Dott. Paolo Casali (Responsabile Struttura Semplice Trattamento Medico Sarcomi Adulto, Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori, Milano) Intervento al 1° Incontro nazionale A.I.G. “Approfondimento medico sui GIST: parliamone con i pazienti.” Milano, 1 Marzo 2008 La sperimentazione clinica e i nuovi farmaci in sviluppo Che cosa sono gli studi clinici? Spesso non c’è consapevolezza del fatto che un farmaco attraversa un iter anche molto lungo prima di arrivare in farmacia: un farmaco su diecimila arriva allo sviluppo clinico e di questi uno su dieci alla pratica clinica; dallo studio iniziale alla commercializzazione l’intervallo di tempo medio è di 10 anni, con costi fino a 150 milioni di euro. Non è facile oggi in Italia sviluppare un farmaco, arrivare cioè all’Autorizzazione all’Immissione in Commercio (AIC), che viene data dal Ministero della Salute, sulla base di una valutazione riguardante l’efficacia e la sicurezza del farmaco. La procedura, chiamata registrazione, prevede tutta una serie di studi effettuati prima sugli animali, poi sui volontari sani, infine sui pazienti, che dimostrino che il farmaco sia sicuro ed efficace. Tutto questo è nato in seguito alla tragedia della Talidomide, negli anno ’50 –’60. L’iter di questo farmaco fu: la sintesi nel 1954, la descrizione dell’effetto terapeutico nel ’56; il farmaco si prendeva per la cefalea. Lo presero donne in gravidanza e questo diede luogo alla nascita di 10.000 bambini malformati. Per questo motivo nel 1961 il farmaco fu ritirato dal commercio. Anni dopo, la Talidomide fu reintrodotta in uso, l’ente americano FDA ne autorizzò il commercio nel 1998 e oggi viene impiegata come un debole antiangiogenico anche in diversi pazienti oncologici, con chiaro divieto nell’uso in gravidanza. Da qui ebbe origine il meccanismo della registrazione dei farmaci. Per le malattie rare il problema è difficile, perché l’azienda farmaceutica non ha un mercato sufficiente a giustificare l’investimento necessario allo sviluppo di un nuovo farmaco; quindi, se il farmaco è indicato per una malattia rara, si dice che è un farmaco ‘orfano’. Sia negli Stati Uniti che in Europa ci sono delle norme che favoriscono lo sviluppo di farmaci orfani e sono essenzialmente: • • l’esclusività del mercato per 10 anni, che è un grande vantaggio per l’azienda in termini di ritorno economico; una certa assistenza nell’iter dello sviluppo. Un rischio registrativo alto per l’azienda giustificherà di meno l’investimento in una malattia rara di quanto potrebbe farlo in una malattia più frequente. In questo senso lo sviluppo di Glivec da parte di Novartis ha richiesto del coraggio aziendale, perchè era un farmaco sintetizzato per la leucemia mieloide cronica, che è una malattia rara. Nella prassi, un nuovo farmaco viene scoperto, trovato, sintetizzato e dopo parte la sperimentazione nell’animale; solo al termine della sperimentazione nell’animale inizia la sperimentazione nell’uomo, che ha due tipi di garanzia: non si partecipa ad alcuno studio clinico che non sia stato approvato da un comitato etico indipendente dalla struttura sanitaria che ha in corso lo studio. Il comitato etico non è formato solo da medici, ma anche da membri laici (filosofi, avvocati, magistrati, rappresentanti dei pazienti ecc.). la seconda garanzia è il consenso informato. La necessità di queste garanzie è nata da un’altra tragedia storica: le sperimentazioni nei campi di concentramento nazisti, durante la guerra. Dopo questa esperienza è stato definito il codice di Norimberga e diversi strumenti di controllo. Nessuno può partecipare ad uno studio clinico, ne’ può ricevere farmaci in via sperimentale, senza avere firmato il consenso “informato”, cioè l’informazione che il paziente riceve dal medico, deve essere consistente, chiara e comprensibile. Si parla di sperimentazione di Fase I, Fase II, Fase III, Fase IV prima di arrivare all’ingresso nello stato dell’arte di un nuovo farmaco. La Fase I è quella in cui si passa dall’impiego del farmaco nell’animale all’impiego nell’uomo; chiaramente è il momento più critico. Per i farmaci non oncologici spesso nella Fase I la sperimentazione viene effettuata su volontari sani; il soggetto riceve dosi sempre maggiori di farmaco, partendo da una dose certamente bassa, in modo da trovare la dose massima tollerata e la tossicità. In oncologia c’è il problema che i farmaci oncologici hanno una tossicità che non sarebbe eticamente proponibile per un soggetto sano e, quindi, fondamentalmente anche gli studi di Fase I vengono fatti soltanto in pazienti oncologici con malattia avanzata, senza altre possibilità di terapia. La somministrazione viene fatta a livelli di dose bassi che poi vengono incrementati. Sia l’effetto farmacologico che quelli tossici possono cominciare a vedersi a questi livelli. Determinata la dose, che per i farmaci biologici non necessariamente è la dose massima tollerata, (non è detto che più sia meglio; nei chemioterapici è così ma nei farmaci molecolari è diverso), si passa alla Fase II. Fase II: a quel punto si ha un farmaco di cui si conosce la dose da utilizzare, si conosce abbastanza la tossicità, anche se deve essere ulteriormente precisata e, quindi, si va a misurare l’attività antitumorale del farmaco, in una determinata patologia; per esempio molti studi che noi facciamo nei GIST sono studi di fase II. A questo stadio, il farmaco è noto per il suo profilo di sicurezza anche se sono possibili effetti collaterali ancora non completamente noti e bisogna vedere se funziona, se ha una attività antitumorale e se riduce il tumore (risposta). Nei GIST trattati con le terapie molecolari mirate il criterio dimensionale non è l’unico criterio di valutazione. Gli enti regolatori - FDA ed EMEA- però, non hanno accettato ancora questo punto di vista che per i clinici è scontato. Per questo motivo oggi più che la risposta, l’obiettivo della Fase II è il tempo alla progressione, posto che la progressione sia più facile da misurare. Il tempo alla progressione è, dunque, un criterio di attività antitumorale. La Fase III ha come obiettivo la misurazione della sopravvivenza e della qualità della vita. Nella Fase III bisogna capire, rispetto ad una certa popolazione, quanti pazienti traggono giovamento dal trattamento in termini di sopravvivenza; è difficile farlo senza uno studio randomizzato che è una procedura difficile da accettare per il paziente, ma è giusto capire che la logica che c’è dietro è molto seria. Nello studio randomizzato è casuale a quale “braccio” il paziente viene assegnato, cioè se riceve il trattamento A o il trattamento B; in linea di massima il trattamento B è il trattamento convenzionale e il trattamento A è il trattamento sperimentale. Il trattamento convenzionale può anche essere ‘nessun trattamento’, quello cioè che si farebbe se non ci fosse lo studio; l’assegnazione casuale del paziente è totalmente indipendente dal medico; in genere è un computer che compie l’assegnazione. Lo studio che ha portato alla registrazione di Sutent nei GIST fu uno studio versus placebo. I pazienti che cadevano nel braccio placebo, se avevano una progressione di malattia, ricevevano Sutent, quindi molti assegnati al braccio placebo, sono passati nel giro di un mese o due all’ altro braccio. In effetti c’è un problema al riguardo, perché anche se il placebo non è stato quasi mai usato in oncologia, comincia ad essere usato oggi. E’ una richiesta degli enti regolatori ed è un elemento che la comunità dei pazienti vive molto male, giustamente. Esiste un problema di smascheramento del placebo: è ovvio che un farmaco come Sutent dà effetti collaterali difficili da non rilevare anche quando si è in uno studio in fase iniziale . Dal punto di vista etico si richiederebbe il cosiddetto equipoise e cioè il fatto che il paziente possa decidere di entrare nello studio randomizzato o di non entrare. Se non entra, il paziente segue il trattamento fuori studio. Se accetta di entrare nello studio, ha per definizione il 50& di probabilità di ricevere il trattamento standard e il 50% di ricevere il trattamento nuovo. Lo scopo dello studio è quello di verificare se dell’efficacia del trattamento sperimentale sia superiore a quello standard. Certamente la cultura della decisione condivisa tra medico e paziente non è un principio vicino al concetto della randomizzazione; noi vorremmo prendere ogni decisione insieme col paziente e due pazienti a parità di condizione potrebbero prendere due decisioni diverse. Se invece entrano in uno studio randomizzato, è il caso che decide. Queste evidenze vengono recepite negli strumenti di stato dell’arte (si dice a volte che dietro una opzione terapeutica c’è una “forte evidenza”, perché ad esempio ci sono più studi randomizzati) ed entrano nelle linee guida per la pratica clinica. Le linee Guida sono uno strumento sempre più diffuso che sancisce lo stato dell’arte. In genere queste linee guide derivano da un consenso nell’ambito della comunità dei medici, basato sull’evidenza prodotta dagli studi clinici e risentono sempre di più della disponibilità economica del sistema sanitario. E’ noto che i farmaci usati in oncologia sono abbastanza costosi e viene seguito un principio di equa allocazione delle risorse. Oggi i sistemi sanitari dei paesi industrializzati tendono a corrispondere trattamenti che costino meno di 50.000 euro per ogni anno di vita guadagnato. Dal punto di vista del medico, al di là degli studi clinici e delle linee guida, la decisione sulla terapia da seguire in realtà non è così semplice. L’uso di questi farmaci può essere molto razionale, ci possono essere dei pazienti che esprimono un certo recettore, altri maggiormente sensibili ad un determinato farmaco a bersaglio molecolare ecc., quindi nella pratica la decisione è complessa e il medico ha a che fare con una serie di variabili che sono: - l’incertezza perché mancano gli studi; l’incertezza dell’informazione clinica: ci possono essere delle patologie complesse, ci possono essere delle comorbidità, il paziente può essere cardiopatico, il caso può essere atipico, soprattutto ci può essere l’elemento della volontà del paziente che diventa sempre più importante. Mi auguro, quindi, che la pratica clinica non sia vista come la mera applicazione di una serie di algoritmi, ma come qualcosa di più complesso in cui prende parte anche la condivisione della decisione con il paziente, sulla base di elementi che sono assolutamente individuali. Questo è l’obiettivo della medicina contemporanea . Per completezza di informazione, si intende per Fase IV di uno studio clinico la fase post marketing, che in oncologia è molto rara; si tratta dello studio condotto su un farmaco dopo la registrazione e sostanzialmente ha a che vedere con i farmaci di largo uso, per cui ci sono pochissimi studi di fase IV in oncologia . §§§