) giungono col Summonte e più tardi
coll’Imperato a dare un fondamento teorico alla “monarchia popolare” ed a ricercarne le
basi storiche.
Si tratta di un filone di ricerca la cui novità ed importanza non ci deve sfuggire, e di cui
attendiamo una verifica puntuale e ci auguriamo, in un non remoto futuro, un’adeguata
ricostruzione. Fatti, ad esempio, come la trasformazione delle confraternite laicali “in
centri di organizzazione la difesa salariale” chiedono di essere concretamente ricostruiti e
caratterizzati caso per caso nelle loro forme di devozione, nei loro componenti, nei loro
capi.
Meritevole di ampia discussione è l’altro grosso tema affrontato da Villari, quello
dell’affiorare nel brigantaggio di “un elementare e confuso orientamento politico”. Anche
qui, la suggestione ad ulteriori ricerche si rivela assai forte: e occorrerà controllare bene se
l’iniziativa talora presa dallo Sciarra e dai suoi uomini contro le truppe governative, quel
“perdere il rispetto alli ministri di Sua Maestà” che il viceré denuncia, sia riconducibile ad
una radice “politica” antispagnola, o non esprima solo una misura militare di prevenzione
contro l’inevitabile attacco delle forze repressive23.
L’importanza dei problemi che queste dense pagine individuano e affrontano, manifesta
la bontà del sentiero battuto dal Villari. Ma che le vie della ricerca siano numerose lo
dimostra il buon frutto dell’opera che Galasso ha dedicato alla Calabria cinquecentesca
sostituendo così alla impostazione complessiva dei problemi del Regno, il taglio
regionale24. A questo nuovo orientamento della ricerca egli è giunto dopo un saggio
complessivo sulla storia napoletana nell’età di Carlo V, che rivede e discute l’usata
riduzione della storia del Mezzogiorno a storia del rapporto fra feudalità e Corona25.
In effetti, la Calabria che esce dalle dense pagine di questo libro è più un mosaico di
feudi e di città che non una regione politicamente ed amministrativamente intesa, retta cioè
da sue particolari strutture, caratterizzata di fronte al governo da forme istituzionali che la
23
VILLARI, La rivolta cit., pp. 37, 40, 53, 87.
G. GALASSO, Economia e società nella Calabria del Cinquecento, Napoli, L'Arte tipografica, 1967.
25
G.GALASSO, Momenti e problemi di storia napoletana nell’età di Carlo V , (1961), in mezzogiorno
medievale e moderno, Torino, Einaudi, 1965,pp. 137-197.
24
differenzino dal Salento o dall’Abruzzo. Ed è forse anche per questo che i risultati,
localmente conseguiti, assumono il significato di una campionatura indicativa per tutto il
Regno.
Galasso sottolinea il vigore che la monarchia spagnola mantiene per tutta l’età di Carlo
V (e che solo gradualmente inizia a declinare con Filippo II) e di cui essa si serve per
strappare definitivamente ai baroni il tradizionale potere di “classe politica, concorrente in
maniera decisiva a fare o a disfare i sovrani”; ma, poiché tale azione si irradia diretta dal
centro alla periferia, senza dover ricorrere alla costituzione di una rete burocratica
provinciale, l’immediato rapporto tra Corona e feudalità si afferma come problema di fondo
del libro. Una volta che la Spagna si è liberata dal pericolo di nuove congiure dei baroni,
“è la mutata condizione politica del Regno” che “dirige spontaneamente le energie [dei
feudatari] a riversarsi nel campo dei rapporti con gli altri ceti e a consolidare la propria
posizione preminente nel riassestamento della gerarchia sociale che si va operando intorno
alla monarchia conquistatrice”. Così la feudalità, “quasi a compenso della perduta potenza
politica, rinnovava e rinsaldava il suo dominio sulle campagne”, e lo faceva attraverso una
sistematica “reazione feudale” che si manifesta sia con il ricorso alle usurpazioni e alla
violenza, sia con gli strumenti legali della rivendicazione di antichi crediti nei riguardi
delle oberatissime Università, e delle “reintegre”, che “furono una tappa decisiva nella
ripresa feudale del secolo XVI”. Si tratta del ripristino di diritti baronali caduti in disuso,
la cui consistenza viene accertata da funzionari regi; e spesso le Università si sottraggono a
queste pericolose ispezioni concordando col signore le “capitolazioni”.
Il Galasso segue attentamente le fasi ed i modi di questa ripresa, ossia del riversarsi
nelle campagne di tutta quella pressione feudale che aveva prima esercitato una larga parte
della sua forza d’urto nel condizionare il potere regio. La complessiva vittoria che la classe
baronale riesce a conseguire non gli appare però come il fattore determinante del declino
in cui la società calabrese, dopo il “lungo periodo di espansione economica”, protrattosi
dalla metà del XVI secolo sin verso il 1620, si è incanalata; e se essa si avvia “verso la
débâcle” sono soprattutto l’inasprimento del regime fiscale, la crisi demografica, e la
flessione della domanda estera, specie della seta, ad esser tratti in causa. Ed è forse lo
stesso taglio cronologico dell’opera a lasciar qui semplicemente accennato il “declino”
della Calabria seicentesca. senza suggerire una più decisa analisi delle sue componenti
immediate e lontane.
Centrato sullo studio della feudalità, il libro di Galasso non manca di dedicare uno dei
capitoli più interessanti alle città che nel ‘500 hanno ormai consolidato “un predominio
abbastanza netto... sulla campagna, le cui produzioni, e le cui attività sono largamente
organizzate in funzione degli interessi e delle attività della città”. Questa affermazione è
assai importante anche perché finisce coll’assegnare una fisionomia unitaria alle città
calabresi, siano esse poste all’interno e compresse tra i feudi (come Cosenza), o affacciate
(come Reggio e Crotone) sul mare e ravvivate da un intenso traffico marittimo. Tuttavia
l’accurata ricostruzione della vita urbana, e in particolare l’analisi del processo di
aristocratizzazione che affida ai nobili e a pochi “cittadini onorati” il governo municipale,
non viene a confortare questa tesi. Nei casi di più spiccata autonomia, queste città
calabresi ci paiono sparute cittadelle non sommerse dal mare feudale, ma del tutto incapaci
di irradiare la propria influenza sul contado. Il tema rimane aperto, ed è da augurarsi che
gli studiosi di storia meridionale raccolgano l’esigenza che queste pagine di Galasso
sembrano richiamare26.
L’invito a superare sempre più radicalmente le vecchie ed esclusive formule di
monarchia e di feudalità, e a muovere dalla periferia al centro “per rendersi conto della
complessità e varietà di aspetti della vita regionale e locale” che nel Mezzogiorno “è
all’interno molto più mossa di quanto si usi dire”, è stato formulato di recente da Ruggero
Moscati27. Nelle università del viceregno egli ravvisa “un limite, un freno paziente e
continuo al prepotere del baronaggio”, e indica nelle leggi emanate da Carlo V tra il 1536 e
il 1540 il riuscito tentativo “di far leva sui comuni in funzione antifeudale”, tutelando le
elezioni alle cariche universitarie, vietando la venalità degli uffici giudiziari nei feudi,
stabilendo lo jus praelationis delle Università in caso di vacanza del feudo. E’ proprio dal
mondo delle università, da quei governatori che pur direttamente dipendenti dai baroni
tendono a considerarsi e a divenire ufficiali regi, è dai minori funzionari, che il Moscati
vede prender le mosse dei “deboli nuclei di borghesia che si sono sviluppati nel
Mezzogiorno”.
26
GALASSO, Economia e società cit., pp. 277, 283, 404-407, 202.
27
R. MOSCATI, Le Università meridionali nel viceregno spagnolo, in «Clio», III (1967), pp. 25-40.
Nel ‘500 il fenomeno è ancora comunque allo stato tendenziale, e soprattutto con la
grande convulsione rivoluzionaria del 1647-48 le energie latenti della società meridionale
troveranno il vero banco di prova.
IV
Si notava all’inizio che la netta partizione tra storia politica e storia della cultura,
denunziata qualche anno fa dallo Chabod, non si è venuta sostanzialmente attenuando; e
conviene ora aggiungere che si è avvertita l’esigenza di collegare lo studio delle correnti
culturali ed ideologiche più a fattori sociali che non a vicende politiche. Una viva
attenzione è stata volta al formarsi dei movimenti d’opinione, e alcuni lavori tra i più
significativi sono stati dedicati alla presa di coscienza, italiana ed europea, di fronte al
mutare delle antiche concezioni e prospettive di vita.
Il primo ad imboccare questa via è stato Rosario Romeo che ha studiato l’immagine del
Nuovo Mondo americano nella cultura italiana del ‘50028. Alla base della ricerca è la netta
preferenza per le fonti colte, che esclude o sfiora appena il mondo degli avvisi, delle
compilazioni popolari, dei rozzi ricordi di viaggio di navigatori, coloni, mercanti e uomini
d’arme: non una storia dell’opinione pubblica di fronte all’ampliarsi dei confini del mondo,
ma una risposta della classe colta a questo fatto nuovo il Romeo si era proposto di dare.
Storia dunque delle idee; e attraverso un’intelligente lettura del Guicciardini, del Botero,
di Pietro Martire d’Anghiera e di tanti altri men cospicui autori e il continuo confronto del
pensiero italiano con quello francese e spagnolo emerge tutta una serie di reazioni e giudizi
sulle scoperte geografiche e sull’immenso materiale che esse hanno fornito all’attenzione
dei “popoli civili”. Ma nonostante l’ampiezza e la finezza dell’analisi, un’impressione di
frammentarietà nel leggere questo volume può esser provata; e deriva dal non aver
ricondotto il giudizio sul Nuovo Mondo alla prospettiva politica di chi la formulava, dal non
aver cioè volta per volta individuato quale carica ideologica premesse dietro la simpatia o il
disprezzo espressi per gli Indiani d’America, dietro la cauta giustificazione o la recisa
condanna dei feroci conquistatori.
28
R. ROMEO, Le scoperte americane nella coscienza italiana del Cinquecento, Milano-Napoli, Ricciardi,
1954.
Non alla storia della cultura ma piuttosto a quella della “sensibilità collettiva” ha
guardato Alberto Tenenti nello studiare Il senso della morte e l’amore della vita nel
Rinascimento per la Francia e l’Italia. Sin dalla premessa del suo lavoro, l’autore avverte di
aver “presi in considerazione i documenti dietro i quali c’è un interprete preciso della
sensibilità collettiva, un autore”; e di ritenere diversa, e da affrontarsi in una seconda fase
di lavoro, l’analisi delle fonti non letterarie – e in particolare dei testamenti – che possono
essere intese solo attraverso “una rigorosa verifica territoriale” e non mediante il ricorso a
saltuarie campionature. Il prevalere delle testimonianze colte non ha tuttavia distratto il
Tenenti dal suo assunto, dallo studio cioè del processo che, dopo la pestilenza del 1348,
viene subendo la concezione medioevale-cristiana della morte (intesa come liberazione
dalla carne, e come schiudersi di un adito alla vera immortalità, quella dell’anima), cui si
affianca dapprima, si contrappone poi, il tema della gloria umana e terrena, e il senso della
“durata”, colla riscoperta della vita e del suo immediato valore. La morte cessa allora di
apparire come il provvidenziale trionfo della divina volontà, per ridursi a un fatto negativo,
a mera decomposizione della carne; il gusto del macabro è ora destinato ad affermarsi. In
questo lento e tormentato processo, Tenenti studia l’emergere di una “morale laica”, e il
più nitido concretarsi di essa come coscienza collettiva di gruppi in Francia che in Italia.
Qui è destinato ad andar disperso “quell’ideale prezioso di vita terrena che era balenato
nelle menti più elevate degli umanisti” e si giunge ad un “compromesso classicocattolico”; la concezione laica si consuma “nell’amore esclusivo per una vita aristocratica
di élites, tendenti a separarsi dal volgo e a segregarlo in circoli chiusi”.
Intorno al tema dell’immortalità terrena e del lento stratificarsi di una nuova morale, il
Tenenti intesse osservazioni finissime (come, tra le tante, quella sul trapasso dell’ansia di
gloria in desiderio di onore) tutte riconducendole al suo convincimento fondamentale che
l’evolversi della sensibilità collettiva costituisce la vera trama della storia, e che –
nonostante la misura e la cautela di tutte le sue affermazioni – lo porta a giudizi come
questo, che la Riforma “non è un problema più importante o più misterioso degli altri se
non per chi scandisce la storia a colpi di eresie, concili e scomuniche, o la ritma a suon di
battaglie e trattati di pace”.
Dietro questa insofferenza per la “storia degli avvenimenti”, irrigidita in un succedersi
di tappe clamorose, è anche un’implicita perdita di interesse per le strutture politiche
portanti di una società; e son forse proprio i nessi tra la sensibilità collettiva e il concreto
organizzarsi delle forze sociali a rimanere meno illuminati nel ricco e nuovo quadro del
Tenenti. Così, e valga solo il richiamo al punto di confronto più costante, quello tra Francia
ed Italia, il diverso reagire di analoghe istanze in due mondi diversi risulta più raffigurato
che non spiegato storicamente29.
Lo sforzo compiuto dal Tenenti per aprire alla ricerca italiana questo nuovo terreno
rappresenta uno dei momenti più significativi negli studi italiani sull’età del Rinascimento;
e le proposte di metodo che la sua opera contiene si prestano ad una discussione e a una
verifica quanto mai vaste.
L’esigenza di scorgere l’incontro tra storia della cultura e credenze popolari anima la
bella ricerca di Carlo Ginzburg sui benandanti. Il lavoro è basato sui processi inquisitoriali
celebrati in Friuli tra Cinque e Seicento contro i seguaci di un culto agrario, che risulta
irradiato in una larga arca europea, dalla Svizzera alla Lituania, e cui l’irrigidirsi del rigore
repressivo della Controriforma attribuisce il carattere della stregoneria diabolica e ravvisa
nelle sue pratiche i caratteri del sabba. Il drammatico dialogo dei frati e prelati inquisitori
con i contadini friulani posti sotto processo, si conclude per il Ginzburg con l’accoglimento
da parte di questi ultimi della equivalenza di benandante a stregone che veniva loro
contestata e che proveniva da uno schema teologico. Nella prima metà del Seicento non
occorreranno più le forzature degli inquirenti per convincere chi segue i culti agrari e
propiziatori dei benandanti, di esercitare stregoneria: il rifluire di queste pratiche al di
fuori degli esercizi diabolici è divenuto un fatto di coscienza.
Diffidente per quanto di generico e vago si annida nei termini di “mentalità collettiva” e
“psicologia collettiva”, il Ginzburg dichiara la sua fiducia nella “grande varietà di
atteggiamenti individuali” che la sua ricerca gli ha offerto; e certo la sua così personale e
vivace impostazione par ricordare più i suggerimenti di Cantimori che non quelli di
Febvre30.
Tra le osservazioni che Alberto Tenenti ha mosso a questo lavoro è da tener presente
come bel tema di ricerca la proposta di meglio esaminare la cultura e la formazione
29
Torino, Einaudi, 1957, pp. 16-17, 215, 381, 231. Importante la recensione di CANTIMORI, Studi cit., pp.
437-454. Il Tenenti aveva affrontato il tema con una prima monografia, La vie et la mort à travers l'art da XVe
siècle, Parigi Colin, 1952.
30
C. GINZBURG, I benandanti, Ricerche sulla stregoneria e sui culti agrari tra Cinquecento e Seicento,
Torino, Einaudi, 1966.
teologica degli Inquisitori in materia magica e stregonesca; e di intendere, di volta in volta,
le ragioni politiche e religiose della procedura cui essi si attenevano31.
La suggestione a scorgere le radici che le idee affondano nella società sta dunque
fortunatamente guadagnando terreno, ed è da augurare che ne venga avvantaggiato anche lo
studio dei grossi temi della cultura politico-religiosa italiana, dei “miti” che hanno agitato
il Cinquecento. Delio Cantimori ha richiamato più volte l’attenzione sull’importanza del
profetismo cinquecentesco, sottolineando il carattere escatologico-apocalittico
dell’immagine del Turco, castigatore ed eversore del mondo cristiano32; ma oltre
l’interessante articolo di Giampaolo Tognetti sul profeta senese Brandano non siamo, per
ora, andati33. Così, il grosso tema del diffondersi in Italia della polemica antispagnola è
fermo da un quarantennio alle ricerche del Di Tocco; e, d’altronde, dopo Croce la stessa
suggestiva storia dei rapporti culturali cinquecenteschi tra Spagna ed Italia non ha
registrato novità di rilievo.
Si direbbe che solo un “mito” politico abbia sollecitato in questi anni gli studiosi:
quello di Venezia. Gina Fasoli ne ha colto le origini medioevali; Renzo Pecchioli lo ha
esaminato al suo sorgere tra gli anni savonaroliani e quelli dell’assedio di Firenze, che
della repubblica adriatica era stata l’avversaria politica ed ideologica più risoluta; Franco
Gaeta – che attende un ad lavoro sistematico sull’argomento – ha tracciato, con ricchezza
di fonti il lungo arco di sviluppo del “mito”, indicando a quali ideali politici di volta in
volta si riconducano quell’esaltazione e quel consenso34. Il reciproco invito che gli studiosi
del problema si sono rivolti, a non scivolare in un reperimento di testimonianze laudatorie
indifferenziate, ma a chiedersi ciascuna volta chi sia stato l’encomiatore delle forme
veneziane di governo, e perché sia stato indotto a formulare questo suo giudizio, è
ovviamente ineccepibile. Ma in tutto questo convergere di lodi verso Venezia è non solo e
31
A. TENENTI, Una nuova ricerca sulla stregoneria, in «Studi storici», VIII (1967), pp. 385-390.
Si v. particolarmente la recensione a T. BOZZA, Scrittori politici italiani dal 1550 al 1650, Roma, Edizioni
di storia e letteratura, 1949, in Studi di storia cit., p. 420.
33
G. TOGNETTI, Sul «romito» e profeta Brandano da Petroio, in «Rivista storica italiana», LXXII (1960),
pp. 20-44.
34
G. FASOLI, Nascita di un mito, in Studi storici in onore di Gioacchino Volpe cit., vol. I, pp. 445-479; F.
GAETA, Alcune considerazioni sul mito di Venezia, in «Bibliothèque d'humanisme et renaissance». XXIII
(1961), pp. 58-75; R. PECCHIOLI Il «mito» di Venezia e la crisi fiorentina intorno al 1500, in «Studi
storici», III (1962), pp. 451-492. Il problema del mito era stato vivacemente proposto da Chabod nel '58 col
saggio Venezia nella politica italiana ed europea del Cinquecento, in Scritti cit., pp. 680-683.
32
non tanto l’assenso al predominio dei ceti nobiliari, quanto l’elogio della concordia civile,
della quiete, e la conseguente e perentoria condanna delle lotte civili. E’ per questo che il
mito trionfa in Italia quando la civiltà cittadina del paese è avviata al suo declino; e assume
allora una netta intonazione conservatrice: una repubblica è accettabile in quanto escluda
il disordine di cui le forze popolari sono le naturali portatrici.
Sia questa, che ogni altra analoga ricerca sul diffondersi di “miti”, o comunque sui
grossi temi dell’opinione pubblica e della cultura politica, non può prescindere dall’analisi
attenta della storiografia. Quando – come ha avvertito il Gaeta 35 – nell’aprire le Istorie
fiorentine Niccolò Machiavelli esprimeva netto il suo dissenso verso l’opera dei suoi
predecessori, che avevan taciuto le lotte civili della città, quasi costituissero un’onta della
patria di cui occorresse cancellare col silenzio la memoria, era lo stesso senso del governo
repubblicano e cittadino che egli, quasi d’istinto, difendeva. E quando l’astuto signore
della Firenze ducale, Cosimo I, consentiva tranquillamente ai suoi “provvisionati” e
funzionari Benedetto Varchi e Filippo de’ Nerli, di coprire di infamia la memoria dei capi
di casa Medici e del suo stesso predecessore Alessandro, a lui bastava che i due storici
postisi al suo servizio avvolgessero le loro opere in un rassegnato pessimismo sulla natura
dell’uomo, inesorabilmente tratto al mal fare e preda delle ambizioni e delle civili
discordie, sin quando non lo guidi la ferma mano del Principe. L’elogio del governo
monarchico nasceva così dalla controriformistica condanna della natura umana. Quasi a
prevenire e contrastare quelle voci uno dei più intransigenti uomini di cultura del
fuoriuscitismo fiorentino, Jacopo Nardi, nel tessere la biografi di un cittadino esemplare
della sua patria perduta, una cosa anzitutto voleva premettere e stabilire: che l’uomo è
dotato da Dio d’intelligenza e di volontà da cui, se liberamente educato, è condotto alla
faticosa attuazione di opere giuste; solo i “tiranni” vogliono negargli la fiducia in se stesso
e lo educano alla servitù.
In un’opera ricca di spunti felici, lo svizzero Rudolf von Albertini h seguito “il trapasso
della coscienza fiorentina dello stato dalla repubblica al principato”, leggendo le opere
degli storici e dei cronisti nel continuo contesto della trattatistica politica, e scorgendovi di
riflesso il processo di condizionamento dell’opinione pubblica. La politica culturale del
35
F. GAETA, Nota introduttiva a N. MACHIAVELLI, Istorie fiorentine, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 45-58.
principe regge le fila di una produzione storico-precettistico-letteraria che è destinata a
diffondere un clima di consenso al governo assoluto e personale36.
In una prospettiva diversa, il medesimo problema del rapporto tra politica statale e
tradizione storiografica è stato proposto anche tra noi da un saggio del Cozzi sugli storici
“pubblici” del ‘500 veneziano37. Pur tra oscillazioni e incertezze, la Repubblica viene
gradualmente assumendo piena consapevolezza di quale immagine convenga diffondere del
governo aristocratico, e non accoglie quindi mai a suoi interpreti ufficiali uomini come
Girolamo Priuli e Marin Sanudo, esponenti delle inquiete forze di opposizione, dei patrizi
giovani o di quelli poveri: le ampie e vivacissime opere in volgare di quei cronisti
rimarranno, per lunghi secoli, inedite. La figura del senatore prudente ed anziano e il
grande tema della concordia civile di volta in volta ponderatamente e sapientemente
conseguita senza soffocare la libertà, dominano le solenni opere latine di un Alvise
Contarini e di un Andrea Morosini.
Proprio l’attenzione per i “miti” ha indotto Chabod a rileggere con divertito interesse
l’opera di Paolo Giovio, il creatore del mito del “secolo d’oro”, il vescovo dal cuore tutto
politico che nel Concilio vede il puro urto egemonico degli Stati e poco o punto avverte
delle lotte religiose della sua età, lo storico amante della scena e del colore, attento
all’ingresso di nuovi popoli nella prospettiva europea38. Qui si avverte chiaro il punto di
transizione alla storiografia barocca; e su questo momento soprattutto si è soffermato Delio
Cantimori in alcune tra le sue ultime pagine, cogliendo il restringersi in senso municipale
della storiografia e il suo più esplicito allinearsi tra le attività ispirate e controllate dal
Principe39.
Sono stati dunque soprattutto questi campi d’indagine e quello – già tradizionalmente
consacrato agli studi – del pensiero politico ad attirare la maggior parte delle energie attive
nel settore della storia della cultura. “Fra i compiti urgenti della erudizione italiana è la
36
R. VON ALBERTINI, Das florentinische Staatsbewusstsein im Übergang von der Republik zum Prinzipat,
Berna, Francke, 1955. Di questa opera è particolarmente stimolante lo studio della politica culturale svolta
da Cosimo; che è un tipo di indagine da estendere agli altri Stati italiani.
37
G. COZZI, Cultura, politica e religione nella «pubblica storiografia» veneziana del '500, in «Bollettino
dell'Istituto di storia della società e dello stato veneziano», V (1963), pp. 215-294.
38
F. CHABOD, Paolo Giovio (1954), in Scritti cit., pp. 241-267.
39
D. CANTIMORI, Le idee religiose del Cinquecento. La storiografia, in Storia della letteratura italiana, vol.
V. Il Seicento, Milano Garzanti, 1967, pp. 5-87.
ripresa del lavoro biografico, così bene avviato nel Settecento”, avverte Carlo Dionisotti
nell’introdurre le sue memorabili pagine su Chierici e laici nella letteratura italiana del
primo Cinquecento40; ed in effetti, se vogliamo conoscere la vita e le vicende di un uomo di
lettere del XVI secolo, non ci rimane che risalire ai repertori municipali settecenteschi o,
nei casi più lieti, a qualche ricerca e tesi di laurea dell’età positivistica. Lavori come quello
del Prodi41 si ricollegano totalmente all’oggi così vivo interesse per la Riforma cattolica e le
ricerche su eretici e riformatori religiosi non sono volte a cogliere il nesso tra la società e la
cultura che questa esprime. Intendere la personalità degli uomini che, traendo partito dalla
propria preparazione culturale, ora si costruivano una solida posizione ecclesiastica, ora
servivano come cancellieri e magistrati un principe o una repubblica, ora conquistavano
prestigio e ricchezze come precettori, e più spesso o si arenavano a un iniziale e intermedio
gradino di queste carriere, o si arrabattavano traducendo, e compendiando al servizio di
uno stampatore per soddisfare alle accresciute esigenze del mercato librario; accostarsi
dunque a questo mondo esplorandolo per biografie è uno dei modi in cui l’artificioso
diaframma tra storia letteraria, religiosa e sociale meglio si presta ad essere rimosso.
E’ stato merito di Carlo Dionisotti avviare lo studio della condizione sociale e
professionale degli uomini di lettere nel ‘500, partendo dall’osservazione che nella prima
metà del secolo una gran parte di essi segue lo stato ecclesiastico, mentre nella seconda il
mutato clima della penisola non conduce ad “un fenomeno di clericalizzazione conseguente
e analogo”, ed il movimento assume anzi direzione opposta. Al cortegiano del Castiglione è
succeduto ora il gentiluomo che “ha l’appoggio di una società ben altrimenti e più
rigidamente organizzata e si ispira a una metodologia nuova del Sovrano e dello Stato, della
politica e dell’onore, e insomma trova nella sua classe e stato una sufficiente ragione di
vita”42.
Quasi tutti gli uomini che hanno operato nella cultura italiana del pieno e del tardo
Cinquecento continuano non senza un’ombra di disprezzo ad esser classificati nella
confusa categoria dei poligrafi. Eppure il fatto che nell’Italia della Controriforma quel
particolare tipo d’informazione abbia potuto essere cosi fortemente richiesto e che tale
40
In Problemi della vita religiosa in Italia nel Cinquecento. Atti del Convegno di storia della Chiesa in Italia,
Padova, Antenore, 1960, p. 168.
41
P. PRODI, Il cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597), Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1959.
42
DIONISOTTI, art. cit., p. 184.
esigenza abbia trovato per ogni dove una compatta schiera di intellettuali capaci di
soddisfarla, non deve apparire scontato. Non era, d’altronde, esclusivamente per
guadagnarsi il pane che un Girolamo Muzio passava dalle polemiche antiereticali ai trattati
sul duello e sul gentiluomo; che un Francesco Sansovino trascorreva dai costumi del Turco
ai doveri del segretario, dalle origini della cavalleria agli splendori artistici della sua
Venezia; che un Tommaso Porcacchi scriveva sulle guerre civili di Francia e sulle remote e
vicine isole del mondo.
Il loro era il bisogno di sistemare una cultura meno specialistica e più vasta di quella
cui avevano attinto nelle scuole; di aderire ad un mondo che con viaggi, con scoperte e con
missioni aveva allargato gli antichi confini; di parlare ad un pubblico più esteso di quello
cui i loro maestri e predecessori si erano rivolti. L’uomo di lettere aristocratico, che scrive
e lavora per una ristretta udienza di gentiluomini, è figura più familiare al primo che al
secondo Cinquecento. Pochi di questi “poligrafi” furono nobili: la quasi totalità di essi
affiora dagli strati meno abbienti della società italiana e ne riflette, con fedele ricchezza,
l’arco dei dubbi e delle curiosità. E di questa varia e non ordinata cultura essi non
cessarono di rendersi portatori anche nei pochi fortunati casi in cui il bisogno cessò di
stimolarli alla fatica; ad essi quella cui si erano dedicati non appariva – come ai loro
frettolosi classificatori – un’opera di improvvisazione, ma la sentivano una battaglia
culturale.
La figura di uno di questi uomini, il fiorentino Antonio Brucioli morto piantonato nella
sua casa veneziana dai fanti del Sant’Uffizio, occupa un bel libro di Giorgio Spini43. E così
la poligrafia, lo scomodo mestiere di informare il lettor cristiano non solo di novità
letterarie e di “moral filosofia”, ma anche di idee religiose, assume una sua pericolosa
dignità.
Nel Cinquecento dunque il letterato non vive più nella quasi inevitabile alternativa tra
fare il cortigiano e insegnare come maestro pubblico o privato; può, su scala infinitamente
più vasta di quanto non fosse riuscito alla generazione di Erasmo, lavorare per i librai. Di
questi ultimi sappiamo però pochissimo. E’ da salutare con soddisfazione la nutrita serie di
annali tipografici cinquecenteschi pubblicata in questi ultimi anni, che ci permette – per
citare solo alcuni nomi e momenti più significativi – di valutare l’opera editoriale dei
Giunti veneziani, di Giacomo Mazzocchi, del multiforme Anton Francesco Doni, di Michele
43
G. SPINI, Tra Rinascimento e Riforma: Antonio Brucioli, Firenze, La Nuova Italia, 1940.
Tramezzino, di Giovann’Angelo Scinzenzeler44. Ma questi lavori, in cui si sono impegnati
alcuni tra i più valenti bibliotecari italiani, se ci permettono di toccar con mano migliaia di
titoli, d’intravvedere le direttive del mercato librario e le preferenze del lettore
cinquecentesco, sono però rigorosamente circoscritti al criterio della scheda bibliografica.
L’esempio di Salvatore Bongi, che dietro ogni opera uscita dai torchi veneziani del suo
Gabriel Giolito de’ Ferrari vedeva spuntare tutto un mondo di letterati, di librai, di
mercanti, di uomini di chiesa e di governo, non è stato raccolto; e la bibliografia pura
(anche se di eccellente livello, come nei casi sopra ricordati) ha preso il sopravvento.
Così, se sappiamo oggi assai più di vent’anni fa quali libri si pubblicassero nell’Italia
del Cinquecento, non abbiamo però un’immagine men vaga di chi fossero i librai. Basta
scorrere il catalogo londinese delle cinquecentine italiane45 per esser presi da una
crescente folla di curiosità sulla figura di questi uomini che potevano si essere semplici
artigiani del torchio, ma che spesso i libri, oltre a conoscerli, li scrivevano (e senza
riandare all’immancabile esempio del Manuzio, tornano alla mente un Anton Francesco
Doni e un Francesco Sansovino, appena menzionati). E di alcuni dei meno noti, già ci
accorgiamo che non pubblicarono di tutto alla rinfusa e che sovente stettero fermi alle loro
scelte culturali: ora prediligendo le opere ecclesiastiche, ora le giuridiche, ora le letterarie;
e che talora ne effettuarono di ben precise in campo politico e religioso, incontrando più di
una volta le sanzioni dei principi e degli inquisitori.
Entrar nelle botteghe di questi librai, far conoscenza con loro e con la loro merce, ma
anche coi letterati che li frequentavano e che da essi ricevevano lavoro è cosa da farsi per
intendere meglio come la cultura abbia accompagnato la profonda trasformazione subita
dalla società italiana nel Cinquecento.
Di quanto possano rendere ricerche volte in questa direzione è prova l’unica di cui
disponiamo, il Luc’Antonio Giunti il giovane, stampatore e mercante di Alberto Tenenti46. E’
44
P. CAMERINI Annali dei Giunti, Firenze, Sansoni Antiquariato, 1962, voll. 2; F. ASCARELLI Annali
tipografici di Giacomo Mazzocchi, Firenze, Sansoni Antiquariato, 1961; C. RICOTTINI MARSILI-LIBELLI,
Anton Francesco Doni scrittore e stampatore, Firenze, Sansoni Antiquariato, 1960; L. BALSAMO,
Giovann'Angelo Scinzenzeler tipografo in Milano (1500-1526), Firenze, Sansoni Antiquariato, 1959; A.
TINTO, Annali tipografici dei Tramezzino, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1966.
45
Short-Title Catalogue of books printed in Italy and of Italian books printed in other countries, Londra,
British Museum, 1958.
46
A. TENENTI, Luc'Antonio Giunti il Giovane stampatore e mercante, in Studi in onore di Armando Sapori,
Milano, Cisalpino, 1957, vol. I, pp. 1021-1060.
stato soprattutto l’aspetto mercantile ad attirare l’attenzione dell’autore, che dai protocolli
dei notai veneziani ha visto spuntare la fitta rete di traffici, solo in parte librari, che il
grande editore ha steso in tutto il Mediterraneo, in Francia e in Polonia, acquistando e
rivendendo merci d’ogni specie; e non pochi dei suoi colleghi veneziani si son regolati
come lui. Si spezza così l’immagine di librai capaci solo di allinear caratteri e di esporre in
bottega la merce che han prodotto o che attraverso cambi ed acquisti occasionali son venuti
a possedere, e si affaccia un suggestivo punto d’incontro tra organizzazione della cultura e
attività economica.
Oltre ai gruppi e ai movimenti culturali, è necessario studiare le istituzioni: riprendere
cioè quel lavoro sulla storia della scuola e della Università che l’erudizione positivistica
aveva impostato e condotto avanti con tanto entusiasmo. Non è che ogni sforzo in questo
senso sia mancato, ma l’interesse per singole figure di umanisti (più spesso quattro che
cinquecenteschi) divenuti lettori in uno Studio, ha di solito preso il sopravvento. Per meglio
conoscere sia la politica culturale degli Stati italiani, che la formazione delle classi colte,
occorre vedere come scuole e università funzionavano, chi le frequentava, che
insegnamenti vi erano impartiti, quali maestri vi erano chiamati e a quali correnti di
pensiero essi si informavano. Anche qui storia della cultura, storia religiosa, storia politica,
e storia sociale rivelano la fragilità dei loro confini; e un piano di ricerche, non più limitate
soltanto al pur essenziale momento filologico-letterario, attende di essere attuato. Al
popolatissimo mondo dello Studio napoletano ha dedicato accurate ricerche il De Frede47,
che ha messo in luce tutta una serie di figure di maestri e scolari, studiando la cultura
giuridica e quella letteraria. Più che alla personalità dei professori, alla politica del
principe verso lo Studio di Siena ha guardato invece il Prunai48, che ne ha seguito la storia
negli anni in cui la città si amalgama faticosamente allo “Stato vecchio” mediceo, e tra i
suoi privilegi riesce a conservare la sede universitaria. In questo quadro, sono piuttosto la
vita e l’incontro degli studenti delle varie nazioni che non il mediocre livello culturale dello
Studio a riuscire rilevanti. E certo nell’Italia del tardo Cinquecento la larga circolazione di
scolari e di docenti continuò a costituire uno dei tramiti culturali più vivi.
47
C. DE FREDE, Studenti e uomini di legge a Napoli nel Rinascimento. Contributo alla storia della
borghesia meridionale nel Mezzogiorno, Napoli, L'Arte tipografica, 1957; I lettori di umanità nello Studio di
Napoli durante il Rinascimento, Napoli, L'Arte tipografica, 1960.
48
G. PRUNAI, Lo Studio senese nel primo quarantennio del principato mediceo, in «Bullettino senese di storia
patria», 1959, pp. 79-160.
La vita culturale del secolo – ci ricorda il Bendiscioli – non ha però nelle Università i
suoi soli organismi significativi; e si è soffermato sui nuovi termini in cui il problema
educativo si è posto “nella riforma protestante e nella rinnovazione cattolica”; per questa,
in particolare, suggerendo l’individuazione degli strumenti appunto allora forgiati o
rinnovati: i seminari ed i conviti. Un primo frutto di questa impostazione è l’accurato saggio
di Massimo Marcocchi sulle origini del Collegio Ghisleri di Pavia49.
V
In tanto rinnovarsi di interessi e di prospettive, il campo dove il lavoro sembra essersi
svolto rado e svogliato è quello della storia politica. Si avverte un senso di saturazione per
le opere che – come il vasto ed affollato Paolo III del Capasso – avevano assorbito le
energie degli storici del Cinquecento italiano sino a 30 o 40 anni or sono; e si è dato per
conosciuto il quadro politico-diplomatico di quell’età, volgendo interesse e lena a coglierne
altri aspetti ed altre linee. Ma anche a voler riconoscere che non è questo il versante del
nostro Cinquecento più bisognoso di indagine, l’averlo messo da un canto quasi si trattasse
di un terreno auto nomo e già ben dissodato, costituisce un limite di fondo.
Se quel quasi costante cozzare d’eserciti ed intrigar d’ambasciatori e di sovrani dice
ormai poco alla nostra cultura storica, la rinunzia a ravvisare le ragioni dell’espandersi e
del declinare di uno Stato, del suo orientarsi verso l’una o l’altra alleanza, entro questa o
quella sfera d’influenza, rischia di togliere significato a tutte le altre ricerche, di
incanalarle verso la ricostruzione di inerti frammenti. Dal sacco di Roma a Lepanto, dalla
lega di Cambrai alla devoluzione di Ferrara, dalla rovina del Valentino alla contrastata
ascesa di Carlo Emanuele di Savoia, il sempre mobile assetto politico della penisola si
fonda sui rapporti sociali, sulle tradizioni e sui convincimenti che vengono affermandosi.
Un’opera come quella in cui Gerhard Ritter ha espresso il suo accorato rimpianto per la
mancata nascita dalla rivoluzione luterana di uno stato nazionale tedesco, seguendo questa
per lui centrale trama attraverso le aspirazioni e gli sforzi che muovono popoli e sovrani
dell’Europa cinquecentesca verso nuove organizzazioni statali, o la ideologicamente meno
49
Si vedano i saggi di M. BENDISCIOLI e M. MARCOCCHI, in Il collegio universitario Ghisleri di Pavia,
Milano, Giuffré, 1966, pp. 1-47, 91-129.
scaltrita ricostruzione della politica francese compiuta da Lucien Romier oltre
cinquant’anni fa, con viva attenzione per la storia e per la mentalità dei paesi su cui
combattono gli eserciti del re Cristianissimo e per gli interlocutori che la sua diplomazia si
trova di fronte: opere di simile impianto e respiro non sembrano per ora in vista nel pur
mosso orizzonte della nostra storiografia cinquecentesca.
Comparso nel 1945, il libro di Giorgio Spini su Cosimo I de’ Medici e la indipendenza
del principato mediceo50 non lascia ancora filtrare quegli interessi per il pensiero politico e
la storia della cultura cinquecentesca cui il suo autore già si era venuto volgendo. Le fini
notazioni che avevano accompagnato sin dal ‘40 la pubblicazione di una scelta di lettere di
Cosimo, cogliendo la mentalità del Principe (spregiudicato nel condurre la sua “guerra di
sicari e di spie”, geloso nel serbare fede a “la parola data, l’onore”, intesi come
“fondamento di un governo”)51 non entrano a condurre la densa trama dei negoziati svoltisi
per rimuovere i presidi spagnoli dalle fortezze del ducato. La accortezza di Cosimo e la sua
buona sorte restano i soli veri protagonisti di questo quadro: ma il lento e diffidente rifluire
verso il duca della simpatia popolare e più tardi dello stesso consenso aristocratico non
appare un fattore rilevante di quel successo; le fazioni che dividono le città e le campagne
toscane e che (come nel caso di Pistoia) Cosimo saprà accortamente valutare, sono qui
viste come mere pedine diplomatico-militari nella riconquista della sovranità medicea.
Il contatto tra storia delle idee ed avvenimenti politici anima invece uno scritto più
recente dello Spini, quella Politicità di Michelangelo che, a quasi un ventennio di distanza,
segna un ripensamento e una ripresa dei suoi vecchi interessi per il Cinquecento toscano52.
La “fiorentinità michelangiolesca”, ben diversa dal “campanilismo toscano” di un Vasari
che è “pienamente inserito nello stato regionale di Cosimo I de’ Medici”, si rivela ancorata
ad uno spirito comunale ricco di linfe savonaroliane, ad una preoccupata ansia per le sorti
del proprio casato, all’avversione per il tiranno, per colui che “sol s’appropria quel ch’è
dato a tanti”. La scontrosa fierezza dell’artista che nella vecchiaia ricorda “sono cittadino
50
G. SPINI, Cosimo I de' Medici e la indipendenza dei principato mediceo, Firenze, Vallecchi, 1945.
COSIMO I DE' MEDICI, Lettere, a cura di G. SPINI, Firenze, Vallecchi, 1940, pp. 108 e 99. Ricca di
spunti e di proposte interessanti, a tutt'oggi ben valide, è anche la rassegna dello Spini Questioni e problemi
di metodo per la storia del principato mediceo e degli Stati toscani del Cinquecento, in «Rivista storica
italiana», LVIII (1941), pp. 76-93.
52
In «Rivista storica italiana», LXXVI (1964), pp. 557-600. Le frasi cit. sono a p. 561 e a p. 568.
51
fiorentino, nobile e figliolo d’omo dabbene”, esprime il pertinace sopravvivere della
sensibilità municipale repubblicana in un mondo ormai tutto preso da diversi ideali.
Ricerche di questo tipo potranno ravvivare quella più tradizionale linea di storia
diplomatico-militare che pur continua a produrre cospicui frutti. Così le due vaste
monografie che Arnaldo D’Addario e Roberto Cantagalli han dedicato alla guerra di Siena,
rendono veramente compiuta la nostra informazione su quel decisivo momento di crisi della
“libertà” italiana53. La loro fatica ha posto in piena luce l’intreccio di interessi che soffocò
l’inquieta repubblica toscana, involta in un gioco che nobili e popolani senesi – tutti presi
da quelle loro secolari lotte che serbavano alla città il suo antico volto comunale – non
erano in grado di intendere e di fronteggiare. Ed è appunto la ricchezza di elementi ora
conosciuti sulla politica francese, spagnola e fiorentina nella guerra di Siena, a farci
desiderare di gettare lo sguardo entro le mura di questa città, che non assistette certo inerte
alla fine della sua indipendenza; che proprio per l’alterno fluttuare dei suoi partiti si
dischiuse alle avverse influenze della Francia e della Spagna; e che, a differenza di tante
altre città assediate, vide il proprio contado insorgere per difenderla e contendere palmo a
palmo il terreno agli eserciti di Cosimo e di Carlo V.
Un ben formulato problema sta al centro dell’opera che Lino Marini viene dedicando
allo Stato sabaudo del Quattro e del Cinquecento e che ha sinora condotta dal 1418 al
1536: “la storia del contrasto fra i Savoiardi e i Piemontesi... per il predominio nella vita
politica dello Stato”. A “la parte savoiarda con i suoi prevalenti interessi aristocratici,
feudalmente non moderni” si contrappone un Piemonte dai “larghi interessi economici,
comunali, mercantili, più dinamici, razionali, moderni”. La trattazione tuttavia si mantiene
volutamente su di un piano politico: e se si affaccia la rivalità tra l’antica Moncalieri e una
Torino in rapida ascesa, e se incontriamo giuristi e signori savoiardi fedeli alle loro salde
convinzioni feudali, è il problema della sopravvivenza del ducato tra Francia, Milano e
Svizzeri e della politica fiscale condotta dai duchi – colpendo or questa or quella parte dei
loro discordi domini – a occupare le nutrite pagine del Marini54. Così la contrapposizione di
53
A. D'ADDARIO, Il problema senese nella storia italiana della prima metà del Cinquecento (La guerra di
Siena), Firenze, Le Monnier, 1958; R. CANTAGALLI, La guerra di Siena (1552-1559). I termini della
questione senese nella lotta tra Francia ed Asburgo nel '500 e il suo risolversi nell'ambito del principato
mediceo, Siena, Accademia senese degli Intronati, 1962.
54
L. MARINI, Savoiardi e piemontesi nello Stato sabaudo (1418-1601), vol. I. 1418-1536, Roma, Istituto
storico italiano per l'età moderna e contemporanea, 1962, v. in partic. pp. 400 e 279-294.
attività economiche, di tradizioni e di mentalità tra le due parti dello Stato rimane
presupposta senza venir poi intessuta nel filo degli eventi. Siamo dunque in presenza di
una larga ricerca sulla politica estera di uno Stato italiano tra Quattro e Cinquecento; ma il
formarsi di due diverse classi dirigenti e di due contrastanti, coscienze nazionali all’interno
dello stesso organismo statale non appare ancora lumeggiato.
Ripresentata in nuova e più ampia redazione nel 1952, l’opera di Piero Pieri su Il
Rinascimento e la crisi militare italiana55 è tutta un richiamo a vedere l’arte della guerra,
l’organizzazione degli eserciti, l’andamento e l’esito delle campagne e delle battaglie, in
stretto rapporto con l’assetto interno degli Stati e col loro ordinamento sociale. Pur sorretto
da una bibliografia scarsissima sulla struttura giuridica e sociale degli Stati italiani tra la
seconda metà del XV e lo schiudersi del XVI secolo, il Pieri ha però saputo nitidamente
indicarci come l’irrompere di eserciti spagnoli, francesi ed imperiali nella penisola, e il
venir meno in tanta parte di essa dell’indipendenza politica non vadano spiegati in
semplici termini di tecnica militare, ma trovino la loro reale ragione nell’intima debolezza
dei vecchi Stati.
Non agli eserciti di terra, ma al mare ed alle flotte che in esso si combattono. ha
guardato Alberto Tenenti, l’unico studioso che in questi anni si sia impegnato in questioni
militari cinquecentesche. Il suo primo interesse è stato attratto dal dilatarsi sul
Mediterraneo della guerra da corsa che, presto abbandonata la sua primitiva fisionomia di
conflitto tra cristiani e mussulmani, contrappone dalla metà del secolo in avanti tutti i paesi
in un duello senza quartiere; e l’introdursi in questa lotta delle navi nordiche – inglesi
soprattutto e olandesi – veloci e ben armate, ne accresce ancora l’asprezza. Impostata in
prospettiva veneziana, la ricostruzione di Tenenti è attenta a collegare l’efficacia
dell’offensiva corsara scatenatasi ai danni della Repubblica con le difficoltà in cui versa la
sua industria cantieristica e con il cattivo sistema di reclutamento e d’impiego delle
ciurme. Il nemico che assalta la marineria veneziana risulta però spesso ridotto a pura forza
d’urto; e mentre s’intende bene le particolare natura della “corsa” uscocca, restiamo in
55
Torino, Einaudi. La prima edizione, col titolo, La crisi militare italiana dei Rinascimento nelle sue relazioni
con la crisi politica ed economica, è edita a Napoli dal Ricciardi nel 1934.
attesa di renderci meglio conto della mentalità e della spinta sociale che induce alla
pirateria barbareschi ed inglesi, pugliesi e greci, olandesi, maltesi e francesi56.
Riprendendo uno degli spunti più stimolanti del lavoro su Venezia e iicorsari, il Tenenti
ha successivamente svolto in chiave biografica il problema della marineria veneziana prima
di Lepanto, illustrando la figura del suo teorizzatore e comandante Cristoforo da Canal. E
qui il dibattito svoltosi all’interno del Senato s’intreccia ai problemi tecnici della flotta, alla
mentalità patrizia, alla politica condotta dai principi interessati alla navigazione nel
Mediterraneo, determinando un quadro straordinariamente ricco e vivace. Al centro ed
assai ben rievocata è la malinconica figura di questo uomo di mare, che assiste al declino
della sua flotta e del suo paese e vede soccombenti i progetti di riforma che non si è mai
stancato di avanzare; e poco prima di morire per le ferite riportate in uno scontro con le
galere turche davanti alla costa pugliese (luglio 1562) scriverà “chi fa quel che deve, se
ben perde, non merita biasimo, perché è chiarissimo che non si può combattere contro il
Cielo”57.
L’ottimo risultato di questa ricerca deve richiamare la nostra attenzione sul beneficio
che la storia politico-militare trae dall’esser intessuta con i problemi sociali e con
l’atteggiamento delle classi di governo; e come il taglio biografico consenta più
agevolmente di entrare in un campo di lavoro che, cosi poco dissodato come si presenta
oggi, riesce altrimenti male accessibile. La mancanza di ogni serio contributo su figure
come Andrea Doria dimostra quanto indietro siano qui rimaste le nostre conoscenze.
Nel parlare di storia politica non si può tacere l’importante lavoro preparatorio svolto
con la pubblicazione di fonti diplomatiche. La più fortunata – anche a questo proposito – è
stata la storia veneta con l’importante edizione dei dispacci da Madrid di quel Leonardo
Donà58, di cui già il Seneca aveva ricostruito la biografia59: e così al materiale pontificio e
56
Tra i vari saggi dedicati dal Tenenti alla guerra corsara, con particolare riferimento alla situazione
veneziana, merita soprattutto ricordare I corsari in Mediterraneo all'inizio del Cinquecento, in «Rivista storica
italiana», LXXII (1960), pp. 234-287; Venezia e i corsari. 1580-1615 Bari, Laterza, 1961. Una più specifica
attenzione alla situazione mercantile affiora nell'ampia introduzione alla silloge documentaria Naufrages,
corsaires et assurances maritimes à Venise (1592-1609), Parigi, S.E.V.P.E.N., 1959.
57
A. TENENTI, Cristoforo Da Canal. La Marine vénitienne avant Lépante, Parigi, S.E.V.P.E.N., 1962. Assai
interessante la discussione di questo libro fatta da E. VITALE in «Bollettino dell'Istituto di storia della
società e dello stato veneziano», V-VI (1963-64), pp. 392-406.
58
La corrispondenza da Madrid dell'ambasciatore Leonardo Donà (1570-73), a cura di M. BRUNETTI ed E.
VITALE, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1963, voll. 2.
spagnolo sulla Lega Santa – ben raccolto dal Serrano cinquant’anni fa – si è aggiunta ora
una necessaria integrazione. A mezzo tra la pubblicazione di fonti e l’avvio ad un completo
riesame della politica fiorentina nel primo ventennio del secolo paiono collocarsi le
Legazioni di Machiavelli, quali le ha presentate Sergio Bertelli con ampio corredo
illustrativo60.
Sempre in materia di fonti, la più organica tra le iniziative in corso – ma che per
riguardare più la storia ecclesiastico-religiosa che non quella diplomatica basterà
menzionare soltanto – è la pubblicazione delle Nunziature pontificie in Italia promossa
dall’Istituto storico per l’età moderna e contemporanea61. Un notevole frutto di questo
lavoro è stata la storia delle origini della Nunziatura stabile a Venezia e a Napoli, che
rispettivamente tracciata dal Gaeta e dal Villani62, meriterà di essere estesa anche alle altre
corti d’Italia seguendo il trasformarsi della figura del collettore apostolico in
rappresentante diplomatico: e che, nel settore ecclesiastico, fa riscontro a quel lavoro sulla
formazione di una diplomazia moderna che rientra nella più vasta ricerca sui funzionari
auspicata da Chabod.
Il peso dei vecchi modelli di ricostruzione diplomatico-militare si è rivelato assai meno
sensibile per i pochi studiosi italiani che con le loro ricerche han varcato il confine delle
Alpi convergendo, quasi senza eccezioni, verso la Francia. Le opere del Procacci, del De
Caprariis e del Vivanti rivelano tutte, pur nella diversità delle loro premesse e nel diverso
atteggiamento assunto verso la storiografia francese di oggi (assai meno congeniale al primo
che non all’ultimo di questi studiosi) la necessità di saldare lo studio delle dottrine
politiche alla vita degli Stati.
In effetti, il volume del compianto Vittorio De Caprariis su Propaganda e pensiero
politico in Francia durante le guerre di religione è più sensibile all’uno (il pensiero
politico) che non all’altro termine (la propaganda) della sua formulazione: e il faticoso
59
F. SENECA, Il doge Leonardo Donà. La sua vita e la sua preparazione politica, Padova, Antenore, 1959.
Del Seneca v. anche Venezia e papa Giulio Il, Padova, Liviana, 1962.
60
NICOLO' MACCHIAVELLI, Legazioni e commissarie a cura di S. BERTELLI, Milano, Feltrinelli, 1964,
voll. 3.
61
Su questa iniziativa, v. G. ALBERIGO, Diplomazia e vita della Chiesa nel XVI secolo (a proposito di recenti
edizioni di Nunziature), in «Critica storica», I (1962), pp. 53-65.
62
F. GAETA, Origini e sviluppo della rappresentanza stabile pontificia in Venezia (1485-1533), in «Annuario
dell'Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea», IX-X (1957-58), pp. 3-281; P. Villani,
Origine e carattere della nunziatura di Napoli, ibid., pp. 283-539.
costituirsi del partito calvinista, i suoi momenti organizzativi, la realtà della Francia,
compongono lo sfondo su cui si elaborano le dottrine della tolleranza, il pensiero
repubblicano e quello di un Jean Bodin. Storia dunque di idee politiche è, pur con attenta
apertura sulla vita del paese che le produce, questa ultima e bella opera del De Caprariis63.
Il problema che ha attratto l’interesse di Corrado Vivanti è di natura diversa, è il
formarsi nella Francia di Enrico IV di un “partito” pacifista, espresso in gran parte da quei
parlamentari, giuristi, uomini di toga, che nella Chiesa gallicana saldamente retta dal
nuovo Sovrano, vedevano concretarsi l’auspicata riunione tra cattolici e calvinisti. Il modo
in cui l’aspirazione alla pace si fa strada tra le masse contadine dei Croquants, i mezzi
impiegati per diffondere nell’opinione pubblica l’immagine di Enrico IV come Ercole
gallico simbolo di pace e di forza, la convergenza tra parlamentari ed ecclesiastici
gallicani, sono fili che si saldano nel formarsi di una coscienza interconfessionale ed
ecumenica che – non destinata in Francia a trasformarsi in programma di governo e presto
sconfitta sotto la timorata reggenza di Maria – esercita un forte influsso sulla cultura
europea del Sei e Settecento64.
Il lavoro di Vivanti ha per oggetto una punta avanzata, e non ricca di aderenti, della
cultura giuridico-politica ed ecclesiastica francese; e, verificando un’importante ipotesi di
lavoro formulata da Cantimori, ha collegato questo movimento di élites alla circolazione del
tema della libertà religiosa quale è formulato nei decenni seguenti da gruppi cattolici e
protestanti.
Riforma protestante e trasformazioni strutturali della società francese del primo
Cinquecento si intrecciano a costituire il filo unitario delle ricerche che Giuliano Procacci
ha pubblicato nel 195565. Tra l’offensiva nobiliare in fase crescente, la graduale ascesa
della borghesia impiegatizia, l’acuirsi del disagio e dei conflitti sociali nelle città e nelle
campagne, si viene preparando quell’assieme di “alleanze e lotte di classe” che avrà il suo
sbocco nel formidabile scontro delle guerre di religione. Il carattere, volutamente
frammentario, che il Procacci ha dato alla stesura di queste ricerche, non scema il
significato di questo suo contributo al dibattito sulle origini e sulla formazione
63
Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1959.
C. VIVANTI, Lotta politica e pace religiosa in Francia fra Cinque e Seicento, Torino, Einaudi, 1963.
65
G. PROCACCI ,Classi sociali e monarchia assoluta nella Francia della prima metà dei secolo XVI, Torino,
Einaudi, 1955.
64
dell’assolutismo francese, che si è venuto rivelando come uno tra i più significativi della
storiografia europea in questi anni.
Se trar ora fondamento da questo sommario bilancio dei nostri studi cinquecenteschi per
proporre un piano di lavoro sarebbe indulgere ad una tentazione cui già, ripercorrendo il
cammino compiuto negli ultimi ventidue anni dalla nostra storiografia, credo di aver troppo
ceduto; è però proprio la larga adozione di temi, di esperienze culturali, di metodi di
ricerca nuovi, da cui il panorama delle nostre conoscenze di storia cinquecentesca ha tratto
tanta animazione, a farci provare così vivo il desiderio di andar presto e vigorosamente
avanti; a sospingere quasi l’accento più su ciò cui speriamo di giungere che su quanto il
nostro comune lavoro ci ha ormai consegnato.
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