"stati nazionali"

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L’Italia nel Cinquecento: le ragioni di una crisi
Come si può spiegare il declassamento degli stati italiani nei primi decenni del XVI secolo? Intorno
a questa domanda si è svolto, già all’inizio del Cinquecento, un lungo e controverso dibattito fra
storici e scrittori di politica.
Nel 1494 gli stati italiani potevano considerarsi protagonisti della politica internazionale. Quindi
venne la spedizione di Carlo VIII, seguita dalle guerre che ridussero il loro ruolo di soggetti
autonomi. Fra il 1527 e il 1530 l’egemonia spagnola si affermò, direttamente o indirettamente, su
tutta l’Italia. Gli anni 1492-1530 sono quelli delle grandi scoperte e dell’apertura delle nuove rotte
commerciali oceaniche. Il ruolo centrale che era sempre toccato al Mediterraneo e dal quale erano
dipese le fortune italiane passò all’Atlantico e all’oceano Indiano, mentre Lisbona, Siviglia e
Anversa sostituivano Venezia, Genova e Firenze.
I riflessi della crisi economica
Questa spiegazione sembra a prima vista molto convincente, ma se la esaminiamo più attentamente
vediamo che nel 1530 il tesoro americano era ancora poca cosa e che l’economia atlantica era
soltanto ai suoi inizi. È vero invece che Venezia dovette far fronte a un periodo di grandi difficoltà
nel primo quarto del XVI secolo in seguito all’affermazione dei portoghesi nella rotta del Capo e
nell’oceano Indiano. Bisogna però aggiungere che in quegli anni Venezia fu varie volte in guerra
con gli ottomani e che nel 1509 dovette subire l’attacco da parte della lega promossa da Giulio II.
Eppure la Repubblica veneta risultò alla fine l’unico stato italiano a non essere inglobato sotto il
dominio di Carlo V. In secondo luogo, le vie del commercio tradizionale riguadagnarono le
posizioni perdute e alla metà del Cinquecento il Mediterraneo pareva ben lontano da una crisi
definitiva. Ugualmente provvisoria fu la crisi legata al fatto che l’Italia fu il teatro principale delle
guerre tra Francia e Spagna del 1521-30. Ma già la guerra del 1535-38 coinvolse meno l’Italia, che
successivamente poté godere di un lungo periodo di pace e far funzionare di nuovo a pieno ritmo la
sua economia.
Si potrebbe piuttosto osservare che il ritorno della prosperità non fece prendere piena coscienza
della grande svolta che si era verificata nel sistema mondiale dei commerci e lasciò pensare che
tutto potesse tornare come prima. Resta però il fatto che la crisi economica italiana prese a
manifestarsi in maniera netta sul finire del Cinquecento, mentre quella politica era già pienamente
consumata nel 1530.
La debolezza militare
Possiamo allora supporre che la parte maggiore in tutta la vicenda sia stata giocata dall’“inferiorità”
militare italiana? Una simile tesi ha dalla sua l’autorevolezza di Niccolò Machiavelli, che condannò
l’uso da parte dei principi italiani delle infide truppe mercenarie e contrappose a queste le milizie
cittadine, capaci di ristabilire il sentimento patriottico dell’antica repubblica romana.
In realtà anche gli eserciti dei monarchi europei erano fondati assai più sui mercenari che su truppe
che prestavano un servizio nazionale; inoltre, nella prima fase delle guerre non si può dire che gli
eserciti italiani avessero una sensibile inferiorità quanto alle armi da fuoco e alla direzione
strategica. Francesco I e Carlo V furono poi in grado di impiegare nella guerra risorse ben superiori,
ma a risultare determinante fu, più che il fatto militare in sé, l’organizzazione fiscale e
amministrativa di stati di grandi dimensioni come la Francia e la Castiglia.
La crisi degli stati cittadini
Da questo punto di vista, la crisi italiana è solo un caso particolare dell’affermazione dei grandi stati
nazionali sugli stati regionali o cittadini. Di fronte agli stati più potenti, che con le loro maggiori
dimensioni, popolazione e unificazione amministrativa si trovavano a possedere una vocazione
imperiale, il Cinquecento vide anche l’eclisse politica degli stati cittadini dei Paesi Bassi, della
Germania e dell’Hansa germanica.
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In Italia lo stato che resse meglio fu la Repubblica di Venezia, la più avanzata nella costruzione
delle strutture amministrative. Mettendo a parte il caso del Regno di Napoli, il più esteso ma anche
quello con un potere baronale in grado di contrapporsi a quello dello stato, gli stati regionali italiani
non erano riusciti a superare lo stadio dell’aggregato di città con il loro contado sottomesso. Il
diffuso urbanesimo e il forte spirito cittadino si dimostrarono un ostacolo per lo sviluppo di
compiute strutture statali moderne, dotate di un’efficace forza unificante.
È notevole poi che le classi dirigenti italiane si muovessero in uno spazio economico europeo e
avessero creato con il rinascimento una cultura universale, mentre allo stesso tempo il loro spazio
politico restava quello della singola città. Precocemente sviluppata, l’Italia centro-settentrionale
restava l’area europea più ricca, urbanizzata e colta, ma dal punto di vista politico aveva imboccato
un vicolo cieco: una moltitudine di città con i loro patriziati colti e internazionali, dalle vedute
insieme troppo larghe e troppo strette, non riuscì a raggiungere una più elevata unità politica e
dovette soccombere di fronte al costituirsi delle moderne monarchie nazionali.
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