Milano Teatro Manzoni African Day Mercoledì 14.IX.11 ore 16, 19, 21.30 Nkolo Lokua Kanza ° 40 Mali Denhou Boubacar Traoré Orchestra National de Barbès Torino Milano Festival Internazionale della Musica 03_ 22 settembre 2011 Quinta edizione ore 16 Nkolo Lokua Kanza, voce, chitarra Didi Ekukuan, basso Pathy Molesso Ebila, chitarra Mafwala Komba, percussioni Malaika Lokua, Roselyne Belinga, coriste ore 19 Mali Denhou Boubacar Traoré, voce, chitarra Madieye Niang, calebassa Vincent Bucher, armonica a bocca ore 21.30 Orchestra National de Barbès Fatah Ghoggal, canto, chitarra Taoufik Mimouni, tastiere, canto Kamel Tenfiche, percussioni, canto Ahmed Bensidhoum, derbouka, canto Michel Petry, batteria Youssef Boukella, basso Medhi Askeur, canto Hafid Bidari, canto, percussioni Emmanuel Le Houezec, sassofono Mustapha Mataoui, tastiere, canto Khliff Miziallaoua, chitarra, canto Direttore di produzione, Nicola Giuliani Con il sostegno di ENI Orizzonti africani Boubacar Traoré, Lokua Kanza, Orchestre National de Barbès: attraverso tre protagonisti emblematici, African Day compendia altrettanti ‘stadi’, altrettanti ‘passaggi’, diversamente cruciali, di un’evoluzione che, con uno scatto decisivo intorno alla metà del secolo scorso, ha cambiato il paesaggio musicale del continente, e, con esso, anche il nostro. Boubacar Traoré è uno dei musicisti che oggi più nobilmente possono rappresentare lo stadio della classicità della musica africana moderna. La formula avanzata dalla rivista britannica «Folk Roots» secondo cui Ali Farka Touré sta a John Lee Hooker, col suo blues elettrico, come Boubacar Traoré sta a Robert Johnson, che del blues è stato una figura mitica e fondativa, è suggestiva oltre che lusinghiera, e certo coglie anche molto di quello che Traoré è in grando di offrire, con brani affascinanti, di irresistibile candore, in materia di declinazione maliana del blues. Ma corre il rischio di consegnare l’arte di Traoré alla dimensione di un passato arcaico, mettendone in ombra il carattere innovativo: maliano come il compianto Ali Farka Touré, Traoré nel ’63 diventa un eroe nazionale con Mali Twist. Traoré fece epoca nel Mali socialista di Modibo Keita con una musica che rispecchiava l’entusiasmo e la speranza di un paese che aveva da poco conquistato l’indipendenza, tanto che Traoré invitava i connazionali immigrati a tornare per contribuire alla costruzione del Paese. Quello di Traoré è il Mali fissato negli scatti di uno dei più grandi fotografi maliani dell’epoca, Malick Sidibé: le minigonne e i pantaloni a zampa di elefante, i 45 giri, le nuove abitudini (come le giornate in gruppo ‘sulla spiaggia’, alle rive del fiume Niger) di una gioventù esuberante che guardava golosamente a nuovi modelli. «Si suonava del jazz, delle rumbe, del meringué, dell’hula-hop, del cha-cha-cha, della salsa, del twist, del madison – racconta Traoré nella sua testimonianza raccolta nella monografia dedicata a Malick Sidibé da André Magnin – il twist ebbe molto successo, tutti si muovevano con questa musica, Poi è arrivato il jerk. Il twist maliano e quello europeo non erano la stessa cosa, però si ballavano alla stessa maniera. Ero io stesso a comporre le canzoni. Le cantavo in francese e in bambara. Sono io che ho inventato tutto questo. Non abbiamo affatto copiato! In Mali avevamo molte musiche diverse, molti ritmi, molta arte, potevo mescolare due musiche maliane diverse e veniva fuori del twist». Generalmente Traoré non si presenta in scena né con un boubou tradizionale, né con un abito elegante, o qualcosa d’effetto, come si conviene ad una star africana che sotto i riflettori tende sempre a dichiarare il proprio status anche attraverso il modo di vestire, e può colpire, di primo acchito, vedere l’anziano musicista sul palco semplicemente in jeans e giubbetto dello stesso tessuto, a cui sulla testa accompagna una coppola: non è facile immedesimarsi subito, e rendersi conto che i jeans sono la divisa dei suoi vent’anni, e che nel petto di Boubacar Traoré, che ondeggia sul palco pizzicando le corde della sua chitarra acustica, batte il cuore di un rocker, che imbracciava la chitarra elettrica e che, all’epoca in cui i giovani andavano matti per il suo Mali Twist e spopolavano le sue session sulle frequenze di Radio Mali, veniva chiamato «bluson noir». Oppure Kar Kar, un soprannome che deriva dall’espressione in lingua bambara per indicare il dribbling: prima di diventare cantante Traoré è stato anche un apprezzato calciatore. «Avevamo dei 45 giri e dei 33 giri – è sempre la testimonianza di Traoré – dei Beatles, dei Rolling Stones, di Johnny Hallyday, Otis Redding, Jimi Hendrix, Elvis Presley, Bill Haley. Ascoltavamo anche dei successi inglesi: Them, Kings, Troggs...». Nato a Kayes, Traoré assapora il successo fino al ’68, anno della caduta di Modibo Keita – inviso per il suo progressismo agli ex colonizzatori – per poi conoscere l’amarezza dell’ostracismo di cui è vittima per aver abbondantemente celebrato nelle sue canzoni il grande leader. Poi una piccola bottega e anche l’umile attività di coltivatore, per tirare avanti. Nell’87 sembrerebbe suonata 3 l’ora della resurrezione: una apparizione televisiva lo riporta di prepotenza alla ribalta, e nell’89 viene pubblicato il suo primo album internazionale. Ma proprio allora muore di parto l’adorata moglie Pierrette: una tragedia che spingerà Traoré a sfuggire ai suoi ricordi, e a se stesso. Per tre anni è a Parigi, fra Belleville e La Villette, campando come operaio. Si sparge anche la voce che sia morto, mentre dei produttori inglesi lo cercano invano in Mali. Alla fine viene rintracciato nella capitale francese, e negli anni novanta per Traoré si apre una nuova stagione. Con grande densità di scrittura e rara capacità di immedesimazione, la patetica storia di Boubacar Traoré è stata raccontata dalla scrittrice olandese Lieve Joris nel suo libro che come titolo porta un binomio da considerare ormai proverbiale, Mali Blues (lo si può leggere in traduzione francese: Mali Blues, Actes Sud, 1999). Il racconto di Lieve Joris ha ispirato il film di Jacques Sarasin, Je chanterai pour toi, in cui Boubacar Traoré percorre il Mali ripercorrendo il proprio passato, tra Kayes, Bandiagara, la capitale Bamako, e Niafunké dove ritrova Ali Farka Toure. Al principio del racconto della Joris, al termine di un concerto Traorè si allontana accompagnato proprio da Ali Farka, che, fresco reduce dal grammy per l’album con Ry Cooder, nondimeno porta rispettosamente la chitarra al più anziano collega. Col retroterra di una innovazione della musica del continente dissodata dalla generazione di Boubacar Traoré, Lokua Kanza rappresenta invece lo stadio in cui la musica africana, portata a completa maturazione la sua modernità, può anche scegliere di svincolarsi da un proprio specifico ambito stilistico, per quanto contaminato, e può – in un certo senso – arrivare persino ad uscire da se stessa. «A otto anni ero affascinato da una corale di chiesa, in cui cantavano dei bambini della mia età – ci raccontava anni fa Lokua Kanza – lo trovavo magnifico, e allora ho chiesto se potevo farne parte. Mi hanno fatto provare e mi hanno preso. È così che ho cominciato, cantando ogni domenica in chiesa. A tredici anni poi ho cominciato a suonare il flauto diritto, a quattordici la chitarra, sono entrato in conservatorio e ho studiato chitarra classica». Viene in mente Manu Diubango, che, nella sua autobiografia, ricorda come, studente in Europa, quando gli capitava di ascoltare Bach provava una struggente nostalgia per Douala e per il Cameroun: niente di più lontano dallo stereotipo dell’africano tutto ritmo e tamburi. Nato a Bukavu, nell’attuale Repubblica Democratica del Congo, Kanza studia musica nella Kinshasa della sua adolescenza; in una famiglia in cui si fa fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, e non ci si possono permettere dei dischi, ascolta alla radio Beatles, Led Zeppelin, James Brown, Stevie Wonder, Nat King Cole. «Poi ho imparato a suonare la chitarra nello stile della rumba (la rumba congozairese, ndr), ho fatto molto soukouss nei locali notturni, a diciannove anni lavoravo come chitarrista di Abeti Masikini, la grande cantante; nell’82 sono andato in Costa d’Avorio, e ad Abidjan ho lavorato al Casinò e in un hotel». Insofferente ai cliché della musica zairese, nell’84 Kanza arriva a Parigi, frequenta una scuola di jazz e incontra Ray Lema, uno dei più spregiudicati protagonisti della musica africana contemporanea, con cui suona per tre anni; collabora poi con Manu Dibango, decano della musica africana in Europa, e comincia quindi a volare con le proprie ali. Da tutto questo variegato percorso, il cantante e chitarrista zairese ha finito per distillare una originale poetica, molto distante dal cliché della ‘musica africana’. E, con tanta esperienza di chitarra elettrica nella rumba, ha poi invece maturato una spiccata propensione per la chitarra acustica. Con le doti e la cultura di un sofisticato pop singer europeo, ma anche con la conoscenza vissuta della musica africana, l’invidiabile padronanza di diverse lingue (francese, inglese, lingala, swahili), un’eccellente sicurezza vocale e strumentale, e la libertà mentale ed estetica che gli consente di muoversi fuori dagli schemi, Lokua Kanza ha consolidato una inclinazione intimista ma cordiale, lirica, venata di malinconia. Lokua Kanza si è così qualificato come uno degli esponenti più in vista di una giovane 4 generazione di musicisti del continente determinati a sfuggire allo stereotipo del musicista africano. Certo la sua è musica che non manca di personalità e di identità: identità però scelta e non data in partenza e una volta per tutte, raggiunta – come il mondo di oggi suggerisce opportuno – tenendosi in equilibrio sul crinale che corre tra le radici, con tutta l’importanza che ha conoscerele e non perderle di vista, e la libertà individuale di definirsi secondo criteri autonomi. Anche in questo senso la musica di Lokua Kanza non va confusa con gli ibridi proposti da diversi artisti del continente, ansiosi di rendere più commestibile la loro musica per il pubblico occidentale: Lokua Kanza propone la sua musica, molto vicina per certi versi ad un gusto pop anglosassone, non per opportunismo – è una musica fine, con cui non è comunque facile ottenere successo - ma proprio perchè la sua sensibilità lo porta in quella direzione. L’Orchestre National de Barbès rappresenta infine lo stadio della musica del continente – nel caso specifico maghrebina – che si inserisce direttamente nella scena musicale europea, e che costituisce un aspetto dei flussi migratori degli ultimi decenni e del consolidarsi di una ‘seconda generazione’ immigrata: nel suo nome il gruppo richiama il quartiere di Barbès (tradizionalmente la Goutte d’or, oggi chiamato Barbès per via del Boulevard che lo delimita su un lato e della denominazione della corrispondente stazione della metropolitana), nel quale già negli anni ottanta si registrava la più densa concentrazione di immigrati, in particolare maghrebini, dentro i limiti urbani della capitale francese, con una decisa trasformazione della fisionomia di tutta un’area della vecchia Parigi. L’Orchestre National de Barbès si forma nella seconda metà degli anni novanta attraverso l’aggregazione di musicisti immigrati dal Nordafrica, Algeria soprattutto e Marocco, di muscisisti di seconda generazione cresciuti a Parigi, di strumentisti che operano nel tessuto del meticciato musicale della capitale, nei gruppi di matrice africana e araba. Il fenomeno di una musica legata all’immigrazione maghrebina non era nuovo oltralpe: diversi artisti avevano dato voce per esempio all’emigrazione dall’Algeria già prima dell’indipendenza della colonia francese, ma si trattava di artisti interni ad una dimensione strettamente comunitaria. Con formazioni come l’Orchestre National de Barbès siamo invece ad un protagonismo musicale che non solo non è confinato dentro una singola appartenenza comunitaria ed è invece trasversale rispetto alle comunità maghrebine e in generale arabe, riflettendo il nuovo melange che si configura nella dimensione metropolitana; ma che mentre soddisfa il bisogno di una nuova identità – interessata a quella di provenienza della propria famiglia ma anche aperta e inedita – dei giovani beur (la seconda generazione di origine araba) vuole anche comunicare al di fuori del mondo dell’immigrazione, e rivolgersi a tutta l’audience potenziale, anche con l’idea di trasmettere un’immagine positiva dell’immigrazione e della multiculturalità, in contrasto con quella veicolata dalla visione xenofoba e da un partito come il Front National di Le Pen (sullo sfondo di un’esperienza come quella dell’Orchestre National de Barbès non è difficile riconoscere le premesse culturali create negli anni ottanta dalle mobilitazioni dei giovani beur e da SOS Racisme). Specchio delle nuove dinamiche di ridefinizione di sé, a cavallo fra riscoperta orgogliosa delle proprie origini da parte della seconda generazione e fluidità identitaria, la musica dell’Orchestre National de Barbès offre un mix di chaabi, la corrente musica popolare del Maghreb, di musica gnaoua, propria delle comunità di origine neroafricana che, in particolare in Marocco, mantengono una loro specificità di tradizioni, di raï, la musica carica di contenuti oggettivamente contestatari che ha fatto furore fra i giovani algerini a partire dagli anni ottanta, ma anche di reggae, di ska, di rock. Ma un mix di elementi fra musiche locali, e rock e pop internazionali – è, già prima della loro immigrazione, presente nella biografia artistica di diversi dei musicisti che poi concorrono alla costituzione dell’Orchestre National de Barbès. In forme e in gradi diversi, quindi, tutti i protagonisti di African Day propon5 gono a partire dalla geografia musicale dell’Africa degli esempi estremamente significativi, addirittura a loro modo ‘storici’, di dialettica di tradizione e innovazione, e di autonoma – nel caso di Lokua Kanza più individuale, nei casi di Boubacar Traoré e della ONB come elaborazione immersa in processi sociali e culturali generali – ridefinizione della propria identità. Marcello Lorrai* *Marcello Lorrai (Milano, 1955) lavora dal 1985 a Radio Popolare. Collabora con «Il giornale della musica», «Rolling Stone», Nigrizia e Radio Svizzera occupandosi principalmente di jazz e di musica e cultura in Africa e a Cuba. 6 Lokua Kanza Niente da dimostrare riguardo Lokua Kanza. Nessuna ostentazione. L’uomo è pudico, di apparenza serena; di umore meditativo, sembra vivere in assenza di gravità. Risparmia le parole, guarda, ascolta, sorride e da un movimento d’espressione dei suoi occhi neri e penetranti rivela una parte della sua vita privata: la forte luce interiore che alberga in lui, i cui i raggi trasportano di punto in bianco felicità e sofferenza, lacrime e sorrisi, dubbi e rivelazioni, paure e speranze, rivolte e rispetto, compassione e, soprattutto, amore. Con la A maiuscola. Uno sguardo al suo passato: nasce a Bukavu (attuale RDC, Repubblica democratica del Congo). Il padre di Lokua, uno dei primi uomini dello Zaire a comandare una nave sul grande fiume Congo, è di etnia Mongo, innamorato della polifonia. Sua madre, nativa delle montagne del Rwanda, paese celebre per la raffinatezza della sua musica di corte. Entrambi lo sensibilizzano sin dai suoi primi giorni alla bellezza delle melodie. Apprendimento del canto nelle chiese, ascolto della musica alla radio, in televisione, per strada, nei club, ai concerti: «A 13 anni ho visto Miriam Makeba sul palco ed è quella sera che ho deciso di diventare un cantante». Il suo amico Ray Lema gli regala la sua prima chitarra, da adolescente fa le sue prime apparizioni pubbliche nelle orchestre di rumba zairese. Poi parte per perfezionarsi al conservatorio di Kinshasa, dove familiarizza con il solfeggio, la composizione, l’armonia, l’orchestrazione e dove perfeziona anche la sua conoscenza strumentale. I suoi professori lo definiscono ‘brillante’, ‘lavoratore’, con ‘le orecchie grandi aperte’ (dal jazz a Bach, dal rhythm’n blues alle tradizioni del Continente Nero, dai refrain di Bollywood al pop anglosassone, dalla varietà francese alla bossa-nova, tutto lo incanta e lo appassiona), ‘costantemente in ricerca’. In due parole: ‘molto talentuoso’. Oltre alle chitarre e ai mandolini (acustici ed elettrici, classici, tradizionali e moderni), Lokua maneggia da esperto la sanza, il piano, le tastiere, il basso, le percussioni, il flauto. Il giovane uomo comincia a tracciare un solco lungo il Golfo di guinea, dallo Zaire alla Costa d’Avorio (risiede due anni a Abidjan), si distingue nella formazione della grande cantante zairese La Reine Abéti. 1984: fine del mondo. Lokua va a Parigi per seguire i corsi del chitarrista jazz Pierre Cullaz (CIM). Rapidamente, il polistrumentista mescola la sua voce a quelle della comunità musicale africana, accompagna Ray Lema (appare nel suo album Bwana Zoulou Gang), Papa Wemba, Sixun, Manu Dibango… Autore e compositore, scrive molto per gli uni e per gli altri e si costruisce pian piano un suo repertorio personale. Autore e compositore, scrive molto per glu uni e per gli altri e si costruisce pian piano un suo repertorio personale. Tiene il suo primo grande concerto parigino nel 1992 all’Olympia, en vedette américaine d’Angélique Kidjo. L’album Lokua Kanza prima opera personale, è registrato alla fine del 1992 e pubblicato un anno più tardi. Successo enorme. All’inizio del 1994 la stampa si dichiara «affascinata», «sotto choc», «ammaliata», «allucinata», «rinvigorita», il bardo è diventato una star e si vede assegnare a Libreville (Gabon) il premio Migliore album africano agli African Music Awards. Firmato con la BMG, Lokua apre gli spettacoli di Jean-Louis Aubert, Patrick Bruel et Youssou N’Dour (segue il cantante senegalese in tournée a New York e suona nel suo cd Wommat, registrato a Dakar) dei quali, sfida poco comune, seduce istantaneamente i rispettivi pubblici, che inizialmente sembravano opporsi. Compie un grande passo quando coproduce con Stephen Hague (Wet Wet Wet, New Order, Erasure, Jimmy Sommerville), negli studi britannici di Peter Gabriel, a Bath, due session dei suoi amici Papa Wemba (Emotion, per il quale riceve il premio di Migliore arrangiatore africano) e Geoffrey Oryema (Night and day). Prova che precede Wapi Yo nel 1995, secondo favoloso successo, album totalmente intriso di melodie fatate, trovate strumentali e voci sorprendenti, il tutto rivestito di arrangiamenti di seta. Una miniera di hit, prime fra tutte Shadow dancer e Sallé, che vale a Lokua Kanza tre nomination 7 all’undicesima edizione dei Victoires de la musique. Seguiranno una serie di tournée nel mondo intero, dal Senegal alla Spagna, dalla Germania al Canada, dal Brasile a Los Angeles, scandite da momenti cruciali: la Festa a Lokua, nel luglio 1996, al Francofolies della Rochelle, dove Lokua duetta con Catherine Lara, Enzo Enzo, Papa Wemba et Youssou N’Dour; il festival di Montreux, lo stesso anno; l’Heineken Festival di San Paolo, nel 1997, occasione unica per unire la sua voce a quelle di Djavan, Al Jarreau e Chico César. Senza dimenticare diverse altre collaborazioni: è ospite nell’album Hors saison di Francis Cabrel (1999), duetta con la cantante israeliana Noa (Noa Now, 2001) e compone un titolo per Nana Mouskouri (Fille du soleil, 2002). Sul piano discografico, tuttavia, trascorrono cinque anni prima che l’artista trovi nella Universal Jazz France un partner in grado di accordargli una totale fiducia, lasciandogli gestire come desidera la sua musica. Nel 1998 ripubblica il suo terzo compact, 3, passato quasi sotto silenzio a seguito di grossi errori di promozione e distribuzione. Nel 2003 esce Toyébi Té, un fiammeggiante acquarello, terza grossa performance commerciale di Lokua Kanza. Prima di tornare in studio all’inizio del 2004 per Plus vivant, il cantante ha di nuovo accorciato la strada tra l’Europa e l’Africa, ha partecipato all’avventura This is our music accanto a Salif Keita, Natalia M. King, Akosh S., Mino Cinélu, Marcio Faraco e ha registrato per No Format, divisione della Universal Jazz, l’elegantissima Toto Bona Lokua in compagnia di Richard Bona e Gérald Toto, trio che ha calcato i palchi del Nord e del Sud per tutta l’estate. Il cantante (chitarrista, compositore, arrangiatore, autore e produttore) Lokua Kanza, trovatore meticcio di padre congolese e di madre ruandese, in Francia da venti anni, ritorna sulle scene all’inizio del 2005 con Plus vivant, la sua quinta produzione personale e la sua seconda collaborazione con Universal Music Jazz France. L’opera è espressione di un grande musicista che si afferma come cittadino del mondo, artista senza frontiere e creatore di transculture: «Io sono espressione del mio vero istinto ed è ciò che mi ha portato oggi a cantare in francese». Esclusivamente interpretato nella lingua di Verlaine e Rimbaud, il nuovo lavoro di Lokua offre al concetto di métissage un’incarnazione pura e incontestabile, che propone una fusione perfetta (ossia impercettibile) tra il Nord e il Sud e ricrea alla sua maniera l’unicità che un tempo fu dei nostri antenati comuni. Un disco arrangiato in modo superbo, quindici titoli interpretati con un cuore enorme ed eseguiti in compagnia di indubbi talenti quali i chitarristi Sylvain Luc e Pepe Fely Manuaku (uno dei grandi genitori e virtuosi della rumba zairese), il bassista Richard Bona e il batterista Manu Katché, riconosciuto a livello internazionale, il percussionista Sola (compagno di strada di Jamiroquaï) e Corneille per l’omonimo brano, assolutamente emozionante. www.lokua-kanza.com 8 Boubacar Traoré Boubacar Traoré, detto Kar Kar, è una contraddizione armoniosa, un musicista di cui l’arte e la biografia sorprendono più per gli estremi che per l’equilibrio. Un idolo per tutta la costa africana occidentale negli anni Sessanta, dimenticato negli anni Settanta, riscoperto negli anni Ottanta e Novanta, complici le lunghe tournée in Europa e negli Stati Uniti. Nel corso della sua carriera è stato paragonato a numerose star della musica pop. È stato accostato a Elvis Presley, così come a Robert Johnson, Johnny Hallyday o Chuck Berry. Possiamo qualificare la sua musica come blues? Tutti questi paragoni dimostrano come sia impossibile definire le canzoni di Kar Kar. Tanto gli europei quanto gli americani hanno bisogno di tali confronti per comprendere un artista che, fondamentalmente, rappresenta un vero e proprio mondo musicale a sé. La sua musica non può essere catalogata come blues, inteso alla maniera occidentale, e non è nemmeno funky come quella del Padre del Soul James Brown, al quale viene talvolta paragonato. In tutto e per tutto, blues è una definizione di cui la sua musica gode in casa, nel Mali, tra i suoi colleghi e i suoi compatrioti. Solo se si considera il termine blues non come forma musicale ma come espressione di sentimenti, è possibile accostarsi al suo suono. Kar Kar fa quello che ha sempre voluto fare: musica. Per lui sono le melodie, le canzoni che il suo strumento accompagna cantando la seconda voce. «La chitarra mi ha attirato come per magia», così prova a spiegare il legame con il suo strumento. Negli Stati del Sud non si sentono interpretare gli accordi di blues dei cantanti con le stesse affinità musicali della sua chitarra. La sua chitarra crepita come una kora. D’altra parte, il blues del Mali non ha le stesse strutture che conosciamo della versione americana. Blues serve come termine generale, quale tentativo di spiegazione, dal momento che il Kassonké, genere musicale con il quale è cresciuto Traoré, non può rappresentare una descrizione comprensibile a tutti. Nella musica di Kar Kar si sentono le sue origini del Mali occidentale, Kayes, la sua patria e la sua nostalgia. Il suo amore per questa patria e i suoi abitanti è grande anche se di tanto in tanto critica duramente gli amministratori del Paese e i suoi compatrioti. Nelle storie calme delle sue canzoni sono raccontati quarant’anni duri e pieni di tribolazioni. Eppure sono il calore e l’amore a dominare. Kar Kar è un cantastorie e, dal momento che si rifiuta di dare delle spiegazioni, interpretare queste storie non è un compito facile, se vogliamo comprenderne il senso profondo. Parla delle tradizioni africane, permeate di un simbolismo e di un esotismo che difficilmente svelano i propri segreti ai bianchi. Canta l’amore in tutte le sue sfumature umane e tragiche, l’amore per la sua prima moglie deceduta, per i suoi bambini, senza che il dolore – che pesa sul destino tragico della sua storia – appesantisca o faccia soccombere le sue canzoni sotto il peso dell’afflizione. Boubacar Traoré non è un musicista le cui canzoni possono essere spiegate, ma va analizzato per immagini e stati d’animo. È necessario abbandonarsi anima e corpo. E allora sarà forse possibile fare l’esperienza di un’Africa al di là dei cliché e dei pregiudizi. 9 Orchestra National de Barbès L’Orchestra National de Barbès assomiglia più a un’idra musicale che a una formazione. Composta da una ventina di membri, l’ONB è una struttura a geometria variabile. A seconda della disponibilità dei musicisti, una sera possono esserci tre chitarristi che conferiscono alla musica una colorazione africana, mentre il giorno successivo uno di loro può essere sostituito da un violinista. Algeria, Marocco, Mali, Senegal: l’Orchestra National de Barbès è la sintesi dei diversi idiomi musicali, il tutto in un gioioso mélange. Alla base dell’Orchestra National de Barbès c’è tutta una serie di incontri e di personaggi alti a colori. Youcef Boukella, innanzitutto, originario di un quartiere di Algeri chiamato Belcourt. Arriva a Parigi in piena effervescenza Raï e accompagna Cheb Mami e il jazzista Safy Boutella. C’è anche Larbi Dida, una delle grandi voci delle notti arabe parigine, e ancora Aziz Sehmaoui, sufi nutrito dai ritmi africani e dal pop inglese; senza dimenticare Kamel, percussionista e re della rima reggae. Infine Fateh, in esilio dall’Algeria. A questo nucleo vanno ad aggiungersi i compagni, gli amici, coloro che condividono le stesse idee. Giungendo al dunque, «perché Barbès»? «Perché Barbès, recita la copertina del loro disco, è una parte d’Africa dispersa ai piedi del Sacro Cuore. Si trovano il couscous e il pollo, i bar fumosi e le antenne paraboliche». Un gioiosa banda di dodici musicisti che si scatenano sulla base di un frenetico mix musicale, che va dalla tradizione dei Gnawa al jazz, passando per il raï, lo chaâbi e il rap. Una storia che risale al 1995 e, malgrado la loro predilezione per il palco, specialmente per quanto riguarda l’album live Barbès (1997), si sono rivelati brillantemente in studio con Paulina (1999) e Alik (2008). La storia comincia nel 1987, quando Youssef Boukella, bassista del jazzista Jeff Gardner e originario d’Algeri, arriva a Parigi. Il genere raï sta conquistando il pubblico francese, aldilà la comunità maghrebina. Molto rapidamente, Youssef si fa notare accanto a Cheb Mami e a TakFarinas. È a partire da una sala prove di periferia, tuttavia, che si va a costituire l’idea dell’ONB intorno a Youssef e a quattro cantanti, nel 1995. Larbi Dida, ex cantante del Raïna Raï; Fateh Benlala, che ha dovuto lasciare la situazione calda di Algeri, dove si è formato musicalmente con i ritmi chaâbi; Aziz Sehmaoui, giovane marocchino di tradizione Gnawa; Kamel Tenfiche, nato in Francia, dove è cresciuto intriso di cultura rap. Personaggi chiave nell’evoluzione della musica del gruppo, il sassofonista dei Sixun Alain Debiossat, il chitarrista Olivier Louvel, il tastierista Jean-Baptiste Serré – musicisti francesi – e Tewfik Mimouni, apportano rispettivamente i colori del jazz e il rock. Il concept dell’Orchestra National de Barbès è creato da una piccola squadra ben decisa ad abbattere i vecchi cliché spregiativi nei confronti dei maghrebini, la Bougnoule Connection. Il segreto del successo dell’ONB risiede nella straordinaria facoltà di servirsi, per la costruzione del proprio repertorio, di improvvisazioni di ogni musicista durante i concerti. Anche il pubblico, coinvolto nella danza, gioca il suo ruolo e il successo dell’ONB è confermato da un primo album live, Barbès, pubblicato da Virgin France nel 1997. Questo primo disco è immediatamente seguito dai concerti alla Cigale e alla Grande Halle della Villette, poi da una tournée che passa per festival quali Printemps di Bourges, Musiques Métisses di Angoulême o la Jeunesse di Ivry-sur-Seine, che confermano il talento di ognuno. Consolidano il loro successo in Europa e negli Stati Uniti nel luglio 1998, con un’apparizione al Summerstage Festival di Central Park a New York. Nel 1999, il secondo album Poulina sancisce l’addio di Larbi Dida, sostituito da Medhi Askeur. Nello stesso anno si esibiscono all’Olympia e allo Zénith di Parigi. Alik, terzo album, esce nel 2008. È l’album della maturità e del cambiamento, composto da Youcef Boukella, Kamel Tenfiche, Tewfik Mimouni e da Medhi Askeur, rende omaggio a tre grandi cantanti algerini: Mohamed Larbi (detto Cheikh Mamachi), Slimane Azem e Mohamed Mazouni. Ma l’ONB è ormai un collettivo di dodici musicisti e sono dunque 10 presenti anche Fatah Benlala, Fathellah Ghoggal alla chitarra knopflérienne, Khlif Miziallaoua, Ahmed Bensidhoum alle percussioni, Michel Petry alla batteria e Mustapha Mataoui alle tastiere. Dodici individualità che apportano ciascuna un tocco particolare alla musica, generando un mélange di sonorità dalle molteplici influenze, dal raï al gnawa, dallo chaâbi al rock e al groove. Ma per loro niente eguaglia il palco, dove possono dare libero corso al loro temperamento festoso e alla gioia di suonare. 11 Il FAI – Fondo Ambiente Italiano presenta i luoghi di MITO SettembreMusica Teatro Manzoni Lo storico Teatro Manzoni nasce nel 1850 in piazza San Fedele, alle spalle di Palazzo Marino, con il nome di ‘Teatro Sociale di Milano’, per volere di sette noti cittadini milanesi, i nobili Luigi Rivelli, Luigi Cusani, Alessandro Melzi, il marchese Apollinare Rocca Saporiti, il conte Leopoldo Pullè, l'ingegner Carlo Cereda e il signor Antonio Mazzorin. L’intento era quello di creare un teatro di prosa che portasse su un palcoscenico milanese la grande tradizione della Commedia italiana e straniera. Fu il primo teatro in Europa ad avere le sue quattro fila di palchi illuminati elettricamente, per un totale di 1050 posti. Il Teatro Sociale nel 1873, alla morte di Alessandro Manzoni, fu rinominato e intitolato in onore dello scrittore, che portò, oltre al nome, fortuna alla nuova programmazione teatrale, più seguita dal pubblico milanese. Le sue scene furono calcate tra gli altri da Eleonora Duse, che interpretò la prima opera di D’Annunzio per questo teatro, La Gioconda. L’agosto del 1943 vide interrompere improvvisamente la programmazione teatrale, per una bomba che distrusse l’edifico. Nel dopo guerra l’intensa attività di ricostruzione coinvolse anche gli edifici teatrali, e il nuovo teatro Manzoni sorse sulla via omonima, all’interno di un più ampio complesso architettonico denominato ‘Centro Eva’. In considerazione dell’importanza dell’iniziativa architettonica e commerciale, il progetto fu affidato all’architetto bergamasco Alziro Bergonzo. La progettazione dell’edificio, sviluppato otto metri sotto il livello stradale e costato l’imponente cifra di 60 milioni del tempo, fu lunga e complessa, e impiegò l’architetto tra il 1947 e il 1950. Il 20 ottobre 1950 fu inaugurato con uno spettacolo dell’American National Ballet, e fu poi affidato alla cura scientifica di Remigio Paone, che alternò nella sua programmazione la prosa, alla rivista, al teatro leggero. Determinanti furono per la realizzazione di tale opera le collaborazioni con gli scultori Messina, Conti, Lodi e Fazzini, e con i pittori Nicolò Segota, Ghino Baragatti e Achile Funi, al quale fu assegnata anche l’identificazione degli spazi da affrescare. Il nuovo Manzoni che aveva capienza di 1.100 posti, suddivisi tra le 758 poltroncine in platea e 27 palchi disposti su un ordine, non più su quattro come prima, fu ammirato per la sua ottima acustica, per le sontuose decorazioni, nonché per le tecniche costruttive e decorative uniche nell’Europa di quegli anni. Scendendo sotto il livello stradale, si arrivava in un atrio di color rosso pompeiano, illuminato da lampadari a muro realizzati in oro antico. Tra i nomi più celebri degli ospiti del ‘Teatro di via Manzoni’ citiamo Eduardo De Filippo, Jean Louis Barrault, Madeleine Renaud, Gerard Philippe, Vittorio Gassman, Valeria Moriconi, Gabriele Lavia, Giorgio Albertazzi, Gian Maria Volontè, Aldo e Carlo Giuffrè, Ombretta Colli, Gigi Proietti, Ornella Vanoni, Monica Vitti, Ugo Tognazzi, Mariangela Melato, Sergio Castellitto e Franco Branciaroli. Si ringrazia www.fondoambiente.it 12 13 eni partner Festival MITO SettembreMusica dal 3 al 22 settembre 2011 14 eni.com 15 MITO SettembreMusica è un Festival a Impatto Zero® Il Festival MITO compensa le emissioni di CO2 con la creazione e la tutela di foreste in crescita in Costa Rica e contribuisce alla riqualificazione del territorio urbano del Comune di Milano MITO SettembreMusica anche quest’anno rinnova il proprio impegno ambientale al fianco di Lifegate, una scelta che contraddistingue il Festival fin dalla sua nascita. Per la sua quinta edizione MITO SettembreMusica ha deciso di sostenere due interventi di importante valore scientifico e sociale. A Milano, a conferma dello stretto legame con la città, MITO SettembreMusica interviene nel progetto di riqualificazione dei Navigli con la donazione di un albero per ogni giorno del Festival. L’area d’intervento si trova lungo l’Alzaia del Naviglio Grande. L’iniziativa fa parte di un progetto promosso dall’Associazione Amici dei Navigli, in accordo con la Regione Lombardia Assessorato ai Sistemi Verdi e Paesaggio, e prevede la piantumazione sul fronte urbano del Naviglio Grande, da Corsico a Milano fino al Ponte di via Valenza, di filari di alberi di ciliegio. MITO SettembreMusica contribuisce alla creazione e alla tutela di 124.000 metri quadrati di foresta in crescita in Costa Rica, un territorio che si contraddistingue per un’elevata biodiversità, con il 4% di tutte le specie viventi del pianeta, in una superficie pari solo allo 0,01% delle terre emerse. L’attività di deforestazione che ha devastato il territorio negli ultimi 60 anni è stata arginata e grazie a questa inversione di tendenza, il 27% del territorio del Paese è attualmente costituito da aree protette. In collaborazione con 16 Disegniamo... la musica! Un’iniziativa di MITO Educational «Qual è la fiaba musicale che vi piace di più? Avete visto un bel concerto o uno spettacolo, suonate uno strumento o cantate in un coro? Raccontateci le vostre esperienze con tutta la vostra fantasia e creatività». Più di trecento bambini dell’età tra i 4 e gli 11 anni hanno risposto a questo appello del Festival MITO SettembreMusica inviando i loro disegni. Guidati dalle maestre nelle scuole elementari, in modo del tutto autonomo o assieme ai loro genitori, hanno raccontato, in una serie di disegni pieni di fantasia e di colori, la loro curiosità per la musica, le proprie esperienze di piccoli spettatori, un concerto o uno spettacolo particolarmente bello e il piacere di imparare a suonare uno strumento. In ogni programma di sala MITO SettembreMusica propone uno dei disegni pervenuti al Festival. Questo disegno è stato inviato dalla classe III B della Scuola Ortigara 17 MITO SettembreMusica Promosso da Città di Milano Giuliano Pisapia Sindaco Città di Torino Piero Fassino Sindaco Stefano Boeri Assessore alla Cultura, Expo, Moda e Design Maurizio Braccialarghe Assessore alla Cultura, Turismo e Promozione Comitato di coordinamento Presidente Francesco Micheli Presidente Associazione per il Festival Internazionale della Musica di Milano Vicepresidente Angelo Chianale Presidente Fondazione per le Attività Musicali Torino Giulia Amato Direttore Centrale Cultura Direttore Settore Spettacolo Anna Martina Direttore Divisione Cultura, Comunicazione e Promozione della Città Angela La Rotella Dirigente Settore Spettacolo, Manifestazione e Formazione Culturale Enzo Restagno Direttore artistico Francesca Colombo Segretario generale Coordinatore artistico Claudio Merlo Direttore generale Realizzato da Associazione per il Festival Internazionale della Musica di Milano Fondatori Alberto Arbasino / Gae Aulenti / Giovanni Bazoli / Roberto Calasso Gillo Dorfles / Umberto Eco / Bruno Ermolli / Inge Feltrinelli / Stéphane Lissner Piergaetano Marchetti / Francesco Micheli / Ermanno Olmi / Sandro Parenzo Renzo Piano / Arnaldo Pomodoro / Davide Rampello / Massimo Vitta Zelman Comitato di Patronage Louis Andriessen / George Benjamin / Pierre Boulez / Luis Pereira Leal Franz Xaver Ohnesorg / Ilaria Borletti / Gianfranco Ravasi / Daria Rocca Umberto Veronesi Consiglio Direttivo Francesco Micheli Presidente / Marco Bassetti / Pierluigi Cerri Francesca Colombo / Roberta Furcolo / Leo Nahon / Roberto Spada Collegio dei revisori Marco Guerreri / Marco Giulio Luigi Sabatini / Eugenio Romita Organizzazione Francesca Colombo Segretario generale, Coordinatore artistico Stefania Brucini Responsabile promozione e biglietteria Carlotta Colombo Responsabile produzione Federica Michelini Assistente Segretario generale, Responsabile partner e sponsor Luisella Molina Responsabile organizzazione Carmen Ohlmes Responsabile comunicazione 18 Lo Staff del Festival Per la Segreteria generale Chiara Borgini Segreteria organizzativa / Roberta Punzi Referente partner e sponsor e Lara Baruca / Eleonora Pezzoli Per la Comunicazione Livio Aragona Responsabile edizioni / Mariarosaria Bruno Ufficio stampa Giulia Lorini Referente redazione web / Uberto Russo Ufficio comunicazione con Valentina Trovato / Elisabetta Villa e Lucia Aloé / Emma De Luca / Alessia Mazzini / Matteo Pisano / Riccardo Tovaglieri Per la Produzione Ludmilla Faccenda Responsabile logistica / Nicola Giuliani, Matteo Milani, Andrea Minetto Direttori di produzione con Elisa Abba / Francesco Bollani / Stefano Coppelli e Nicola Acquaviva / Michela Albizzati / Giovanna Alfieri / Silvia Ceruti / Federica Fontana / Luisa Morra / Maria Novella Orsanigo / Federica Simeon / Andrea Simet Per la Promozione e la Biglietteria Alberto Corrielli Gestione concerti gratuiti / Arjuna - Das Irmici Referente informazioni / Marida Muzzalupo Assistente promozione e biglietteria con Alice Boerci / Giulia De Brasi / Claudia Falabella / Silvia Masci / Monica Montrone / Alberto Raimondo e Fulvio Gibillini / Diana Federica Marangoni / Federica Luna Simone via Dogana, 2 – Scala E, II piano 20123 Milano telefono +39.02.88464725 / fax +39.02.88464749 [email protected] / www.mitosettembremusica.it 19 I concerti di domani e dopodomani Giovedì 15.IX Venerdì 16.IX ore 13 jazz Piazza San Fedele Break in Jazz Young Talents Alessandro Lanzoni Francesco Diodati Quartetto Alessandro Lanzoni, pianoforte Francesco Diodati, chitarra, effetti Gabriele Evangelista, contrabbasso Enrico Morello, batteria Ingresso gratuito ore 15 incontri Sede Amici del Loggione del Teatro alla Scala Impariamo ad ascoltare Incontro con Roberto Ciaccio, Antonio Ballista Partecipano Angelo Foletto, Paolo Bolpagni Coordina Francesca Colombo Ingresso gratuito fino a esaurimento posti ore 17 incontri Teatro Elfo Puccini, Sala Shakespeare Il “carattere” musicale: un itinerario nelle Sonate per pianoforte di Beethoven Conferenza di Alfred Brendel Ingresso gratuito fino a esaurimento posti ore 21 antica Teatro Franco Parenti L’incoronazione di Poppea Claudio Monteverdi Valentina Coladonato, soprano (Poppea) Martina Belli, mezzosoprano (Nerone) Alberto Allegrezza, tenore (Arnalta) Marta Fumagalli, mezzosoprano (Ottavia) Alessandro Giangrande, controtenore (Ottone) Ugo Guagliardo, basso (Seneca) La Venexiana Claudio Cavina, direttore al clavicembalo In forma di concerto Posto unico numerato e 15 ore 21 classica CREMONA Teatro Amilcare Ponchielli Gaetano Donizetti, Gioachino Rossini, Giuseppe Verdi Quartetto di Torino Gianluca Turconi, Umberto Fantini, violini Andrea Repetto, viola Manuel Zigante, violoncello Paolo Borsarelli, contrabbasso Ingresso gratuito ore 21 Teatro Out Off Ólafur Arnalds Concerto Posto unico numerato e 10 ore 16 classica Chiesa di Sant’Alessandro Georg Friedrich Händel, Franz Joseph Haydn Orchestra dell’Università degli Studi di Milano Alessandro Crudele, direttore Antonio Frigé, organo Ingresso libero cinema ore 19 Auditorium San Fedele Chère Catherine, Moloch Tropical Raoul Peck Ingresso gratuito ore 21 classica Basilica di Santa Maria delle Grazie Fritz Kreisler, Niccolò Paganini, Pëtr Il’ič Čajkovskij Orchestra da Camera Italiana Salvatore Accardo, violino e direttore Ingressi e 15 ore 21 canzone d’autore Teatro Smeraldo Concerto! Massimo Ranieri, voce Posto unico numerato e 30 elettronica www.mitosettembremusica.it Responsabile editoriale Livio Aragona Progetto grafico Studio Cerri & Associati con Francesca Ceccoli, Anne Lheritier, Ciro Toscano 20 -4 Milano Torino unite per l’Expo 2015