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Milano
Teatro Manzoni
African Day
Mercoledì 14.IX.11
ore 16, 19, 21.30
Nkolo
Lokua Kanza
°
40
Mali Denhou
Boubacar Traoré
Orchestra National de Barbès
Torino Milano
Festival Internazionale
della Musica
03_ 22 settembre 2011
Quinta edizione
ore 16
Nkolo
Lokua Kanza, voce, chitarra
Didi Ekukuan, basso
Pathy Molesso Ebila, chitarra
Mafwala Komba, percussioni
Malaika Lokua, Roselyne Belinga, coriste
ore 19
Mali Denhou
Boubacar Traoré, voce, chitarra
Madieye Niang, calebassa
Vincent Bucher, armonica a bocca
ore 21.30
Orchestra National de Barbès
Fatah Ghoggal, canto, chitarra
Taoufik Mimouni, tastiere, canto
Kamel Tenfiche, percussioni, canto
Ahmed Bensidhoum, derbouka, canto
Michel Petry, batteria
Youssef Boukella, basso
Medhi Askeur, canto
Hafid Bidari, canto, percussioni
Emmanuel Le Houezec, sassofono
Mustapha Mataoui, tastiere, canto
Khliff Miziallaoua, chitarra, canto
Direttore di produzione, Nicola Giuliani
Con il sostegno di ENI
Orizzonti africani
Boubacar Traoré, Lokua Kanza, Orchestre National de Barbès: attraverso tre
protagonisti emblematici, African Day compendia altrettanti ‘stadi’, altrettanti ‘passaggi’, diversamente cruciali, di un’evoluzione che, con uno scatto
decisivo intorno alla metà del secolo scorso, ha cambiato il paesaggio musicale del continente, e, con esso, anche il nostro.
Boubacar Traoré è uno dei musicisti che oggi più nobilmente possono rappresentare lo stadio della classicità della musica africana moderna. La formula
avanzata dalla rivista britannica «Folk Roots» secondo cui Ali Farka Touré
sta a John Lee Hooker, col suo blues elettrico, come Boubacar Traoré sta a
Robert Johnson, che del blues è stato una figura mitica e fondativa, è suggestiva oltre che lusinghiera, e certo coglie anche molto di quello che Traoré è
in grando di offrire, con brani affascinanti, di irresistibile candore, in materia
di declinazione maliana del blues. Ma corre il rischio di consegnare l’arte
di Traoré alla dimensione di un passato arcaico, mettendone in ombra il
carattere innovativo: maliano come il compianto Ali Farka Touré, Traoré
nel ’63 diventa un eroe nazionale con Mali Twist. Traoré fece epoca nel Mali
socialista di Modibo Keita con una musica che rispecchiava l’entusiasmo e
la speranza di un paese che aveva da poco conquistato l’indipendenza, tanto
che Traoré invitava i connazionali immigrati a tornare per contribuire alla
costruzione del Paese. Quello di Traoré è il Mali fissato negli scatti di uno
dei più grandi fotografi maliani dell’epoca, Malick Sidibé: le minigonne e i
pantaloni a zampa di elefante, i 45 giri, le nuove abitudini (come le giornate
in gruppo ‘sulla spiaggia’, alle rive del fiume Niger) di una gioventù esuberante che guardava golosamente a nuovi modelli. «Si suonava del jazz,
delle rumbe, del meringué, dell’hula-hop, del cha-cha-cha, della salsa, del
twist, del madison – racconta Traoré nella sua testimonianza raccolta nella
monografia dedicata a Malick Sidibé da André Magnin – il twist ebbe molto
successo, tutti si muovevano con questa musica, Poi è arrivato il jerk. Il twist
maliano e quello europeo non erano la stessa cosa, però si ballavano alla
stessa maniera. Ero io stesso a comporre le canzoni. Le cantavo in francese
e in bambara. Sono io che ho inventato tutto questo. Non abbiamo affatto
copiato! In Mali avevamo molte musiche diverse, molti ritmi, molta arte,
potevo mescolare due musiche maliane diverse e veniva fuori del twist».
Generalmente Traoré non si presenta in scena né con un boubou tradizionale, né con un abito elegante, o qualcosa d’effetto, come si conviene ad una
star africana che sotto i riflettori tende sempre a dichiarare il proprio status
anche attraverso il modo di vestire, e può colpire, di primo acchito, vedere
l’anziano musicista sul palco semplicemente in jeans e giubbetto dello stesso
tessuto, a cui sulla testa accompagna una coppola: non è facile immedesimarsi subito, e rendersi conto che i jeans sono la divisa dei suoi vent’anni, e che
nel petto di Boubacar Traoré, che ondeggia sul palco pizzicando le corde della
sua chitarra acustica, batte il cuore di un rocker, che imbracciava la chitarra
elettrica e che, all’epoca in cui i giovani andavano matti per il suo Mali Twist
e spopolavano le sue session sulle frequenze di Radio Mali, veniva chiamato
«bluson noir». Oppure Kar Kar, un soprannome che deriva dall’espressione in lingua bambara per indicare il dribbling: prima di diventare cantante Traoré è stato anche un apprezzato calciatore. «Avevamo dei 45 giri e
dei 33 giri – è sempre la testimonianza di Traoré – dei Beatles, dei Rolling
Stones, di Johnny Hallyday, Otis Redding, Jimi Hendrix, Elvis Presley, Bill
Haley. Ascoltavamo anche dei successi inglesi: Them, Kings, Troggs...». Nato
a Kayes, Traoré assapora il successo fino al ’68, anno della caduta di Modibo
Keita – inviso per il suo progressismo agli ex colonizzatori – per poi conoscere l’amarezza dell’ostracismo di cui è vittima per aver abbondantemente
celebrato nelle sue canzoni il grande leader. Poi una piccola bottega e anche
l’umile attività di coltivatore, per tirare avanti. Nell’87 sembrerebbe suonata
3
l’ora della resurrezione: una apparizione televisiva lo riporta di prepotenza
alla ribalta, e nell’89 viene pubblicato il suo primo album internazionale.
Ma proprio allora muore di parto l’adorata moglie Pierrette: una tragedia
che spingerà Traoré a sfuggire ai suoi ricordi, e a se stesso. Per tre anni è a
Parigi, fra Belleville e La Villette, campando come operaio. Si sparge anche
la voce che sia morto, mentre dei produttori inglesi lo cercano invano in
Mali. Alla fine viene rintracciato nella capitale francese, e negli anni novanta
per Traoré si apre una nuova stagione. Con grande densità di scrittura e rara
capacità di immedesimazione, la patetica storia di Boubacar Traoré è stata
raccontata dalla scrittrice olandese Lieve Joris nel suo libro che come titolo
porta un binomio da considerare ormai proverbiale, Mali Blues (lo si può
leggere in traduzione francese: Mali Blues, Actes Sud, 1999). Il racconto di
Lieve Joris ha ispirato il film di Jacques Sarasin, Je chanterai pour toi, in cui
Boubacar Traoré percorre il Mali ripercorrendo il proprio passato, tra Kayes,
Bandiagara, la capitale Bamako, e Niafunké dove ritrova Ali Farka Toure. Al
principio del racconto della Joris, al termine di un concerto Traorè si allontana accompagnato proprio da Ali Farka, che, fresco reduce dal grammy per
l’album con Ry Cooder, nondimeno porta rispettosamente la chitarra al più
anziano collega.
Col retroterra di una innovazione della musica del continente dissodata dalla
generazione di Boubacar Traoré, Lokua Kanza rappresenta invece lo stadio
in cui la musica africana, portata a completa maturazione la sua modernità,
può anche scegliere di svincolarsi da un proprio specifico ambito stilistico,
per quanto contaminato, e può – in un certo senso – arrivare persino ad
uscire da se stessa.
«A otto anni ero affascinato da una corale di chiesa, in cui cantavano dei
bambini della mia età – ci raccontava anni fa Lokua Kanza – lo trovavo
magnifico, e allora ho chiesto se potevo farne parte. Mi hanno fatto provare e
mi hanno preso. È così che ho cominciato, cantando ogni domenica in chiesa. A tredici anni poi ho cominciato a suonare il flauto diritto, a quattordici la
chitarra, sono entrato in conservatorio e ho studiato chitarra classica». Viene
in mente Manu Diubango, che, nella sua autobiografia, ricorda come, studente in Europa, quando gli capitava di ascoltare Bach provava una struggente
nostalgia per Douala e per il Cameroun: niente di più lontano dallo stereotipo
dell’africano tutto ritmo e tamburi. Nato a Bukavu, nell’attuale Repubblica
Democratica del Congo, Kanza studia musica nella Kinshasa della sua adolescenza; in una famiglia in cui si fa fatica a mettere insieme il pranzo con
la cena, e non ci si possono permettere dei dischi, ascolta alla radio Beatles,
Led Zeppelin, James Brown, Stevie Wonder, Nat King Cole. «Poi ho imparato
a suonare la chitarra nello stile della rumba (la rumba congozairese, ndr), ho
fatto molto soukouss nei locali notturni, a diciannove anni lavoravo come
chitarrista di Abeti Masikini, la grande cantante; nell’82 sono andato in Costa
d’Avorio, e ad Abidjan ho lavorato al Casinò e in un hotel». Insofferente
ai cliché della musica zairese, nell’84 Kanza arriva a Parigi, frequenta una
scuola di jazz e incontra Ray Lema, uno dei più spregiudicati protagonisti
della musica africana contemporanea, con cui suona per tre anni; collabora
poi con Manu Dibango, decano della musica africana in Europa, e comincia
quindi a volare con le proprie ali. Da tutto questo variegato percorso, il cantante e chitarrista zairese ha finito per distillare una originale poetica, molto
distante dal cliché della ‘musica africana’. E, con tanta esperienza di chitarra
elettrica nella rumba, ha poi invece maturato una spiccata propensione per
la chitarra acustica. Con le doti e la cultura di un sofisticato pop singer europeo, ma anche con la conoscenza vissuta della musica africana, l’invidiabile
padronanza di diverse lingue (francese, inglese, lingala, swahili), un’eccellente sicurezza vocale e strumentale, e la libertà mentale ed estetica che gli
consente di muoversi fuori dagli schemi, Lokua Kanza ha consolidato una
inclinazione intimista ma cordiale, lirica, venata di malinconia. Lokua Kanza
si è così qualificato come uno degli esponenti più in vista di una giovane
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generazione di musicisti del continente determinati a sfuggire allo stereotipo
del musicista africano. Certo la sua è musica che non manca di personalità
e di identità: identità però scelta e non data in partenza e una volta per tutte, raggiunta – come il mondo di oggi suggerisce opportuno – tenendosi in
equilibrio sul crinale che corre tra le radici, con tutta l’importanza che ha
conoscerele e non perderle di vista, e la libertà individuale di definirsi secondo criteri autonomi. Anche in questo senso la musica di Lokua Kanza non
va confusa con gli ibridi proposti da diversi artisti del continente, ansiosi di
rendere più commestibile la loro musica per il pubblico occidentale: Lokua
Kanza propone la sua musica, molto vicina per certi versi ad un gusto pop
anglosassone, non per opportunismo – è una musica fine, con cui non è
comunque facile ottenere successo - ma proprio perchè la sua sensibilità lo
porta in quella direzione.
L’Orchestre National de Barbès rappresenta infine lo stadio della musica del
continente – nel caso specifico maghrebina – che si inserisce direttamente
nella scena musicale europea, e che costituisce un aspetto dei flussi migratori
degli ultimi decenni e del consolidarsi di una ‘seconda generazione’ immigrata: nel suo nome il gruppo richiama il quartiere di Barbès (tradizionalmente
la Goutte d’or, oggi chiamato Barbès per via del Boulevard che lo delimita su
un lato e della denominazione della corrispondente stazione della metropolitana), nel quale già negli anni ottanta si registrava la più densa concentrazione di immigrati, in particolare maghrebini, dentro i limiti urbani della capitale francese, con una decisa trasformazione della fisionomia di tutta un’area
della vecchia Parigi. L’Orchestre National de Barbès si forma nella seconda
metà degli anni novanta attraverso l’aggregazione di musicisti immigrati dal
Nordafrica, Algeria soprattutto e Marocco, di muscisisti di seconda generazione cresciuti a Parigi, di strumentisti che operano nel tessuto del meticciato
musicale della capitale, nei gruppi di matrice africana e araba. Il fenomeno
di una musica legata all’immigrazione maghrebina non era nuovo oltralpe:
diversi artisti avevano dato voce per esempio all’emigrazione dall’Algeria
già prima dell’indipendenza della colonia francese, ma si trattava di artisti
interni ad una dimensione strettamente comunitaria. Con formazioni come
l’Orchestre National de Barbès siamo invece ad un protagonismo musicale
che non solo non è confinato dentro una singola appartenenza comunitaria
ed è invece trasversale rispetto alle comunità maghrebine e in generale arabe, riflettendo il nuovo melange che si configura nella dimensione metropolitana; ma che mentre soddisfa il bisogno di una nuova identità – interessata
a quella di provenienza della propria famiglia ma anche aperta e inedita
– dei giovani beur (la seconda generazione di origine araba) vuole anche
comunicare al di fuori del mondo dell’immigrazione, e rivolgersi a tutta
l’audience potenziale, anche con l’idea di trasmettere un’immagine positiva
dell’immigrazione e della multiculturalità, in contrasto con quella veicolata
dalla visione xenofoba e da un partito come il Front National di Le Pen (sullo
sfondo di un’esperienza come quella dell’Orchestre National de Barbès non
è difficile riconoscere le premesse culturali create negli anni ottanta dalle
mobilitazioni dei giovani beur e da SOS Racisme). Specchio delle nuove dinamiche di ridefinizione di sé, a cavallo fra riscoperta orgogliosa delle proprie
origini da parte della seconda generazione e fluidità identitaria, la musica
dell’Orchestre National de Barbès offre un mix di chaabi, la corrente musica
popolare del Maghreb, di musica gnaoua, propria delle comunità di origine
neroafricana che, in particolare in Marocco, mantengono una loro specificità
di tradizioni, di raï, la musica carica di contenuti oggettivamente contestatari che ha fatto furore fra i giovani algerini a partire dagli anni ottanta, ma
anche di reggae, di ska, di rock. Ma un mix di elementi fra musiche locali,
e rock e pop internazionali – è, già prima della loro immigrazione, presente
nella biografia artistica di diversi dei musicisti che poi concorrono alla costituzione dell’Orchestre National de Barbès.
In forme e in gradi diversi, quindi, tutti i protagonisti di African Day propon5
gono a partire dalla geografia musicale dell’Africa degli esempi estremamente significativi, addirittura a loro modo ‘storici’, di dialettica di tradizione e
innovazione, e di autonoma – nel caso di Lokua Kanza più individuale, nei
casi di Boubacar Traoré e della ONB come elaborazione immersa in processi
sociali e culturali generali – ridefinizione della propria identità.
Marcello Lorrai*
*Marcello Lorrai (Milano, 1955) lavora dal 1985 a Radio Popolare. Collabora con «Il
giornale della musica», «Rolling Stone», Nigrizia e Radio Svizzera occupandosi principalmente di jazz e di musica e cultura in Africa e a Cuba.
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Lokua Kanza
Niente da dimostrare riguardo Lokua Kanza. Nessuna ostentazione. L’uomo
è pudico, di apparenza serena; di umore meditativo, sembra vivere in assenza
di gravità. Risparmia le parole, guarda, ascolta, sorride e da un movimento
d’espressione dei suoi occhi neri e penetranti rivela una parte della sua vita
privata: la forte luce interiore che alberga in lui, i cui i raggi trasportano di
punto in bianco felicità e sofferenza, lacrime e sorrisi, dubbi e rivelazioni, paure
e speranze, rivolte e rispetto, compassione e, soprattutto, amore. Con la A
maiuscola. Uno sguardo al suo passato: nasce a Bukavu (attuale RDC, Repubblica
democratica del Congo). Il padre di Lokua, uno dei primi uomini dello Zaire a
comandare una nave sul grande fiume Congo, è di etnia Mongo, innamorato
della polifonia. Sua madre, nativa delle montagne del Rwanda, paese celebre
per la raffinatezza della sua musica di corte. Entrambi lo sensibilizzano sin
dai suoi primi giorni alla bellezza delle melodie. Apprendimento del canto
nelle chiese, ascolto della musica alla radio, in televisione, per strada, nei
club, ai concerti: «A 13 anni ho visto Miriam Makeba sul palco ed è quella
sera che ho deciso di diventare un cantante». Il suo amico Ray Lema gli regala
la sua prima chitarra, da adolescente fa le sue prime apparizioni pubbliche
nelle orchestre di rumba zairese. Poi parte per perfezionarsi al conservatorio
di Kinshasa, dove familiarizza con il solfeggio, la composizione, l’armonia,
l’orchestrazione e dove perfeziona anche la sua conoscenza strumentale. I
suoi professori lo definiscono ‘brillante’, ‘lavoratore’, con ‘le orecchie grandi
aperte’ (dal jazz a Bach, dal rhythm’n blues alle tradizioni del Continente
Nero, dai refrain di Bollywood al pop anglosassone, dalla varietà francese
alla bossa-nova, tutto lo incanta e lo appassiona), ‘costantemente in ricerca’.
In due parole: ‘molto talentuoso’. Oltre alle chitarre e ai mandolini (acustici
ed elettrici, classici, tradizionali e moderni), Lokua maneggia da esperto la
sanza, il piano, le tastiere, il basso, le percussioni, il flauto. Il giovane uomo
comincia a tracciare un solco lungo il Golfo di guinea, dallo Zaire alla Costa
d’Avorio (risiede due anni a Abidjan), si distingue nella formazione della
grande cantante zairese La Reine Abéti. 1984: fine del mondo. Lokua va a
Parigi per seguire i corsi del chitarrista jazz Pierre Cullaz (CIM). Rapidamente,
il polistrumentista mescola la sua voce a quelle della comunità musicale
africana, accompagna Ray Lema (appare nel suo album Bwana Zoulou
Gang), Papa Wemba, Sixun, Manu Dibango… Autore e compositore, scrive
molto per gli uni e per gli altri e si costruisce pian piano un suo repertorio
personale. Autore e compositore, scrive molto per glu uni e per gli altri e si
costruisce pian piano un suo repertorio personale. Tiene il suo primo grande
concerto parigino nel 1992 all’Olympia, en vedette américaine d’Angélique
Kidjo. L’album Lokua Kanza prima opera personale, è registrato alla fine del
1992 e pubblicato un anno più tardi. Successo enorme. All’inizio del 1994
la stampa si dichiara «affascinata», «sotto choc», «ammaliata», «allucinata»,
«rinvigorita», il bardo è diventato una star e si vede assegnare a Libreville
(Gabon) il premio Migliore album africano agli African Music Awards. Firmato
con la BMG, Lokua apre gli spettacoli di Jean-Louis Aubert, Patrick Bruel et
Youssou N’Dour (segue il cantante senegalese in tournée a New York e suona
nel suo cd Wommat, registrato a Dakar) dei quali, sfida poco comune, seduce
istantaneamente i rispettivi pubblici, che inizialmente sembravano opporsi.
Compie un grande passo quando coproduce con Stephen Hague (Wet Wet
Wet, New Order, Erasure, Jimmy Sommerville), negli studi britannici di Peter
Gabriel, a Bath, due session dei suoi amici Papa Wemba (Emotion, per il quale
riceve il premio di Migliore arrangiatore africano) e Geoffrey Oryema (Night
and day). Prova che precede Wapi Yo nel 1995, secondo favoloso successo,
album totalmente intriso di melodie fatate, trovate strumentali e voci
sorprendenti, il tutto rivestito di arrangiamenti di seta. Una miniera di hit,
prime fra tutte Shadow dancer e Sallé, che vale a Lokua Kanza tre nomination
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all’undicesima edizione dei Victoires de la musique. Seguiranno una serie di
tournée nel mondo intero, dal Senegal alla Spagna, dalla Germania al Canada,
dal Brasile a Los Angeles, scandite da momenti cruciali: la Festa a Lokua, nel
luglio 1996, al Francofolies della Rochelle, dove Lokua duetta con Catherine
Lara, Enzo Enzo, Papa Wemba et Youssou N’Dour; il festival di Montreux,
lo stesso anno; l’Heineken Festival di San Paolo, nel 1997, occasione unica
per unire la sua voce a quelle di Djavan, Al Jarreau e Chico César. Senza
dimenticare diverse altre collaborazioni: è ospite nell’album Hors saison di
Francis Cabrel (1999), duetta con la cantante israeliana Noa (Noa Now, 2001)
e compone un titolo per Nana Mouskouri (Fille du soleil, 2002). Sul piano
discografico, tuttavia, trascorrono cinque anni prima che l’artista trovi nella
Universal Jazz France un partner in grado di accordargli una totale fiducia,
lasciandogli gestire come desidera la sua musica. Nel 1998 ripubblica il suo
terzo compact, 3, passato quasi sotto silenzio a seguito di grossi errori di
promozione e distribuzione. Nel 2003 esce Toyébi Té, un fiammeggiante
acquarello, terza grossa performance commerciale di Lokua Kanza. Prima di
tornare in studio all’inizio del 2004 per Plus vivant, il cantante ha di nuovo
accorciato la strada tra l’Europa e l’Africa, ha partecipato all’avventura This
is our music accanto a Salif Keita, Natalia M. King, Akosh S., Mino Cinélu,
Marcio Faraco e ha registrato per No Format, divisione della Universal Jazz,
l’elegantissima Toto Bona Lokua in compagnia di Richard Bona e Gérald Toto,
trio che ha calcato i palchi del Nord e del Sud per tutta l’estate. Il cantante
(chitarrista, compositore, arrangiatore, autore e produttore) Lokua Kanza,
trovatore meticcio di padre congolese e di madre ruandese, in Francia da
venti anni, ritorna sulle scene all’inizio del 2005 con Plus vivant, la sua quinta
produzione personale e la sua seconda collaborazione con Universal Music
Jazz France. L’opera è espressione di un grande musicista che si afferma come
cittadino del mondo, artista senza frontiere e creatore di transculture: «Io
sono espressione del mio vero istinto ed è ciò che mi ha portato oggi a cantare
in francese». Esclusivamente interpretato nella lingua di Verlaine e Rimbaud,
il nuovo lavoro di Lokua offre al concetto di métissage un’incarnazione pura
e incontestabile, che propone una fusione perfetta (ossia impercettibile)
tra il Nord e il Sud e ricrea alla sua maniera l’unicità che un tempo fu dei
nostri antenati comuni. Un disco arrangiato in modo superbo, quindici titoli
interpretati con un cuore enorme ed eseguiti in compagnia di indubbi talenti
quali i chitarristi Sylvain Luc e Pepe Fely Manuaku (uno dei grandi genitori
e virtuosi della rumba zairese), il bassista Richard Bona e il batterista Manu
Katché, riconosciuto a livello internazionale, il percussionista Sola (compagno
di strada di Jamiroquaï) e Corneille per l’omonimo brano, assolutamente
emozionante.
www.lokua-kanza.com
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Boubacar Traoré
Boubacar Traoré, detto Kar Kar, è una contraddizione armoniosa, un
musicista di cui l’arte e la biografia sorprendono più per gli estremi che
per l’equilibrio. Un idolo per tutta la costa africana occidentale negli anni
Sessanta, dimenticato negli anni Settanta, riscoperto negli anni Ottanta e
Novanta, complici le lunghe tournée in Europa e negli Stati Uniti. Nel corso
della sua carriera è stato paragonato a numerose star della musica pop. È
stato accostato a Elvis Presley, così come a Robert Johnson, Johnny Hallyday
o Chuck Berry. Possiamo qualificare la sua musica come blues? Tutti questi
paragoni dimostrano come sia impossibile definire le canzoni di Kar Kar.
Tanto gli europei quanto gli americani hanno bisogno di tali confronti per
comprendere un artista che, fondamentalmente, rappresenta un vero e
proprio mondo musicale a sé. La sua musica non può essere catalogata come
blues, inteso alla maniera occidentale, e non è nemmeno funky come quella
del Padre del Soul James Brown, al quale viene talvolta paragonato. In tutto e
per tutto, blues è una definizione di cui la sua musica gode in casa, nel Mali,
tra i suoi colleghi e i suoi compatrioti. Solo se si considera il termine blues
non come forma musicale ma come espressione di sentimenti, è possibile
accostarsi al suo suono. Kar Kar fa quello che ha sempre voluto fare: musica.
Per lui sono le melodie, le canzoni che il suo strumento accompagna cantando
la seconda voce. «La chitarra mi ha attirato come per magia», così prova a
spiegare il legame con il suo strumento. Negli Stati del Sud non si sentono
interpretare gli accordi di blues dei cantanti con le stesse affinità musicali
della sua chitarra. La sua chitarra crepita come una kora. D’altra parte, il blues
del Mali non ha le stesse strutture che conosciamo della versione americana.
Blues serve come termine generale, quale tentativo di spiegazione, dal
momento che il Kassonké, genere musicale con il quale è cresciuto Traoré,
non può rappresentare una descrizione comprensibile a tutti. Nella musica di
Kar Kar si sentono le sue origini del Mali occidentale, Kayes, la sua patria e la
sua nostalgia. Il suo amore per questa patria e i suoi abitanti è grande anche
se di tanto in tanto critica duramente gli amministratori del Paese e i suoi
compatrioti. Nelle storie calme delle sue canzoni sono raccontati quarant’anni
duri e pieni di tribolazioni. Eppure sono il calore e l’amore a dominare. Kar
Kar è un cantastorie e, dal momento che si rifiuta di dare delle spiegazioni,
interpretare queste storie non è un compito facile, se vogliamo comprenderne
il senso profondo. Parla delle tradizioni africane, permeate di un simbolismo
e di un esotismo che difficilmente svelano i propri segreti ai bianchi. Canta
l’amore in tutte le sue sfumature umane e tragiche, l’amore per la sua prima
moglie deceduta, per i suoi bambini, senza che il dolore – che pesa sul destino
tragico della sua storia – appesantisca o faccia soccombere le sue canzoni
sotto il peso dell’afflizione. Boubacar Traoré non è un musicista le cui canzoni
possono essere spiegate, ma va analizzato per immagini e stati d’animo. È
necessario abbandonarsi anima e corpo. E allora sarà forse possibile fare
l’esperienza di un’Africa al di là dei cliché e dei pregiudizi.
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Orchestra National de Barbès
L’Orchestra National de Barbès assomiglia più a un’idra musicale che a una
formazione. Composta da una ventina di membri, l’ONB è una struttura a
geometria variabile. A seconda della disponibilità dei musicisti, una sera
possono esserci tre chitarristi che conferiscono alla musica una colorazione
africana, mentre il giorno successivo uno di loro può essere sostituito da un
violinista. Algeria, Marocco, Mali, Senegal: l’Orchestra National de Barbès è
la sintesi dei diversi idiomi musicali, il tutto in un gioioso mélange. Alla base
dell’Orchestra National de Barbès c’è tutta una serie di incontri e di personaggi
alti a colori. Youcef Boukella, innanzitutto, originario di un quartiere di Algeri
chiamato Belcourt. Arriva a Parigi in piena effervescenza Raï e accompagna
Cheb Mami e il jazzista Safy Boutella. C’è anche Larbi Dida, una delle grandi
voci delle notti arabe parigine, e ancora Aziz Sehmaoui, sufi nutrito dai ritmi
africani e dal pop inglese; senza dimenticare Kamel, percussionista e re della
rima reggae. Infine Fateh, in esilio dall’Algeria. A questo nucleo vanno ad
aggiungersi i compagni, gli amici, coloro che condividono le stesse idee.
Giungendo al dunque, «perché Barbès»? «Perché Barbès, recita la copertina
del loro disco, è una parte d’Africa dispersa ai piedi del Sacro Cuore. Si trovano
il couscous e il pollo, i bar fumosi e le antenne paraboliche». Un gioiosa banda
di dodici musicisti che si scatenano sulla base di un frenetico mix musicale,
che va dalla tradizione dei Gnawa al jazz, passando per il raï, lo chaâbi e
il rap. Una storia che risale al 1995 e, malgrado la loro predilezione per il
palco, specialmente per quanto riguarda l’album live Barbès (1997), si sono
rivelati brillantemente in studio con Paulina (1999) e Alik (2008). La storia
comincia nel 1987, quando Youssef Boukella, bassista del jazzista Jeff Gardner
e originario d’Algeri, arriva a Parigi. Il genere raï sta conquistando il pubblico
francese, aldilà la comunità maghrebina. Molto rapidamente, Youssef si fa
notare accanto a Cheb Mami e a TakFarinas. È a partire da una sala prove
di periferia, tuttavia, che si va a costituire l’idea dell’ONB intorno a Youssef
e a quattro cantanti, nel 1995. Larbi Dida, ex cantante del Raïna Raï; Fateh
Benlala, che ha dovuto lasciare la situazione calda di Algeri, dove si è formato
musicalmente con i ritmi chaâbi; Aziz Sehmaoui, giovane marocchino di
tradizione Gnawa; Kamel Tenfiche, nato in Francia, dove è cresciuto intriso
di cultura rap. Personaggi chiave nell’evoluzione della musica del gruppo, il
sassofonista dei Sixun Alain Debiossat, il chitarrista Olivier Louvel, il tastierista
Jean-Baptiste Serré – musicisti francesi – e Tewfik Mimouni, apportano
rispettivamente i colori del jazz e il rock. Il concept dell’Orchestra National
de Barbès è creato da una piccola squadra ben decisa ad abbattere i vecchi
cliché spregiativi nei confronti dei maghrebini, la Bougnoule Connection. Il
segreto del successo dell’ONB risiede nella straordinaria facoltà di servirsi,
per la costruzione del proprio repertorio, di improvvisazioni di ogni musicista
durante i concerti. Anche il pubblico, coinvolto nella danza, gioca il suo
ruolo e il successo dell’ONB è confermato da un primo album live, Barbès,
pubblicato da Virgin France nel 1997. Questo primo disco è immediatamente
seguito dai concerti alla Cigale e alla Grande Halle della Villette, poi da una
tournée che passa per festival quali Printemps di Bourges, Musiques Métisses
di Angoulême o la Jeunesse di Ivry-sur-Seine, che confermano il talento di
ognuno. Consolidano il loro successo in Europa e negli Stati Uniti nel luglio
1998, con un’apparizione al Summerstage Festival di Central Park a New
York. Nel 1999, il secondo album Poulina sancisce l’addio di Larbi Dida,
sostituito da Medhi Askeur. Nello stesso anno si esibiscono all’Olympia e allo
Zénith di Parigi. Alik, terzo album, esce nel 2008. È l’album della maturità
e del cambiamento, composto da Youcef Boukella, Kamel Tenfiche, Tewfik
Mimouni e da Medhi Askeur, rende omaggio a tre grandi cantanti algerini:
Mohamed Larbi (detto Cheikh Mamachi), Slimane Azem e Mohamed
Mazouni. Ma l’ONB è ormai un collettivo di dodici musicisti e sono dunque
10
presenti anche Fatah Benlala, Fathellah Ghoggal alla chitarra knopflérienne,
Khlif Miziallaoua, Ahmed Bensidhoum alle percussioni, Michel Petry alla
batteria e Mustapha Mataoui alle tastiere. Dodici individualità che apportano
ciascuna un tocco particolare alla musica, generando un mélange di sonorità
dalle molteplici influenze, dal raï al gnawa, dallo chaâbi al rock e al groove.
Ma per loro niente eguaglia il palco, dove possono dare libero corso al loro
temperamento festoso e alla gioia di suonare.
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Il FAI – Fondo Ambiente Italiano presenta
i luoghi di MITO SettembreMusica
Teatro Manzoni
Lo storico Teatro Manzoni nasce nel 1850 in piazza San Fedele, alle spalle di
Palazzo Marino, con il nome di ‘Teatro Sociale di Milano’, per volere di sette
noti cittadini milanesi, i nobili Luigi Rivelli, Luigi Cusani, Alessandro Melzi, il
marchese Apollinare Rocca Saporiti, il conte Leopoldo Pullè, l'ingegner Carlo
Cereda e il signor Antonio Mazzorin. L’intento era quello di creare un teatro
di prosa che portasse su un palcoscenico milanese la grande tradizione della
Commedia italiana e straniera. Fu il primo teatro in Europa ad avere le sue
quattro fila di palchi illuminati elettricamente, per un totale di 1050 posti. Il
Teatro Sociale nel 1873, alla morte di Alessandro Manzoni, fu rinominato e
intitolato in onore dello scrittore, che portò, oltre al nome, fortuna alla nuova
programmazione teatrale, più seguita dal pubblico milanese. Le sue scene
furono calcate tra gli altri da Eleonora Duse, che interpretò la prima opera di
D’Annunzio per questo teatro, La Gioconda. L’agosto del 1943 vide interrompere
improvvisamente la programmazione teatrale, per una bomba che distrusse
l’edifico. Nel dopo guerra l’intensa attività di ricostruzione coinvolse anche gli
edifici teatrali, e il nuovo teatro Manzoni sorse sulla via omonima, all’interno
di un più ampio complesso architettonico denominato ‘Centro Eva’.
In considerazione dell’importanza dell’iniziativa architettonica e commerciale,
il progetto fu affidato all’architetto bergamasco Alziro Bergonzo. La
progettazione dell’edificio, sviluppato otto metri sotto il livello stradale e
costato l’imponente cifra di 60 milioni del tempo, fu lunga e complessa, e
impiegò l’architetto tra il 1947 e il 1950.
Il 20 ottobre 1950 fu inaugurato con uno spettacolo dell’American National
Ballet, e fu poi affidato alla cura scientifica di Remigio Paone, che alternò nella
sua programmazione la prosa, alla rivista, al teatro leggero. Determinanti furono
per la realizzazione di tale opera le collaborazioni con gli scultori Messina,
Conti, Lodi e Fazzini, e con i pittori Nicolò Segota, Ghino Baragatti e Achile
Funi, al quale fu assegnata anche l’identificazione degli spazi da affrescare.
Il nuovo Manzoni che aveva capienza di 1.100 posti, suddivisi tra le 758
poltroncine in platea e 27 palchi disposti su un ordine, non più su quattro come
prima, fu ammirato per la sua ottima acustica, per le sontuose decorazioni,
nonché per le tecniche costruttive e decorative uniche nell’Europa di quegli
anni. Scendendo sotto il livello stradale, si arrivava in un atrio di color rosso
pompeiano, illuminato da lampadari a muro realizzati in oro antico.
Tra i nomi più celebri degli ospiti del ‘Teatro di via Manzoni’ citiamo Eduardo De
Filippo, Jean Louis Barrault, Madeleine Renaud, Gerard Philippe, Vittorio Gassman,
Valeria Moriconi, Gabriele Lavia, Giorgio Albertazzi, Gian Maria Volontè, Aldo e
Carlo Giuffrè, Ombretta Colli, Gigi Proietti, Ornella Vanoni, Monica Vitti, Ugo
Tognazzi, Mariangela Melato, Sergio Castellitto e Franco Branciaroli.
Si ringrazia
www.fondoambiente.it
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eni partner
Festival MITO
SettembreMusica
dal 3 al 22 settembre 2011
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eni.com
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MITO SettembreMusica è un Festival
a Impatto Zero®
Il Festival MITO compensa le emissioni
di CO2 con la creazione e la tutela di
foreste in crescita in Costa Rica e
contribuisce alla riqualificazione del
territorio urbano del Comune di
Milano
MITO SettembreMusica anche quest’anno rinnova il proprio
impegno ambientale al fianco di Lifegate, una scelta che
contraddistingue il Festival fin dalla sua nascita. Per la sua
quinta edizione MITO SettembreMusica ha deciso di sostenere
due interventi di importante valore scientifico e sociale.
A Milano, a conferma dello stretto legame con la città, MITO
SettembreMusica interviene nel progetto di riqualificazione
dei Navigli con la donazione di un albero per ogni giorno
del Festival. L’area d’intervento si trova lungo l’Alzaia del
Naviglio Grande. L’iniziativa fa parte di un progetto promosso dall’Associazione Amici dei Navigli, in accordo con la
Regione Lombardia Assessorato ai Sistemi Verdi e Paesaggio,
e prevede la piantumazione sul fronte urbano del Naviglio
Grande, da Corsico a Milano fino al Ponte di via Valenza, di
filari di alberi di ciliegio.
MITO SettembreMusica contribuisce alla creazione e alla tutela
di 124.000 metri quadrati di foresta in crescita in Costa Rica,
un territorio che si contraddistingue per un’elevata biodiversità, con il 4% di tutte le specie viventi del pianeta, in una
superficie pari solo allo 0,01% delle terre emerse. L’attività di
deforestazione che ha devastato il territorio negli ultimi 60
anni è stata arginata e grazie a questa inversione di tendenza,
il 27% del territorio del Paese è attualmente costituito da aree
protette.
In collaborazione con
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Disegniamo... la musica!
Un’iniziativa di MITO Educational
«Qual è la fiaba musicale che vi piace di più? Avete visto un bel
concerto o uno spettacolo, suonate uno strumento o cantate
in un coro? Raccontateci le vostre esperienze con tutta la vostra fantasia e creatività». Più di trecento bambini dell’età tra
i 4 e gli 11 anni hanno risposto a questo appello del Festival
MITO SettembreMusica inviando i loro disegni. Guidati dalle
maestre nelle scuole elementari, in modo del tutto autonomo
o assieme ai loro genitori, hanno raccontato, in una serie di
disegni pieni di fantasia e di colori, la loro curiosità per la
musica, le proprie esperienze di piccoli spettatori, un concerto o
uno spettacolo particolarmente bello e il piacere di imparare a
suonare uno strumento.
In ogni programma di sala MITO SettembreMusica propone
uno dei disegni pervenuti al Festival.
Questo disegno è stato inviato dalla classe III B della Scuola Ortigara
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MITO SettembreMusica
Promosso da
Città di Milano
Giuliano Pisapia
Sindaco
Città di Torino
Piero Fassino
Sindaco
Stefano Boeri
Assessore alla Cultura, Expo, Moda
e Design
Maurizio Braccialarghe
Assessore alla Cultura, Turismo
e Promozione
Comitato di coordinamento
Presidente Francesco Micheli
Presidente Associazione per il Festival
Internazionale della Musica di Milano
Vicepresidente Angelo Chianale
Presidente Fondazione
per le Attività Musicali Torino
Giulia Amato
Direttore Centrale Cultura
Direttore Settore Spettacolo
Anna Martina
Direttore Divisione Cultura,
Comunicazione e Promozione della Città
Angela La Rotella
Dirigente Settore Spettacolo,
Manifestazione e Formazione Culturale
Enzo Restagno
Direttore artistico
Francesca Colombo
Segretario generale
Coordinatore artistico
Claudio Merlo
Direttore generale
Realizzato da
Associazione per il Festival Internazionale della Musica di Milano
Fondatori
Alberto Arbasino / Gae Aulenti / Giovanni Bazoli / Roberto Calasso
Gillo Dorfles / Umberto Eco / Bruno Ermolli / Inge Feltrinelli / Stéphane Lissner
Piergaetano Marchetti / Francesco Micheli / Ermanno Olmi / Sandro Parenzo
Renzo Piano / Arnaldo Pomodoro / Davide Rampello / Massimo Vitta Zelman
Comitato di Patronage
Louis Andriessen / George Benjamin / Pierre Boulez / Luis Pereira Leal
Franz Xaver Ohnesorg / Ilaria Borletti / Gianfranco Ravasi / Daria Rocca
Umberto Veronesi
Consiglio Direttivo
Francesco Micheli Presidente / Marco Bassetti / Pierluigi Cerri
Francesca Colombo / Roberta Furcolo / Leo Nahon / Roberto Spada
Collegio dei revisori
Marco Guerreri / Marco Giulio Luigi Sabatini / Eugenio Romita
Organizzazione
Francesca Colombo Segretario generale, Coordinatore artistico
Stefania Brucini Responsabile promozione e biglietteria
Carlotta Colombo Responsabile produzione
Federica Michelini Assistente Segretario generale,
Responsabile partner e sponsor
Luisella Molina Responsabile organizzazione
Carmen Ohlmes Responsabile comunicazione
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Lo Staff del Festival
Per la Segreteria generale
Chiara Borgini Segreteria organizzativa / Roberta Punzi Referente partner
e sponsor e Lara Baruca / Eleonora Pezzoli
Per la Comunicazione
Livio Aragona Responsabile edizioni / Mariarosaria Bruno Ufficio stampa
Giulia Lorini Referente redazione web / Uberto Russo Ufficio comunicazione
con Valentina Trovato / Elisabetta Villa e Lucia Aloé / Emma De Luca /
Alessia Mazzini / Matteo Pisano / Riccardo Tovaglieri
Per la Produzione
Ludmilla Faccenda Responsabile logistica / Nicola Giuliani, Matteo Milani,
Andrea Minetto Direttori di produzione
con Elisa Abba / Francesco Bollani / Stefano Coppelli e Nicola Acquaviva /
Michela Albizzati / Giovanna Alfieri / Silvia Ceruti / Federica Fontana /
Luisa Morra / Maria Novella Orsanigo / Federica Simeon / Andrea Simet
Per la Promozione e la Biglietteria
Alberto Corrielli Gestione concerti gratuiti / Arjuna - Das Irmici Referente
informazioni / Marida Muzzalupo Assistente promozione e biglietteria
con Alice Boerci / Giulia De Brasi / Claudia Falabella / Silvia Masci /
Monica Montrone / Alberto Raimondo e Fulvio Gibillini /
Diana Federica Marangoni / Federica Luna Simone
via Dogana, 2 – Scala E, II piano 20123 Milano
telefono +39.02.88464725 / fax +39.02.88464749
[email protected] / www.mitosettembremusica.it
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I concerti
di domani e dopodomani
Giovedì 15.IX
Venerdì 16.IX
ore 13
jazz
Piazza San Fedele
Break in Jazz
Young Talents
Alessandro Lanzoni
Francesco Diodati Quartetto
Alessandro Lanzoni, pianoforte
Francesco Diodati, chitarra, effetti
Gabriele Evangelista, contrabbasso
Enrico Morello, batteria
Ingresso gratuito
ore 15
incontri
Sede Amici del Loggione
del Teatro alla Scala
Impariamo ad ascoltare
Incontro con Roberto Ciaccio,
Antonio Ballista
Partecipano Angelo Foletto,
Paolo Bolpagni
Coordina Francesca Colombo
Ingresso gratuito fino a esaurimento posti
ore 17
incontri
Teatro Elfo Puccini, Sala Shakespeare
Il “carattere” musicale: un itinerario nelle
Sonate per pianoforte di Beethoven
Conferenza di Alfred Brendel
Ingresso gratuito fino a esaurimento posti
ore 21
antica
Teatro Franco Parenti
L’incoronazione di Poppea
Claudio Monteverdi
Valentina Coladonato, soprano (Poppea)
Martina Belli, mezzosoprano (Nerone)
Alberto Allegrezza, tenore (Arnalta)
Marta Fumagalli, mezzosoprano
(Ottavia)
Alessandro Giangrande, controtenore
(Ottone)
Ugo Guagliardo, basso (Seneca)
La Venexiana
Claudio Cavina, direttore al
clavicembalo
In forma di concerto
Posto unico numerato e 15
ore 21
classica
CREMONA
Teatro Amilcare Ponchielli
Gaetano Donizetti, Gioachino Rossini,
Giuseppe Verdi
Quartetto di Torino
Gianluca Turconi, Umberto Fantini,
violini
Andrea Repetto, viola
Manuel Zigante, violoncello
Paolo Borsarelli, contrabbasso
Ingresso gratuito
ore 21
Teatro Out Off
Ólafur Arnalds
Concerto
Posto unico numerato e 10
ore 16
classica
Chiesa di Sant’Alessandro
Georg Friedrich Händel,
Franz Joseph Haydn
Orchestra dell’Università degli Studi
di Milano
Alessandro Crudele, direttore
Antonio Frigé, organo
Ingresso libero
cinema
ore 19
Auditorium San Fedele
Chère Catherine, Moloch Tropical
Raoul Peck
Ingresso gratuito
ore 21
classica
Basilica di Santa Maria delle Grazie
Fritz Kreisler, Niccolò Paganini,
Pëtr Il’ič Čajkovskij
Orchestra da Camera Italiana
Salvatore Accardo, violino e direttore
Ingressi e 15
ore 21
canzone d’autore
Teatro Smeraldo
Concerto!
Massimo Ranieri, voce
Posto unico numerato e 30
elettronica
www.mitosettembremusica.it
Responsabile editoriale Livio Aragona
Progetto grafico
Studio Cerri & Associati con Francesca Ceccoli, Anne Lheritier, Ciro Toscano
20
-4
Milano Torino
unite per l’Expo 2015