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CAPITOLO QUARTO
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I FONDAMENTI BIOLOGICI DEL LINGUAGGIO
E LE PATOLOGIE
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Sommario: 1. Linguaggio e cervello. - 2. Fisiologia del linguaggio. - 3. Le patologie
del linguaggio orale: le afasie. - 4. Le patologie del linguaggio scritto: dislessie e
disgrafie.
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1. LINGUAGGIO E CERVELLO
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Fin dall’antichità sono state avanzate teorie sulle relazioni tra cervello e
linguaggio, ma solo da circa un secolo e mezzo le conoscenze su questa
relazione hanno acquisito una sistematicità e una consistenza scientifiche.
All’origine di questo studio scientifico ci sono stati soprattutto gli studi
sull’afasia condotti nel secolo XIX, in particolare da Broca e da Wernicke,
i cui nomi sono rimasti legati a due specifiche aree della corteccia cerebrale, preposte al linguaggio.
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A) Il cervello umano e la corteccia cerebrale
Il cervello degli esseri umani è un organo straordinariamente complesso
costituito da circa 12 miliardi di neuroni, i quali possono formare un numero di interconnessioni (1015), che secondo alcuni è maggiore del numero
degli atomi di cui è composto l’universo. Dal punto di vista filogenetico, il
cervello umano può essere considerato il risultato di una evoluzione durata
centinaia di milioni di anni, durante la quale ha continuato a incorporare
strutture congenite. La maggior parte dei neuroni (circa 10 miliardi) si trovano nella parte evolutivamente più recente, vale a dire nella corteccia cerebrale, che costituisce lo strato più esterno del cervello e nell’uomo ha una
superficie particolarmente estesa, poiché è caratterizzata da numerosi solchi e circonvoluzioni.
La corteccia si divide in due emisferi, destro e sinistro, collegati tra loro
da una struttura chiamata ‘corpo calloso’, che permette agli impulsi nervosi
di passare da un emisfero all’altro. Ciascun emisfero si suddivide poi in
quattro lobi, delimitati almeno parzialmente da solchi particolarmente mar-
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cati. I lobi sono, partendo dalla parte anteriore verso quella posteriore: il
lobo frontale, parietale, temporale e occipitale.
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Per quel che riguarda le funzioni, si è soliti distinguere tre diversi tipi di
regioni della corteccia cerebrale:
— le aree sensoriali primarie, che ricevono i segnali nervosi dagli organi
di senso. Esse comprendono l’area visiva situata nel lobo occipitale,
l’area uditiva nel lobo temporale e l’area somatosensoriale nel lobo parietale;
— l’area motoria primaria, che si trova nella porzione posteriore del lobo
frontale ed è adiacente all’area somatosensoriale;
— le rimanenti aree della corteccia sono dette aree associative, che ricevono stimoli dalle parti inferiori del cervello e dalle aree sensoriali, e sono
responsabili dei complicati processi cognitivi come la percezione, l’attenzione, il pensiero, la decisione. La parte dedicata alle aree associative è tanto maggiore, in rapporto all’estensione delle altre due aree, quanto
più si procede nella scala evolutiva dai mammiferi più semplici, come i
ratti, verso quelli più complessi, come i primati e quindi l’uomo.
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B) L’area di Broca e l’area di Wernicke
Lo studio condotto su persone colpite da deficit linguistici, in seguito a
lesioni localizzate nel cervello, ha fornito storicamente la maggior parte dei
dati su cui si sono costruite le teorie sul modo in cui il linguaggio è organizzato nel cervello. Alla base di questo modo di procedere, che da una funzio-
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ne danneggiata inferisce la sua localizzazione in una parte specifica del cervello, ci sono due postulati:
— la mente ha un’architettura funzionale e neurologica di tipo multicomponenziale;
— il comportamento di un soggetto che ha subito una lesione cerebrale è
determinato dall’attività complessiva del cervello, meno la componente
danneggiata dalla lesione. Questo postulato (detto della «costanza») implica che, dopo la lesione, non vi è una riorganizzazione del sistema
nervoso che in qualche modo supplisca al danno subìto.
Già dalla fine del Settecento fisiologi e anatomisti si sono interessati
all’ipotesi di localizzare le funzioni celebrali, cioè di determinare le aree
specifiche del cervello che controllano specifici comportamenti e abilità.
All’inizio dell’Ottocento questo studio ha preso il nome di frenologia,
che postulava che la mente umana non fosse un’unità indifferenziata bensì multicomponenziale e tentava perciò di individuare diverse facoltà intellettuali ed emotive, ognuna localizzata in un’area distinta della corteccia cerebrale. Nonostante l’insufficienza di questi primi tentativi, si trattava comunque dell’inizio di una concezione materialistica dei processi
mentali.
Verso la fine del 1800 gli studi sull’afasia permisero di individuare due
diverse aree specifiche della corteccia preposte al linguaggio; entrambe
situate nell’emisfero sinistro. La prima ad essere scoperta fu l’area di Broca,
situata nella parte infero-posteriore del lobo frontale sinistro. Deve il suo
nome al chirurgo francese Paul Broca, il quale nel 1861 dimostrò che lesioni in questa area della corteccia producevano importanti deficit nella capacità di parlare (afasia di Broca). In seguito Broca si accorse anche del fatto
che danni alle aree corrispondenti dell’emisfero destro lasciavano invece
inalterate le capacità linguistiche dei pazienti. L’area di Wernicke, situata
nella parte posteriore della corteccia temporale sinistra, prende invece
il nome dal medico tedesco Carl Wernicke, che nel 1874 descrisse casi
di pazienti, con un danno in questa area, i quali avevano un diverso disturbo del linguaggio (afasia di Wernicke): erano incapaci di comprendere il linguaggio ma tendevano a parlare fluentemente anche se con
parole e combinazioni di parole anomale.
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Wernicke mise in relazione le proprie scoperte con quelle di Broca e
propose un modello neuroanatomico dell’organizzazione delle funzioni linguistiche, secondo il quale
nel cervello esistono due centri del
linguaggio ed una via di comunicazione che li connette: l’area di
Wernicke, deputata alla comprensione, e l’area di Broca, preposta invece alla produzione; la via di comunicazione che connette le due
aree è costituita da un fascio di fibre nervose detto fascicolo arcuato.
Queste scoperte anatomo-patologiche portarono all’idea di un’asimmetria funzionale dei due emisferi del cervello umano per quanto riguarda il
linguaggio e non solo. Secondo Broca «l’uomo parla con l’emisfero sinistro».
Dalla metà dell’Ottocento in poi i neurofisiologi raccolsero una grande
quantità di dati e di osservazioni anatomo-cliniche, che portarono ad elaborare precise mappe della corteccia celebrale, che assegnavano ad ogni
funzione una precisa area anatomica. Tali studi influenzarono molto il quadro teorico in cui si svilupparono le conoscenze sul modo in cui il linguaggio è organizzato nel cervello, fornendo in particolare uno schema concettuale per classificare le afasie (vedi capitolo sulle afasie).
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C) La specializzazione degli emisferi
Fino agli anni sessanta del Novecento la nozione di dominanza emisferica era correntemente accettata dagli studiosi, per poi essere sostituita progressivamente da quella di specializzazione emisferica, secondo cui entrambi gli emisferi prevalgono a turno a seconda della funzione cognitiva.
La teoria classica è stata pertanto rivista alla luce delle seguenti considerazioni:
— i due emisferi cerebrali sono asimmetrici da un punto di vista strutturale (e non solo funzionale come si riteneva in passato);
— i due emisferi sono funzionalmente e strutturalmente differenti ma,
per quanto concerne le funzioni superiori, ciò non significa che ci sia
una dominanza di un emisfero sull’altro; inoltre, per quel che riguarda
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le attività elementari di senso e di moto, i due emisferi sono oggi considerati equivalenti;
— la dominanza manuale non indica con certezza una dominanza emisferica. Infatti la maggioranza dei mancini non ha un’organizzazione delle
funzioni corticali invertita rispetto a quella dei destrimani. I dati clinici
su pazienti afasici mostrano che nel 61% dei mancini le funzioni linguistiche sono localizzate nell’emisfero sinistro, e nel 20% su entrambi gli
emisferi;
— l’asimmetria dei due emisferi non è una caratteristica specie-specifica degli esseri umani; esistono infatti asimmetrie anatomiche e funzionali anche nel cervello di altri animali.
Secondo il modello della specializzazione emisferica, oggi prevalente,
l’emisfero sinistro è specializzato nelle capacità prassiche e nei processi di
elaborazione simbolica e analitica, compreso dunque il linguaggio. L’emisfero destro è invece maggiormente specializzato in compiti di elaborazione spaziale e percettiva (per esempio la percezione di una melodia e di relazioni spaziali).
Queste specializzazioni non vanno però intese in senso assoluto. Per
quanto riguarda il campo che qui ci interessa maggiormente, diverse prove
sperimentali hanno evidenziato che anche l’emisfero destro partecipa al
funzionamento del linguaggio: esso è coinvolto, per esempio, nell’elaborazione del linguaggio figurato, degli aspetti prosodici del parlato e di
alcune caratteristiche semantiche.
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D) L’organizzazione del linguaggio nel cervello
Recentemente diversi ricercatori (per esempio Deacon) hanno cominciato a considerare le aree di Broca e di Wernicke non più come le «aree del
linguaggio» quanto piuttosto come le aree che il linguaggio usa più intensamente. Molte prove sperimentali mostrano infatti che le aree del cervello
coinvolte nel linguaggio non sono solo le aree di Broca e di Wernicke ma si
distribuiscono in tutti i lobi della neocorteccia, e includono l’area temporale, parietale, prefrontale e frontale dell’emisfero sinistro.
Il sistema linguistico sarebbe dunque assai meno localizzato di quanto
fosse stato ipotizzato in precedenza sulla base degli studi sulle afasie. Infatti da alcuni anni esistono nuove tecniche di indagine che permettono di
esaminare dettagliatamente e in tempo reale i processi che avvengono nel
cervello durante l’esecuzione di compiti linguistici, monitorando l’attività
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elettrica della corteccia, il metabolismo cellulare o altri processi biochimici nelle varie zone del cervello. Per questo oggi molti autori privilegiano
una visione distribuita delle funzioni neurali: l’elaborazione del linguaggio è un’attività complessa che risulta dall’integrazione dell’attività di molte diverse regioni di entrambi gli emisferi, le quali si trasmettono l’informazione tramite fasci di neuroni connettivi.
Tale visione (sostenuta in particolare dal programma psicologico chiamato «connessionismo») può essere ricondotta ad una teoria «olistica» del
funzionamento del cervello, che si contrappone alle teorie «localistiche»,
le quali presuppongono invece la possibilità di identificare specifiche aree
preposte al funzionamento del linguaggio. Tra i sostenitori di queste seconde teorie, oltre a Broca e Wernicke nell’Ottocento, si segnala nel Novecento
Norman Geschwind, che ha ripreso il modello di Wernicke proponendo
una teoria nota come modello di Wernicke-Geschwind.
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Molti autori sostengono che il linguaggio non è solo una funzione corticale. Lieberman ha
mostrato casi di lesioni sottocorticali (al talamo o ai gangli della base) che possono portare
a sindromi afasiche. L’integrità del funzionamento del sistema linguistico, perciò, può dipendere anche da una complessa rete nervosa sottocorticale, e non solo dal sistema corticale che connette le aree di Wernicke e Broca come tradizionalmente si ritiene.
Sempre secondo Lieberman, i sistemi complessi sono regolati da «sistemi neurali funzionali», cioè reti di circuiti neurali che lavorano insieme e coinvolgono diverse strutture
distribuite nel cervello. Secondo Lieberman esiste un Functional Language System (FLS),
un sistema neurale funzionale che include anche strutture sottocorticali come i gangli della
base; tale sistema regola l’esecuzione di diverse attività apparentemente non connesse tra
loro, come parlare, comprendere la struttura sintattica di frasi ma anche muovere le dita e
risolvere problemi cognitivi. Le basi neurali del linguaggio, dunque, oltre a non essere
localizzabili in un’area precisa, sarebbero comuni ad altre abilità cognitive e motorie.
Altri autori (ad esempio Caplan) hanno però negato che le strutture sottocorticali abbiano
un ruolo essenziale per il linguaggio; la loro funzione potrebbe essere solo quella di attivare il sistema di elaborazione e trasferire i risultati dell’elaborazione linguistica da una parte
all’altra della corteccia associativa perisilviana. Non esisterebbe infatti un solo caso di
paziente affetto da afasia che non abbia anche anomalie nel funzionamento della corteccia
attorno alla scissura di Silvio.
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E) La genesi della lateralizzazione del linguaggio nel cervello
Il problema della genesi della lateralizzazione riguarda la questione se
alla nascita vi siano già asimmetrie tra aree cerebrali oppure se i due emisferi nascano equipotenziali. Il problema riguarda anche il rapporto tra fattori
innati e stimoli ambientali nella specializzazione delle aree cerebrali.
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Una prima ipotesi – conosciuta come «ipotesi dell’invarianza» – sostiene che le aree coinvolte nel linguaggio sono anatomicamente e funzionalmente asimmetriche già dalla nascita o anche prima: nasciamo con l’emisfero sinistro già specializzato per il linguaggio, soprattutto per alcune competenze linguistiche come quelle fonologiche. Solo gravi lesioni che compromettano contemporaneamente ampie regioni dell’emisfero sinistro possono fare sì che le sue funzioni vengano svolte da quello destro.
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L’ipotesi alternativa, proposta da Lenneberg nel 1967, è che la specializzazione funzionale dell’emisfero sinistro per il linguaggio sia il risultato della plasticità del cervello e della
maturazione che avviene tra il secondo ed il quinto anno di vita, e che poi diminuisce e si
completa entro i 7-10 anni. Il periodo «critico» corrisponde a quello stadio evolutivo durante il quale il sistema nervoso centrale matura e assume una struttura definitiva, e in cui
la presenza o assenza di stimolazioni ambientali ha un effetto cruciale per lo sviluppo
neurale.
L’ipotesi di un periodo critico per l’apprendimento del linguaggio, cioè di un periodo
entro cui è unicamente possibile per l’organismo sviluppare una capacità linguistica, è
controversa. È probabile che tale ipotesi valga soprattutto per alcuni aspetti del linguaggio,
in particolare per l’acquisizione delle regole fonologiche e della sintassi.
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Oggi viene generalmente giudicata falsa l’ipotesi che nel primo anno di
vita vi sia un’equipotenzialità emisferica, tuttavia è vero che per diversi
anni il cervello dei bambini è sufficientemente plastico da permettere che,
qualora avvengano delle lesioni, altre aree intatte dello stesso emisfero oppure di quello opposto possano svolgere le funzioni che erano in carico alle
aree danneggiate.
2. FISIOLOGIA DEL LINGUAGGIO
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A) Fonetica e fonologia
Esistono diverse discipline che si occupano dei suoni del linguaggio. La
distinzione più importante da fare è quella tra fonetica e fonologia:
— la fonetica è lo studio dei suoni linguistici intesi come eventi fisicoacustici (foni). Essa comprende lo studio del modo in cui questi suoni
sono prodotti dall’apparato articolatorio (oggetto della fonetica articolatoria) e comprende anche l’indagine sulle proprietà acustiche (la fonetica acustica) e percettive (psicoacustica o fonetica uditiva) dei suoni
del linguaggio;
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— la fonologia invece è quella parte della linguistica che studia come nelle
varie lingue è organizzato il sistema dei suoni che hanno una funzione
distintiva (fonemi). La maggioranza delle lingue infatti usa in media
trenta fonemi circa, sebbene dal punto di vista fonetico siano possibili
oltre seicento diversi foni che possono essere utilizzati nel linguaggio.
Questo significa che ogni lingua, tra tutti i possibili foni, ne seleziona
alcuni (i fonemi appunto) che sono rilevanti per formare e distinguere le
parole.
Da ciò consegue anche che molte distinzioni che esistono in una lingua
possono essere ignorate in un’altra.
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Ad esempio in giapponese non esiste la distinzione tra le consonanti r ed l, che sono considerate come varianti di un unico fonema, di solito etichettato /r/. Un parlante giapponese può
bensì pronunciare i foni [r] ed [l] ma non può usare la differenza tra i due suoni per distinguere una parola da un’altra, come invece avviene in italiano, per esempio, con «rana» e «lana».
Dunque /r/ e /l/ sono fonemi dell’italiano, non perché siano effettivamente pronunciati dai
parlanti ma perché non possono essere scambiati tra loro (‘commutati’ si dice in linguistica)
in tutti i contesti senza modificare il significato delle parole in cui compaiono.
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Se invece consideriamo i foni [r] e [R] (la prima corrisponde alla pronuncia normale italiana della consonante r, la seconda è la cosiddetta ‘erre
moscia’, prodotta mediante la vibrazione dell’ugola) e facciamo la prova di
commutazione, ci accorgiamo che è possibile scambiarli senza cambiare il
significato delle parole, cioè [rana] e [Rana] sono due pronunce diverse
della stessa parola e, dunque, [r] e [R] sono varianti di un unico fonema. I
fonemi sono delle entità astratte, che non coincidono con le loro realizzazioni concrete.
Ogni fonema rappresenta infatti una categoria di suoni e non un suono
fisicamente reale. Quando uno stesso fonema viene realizzato da diverse
varianti, queste sono chiamate allofoni del fonema. La nozione di fonema
ha una valenza psicologica, poiché esso può essere considerato come la
rappresentazione mentale di un suono interiorizzata dai parlanti di una lingua. La fonologia studia anche le regole secondo cui i fonemi possono combinarsi tra loro (anche queste regole variano a seconda delle lingue; «Trst»,
per esempio, non può essere una parola italiana, ma in sloveno è il nome
della città di Trieste).
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I sistemi di trascrizione fonetica e fonemica
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B) I suoni e il sistema uditivo
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Alla distinzione tra fonetica e fonologia corrispondono due diversi sistemi di trascrizione
dei suoni del linguaggio che vengono usati in linguistica: in quello fonemico, che è più
astratto poiché tralascia i tratti che non sono distintivi nella lingua, i simboli fonici vengono racchiusi tra barre oblique (ad es. /r/); in quello fonetico, che viene usato per rappresentare aspetti più dettagliati della pronuncia, i simboli sono racchiusi tra parentesi quadre (ad
es. [R ]). Il doppio sistema di trascrizione mostra la sua utilità particolarmente quando si
tratta di distinguere un fonema dai suoi allofoni. Così, ad esempio, possiamo distinguere il
fonema giapponese /r/ dai suoi allofoni (le sue concrete realizzazioni) come [r] o [l]. Per
quel che riguarda i simboli fonici utilizzati, entrambi i tipi di trascrizione di solito fanno
uso dei simboli dell’Alfabeto Fonetico Internazionale. Un efficiente sistema di trascrizione
dei suoni linguistici, infatti, dovrebbe basarsi su una corrispondenza biunivoca tra suono e
simbolo. Tale caratteristica però manca nei sistemi ortografici delle lingue naturali (si pensi
ad esempio alla differente pronuncia della stessa lettera c nella parola «cucire», per non
parlare dell’inglese che presenta delle anomalie ancora maggiori dell’italiano); i linguisti
quindi hanno messo a punto degli alfabeti fonetici, che associano ogni suono ad un simbolo
diverso o ad una diversa combinazione di simboli. L’Alfabeto Fonetico Internazionale (noto
come IPA = International Phonetic Alphabet) è il più usato di questi alfabeti.
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Rappresentazione semplificata dell’orecchio esterno, medio e interno.
Fonte: E. Matthei e T. Roeper, «Element di psicolinguistica», Bologna, il Mulino, 1991
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Quando percepiamo un suono, percepiamo in realtà una variazione della pressione atmosferica che si propaga in forma di onde nell’aria, o in altro
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mezzo elastico, e viene registrata dal nostro apparato uditivo attraverso il
timpano. I movimenti di questa membrana sono trasmessi dagli ossicini
dell’orecchio medio all’orecchio interno, dove sono trasformati in impulsi
nervosi, che raggiungono le aree uditive della corteccia cerebrale. Del sistema uditivo umano fanno dunque parte le orecchie, alcune parti del cervello
e le vie nervose di connessione.
Ogni suono è caratterizzabile in base ad almeno due parametri:
— frequenza, cioè il numero di cicli al secondo; è misurata in herz (Hz) e
determina l’altezza;
— intensità, cioè la differenza fra il picco superiore e quello inferiore dell’onda nell’unità di tempo; viene misurata in decibel.
L’uomo è in grado di percepire suoni che vanno da 20 a 20.000-40.000
Hz, ma è particolarmente sensibile nel range tra 1 kH e 4 kHz. La maggior
parte dei suoni linguistici ha una frequenza tra 600 Hz e 4 kHz.
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C) Il sistema fonatorio
L’apparato fonatorio umano è composto da un certo numero di organi,
la cui funzione primaria è una funzione biologica (la respirazione, la deglutizione ecc.) diversa da quella linguistica. Esso è dunque un adattamento a
fini comunicativi di strutture fisiologiche la cui funzione è stata in origine,
e rimane tuttora, diversa. Ciò significa che la specie umana si è evoluta
impiegando vecchie strutture preesistenti per assolvere ad una funzione
nuova.
Tuttavia l’evoluzione ha fatto sì che esistano importanti differenze tra
queste strutture fisiologiche negli uomini e negli altri animali. Per esempio
la muscolatura che regola i movimenti della lingua e delle labbra negli
uomini è molto più sviluppata e duttile. La produzione dei suoni del linguaggio è regolata infatti nell’uomo da oltre cento muscoli, attraverso i quali
gli esseri umani sono in grado di esercitare un controllo assai fine sui processi di vocalizzazione e sui suoni emessi. Il processo di produzione dei
suoni del linguaggio (la fonazione) può essere schematizzato come composto di tre elementi che interagiscono: quando pronunciamo una parola, produciamo innanzitutto (1) un flusso d’aria che fuoriesce dai polmoni, il quale, attraversata la trachea, subisce (2) una prima modificazione all’altezza
della laringe (dove si trovano le corde vocali), per poi subire (3) altre modificazioni nel tratto vocale ad opera della lingua e di altre strutture anatomi-
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che. La lingua, le labbra, la mascella, il velo e la laringe sono le principali
strutture che attraverso il loro movimento sono responsabili dell’articolazione delle parole.
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Principali struttura anatomiche che partecipano alla produzione dei suoni linguistici.
Fonte: Fonte: E. Matthei e T. Roeper, «Element di psicolinguistica», Bologna, il Mulino, 1991.
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I vari suoni del linguaggio dipendono dalla posizione e dai movimenti
degli organi che compongono il sistema articolatorio e possono perciò essere descritti e classificati in base ai movimenti necessari per produrli. Se
l’aria esce liberamente dalla cavità della bocca, o anche dalla bocca e dal
naso insieme, si produce una vocale; se invece il parlante ferma o ostacola
il flusso d’aria nel tratto vocale, viene prodotta una consonante.
Le vocali sono prodotte con la cavità orale relativamente aperta che fa
da cassa di risonanza; il tratto vocale aperto che risuona può assumere differenti configurazioni, le quali producono differenti suoni vocalici. I fattori
che modificano l’articolazione sono la posizione della lingua, l’apertura
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relativa delle labbra e della faringe e la posizione della mascella. Ciascuno
di questi fattori dell’articolazione può essere controllato in maniera indipendente per produrre le varie vocali. La distinzione fra vocali e consonanti
non è sempre netta: alcuni suoni possono essere considerati come vocali,
consonanti o semivocali a seconda delle lingue (per esempio la /1/ di «table» in inglese non è considerata una consonante).
Le consonanti vengono distinte in base a tre principali caratteristiche:
— il modo di articolazione, che determina se si ha una chiusura del sistema articolatorio ottenendo così una consonante occlusiva, oppure un
suo restringimento che produce una consonante costrittiva (detta anche fricativa), o infine la combinazione di chiusura e restringimento
che genera una consonante affricata;
— il luogo di articolazione, che riguarda il luogo in cui avviene la chiusura o il restringimento: possono esserci consonanti labiali prodotte dal
blocco e poi dall’apertura delle labbra (/p/, /b/); dentali, prodotte dall’appoggio della lingua all’interno della dentatura (/t/, /d/); velari, prodotte dal sollevamento della lingua verso il palato (/k/, /g/);
— i cosiddetti tratti accessori, che riguardano: A) la posizione del velo
palatino: quando è sollevato e accostato alla parete della faringe, l’aria
esce solo dalla bocca dando luogo a un suono orale; se il velo è invece
abbassato e l’aria esce sia dalla bocca che dal naso, si ha una consonante
nasale; per esempio con la coordinazione degli stessi organi si ottiene il
suono orale /b/ oppure la nasale /m/; B) il passaggio dell’aria fra le corde vocali: se l’aria passa tra le corde vocali senza che queste vibrino, la
consonante prodotta è sorda (/p/, /t/, /k/).; se invece le corde vocali vengono fatte vibrare, la consonante è sonora (/b/, /d/, /g/).
La differenza tra consonanti sorde e sonore può essere calcolata anche
in termini di VOT (Voice Onset Time), cioè il tempo che intercorre tra il
momento in cui viene rilasciato il meccanismo di occlusione e la vibrazione
delle corde vocali. Le consonanti sonore hanno un VOT breve o anche negativo, quelle sorde un VOT più lungo.
Con un programma che permette di riprodurre la voce umana su un computer, è possibile far variare il VOT in modo continuo: interponendo un
intervallo di -20 millisecondi (ms) tra l’apertura dell’occlusione e la vibrazione delle corde vocali, si ottiene, per esempio, un suono che viene percepito come /da/; se si aumenta il VOT a +80 ms, il suono diventa /ta/. Se
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variamo progressivamente il valore del VOT, otteniamo una serie di segmenti acustici che sono fisicamente intermedi tra /da/ e /ta/. Se però questi
suoni vengono presentati in successione ad un ascoltatore, egli non percepirà delle sillabe intermedie tra /da/ e /ta/, ma continuerà a sentire /da/ fino ad
un certo valore, dopo il quale percepirà chiaramente /ta/. Le diverse sillabe,
differenti dal punto di vista acustico, sono collocate percettivamente in una
di due categorie percettive, senza possibilità di casi intermedi. Questo fenomeno viene definito percezione categoriale dei suoni del linguaggio e denota un’asimmetria tra struttura acustica del suono e percezione uditiva da
parte degli ascoltatori. La percezione categoriale sembra essere una caratteristica tipica del linguaggio umano, che non vale per la percezione di altri
eventi acustici.
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In fonologia è stata avanzata un’importante teoria per caratterizzare la struttura interna dei
suoni linguistici. Si tratta della teoria dei tratti distintivi, formulata inizialmente da Jakobson e poi ripresa anche da Chomsky, secondo la quale tutti i fonemi sono scomponibili in
una serie di tratti distintivi binari. Ogni tratto distintivo infatti può assumere il segno ‘+’ (se
è presente nel fonema in questione), oppure il segno ‘-’ (se è assente); ognuno rappresenta
un aspetto dell’articolazione: per esempio il fonema italiano /m/ ha il tratto [+ nasale]
mentre in /b/ lo stesso tratto è assente [- nasale]. Inoltre i tratti distintivi sono considerati
universali, cioè in grado di descrivere i fonemi di qualsiasi lingua.
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Molti dati sperimentali indicano che la teoria dei tratti distintivi ha una
validità psicologica. Le somiglianze e differenze tra fonemi che risultano
dall’analisi in tratti distintivi sembrano essere le stesse che vengono percepite dai parlanti: è più facile che le persone confondano tra loro sillabe che
hanno molti tratti distintivi in comune (come /na/ e /ma/) piuttosto che due
che ne hanno di meno (come /na/ e /sa/).
3. LE PATOLOGIE DEL LINGUAGGIO ORALE: LE AFASIE
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Il termine «afasia» si riferisce ad un disturbo del linguaggio dovuto a
lesioni intervenute in regioni specifiche del cervello. I deficit afasici non
sono dovuti a danni nei sistemi di tipo sensoriale o motorio né a disturbi
cognitivi generali ma riguardano specificamente aspetti della produzione o
comprensione del linguaggio. La ricerca sulle afasie ha una lunga tradizione che deriva dagli studi di Broca e Wernicke compiuti nella seconda metà
dell’Ottocento. Dagli studi di questi due autori è derivato un primo criterio
di classificazione delle afasie in base alla fluenza. Le afasie possono essere
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